Centro d’Arte Contemporanea il mitreo
roma 8 settembre 2007
notte di valpurga letture orizzontali
body poem per quattro voci
laura cardillo
vitaldo conte
ugo magnanti
tiziana pertoso
Centro d’Arte Contemporanea il mitreo
roma 8 settembre 2007
notte di valpurga letture orizzontali
body poem per quattro voci
laura cardillo
vitaldo conte
ugo magnanti
tiziana pertoso

[50]
Il cosmo la discarica tra Lecce
e San Cataldo non appena arriva
la metà di luglio ed il caldo acuisce
lo scirocco pure ci immobilizza
nei polmoni la puzza me li ingolfa
difficile tirare su il respiro
qui possono accadere solo eventi
periferici, è una fatica per me
consegnare un’antologia di scorci
il menù del ristorante declina
ogni responsabilità per danni
derivanti dal consumare frutti
di mare crudi il cliente è avvisato
questo nastro improvvisato di strada
con gli escavatori a destra e sinistra
ribolle come le nocche pelose
tese nel ghermire quando grattano
le palle che aderiscono perfette
alle mutande di cotone pregio
del giorno nuovo la fronte che suda
un verso letto sul giornale mentre
ti va di traverso il caffè col latte
di mandorla sbora del cameriere
ecco il verso letto velocemente
“il pianto del datore di lavoro”
il resto verrà servito subito
tra “un cazzo e l’altro” ti lasci scappare
di essere coinvolto in “cospirazioni
progetti e disegni più grandi di noi”.
Fai ancora in tempo a dire che mentivi
prima di dover togliere gli specchi
dalle pareti di casa. Lo farai?
da “Il cosmo – titolo provvisorio”
inedito

Io studio la buia umanità.
Il Male in pesi di carne
Per essere in un pensiero
Incinerato e restare
Nudità d’anima solo
Mi parla dal suo strettoio
Dentro di lunghe grate
Ombre che fanno coro.
Tutte le cose di lei, paurose
Teste che aprono palpebre
Avide a un alito di altra luce
In stanze dove si guardano
Tutte le pene e le oscurità,
Chiedono tutte vestici
Momento illuminato.
Una forza amputata e senza dita
Negli anelli dispersi era sospinta
E non trovavo tra i muri abbattuti
L’Essenza che in una distruzione rimane
E si fa col suo fumo casa;
Tu non vedevi me ma un troncato
Su cui a volte piangeva un dolore
O la specie profonda si assopiva
Ma il respiro dell’alto, la sua pietà dov’era?
Il serpente delle lanterne affondato
Nella voragine del leggero papiro
Estrae da ogni uovo di segni
Di questo nido sdrucito un perso
Ammasso di dismisure
Chiedendo all’aborto sparso
Trasfòrmati in meraviglioso,1
E con un puro di mano tremito
Nel Tartaro privo d’alito del centro
Dell’oggetto che mai conosci
Si posa su una polvere mai scossa.
Di nudità di poeta tragico vestito
Fare morire e vivere vorrebbe ancora
Ma è un fuoco senza denti, più non morde
La miseria e le solitudini, la pena
Che gli lambisce gli occhi tiene da lui lontane
Le braccia a tutti i vuoti spenzolate.
(1) Inutile tentare di sgrovigliare questa indurita torsione visionaria. È da riconnettere, credo, a chi studiando «la buia umanità» con troppo zelo, non vede che l’armadio così riempito butta fuori gli stracci.
Guido Ceronetti, da “Compassioni e disperazioni”, 38

Né importa alcunché da qual vitto il corpo sia nutrito,
purché ciò che mangi, digerito, possa distribuirsi nel corpo
e serbare costantemente umida la condizione dello stomaco.
Tito Lucrezio Caro, La natura delle cose
(Libro IV, vv. 630-632, trad. it. Luca Canali)
Caro Papà.
Tu che ora sei nei pascoli celesti, nei pascoli terreni, nei pascoli marini.
Tu che sei tra i pascoli umani. Tu che vibri nell’aria. Tu che ancora ami tuo figlio Alesi Eros.
Tu che hai pianto per tuo figlio. Tu che segui la sua vita con le tue vibrazioni passate e presenti.
Tu che sei amato da tuo figlio . Tu che solo eri in lui. Tu che sei chiamato morto, cenere, mondezza.
Tu che per me sei la mia ombra protettrice.
Tu che in questo momento amo e sento vicino più di ogni cosa.
Tu che sei e sarai la fotocopia della mia vita.
Che avevo 6-7 anni quando ti vedevo Bello – forte – orgoglioso – sicuro – spavaldo rispettato e temuto dagli altri, che avevo 10-11 anni quando ti vedevo violento, assente, cattivo, che ti vedevo come l’orco che ti giudicavo un Bastardo perché picchiavi la mia mamma.
Che avevo 13-14 anni quando ti vedevo che vedevi di perdere il tuo ruolo.
Che vedevo che tu vedevi il sorgere del mio nuovo ruolo, del nuovo ruolo di mia madre.
Che avevo 15 anni e mezzo, quando vedevo che tu vedevi i litri di vino e le bottiglie di cognac aumentare spaventosamente.
Che vedevo che tu vedevi che i tuoi sguardi non erano più belli, forti, orgogliosi, fieri, rispettati e temuti dagli altri.
Che vedevo che tu vedevi mia madre allontanarsi. Che vedevo che tu vedevi l’inizio di un normale drammatico sfacelo.
Che vedevo che tu vedevi i litri di vino e le bottiglie di cognac aumentare fortemente.
Che avevo 15 anni e mezzo che vedevo che tu vedevi che io scappavo di casa, che mia madre scappava di casa.
Che tu hai voluto fare il Duro.
Che non hai trattenuto nessuno.
Che sei rimasto solo in una casa di due stanze più servizi.
Che i litri di vino e le bottiglie di cognac continuavano ad aumentare.
Che un giorno. Che il giorno. In cui sei venuto a prendermi dalle camere di sicurezza di Milano ho visto che tu ti vedevi solo. Che tu volevi o tua moglie o tuo figlio o tutti e due in quella casa da due stanze più servizi. Che ho visto che tu hai visto che eri disposto a tutto pur di riavere questo.
Che ho visto che tu hai visto la tua mano stesa in segno di pace, di armistizio.
Che ho visto che tu hai visto sulla tua mano uno sputo.
Che ho visto che tu hai visto i tuoi occhi lacrimare solitudine incrostata di sangue masochista, punitivo.
Che ho visto. Che tu hai visto il desiderio di voler punire la tua vita.
Che ho visto che tu hai visto il desiderio di non soffrire. Che ho visto che tu hai visto i litri di vino e le bottiglie di cognac continuare ad aumentare.
Che ho visto che hai visto in quel periodo la tua futura vita.
Che ho saputo che hai saputo che tuo figlio era un tossicomane che tua moglie attendeva un figlio da un altro uomo (figlio che a te non ha voluto dare).
Che ho visto che hai visto 3 anni passare. Che ho visto che hai visto che il giorno 9-XII-69 non sei venuto a trovarmi al manicomio. Perché eri morto.
Che ora tu vedi che io vedo. Che ora il 1° sei tu che giochi questo tresette col morto facendo il morto.
Ma che giochi ugualmente, che ora vedi che io vedo che ti adoro che ti amo dal profondo dell’essere.
Che ora vedi che io vedo che mia madre rimpiange.
ALESI
FELICE
PADRE DI ALESI EROS
Che vedi che io vedo che sono fuggito ancora una volta verso la solitudine.
Che tu vedi che io vedo solo grande grandissimo nero lo stesso nero che io vedevo che tu vedevi.
Che ora continuerai a vedere ciò che io vedo.
Eros Alesi, 1951-1971
da Per la poesia. Manifesto del Pensiero Emotivo, Giorgio Manacorda,
Editori Riuniti, 1993
La poetessa Bianca Madeccia mi ha segnalato un reading resistente dal titolo “Poesie vomitate contro la Turbogas” che si terrà Domenica 13 Maggio ad Aprilia, in località Campo di Carne, tra i partecipanti Vitaldo Conte, Alessandro D’Agostini, Bianca Madeccia, Ugo Magnanti, Antonio Rezza (il mio attore e autore teatrale preferito, probabilmente uno dei più geniali di questo scorcio di fine/inizio millennio, ma questa è un’altra storia), SPARAJURIJ, Francesca Spessot, Angelo Zabaglio.
Su Musicaos.it potete trovare il comunicato stampa con tutte le indicazioni e soprattutto le motivazioni della manifestazione, a questo indirizzo.

IL NERO DESTRIERO
Secondo un’esegesi accreditata la morte
viene spesso raffigurata [in nero]
e a cavallo di un destriero [anche esso nero]. Ella
brandisce una falce il cui manico
di lunghezza variabile dai due ai due metri
e mezzo. Il destriero della morte è nero
ed è su questo cavallo che concentreremo
oggi la nostra attenzione.
L’immagine del destriero, lo scalpitio
degli zoccoli, l’ombra che si allunga velocemente
alle nostre spalle destano apprensione
ovunque, alcuni si voltano credendo
di essere inseguiti, altri credendo
finalmente [di essere]. Ovunque sia
c’è chi sfrutta quest’immagine di destriero
nell’incutere timore e devozione.
Giungono al punto di scalzare la stessa morte
dalla sella ed ammansire il suo cavallo,
succede che la morte si perde in giochi
deviati e abbandona il mestiere di morte
in certe occasioni diviene morte accidentale.
È questione di un attimo, chi balza
sul cavallo procede più spedito
incrementa la distanza va più forte
questo ladro di destrieri della stessa morte.
Ma è questione di un attimo. Ella tiene
al suo destriero, le basta un cenno,
più raramente un fischio. Torna in possesso
della sua cavalcatura, miete.
Preferisce decollare uomini di spalle
chi in ginocchio adora i santi e ne intaglia
figure nel legno come di sileni.
In primavera affronteremo gli argomenti
legati ad ogni buona mietitura.
Davide Nota ha ventisei anni, “Il non potere” è il titolo del suo secondo libro di versi, edito dalla Editrice Zona e corredato da una nota introduttiva scritta da Luigi-Alberto Sanchi. Gli elementi presenti già nel suo “Battesimo” (Lietocolle) trovano qui felice conferma, quella di Nota è una poesia nella quale finalmente si scopre l’insegna di un nuovo impegno civile, che si conferma nelle parole di una delle voci più interessanti di questa generazione, quella successiva ai poeti nati negli anni settanta, a partire da un attaccamento alle radici del paesaggio, che sono testimoni dell’inizio di un’esperienza, la propria, “Le mattine gelide sulle panchine gelide”, “la corsa dietro al pullman, la ressa/per salire, tenersi in equilibrio, scendere.” (Adolescenza), vissuta ad Ascoli Piceno.
Il fiume diventa l’immagine del tempo, nel quale si riflette, col passare dei secoli, la civiltà, in esso si specchiano gli uomini per riflettersi, così è anche il poeta di oggi, davanti al Tronto, il lamento del poeta che da uno spunto ungarettiano si risolve in un esito che ricorda più Pasolini, “Le ceneri di Gramsci”: “non fiume/ma rivolo di sangue, sterco, muco/che scende, non sorgente ma rifiuto,/scarico urbano che la vita abiura.” (Il fiume) con riprese “Si addormono negli angoli del centro/traendo nei piumini neri” (I cadaveri), “Ce ne torneremo nei boschi nativi/dove tutto è cambiato e alle ruspe/daremo un saluto bagnato dal pianto.” (Accettura); la bravura è una ascesa dal rigore stilistico misurato, nella presentazione del protagonista di questa poesia, “su un masso/dove stente s’incagliano le rive/un grasso laureando scrive/le sue orribili poesie,/stirando/le fibre smagliate del ventre… già,/l’estate è rovi, copertoni e batterie/sul bordo sfiancato del niente, Ivan.” (Il fiume).
Nella comprensione di questi versi è escluso il moto di rivolta che a volte si impone ad un esordio, con inflessioni che risulterebbero retoriche “lo squarcio sei terribile del viso,” se non risolte nella misura dell’endecasillabo conclusivo “lo sguardo depravato di chi muore.” (Hollywood).
C’è partecipazione in questi versi? Il poeta non è affatto un fustigatore dei costumi, non ne ha la forza, se non critica, perché non può demolire una realtà che è già realtà in rovina, maceria contemporanea, discarica, dimissione da se stessi, dove il corpo di un uomo resta un oggetto tra gli oggetti “tra i cosi lì del parco, un nuovo coso”, non c’è redenzione, resta la rassegnazione di fronte alle cose, dove si rassegna perfino Dio, il cui sacrificio resta inutile se non salva e non impedisce che altri sacrifici, altri voli avvengano. L’umanità di questi versi si è arresa nel rivolo di sangue del tossico che muore sulla panchina, oppure della noglobalina che viene trascinata, come un burattino rotto, da due gendarmi. La contrapposizione è quindi, su due piani, tra il poeta come descrittore dall’interno di questa realtà offesa, e il poeta come critico di una poesia “didascalica”, dove la verità di contrappone alla “didascalia” della stessa. Eravamo nati per qualcos’altro, qualcos’altro che non fosse il consumo disperato impostoci civilmente dal commercio, qualcos’altro che non fosse pendere da una vetrina in attesa di poter acquistare una playstation – Vinicio Capossela in “Ovunque Proteggi” scrive “affanculo questa serietà/questa lealtà/tutta questa impresa/poi il sabato all’iper a far la spesa” (Dove siamo rimasti a terra Nutless) – forse ci attendeva un altro tipo di intrattenimento, un altro amore, la poesia allora si fa segnale che può congiungere il passato dei secoli al presente, grazie alla musica e alla bellezza, grazie all’”antichità” del ritmo “per te/fu sognata una vita più bella, o figlia/andata a male, scaduta stella.”. Altro tema è il cambiamento di paesaggio dalla periferia di una città che si presume di media grandezza ad una grande città, vissuto come transito di una giovinezza che prelude ad un inizio di maturità, la durezza del distacco dalla famiglia, non resta nulla “nell’incavo dei cuscini e la mano/tra il telecomando e il mondo” (Dopo la doccia). Quel che viene proposto è una fuga, bisognerebbe andarsene via, cambiare luoghi, ricominciare da un’altra parte dove tutto ciò abbia un senso, come è scritto nella poesia che fa da chiave di volta della raccolta, “Ma l’utile è volgare, ed anche il bene/del mondo, no, non ci appartiene.” (Il passaggio).
“Questo è l’amore ai tempi della techno”, scrive Davide Nota, in un lampo improvviso che accende un canto, i suoi “guarda” suonano come accompagnamenti virgiliani di un Dante smarrito per le strade metropolitane di un “infernuccio itagliano”, per citare un poeta, Gianni D’Elia, del quale qui vengono raccolte la lezione e la crudezza del dettato. Sono i parchi, le piazze, le strade con il filo di una pozzanghera che affiora fino al marciapiede, a fare da sfondo deserto, gli uomini sono puntini che si muovono, automi, i suicidi sono sconti sulla pena.
C’è speranza, in tutto questo? Forse l’unico rigetto di vita che non viene estinto è nell’individualità, nella chiusura del cerchio su sé (Ora che il ciclo si conclude), nel dialogo disperato con il proprio passato recente, nel contatto umano, dialogico, con la stanza, ventre materno “Come l’ultima generazione di una stirpe suicida/questo ramo non fruttifica./La storia e l’utopia non conta più/senza una fede cieca nella vita.” (La soglia). Assieme a questo desiderio resta la consapevolezza che tutto è stato visto e vissuto, soltanto l’altro può dare quella spinta ideale a fuggire e abbandonare tutto, riesce chi non smarrisce l’afflato della fuga, chi non muore per sfinimento. Le ripetizioni di alcuni elementi (la città, il fiume, i cadaveri, i suicidi) sono segnali disperati, un estremo tentativo di consegnare qualcosa che resti ad una storia personale, aliena da ogni progetto di Storia che non vuole costruirsi se non nell’imposizione di una realtà che non è mai preferibile al sogno.
Un testo, questo “Il non potere”, da cui si può partire per un’esplorazione disincantata della realtà colta attraverso lo sguardo attento e impietoso di un poeta, Davide Nota, che alla sua seconda raccolta dimostra di aver elaborato strumenti acuminati, validi dal punto di vista estetico, che non cedono spazio a cadute di tono.
Anticipazione da Musicaos.it – Anno 4 Numero 25 Febbraio/Marzo 2007 in uscita a marzo
frammenti da “Il cosmo – titolo provvisorio“, in formato PDF scaricabili qui, grazie all’ospitalità e all’attenzione di Gian Paolo Guerini.
37.
Il cosmo, rifacciamolo subito,
la prima è piaciuta a tutti, vogliono
che il seguito non mostri sbavature
come spesso succede alle repliche,
lo sponsor leggerà con attenzione
la sceneggiatura di questo poema,
bisogna che il suo nome ci sia sempre,
esplicito, ogni tot di strofe o versi
si ripeterà, chi ha partecipato
alla prima visione verrà preso
come comparsa per la successiva,
chi nel frattempo è venuto a mancare
lo/la rimpiazzerà una metafora
avanti, il titolo è deciso: “Il cosmo”,
associata in basso assieme allo sponsor
sarà la targa ossessiva di questo
lavorio del verso improponibile

Su AbsolutePoetry.org (a questo link) è possibile trovare e scaricare un mio intervento, in formato PDF, dedicato a “Testamento di sangue“, poema drammatico/opera di teatro in versi, pubblicato da Dario Bellezza nel 1992. “Testamento di sangue” offre, nell’insolita forma del poema drammatico, una riflessione sofferta e ricca di pathos sul ruolo e sul destino della poesia.
nella foto Dario Bellezza legge il ‘suo’ Arthur Rimbaud.
Questo intervento è nato grazie all’incontro, non soltanto redazione, con la poesia di Fabrizio Corselli, il quale come noi si dedica con passione alla scrittura. Fabrizio Corselli è nato a Palermo nel 1973, le sue opere parlano da sole e l’autore stesso approfitta delle sue opere per meglio spiegare le sue intenzioni di espressione, tecnica ed emotiva allo stesso tempo. Ecco perchè in questo scritto ho voluto raccogliere le impressioni che suscita in me l’ascolto di questa poesia, rimanendo, quindi, in ascolto delle mie emozioni.
Si dice che nella poesia tutto sia stato scritto, considerazione quotidianamente smentita. La forza della scrittura è proprio questa, la sua necessità di raccontare e raccontarsi attraverso le parole, riuscendo a costruire, per quanto sia possibile, un percorso individuale e ‘attendibile’ a se stessi, prima di tutto. Compito ulteriore può essere quello di costruire un universo, più difficile, eppure di normale ambizione per chi si dedica ai versi. Fabrizio Corselli, questo mondo lo ha costruito, a prescindere da ogni catalogazione critica, a prescindere da ogni giudizio di gusto nei suoi versi si sente la presenza costante di una consapevolezza costruttiva, di un occhio vigile, mediato nello sguardo, costantemente, dal rapporto con musica e arti visive.
La prima sensazione che ebbi, leggendo le sue poesie, fu di (s)concerto, per l’appunto, per l’utilizzo dei vocaboli, che potrebbero ad una prima vista dare un senso di retrodatazione. Lo stesso si dica delle strutture che utilizza Corselli nella costruzione dell sue poesie. Poi, rileggendole, mi sono accorto di una cosa che prima mi era davvero sfuggita, notarla con più calma è stato decisivo per comprendere che quello di quest’autore è un ‘percorso’, accidentato, irto, difficile e senza mezze misure, pur tuttavia un esperimento inconsueto, quello di fare da tramite tra un mondo dove vigono le regole di uno scarto linguistico che diviene subito evidente. L’autore definisce il suo poetare ‘virtuosistico’, dove per virtuosismo si deve intendere non un ‘manierismo’ né tanto meno una lusinga barocca. I versi di Corselli si giocano sull’utilizzo di eccessi della lingua che comunicano una tensione quasi esplosiva, un magma di forze tensoriali che non riescono ad essere trattenute dalla poesia stessa. La parola diviene vibrante. Il termine che mi è venuto in mente per primo, a riguardo della poesia di Corselli, è stato ‘titanismo’. Il verso deve farsi portatore di un epos remoto che per esprimersi necessita tuttavia dell’esistenza quotidiana. Le figure epiche ed eroiche sono spunti che fanno innescare il conflitto. Assieme a queste la seconda componente è la presenza, costante, della musica. L’energia dell’arte e l’energia della musica danno vita a questi versi, dei quali la lettura ad alta voce tende la trama ‘materica’ del contenuto. A questo stile si aggiunga il fatto che questo autore utilizza questi mezzi all’inverosimile, raggiungendo le soglie della visione, componendo in opere organiche il suo pensiero poetico. I suoi lavori sono sempre e puntualmente esplicati, in maniera per nulla didattica, in vere e proprie lezioni sulla genesi dei suoi spazi poetici. Prendiamo ad esempio Lyrhendel, un’opera poetica fantasy (che prende spunto dal mondo di Ambheur-Arél), genere che, dal punto di vista proprio della trattazione poetica, è un genere raramente riscontrabile a questi livelli di ‘perizia’. Ecco come l’autore giustifica l’utilizzo di determinate strutture. “Le strutture inoltre sono continuamente esposte all’imperversare dei tessuti iperbatici che, in qualità di figure di rottura sintattica, predispongono un vellutato tappeto ritmico sul quale scorre e si flette la linea melodica generata dalle assonanze e figure foniche, diluite in questo caso, causando così la formazione di diversi registri timbrici ed euritmici. Il tutto si lega immancabilmente in equilibrio armonico ai referenti ed ai contenuti.” Fabrizio Corselli non nasconde le ragioni ‘musicali’ del suo dettato, anche perché è proprio la musicalità del verso a ‘liberare’ la sua poesia dalla trappola angusta della maniera:
“Dalla divina e sempiterna foggia di colei che il manto accerchia,
tenue si posa, la piega del peplo d’argento
finché solamente vien carpita la forma
di quella duttile materia
che nei miei pensieri ravviso.”
Basta seguire appieno le conseguenze sonore di strofe come questa, così evidenziate.
dAllA dIvInA e sempItERna fOggia di cIlei che il mAnto accERchia,
tenue si pOsa, la pIEga dEl pEplo d’ARgENto
finché solamENte vien cARpita la fORma
di quella duttile materia
che nei miei pensieri ravviso.
Evidenzianto alcune lettere in maiuscolo ho cercato di rendere lo spaccato sonoro si linee che si incrociano, tre per l’esattezza, giocate sull’apertura e sulla chiusura, per l’appunto, sul respiro che durante la lettura viene dato da queste ‘consonanze’.
“Langue la notte, al solo pensiero di perdere del tuo flebile corpo
il proprio costellato manto,
mentre i tenui bagliori
di una lucciola solitaria
offuscan dell’alba
gl’ultimi sogni di umane creature.
Dormienti le nostre chimere,[…]”
Esempio unico nel suo genere, Fabrizio Corselli coniuga tutte i suoi interessi culturali e le sue influenze stilistiche nella direzione del creare. I suoni compongono la tavolozza espressiva di questo autore che per esprimersi sente la necessità di ‘imbrigliare’ in ben determinate regole ogni sua opera. La disciplina imposta non da ma a una ‘traccia’, se vogliamo da un ‘plot’ poetico, che deve rispondere a regole ben determinate, che a loro volta faranno da cornice allo svolgimento del fatto poetico. In questo egli dimostra in alcuni punti una capacità di sintesi più determinata di quanta non se ne possa trovare, di recente, in altre sillogi poetiche, ‘collezioni’ di poesia che vengono fatte intendere come ‘raccolte’. Il ‘raccogliere’ poesia per Fabrizio Corselli, significa attraversare ogni volta un luogo differente, nel quale le regole, gli spazi, le condizioni del poetare, non sono mai identiche al ‘momento’ precedente. L’autore crea (per usare delle parole altrui) un ‘cosmo afroditico’; più in là, E. Giordano (La società delle menti) parla di Corselli come ‘nuovo cantore di Orfeo’. Cosmo, Universo, vocaboli che vengono in mente quando si ha a che fare con un poeta che ‘domina la sua materia prima’, le parole, i suoni. Esiste una sua silloge di “Studi trascendentali”, ispirati a Franz Liszt.
“Ho scelto i Trascendentali per il loro carattere figurativo. Liszt aveva una particolare ossessione per la poesia che ha riversato nella musica ed in particolare in molti pezzi ha elaborato delle figurazioni adatte”
Quindi una scelta di un determinato ambiente ‘sonoro’ in virtù della sua capacità di essere visivamente evocativo.
“Ad esempio per ‘In Excelsis Malis ho usato le tavole del Paradiso Perduto di Milton, o l’angelo caduto di Cabanel. E quando tutto è pronto davanti i miei occhi ecco che la musica arriva e la mia immaginazione anima quelle figure […]”
Prima un esempio di suono che genera figure e poi un esempio di figure che generano suono e sfociano in poesia. Proprio a proposito dell’utilizzo di ‘temi’ e ‘tracce’ compositive ben definite ecco come, ancora, si spiega lo stesso Corselli.
“La struttura non è tutto, devo avere un trasporto emotivo, una forte passione, che io collimo con la musica”vere un trasporto emotivo, una forte passione, che io collimo con la musica”.
Questi elementi fanno di questa poesia una ‘visione’ vera e propria. Della visione c’è per l’appunto il ‘trasporto’, la con-fusione degli elementi in gioco, il saper trasfondere gli stimoli rasentando le soglie del sensibile, non della sensibilità che resta su livelli acutissimi, sensoriali. Ogni parola acquista in questi versi un significato doppiamente grave, in virtù del suo essere ancorata ad un gioco, di far parte di regole e, nello stesso tempo, di riuscire a minare quelle stesse regole per esplosione di senso. Ricondurre ad un senso razionale e ad un discorso logiche questi elementi sembra difficile, malgrado ciò accada in maniera guidata.
Il senso di tensione imposto dalla struttura rischierebbe di divenire angoscioso se non fosse accompagnato ad una pulizia del verso e ad un utilizzo comunque raro di termini ‘alti’, cosa che ci si aspetta da un momento all’altro, leggendo, e che non accade, malgrado invece il tono elevato del ‘sostegno’.
Se dovessi rendere un’idea della poesia di Corselli utilizzando un paragone con un ambientazione musicale autoimponendomi di non attingere a nessuno dei suoi riferimenti ‘manifesti’, né tantomento di attingere al repertorio classico o classico/contemporaneo paragonerei alcune soluzioni ai project album degli anni sessanta-settanta. So che questo paragone ad alcuni potrebbe far accapponare la pelle, ma, ripeto, se volessi spiegare la ‘semplicità’ e la ‘bellezza classica’ di questi versi mi vengono in mente i suoni progressivi, ecco, il costruire universi poetici sonori di questo autore ne fa un ‘poeta progressivo’, in un universo dove l’aspirazione di molti della sua generazione (che è anche la mia) si concretizza nello scavarsi una nicchia all’interno di un dettato medio. Ma la poesia non deve forse creare dal nulla mondi che precedentemente non esistevano, non era (anche) suo compito, quello di fondere in un crogiuolo (e non in un trogolo) tutti i saperi, le sconfitte e le vittore del mondo che ci circonda? Si può rendere la complessità dell’algebra mentale e del verso in modo totalmente comprensibile, come hanno fatto alcuni cantautori che cantautori non sono, perché sono poeti.
Quella di Corselli potrebbe essere a questo punto un’alternativa ad un modo di fare poetico che ha dimenticato quanto può essere ben resa la conflittualità tra pensiero debole e realtà forte, una forza ascensionale poetica per un diffondere orizzontale del verso all’interno di una comunità non soltanto poetica, ma umana:
“A questo punto, io mi chiedo: esiste ancora, in questa società, un futuro Prometeo che riesca a rubare ad un falso mondo il fuoco della ragione… ma ancor più dell’Arte?”.
Segnaliamo 3 libri di poesia usciti di recente, CHAT_POESIE, di Oronzo Liuzzi, (Edizioni SpazioIkonos), Pelle Sporca, di Manila Benedetto (Besa Editrice) e Al di là dell’apparenza di Davide D’Elia (Libroitaliano).
Oronzo Liuzzi collabora da tempo con musicaos.it, in una sua intervista, comparsa nel numero scorso ci parla del suo modo di intendere l’arte e la scrittura, qualche verso di Chat_Poesie era comparso in anticipo sul questo sito. Ebbene, Liuzzi conferma con questo suo testo che la poesia per lui è un gioco, un gioco serio grazie al quale si possono comunicare pensieri profondi e toccanti, sempre restando in bilico sul filo dello ‘scherzo’. Queste parole non devono essere travisate, il gioco di cui parliamo è il gioco della forma, l’autore ha infatti attraversato negli ultimi anni diverse forme di poesia visiva, pervadendo i suoi versi di un carattere amichevolmente ammonitorio, critico nei confronti della società ma sempre lasciando uno spiraglio aperto per il respiro della speranza (L’albero della vita, Portofranco). Il suo risultato poetico dove queste caratteristiche trovano secondo me un equilibrio più attento è “Nuvole di gomma” (Edizioni Riccardi, 2001). Se nelle sue raccolte precedenti poteva presentarsi un apparente corto circuito visivo/allusivo, in CHAT_POESIE la costruzione è completa, il linguaggio di questo libro è un linguaggio devastato dalle incursioni magmatiche di tutto ciò che ci circonda, le canzoni, la televisione, le chat, i pensieri, la massime, la filosofia. E’ come se l’autore si fosse in sostanza messo da parte per lasciare libero sfogo all’espressione dell’etere, mantenendo tuttavia alta una soglia di attenzione per fare in modo che il non-senso dei miscugli di linguaggi possa essere riconducibile ad un quid poetico. Un bel libro, impreziosito da un segno grafico originale che Oronzo Liuzzi (il quale è anche pittore, non dimentichiamolo) ha tracciato su ogni copertina.
Manila Benedetto appartiene a pieno titolo ad una nuova generazione di autori, quelli nati dopo l’inizio degli anni ’80, alcuni dei quali hanno formulato una scrittura totalmente nuova, trasformando un’apparente irriverenza in stile e riuscendo a rendere, nella materia del loro discorso poetico, l’estrema urgenza del loro dire. Abbiamo già parlato del suo racconto, comparso nel volume “La notte dei blogger” (Einaudi Stilelibero). La domanda molto retorica che voglio farvi è: Princess Proserpina è Manila Benedetto? Anticipo che a me piace lo stile di tutte e due (anche se poi si tratta della stessa persona). Per descrivere questa raccolta mi piace utilizzare il titolo di un libello di Baudelaire, il mio cuore messo a nudo. C’è tutto, c’è il cinismo allegro e irriverente cui siamo abituati leggendo il suo blog, c’è la passione viscerale e verbale che anima la sua scrittura, sempre sincera. Questo è anche il primo Poet Bar dove irrompe, grazie a quest’autrice, la prosa; mi piace leggere ciò come sintomo del fatto che le nuove generazioni di scrittori hanno compiuto un salto ragionato nella volontà di mescolare gli stili, ridefinire le coordinate, mescolare le carte, cercare strade differenti, a volte anche l’inconsueto, se proposto in serie, può risultare scontato. Non è il caso di questa scrittura, dove ogni sezione è ponderata. Questa è la prima tappa (editoriale) del percorso poetico di Manila Benedetto, mi piace pensare che questo libro costituisca anche la risposta ad una domanda “i blogger sono personaggi costruiti, sono soltanto maschere d’autore?”, no, in questi versi non ci sono bugie. Ha ragione Lello Voce, quando definisce ancora turbinosa la cifra stilistica di quest’autrice, quelli che lo stesso definisce lapilli, siamo certi, diverranno fiumi di lava.
“Al di là dell’apparenza” è l’ultimo libro di cui ci occupiamo in queste brevi segnalazioni, è l’esordio poetico di Davide D’Elia, giovane leccese che vive e lavora a Bari, pubblicato con Libroitaliano. Se l’esordire, posta la convinzione che si possieda una certa volontà di farsi ascoltare e tradurre il mondo in scrittura – dicevo – se esordire è difficile, esordire con un libro di versi è doppiamente difficile. Molto spesso un’opera d’esordio rischia di risultare un colpo andato a vuoto per ragioni che non hanno nulla a che vedere con la scrittura. Ma quali sono gli effetti che cerca un esordiente? La poesia è ricerca, quindi, con una prima raccolta ci si può subito chiedere dove questa ricerca sia stata indirizzata, quali luoghi si siano scandagliati. Davide D’Elia si occupa, principalmente, dell’universo interiore, degli stati d’animo, i suoi, e lo fa con un tono colloquiale, recuperando un parlare medio, non scontato. La premessa maggiore è contenuta nella brevissima introduzione che l’autore stesso scrive, i suoi sono punti di vista, esperienze che non vogliono suggerire verità. Le verità poetiche con le quali si confronta questo primo esperimento sono, soprattutto, il disincanto che si prova di fronte alla bellezza e il desiderio di esprimerlo. Il verso di D’Elia non è ascrivibile ad una tradizione in particolare, nè c’è tra i componimenti un’omogeneità, che va trovata tutta nella voce narrante. In ‘Visione’, ad esempio, il tema iniziale è l’esatta trasposizione del dantesco tanto gentile e tanto onesta pare, in un ‘Quando ti vidi camminare tra la gente/ebbi l’impressione d’averti già veduta’. Il parallelo è rischioso, l’esito è sincero. Le poesie di D’Elia si spendono tra amore espresso e amore ‘ragionato’, dolore sentito e dolore ‘mascherato’, “i pensieri d’amore mai espressi e l’agire mai agito” di cui parla lo stesso autore. Il discorso è così delineato e la scelta di sè come argomento unitario e mai eccedente fa di questo esordio un testo interessante. Ciò che ci aspettiamo, fiduciosi, , da quest’autore, è il passaggio ulteriore, quello della consapevolezza di questo sè-descritto.
C’è una voce poetica che oggi si muove, a Sud del minimalismo, mescolando radici antiche e umori contemporanei e vivissimi, è la voce poetica di Vittorino Curci. Una voce che per esprimersi prende il respiro di cui necessita un’onda lunga e quieta per giungere a riva. Chi abbia studiato un minimo di fisica sa che un oggetto posto sulla cresta di un’onda compie un movimento verticale, ascendente e discendente, senza spostarsi; l’intima natura dell’onda è una metafora che secondo me è propria di questi versi. Uno dei temi dominanti di questa raccolta sembra essere proprio il movimento in assenza di movimento, il mutamento di stato senza mutamento apparente delle condizioni, “perchè tutto si ripeta/d’inverno al grido di una sola parte/tra danze già spente e azioni che sfumano oltra il segno”(p.23), oppure “la stasi apparente in cui pensiamo/che il mondo riposi”(p.29), o ancora “Il Il dettame impietrito di uomini e donne trapassati” (p. 25).
“La stanchezza della specie”, edito da Lietocolle, raccoglie versi scritti tra il 2000 e il 2005, il libro è diviso in quattro sezioni (Astemie, Fedora, Tutti fermi e Dopo l’assalto), che seguono la scansione temporale in sequenza.
Ivano Ferrari, nella sua raccolta del 1999 intitolata “La franca sostanza del degrado” (Einaudi) scriveva questi due versi: “E in punta di sonno passa/l’ora della specie”; proprio in quell’anno Vittorino Curci vinceva il Premio Montale nella sezione inediti. L’accostamento tra i due autori non è casuale, entrambi per comunanza di esperienze o per pura vicinanza anagrafica, sembrano agira nella zona dei bilanci, sempre nella stessa raccolta Ferrari aggiunge “Il mondo non esploderà/le metafore resteranno popolate d’illusioni/l’impeto generazionale gelerà a gennaio/come la barba, senza novità”.
Il desiderio di preservare un mondo da un attacco linguistico, concedendo la possibilità di (r)esistere al di fuori del parlato onnivoro, per divenire oggetto di descrizione poetiva, in modo non coercitivo; è come se il poeta entrasse in una stanza dove gli attrezzi da lavoro sono appoggiati, descriverli rievoca il loro uso, così per tutto, e il lavorìo che si accompagna all’esistenza, ma guai a credere che il dettato del poeta possa valere di più, si sente qui l’amarezza di un distacco che il poeta per primo vorrebbe annientare, “La lingua che ho rubato per voi//per le vostre bocche asciutte, contadini.[…] usate pure l’infinito/per scansare le insidie dei verbi. Fino a che non sarà consumato/l’anno non potrete sbagliare:/quello che uno apre e l’altro chiude/produrrà la stessa ombra”(p.94).
Ci sono passaggi dove echeggia l’influenza di Paul Celan, e dove si nota che i versi di Vittorino Curci costruiscono sottraendo spazio al vuoto e al silenzio, come in “Vecchie polaroid”: “Sei smarrito. I pensieri si rincorrono sulla discesa del tempo,/ verso dove stai andando”, “la radice sbalza ogni legge muovendo le labbra per dire Rosa Rana Duna, qualcosa che sembrava una poesia e che adesso al bubio, sui lembi del vestito, gli piacerebeb ricordare. Una sfilza che diventa monosillabi, roba inventata, arida”(p.73), “i nomi che la mano inchioda”.
Difficile trovare autori capaci di sostanziare una tale concisione e maturità, ed è normale, dato il livello raggiunto in “La stanchezza della specie”, che tale maturità siua accostabile a fonti e influenze altrettanto alte, dall’Eliot-Brodskij de “Scolorivi con imbarazzo perchè mostravi/al cielo di Bisanzio i tuoi panni sporchi”(p.53), fino ai segni di Alvaro Mutis, senza nessuna pretesa di creare una mitologia poetica, con la naturalezza di un pensiero che mantiene ben saldo a terra e vicino alla terra il suo baricentro, “pensieri sbozzati/nel nome di colui che apprende e sanguina” (p. 53), spirito e corpo. La stessa eco che si rintraccia nella veloci descrizioni, fatte da serie di oggetti in sequenza che si mescolano alle stesse sensazioni: “combinazione abrasa, caffè bollente, candore delle ferite, bulbo argentato, fessura circondata di bianco” (p. 28).
Nella sua raccolta precedente “Sospeso tra due solitudini estreme” (Ed. Bosco delle noci), Vittorino Curci rintracciava nell’Altro un’ipotesi di interlocuzione, plausibile per quanto distante e a senso unico, senza riscatto nè nei confronti della società: “Lo so che tutti è impossibile uomo bianco//Migrare nei verbi al Passato è sortilegio e stella[…] un aggettivo che canta vittoria/e annoda i fili dal basso”, nè tantomeno del divino “Dio ci ha lasciati senza musica/ siamo stati ingiusti, non abbiamo/scongiurato la repellenza dell’opera”, in altri luoghi il poeta utilizza un “lui”, manichino di comodo per dialogo e considerazioni, non figura reale. Ne “La stanchezza della specie” l’anelito del divino sembra essersi quasi dileguato. Malgrado l’aura di disincanto che pervade i modi di questa poesia, il senso, il significato è ricco di speranza, una speranza così sottile, tale da farci stare sempre in allerta: “il progresso ammansisce le prime file chiassose,/non possiede mai interamente/il poeta di cui parlano/ci ha lasciati ai margini del silenzio/e ora sprofonda con finti eserghi”(p.67); nei primi due versi è chiaro il monito morale del poeta, negli ultimi due esso viene esteso ai ‘poeti di mestiere’, sembra che il suo messaggio sia questo: la scrittura salva, ma non è detto che per il fatto di scrivere noi siamo salvi.
Soltanto la maturità dell’esperienza artistica, non solo scritturale, può dare adito all’espressione di una poesia (anche) morale, che, altrimenti, risulterebbe posticcia e didascalica. Vittorino Curci, ne “La stanchezza della specie” è testimonia un’esaustione del contemporaneo cui la poesia può e deve riparare “C’è il silenzio, e io nel silenzio/con questa voce e una lingua non fatta” (p. 87).
In altre poesie della raccolta (vedi Resistenza alla luce) vengono toccati altri temi nucleari e urgenti della poesia di Vittorino Curci, il contemporaneo: il vivente è manifestazione di un’epifania reale, tangibile, necessaria, senza riferimento al dato di fatto non c’è nemmeno poesia come trasfigurazione morale del dato stesso; e questa è una delle migliori lezioni di poesia che potevamo ricevere, buona lettura.