Archivi categoria: Musicaos

Sotto il vestito niente. Su “Tegumenta” di Evertrip (Paolo Ferrante)


paoloferrante_tegumenta_edizioniesperidiSotto il vestito niente. Su “Tegumenta” di Evertrip (Paolo Ferrante)

“Tegumenta. Dizionario emozionale” (Edizioni Esperidi) è il titolo della seconda opera pubblicata da Evertrip aka Paolo Ferrante, poeta e artista pugliese. Della prima “Le commedie del buio” ho scritto qui https://lucianopagano.wordpress.com/2009/04/16/le-stranezze-del-buio-su-le-commedie-del-buio-di-paolo-ferrante/.

Evertrip è uno scrittore che si muove in quella zona della sperimentazione, con un percorso personalissimo, nella quale le parole sono sempre insufficienti per lo stretto spazio di un foglio, e necessitano di accompagnarsi ad altro, tanto che l’oggetto libro che ne deriva è quasi sempre più di una semplice raccolta di testi poetici. Un libro d’arte pret-a-porter, una serie limitata in 250 copie che ambisce all’unicità editoriale scegliendo la semplicità. La sperimentazione, l’avanguardia, la ricerca, nella poesia sono un viaggio che viene intrapreso senza sapere, in anticipo, se la pagina sarà un deserto o un bazar.

Questo ‘gioco’, un tempo possibile per la lungimiranza artigiana dell’autore, era affidato al taglia e incolla (e poi fotocopia) materialmente effettuato con le forbici. Penso così a esperimenti poetici che mi hanno colpito, due su tutti: il primo è il Poet/Bar-Magazzino di Poesia, curato da Mauro Marino, nel quale l’iter iconografico era affidato alle xilografie tratte da un’antica edizione dell’Asino d’oro di Apuleio, e “Il pensiero generale alla fine del secondo millennio” di Ettore Sottsass, edito da Stampalternativa nel 1995.  Entrambi sono testi nei quali le immagini costituiscono parte integrante del progetto e della narrazione editoriale, nel caso di Sottsass, addirittura, creando una teoria senza teoria, un testo/saggio senza la lingua del saggio, ma con quella dell’immagine e del dato iconografico puro.

Il testo di TEGUMENTA è preceduto da una nota di Claudio Martino, editore di Edizioni Esperidi, che introduce il testo inquadrandolo nella collana alla quale dà inizio, Traffici d’artista, che sarà aperta a questo tipo di ibridazione tra immagine e parola. Seguono le avvertenze di Maria Cristina Strati, che offrono una chiave di lettura ‘corporea’ del testo, nella tensione – una delle tensioni presenti – tra corpo e anima, o superfici di corpo e superfici di anima, strati, come preferisco immaginarli.

La lettura di TEGUMENTA ci fa attraversare uno di quegli almanacchi di cose straordinarie, così simile nell’impianto ai resoconti immaginari di viaggi in territori altrettanto fantastici, a prescindere che questi fossero scritti da Borges (o da uno dei suoi tanti alter ego) oppure da Marco Polo o da qualche altro viaggiatore vissuto nell’anno mille. La sensazione è che l’autore sia partito appunto da uno ‘studio’ sul corpo, inteso proprio in senso rinascimentale, e abbia ricostruito nello spazio di questo volume un’opera che vuole somigliare a una sorta di ‘codice’ contemporaneo, nel quale la vegetazione, l’amore, l’epidermide, le case lontane, dominio della morte, entrano in gioco come oggetti che il lettore, fino al momento della lettura, non conosceva o non comprendeva, dato che la loro descrizione in prosa poetica stimola la creatività, non solo il pensiero.

questo è un frammento, estratto dalla lettera “B”:

“ti sento vera come il panico, infatti scivolo, scivolo nello stagno, ho le stoppie in gola, scivolo e non sono ancora pazzo, l’acqua è fredda e sembra un suicidio (FIG. 4) non posso cadere del tutto non prima di averti portata alle giostre averti accarezzato l’attaccatura dei capelli come stoppie della terra e ti sento lontana dall’amarmi, tutto pur di giungerti al cuore anche i polmoni pieni di carpe dorate, ho le convulsioni tienimi la mano che ci alziamo insieme, tienimi la mano che ci alziamo insieme amore, ci alziamo e non moriamo, ci alzeremo al canto del lampione”

a cui segue “C,c – CÀSE LONTÀNE”, da cui prendo questi prosiversi:

“la cadenza di due ventri disegnati dalla foga e ti sento ripiegare un poco a valle, a fare perno già con decisione, sopra l’Avemaria (alla faccia della nostra meglio eternità) e sa offendermi la guancia, poi m’ammazza lei, la donna mia piena di grazia”

è qui che si individuano quegli elementi che fanno del corpo il centro del testo, e della tensione intellettiva la tangente del quadro che viene disegnato e raccolto nelle immagini, nei quali il fiore, il germe, la pianta, sono elementi ricorrenti, a simboleggiare e racchiudere, forse, la rinascita. Un senso di latente carnalità fa venire in mente certi versi di Federico García Lorca, mentre è di Patrizia Valduga l’anelito che cerca di congiungere, come in un solstizio, lo spirito e la carne nella musicalità del metro, che si nasconde tra blocchi di prosa, andando a capo: è necessità di impaginazione o volontà di frantumazione?

Una delle cose che mi colpiva di più, quando da ragazzo leggevo le pagine de “L’essere e il nulla” di Sartre, era la spiegazione, semplice, in stile lineare, del fatto che tutto il mondo è superficie, e che non esiste ‘interiorità’ del percepire, perché tutto ciò che possiamo apprendere del corpo è superficiale. Difficile è, per chi non sia pratico di lettura o scrittura, godere dell’aggettivo ‘superficiale’ avulso da tutte le sue accezioni negativizzanti.

sanbartolomeoduomodimilanoLa poesia di Evertrip, man mano che procediamo nella lettura, si fa apprezzare per l’evocazione di atmosfere che esteticamente si rifanno al gotico, ma non al barocco, in un libro che può essere letto senza seguire un verso, una direzione di indice, un motivo in particolare. Per quanto riguarda le immagini, ciò che non è collage, selezione, ma è dipinto, ricorda posizioni alterne del San Bartolomeo custodito nel Duomo di Milano, e anche qui, l’uomo scarnificato, con i muscoli e i fasci di nervi visibili non fa che ricordarci che appena sotto la pelle c’è qualcosa che pulsa.

Tegumenta” di Evertrip, per concludere (trattandosi questa di una rubrica per le letture estive) è un lavoro da leggere, è la dimostrazione che Evertrip/Paolo Ferrante, ha individuato una sua lingua e, soprattutto, possiede, a cinque anni di distanza dal suo esordio nella scrittura pubblicata, gli strumenti per proporre una sua personale visione della realtà, con una lingua che, seppure ispirata, non è copiata da nessun dove, è tutta sua.

Avendo indagato a modo mio l’osceno, e pensando che forse la poesia è una sottaciuta, costante, indagine dell’osceno, mi piace lasciarvi con quest’ultima citazione, dalla lettera “O,o. OSCENITÀ:

“Tutto sommato, ce ne andammo in miseria; ciascuno con i suoi orrori: bronchi, scapole, uteri, e il sospetto di non aver mai vissuto davvero”.

Approfondimenti

Poet/Bar – Magazzino di poesia (Besa) , a cura di Mauro Marino, 2004
Ettore Sottsass – “Il pensiero generale alla fine del secondo millennio” – Stampalternativa, 1995
L’asino d’oro – Apuleio (traduzione di Massimo Bontempelli), 2011, SE
Francesco D’Isa, I., Nottetempo, 2011
Jean Paul Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore Tascabili, 2008

Link:

http://tegumenta.blogspot.it/

http://www.edizioniesperidi.com/

Può una bomba far brillare il cuore? L’esordio di Marco Cubeddu


COP_Marco Cubeddu_CUBAMSC_.inddPuò una bomba far brillare il cuore? L’esordio di Marco Cubeddu

Il romanzo di esordio di Marco Cubeddu, intitolato “Come una bomba a mano sul cuore” (Mondadori), tanto per cominciare, è molto più di un semplice esordio. L’inizio è un inizio dalla fine, dalla scena in cui l’amata del protagonista Alessandro Spera viene uccisa insieme a altre diciassette persone. Lo stesso cognome scelto per il protagonista, Spera, costituisce un refrain, un inno alla speranza che si concretizza nelle sue azioni disperate, un po’ all’opposto del Guglielmo Speranza che ne “Gli esami non finiscono mai” di De Filippo si trovava ad affrontare anche lui ‘prove’ della vita prima di coronare il suo sogno d’amore.

A distanza dai fatti tremendi occorsi dieci anni prima, Spera raccoglie le sue memorie in un volume, che consegna al suo avvocato, un memoir e allo stesso tempo un auto-da-fè, senza che il lettore se ne accorga, dato che il risultato è una road novel del tempo e dello spazio.

Si comincia quindi a ritroso, partendo dalla formazione del carattere di Alessandro, dove il romanzo di Cubeddu costituisce la dimostrazione del fatto che i bambini, in potenza, sono assassini e futuri criminali incalliti, finché qualcosa nella loro crescita non fa sublimare la cattiveria incanalandola in attività produttive, magari fantasiose come la scrittura, anche quando votata all’opportunismo e inframezzata da crudeltà, allucinogeni, droghe pesanti e droghe pesantissime, come accade a Alessandro. E se il nostro bambino decidesse di procrastinare il suo passaggio alla maturità, perfezionando nel sadismo la ribalta sul mondo? Va detto che il merito di tutto ciò va ascritto alla quieta connivenza di un padre, fumatore semiprofessionista di pipa tirolese, che poco ha fatto per sostenere l’azione educatrice della madre di Alessandro Spera, che per di più si trasforma nell’archetipo di madre che lui seminerà nei suoi romanzi.

In un centinaio di pagine il futuro scrittore, dopo avere abbandonato ogni speranza di irregimentarsi nel sistema dell’istruzione e in quello della società, e dopo essersi introdotto nei peggiori ambienti della sua città, diventa una mente criminale votata alla scrittura e all’amore, passando dagli anni novanta ai duemila, dall’adolescenza alla maturità. Soltanto il lavoro di pompiere e lo sport, con la cura del suo fisico e la pratica del mondo suburbano, fanno in modo che Alessandro sia capace di farsi scivolare addosso le incostanze dell’amore. Sarebbe un peccato fornire troppi particolari perché la scrittura di Cubeddu è rapida, seminata di particolari, la vicenda incalzante, e vale la pena di leggere questo frammento, anche perché offre una visione inedita di quel romanzo di formazione tanto inseguito dallo stesso Spera anche nella sua vita di personaggio.

Basta questo a collocare il testo, ad esempio, sulla linea che da “Due di due” di Andrea De Carlo arriva a “Bastogne” di Enrico Brizzi, passando per il meno conosciuto ma altrettanto rutilante “Sognavo di essere Bukowski” di Gino Armuzzi, e che dagli anni novanta, anche in questa seconda decade del millennio, rinnova la posta di un esordire forte, quello di Cubeddu, incisivo, incalzante, pulp, a tutti gli effetti un film che non sarà mai filmato perché la storia d’amore in esso narrata è eterea, evanescente, poesia pura. Un discorso a parte, per il divertimento e la malinconia, meritano le descrizioni degli scrittori, vere o fittizie, e delle aspirazioni coltivate da Alessandro, molto di striscio, nel loro mondo. Carlo Lucarelli, Alessandro Baricco, Dario Voltolini e, su tutti, Antonio Franchini, sono figure di passaggio, epifanie messe su un piedistallo dagli scrittorucoli che non capiscono, come capisce Spera, che la scrittura va vissuta e non mimata. I problemi, per chi non lo ha ancora capito, arrivano quando Spera si imbatte nelle due sorelle che gli cambieranno la vita, Benedetta e Mel InWonderland. Il ragazzo si innamorerà perdutamente di Mel e come accade in ogni storia di amore non corrisposto, quando uno dei due amanti scrive, il risultato sarà sublime. Così è per Spera, che in pochi anni brucia le tappe di una carriera letteraria folgorante, fino a diventare uno sceneggiatore di serie televisive hollywoodiane, ovviamente strapagato.

C’è qualcosa però che non va, tra i due, Mel infatti, malgrado il suo passare con leggerezza attraverso il mondo, è attratta dalle certezze, mentre Spera, che il mondo lo attraversa come un proiettile zen, non può offrire altra certezza che il suo amore infinito e, per l’appunto, disperato. Soltanto arrivati alla fine della lettura potremo sapere se questa storia finirà come è cominciata. L’esordio di Cubeddu è dirompente, e oltre a offrire un rapido spaccato dei nostri ultimi venti anni, visti con gli occhi di un adolescente e poi di un ragazzo, ci consegna una storia d’amore e morte dalla linearità quasi classica. L’autore inoltre, nonostante le assicurazioni finali, sembra somigliare molto al suo personaggio, e questo è un segno di sincerità.

Marco Cubeddu – “C.U.B.A.M.S.C. Come Una Bomba A Mano Sul Cuore” – Mondadori

5 Maggio 2013 – Marsala – “Tefteri. Il libro dei conti in sospeso” di Vinicio Capossela (il Saggiatore, le Silerchie)


Nel greco moderno Tefteri è la libretta dei conti che nei negozi di alimentari si usa per segnare i conti da saldare il giorno di paga. “Tefteri. Il libro dei conti in sospeso” è anche il titolo del nuovo libro di Vinicio Capossela, edito da ilSaggiatore nella collana “le Silerchie”, che verrà presentato in anteprima domenica prossima a Marsala in occasione del “3° Festival del Giornalismo d’Inchiesta Il Mediterraneo: dialogo e disincanto” (www.festivaldelgiornalismodiinchiesta.it).

http://www.musicaos.it

“Confessioni di un editore di merda” l’ebook di Luigi Tarantino recensito su Booksblog.it


“Confessioni di un editore di merda” di Luigi Tarantino,
recensito su Booksblog.it da Sara Rania alias Kitsuné

ecco la bella recensione dell’ebook di Luigi Tarantino,
pubblicata venerdì 5 aprile su Booksblog.it:

L’ebook in questione è una piccola scoperta che val la pena di assaporare velocemente ma non troppo, bighellonando in due racconti inediti di tono quasi opposto. “Confessioni di un editore di m…a” e “Te l’ha detto Emma”, parlano attraverso l’immaginazione del salentino Luigi Tarantino, ma le due voci che ne escon fuori sembrano entrambe frutto di uno stralunato e allucinatorio salto nel vuoto. La prima è quella di un editore un po’ cinico, o forse semplicemente troppo navigato per non conoscere a fondo alcuni orridi meccanismi che solcano il selvatico mondo dell’edizione a pagamento, la seconda è quasi inesistente e appartiene a Don Rafeli, un personaggio quasi mitico dal glorioso passato, che trascorre le sue giornate a letto in bel palazzotto, lasciando all’energica moglie Emma, il compito di gestire la casa, la lingua e tutto il resto.
E se nella prima storia a dominare è l’ego spropositato del protagonista, intento a tracciare una beffarda e realistica caricatura dello sconfortante stato di una certa deriva imbastardita della letteratura, in quella successiva è il Sud Italia che emerge e troneggia con le sue inarrestabili matrone, gli scugnizzi e le tradizioni popolari, in un tripudio di suoni, sensazioni e segreti che caratterizza l’anima del meridione.

“Nichilista dite? Qualcuno dice pure che sono comunista, mah.. fate voi, che volete che vi dica? Io non vorrei dirvi proprio nulla, che poi qualcuno comincia a parlare di anacronismo, di “spazzatura della storia” e via discorrendo. E forse è proprio quell’anacronistico senso della storia che mi permette di essere ancora vivo, quel vagheggiamento, tutto giacobino, di poter erigere un giorno in piazza quel singolare strumento che monsieur Guillotin propose, con grande successo, alla Francia del 1789. Per le barricate e corse selvagge non ho più le gambe, forse neanche il fiato, ma le gambe più di tutto. E allora vi confesso candidamente che me ne starei in poltrona a sfogliare qualche giornale, a guardare quelle spudorate facce dei nostri governanti e poi accartocciare i fogli, immaginando di accartocciare i loro corpi in carne ed ossa come in una sorta di rito vudu.
Qualcun altro mi chiedeva che lavoro faccio; un lavoro come tanti: faccio l’editore.”

“Confessioni di un editore di merda”
di Luigi Tarantino
ebook 09 – Musicaos.it

link: http://www.booksblog.it/post/46497/confessioni-di-un-editore-di-m-a-di-luigi-tarantino

Finalmente disponibile: “Il cuore in disparte” di Roberta Pilar Jarussi, ebook 10 – Musicaos.it


ilcuoreindisparte_robertapilarjarussi_musicaos_010“I racconti di Roberta Jarussi hanno forza di verità perché la sua scrittura ti trascina con impeto espressivo nella vitalità tormentata dell’animo dei personaggi. Le sue parole sono disarmanti, bruciano distanze sentimentali con rapide fiammate. Al tempo stesso, però, divampano con microscopico e geometrico rigore. […] Il cuore in disparte alterna passato e presente d’un incontro impossibile fino all’epilogo dell’abbandono subito dopo il vertice carnale della passione cosicché sarà per lei inevitabile «associare alla parola “sparizione”, lo strappo in corpo e il piacere assoluto, la ferita che è solo quando la carne si apre e pulsa. Il resto è niente» se non diventa scrittura.”

(Michele Trecca, La Gazzetta del Mezzogiorno)

Il cuore in disparte” ci racconta di due mondi e due modi differenti per affrontare non solo la scrittura, ma anche la vita. C’è una via meticolosa dell’essere scrittore, quella di Filippo, che non si è fatta minimamente scalfire dall’ingresso massiccio dell’informatica nel pianeta della scrittura. Filippo scrive ancora con la matita e riempie risme di fogli A4, se non fosse per l’utilizzo sporadico che fa del pc per postare qualche racconto su internet si potrebbe a tutti gli effetti definire un “tecnoleso”, termine che da questo racconto di Roberta Pilar Jarussi entra con prepotenza nel nostro lessico, traducendo l’anglosassone “keeg”, ottenuto come speculare di “geek” (appassionato di tecnologia), e qui sdoganato dal dizionario degli appassionati per diventare pura letteratura.
E poi, accanto a quella di Filippo, c’è una vita, altrettanto meticolosa, maniacale, che si è fatta attraversare completamente dall’innovazione: Anna esce di casa con il portatile, e, quando le viene in mente qualcosa che deve scrivere, magari quando sta facendo una coda presso qualche sportello, piuttosto che prendere un taccuino e una penna apre l’ostrica del suo MacBook bianco (Montblanc per lui, white Mac per lei) e annota il suo pensiero. Ciò non toglie che la sua scrittura, pur immersa nel virtuale, non sia altrettanto ‘incisiva’ e scalfente. I due si sono incontrati per caso a un festival di scrittori, uno dei tanti, anche abbastanza affollato, nel sud del sud, in Lucania.

La bravura di Roberta Pilar Jarussi, in questo come negli altri racconti pubblicati di recente (“Panni sacri”, “La verità” presenti entrambi nella collana di narrativa di Musicaos), sta nel ‘riportare’ al lettore una realtà narrativa suddivisa su livelli differenti, facendo coincidere le diverse vicende, intersecandole, spiazzando, e, in poche pagine, mettendoci a tu per tu con i pensieri dei personaggi, con quello che è il loro passato immediato, con tutte le aspettative che vengono rivolte nel presente, fino a immaginare cosa sta per accadere lì, davanti ai suoi occhi, prontamente disatteso. È davvero difficile non resistere a questo gioco di rimandi e immedesimazioni, senza ‘prendere le parti’ o affezionarsi ai tic e ai modi di fare e dire di Anna e Filippo, per non parlare di tutto ciò che li circonda. Quando uno dei personaggi di Roberta Pilar Jarussi entra in un ambiente, sia esso un bar, un aeroporto o un ufficio, basta una battuta per ‘ottenere’ il personaggio, e tu sei lì, stai vivendo nella stessa scena, catturato da un potere evocativo che ti sbalordisce, ed è uno dei primi ‘sintomi da rilettura’. A questo si aggiunge l’altalena del tempo, con i flash-back, anche questi in perfetto montaggio, eventi passati da cui fuoriescono quelli presenti, e viceversa. La 504. Un numero assurdo, assegnato da un destino bizzarro alla stanza di una pensioncina che di stanze ne ha davvero poche. Un numero che diventerà ‘luogo’ per due corpi che si inseguono.

C’è una grande vastità che si nasconde nel cuore, e che si traduce tutta nella descrizione degli amanti al termine della battaglia d’amore, nei gesti che seguono, in quelli che precedono l’addio o il saluto. Roberta Pilar Jarussi, ne “Il cuore in disparte”, riesce ancora una volta, con una forza e un espressionismo unici, a trasformare in poesia, sorpresa e stupore, tutti quei piccoli frammenti di cui si compone una storia, o una non-storia, d’amore.

(dalla postfazione di Luciano Pagano)

ROBERTA PILAR JARUSSI. Ha pubblicato il romanzo “Nella casa” (2003, Palomar – collana Cromosoma Y, diretta da Michele Trecca e Andrea Consoli) e “Dal vivo”, racconti (2002 , zerozerosud). Nell’ottobre 2003, è selezionata a ‘Ricercare’ convegno-laboratorio per nuove scritture (Reggio Emilia), con un brano dell’allora inedito romanzo “Nella casa”. Con Musicaos ha pubblicato “Panni sacri” (Ebook 06 Musicaos) e “La verità” (Ebook 07 Musicaos).

ENRICO LO STORTO fotografo professionista, autore dell’immagine di copertina de “Il cuore in disparte“, è nato a Cerignola nel 1963, risiede a Foggia. Inizia a fotografare nei primi anni ’80 con una Olympus, per passare subito dopo alla Nikon, di cui possiede vari corpi corredati da ottiche fisse e non. Nel 2004 la sua espressione fotografica ha un forte scossone grazie sopratutto all’avvento del digitale che Lo Storto approfondisce, in ogni direzione. Enrico Lo Storto vanta varie partecipazioni e ammissioni a concorsi Internazionali e ultimamente ha collaborato con l’azienda italiana produttrice di gioielli, Bulgari. Già da numerosi anni è parte attiva del Foto Cine Club di Foggia di cui è anche docente oltre che facente parte delle commissioni Artistica e Formazione.

“IL CUORE IN DISPARTE”, di Roberta Pilar Jarussi, ebook 10 – Musicaos.it

info
ebook@musicaos.it

catalogo

“È facile smettere di scrivere se sai come farlo” 10° nella critica, su Amazon.it.


lucianopagano_efacilesmetterediscrivere_ebook02_musicaos“È facile smettere di scrivere se sai come farlo!” (Ebook, Musicaos) l’antiguida alla scrittura di Luciano Pagano, risulta al 10° posto nella classifica di Amazon.it, relativa ai testi dedicati alla Storia della letteratura e critica letteraria (http://www.amazon.it/gp/bestsellers/digital-text/1345036031/?ie=UTF8&camp=3370&creative=24114&linkCode=ur2&tag=musicaosit-21), 11° nella categoria “Enciclopedie e opere di consultazione”.

§

Storia della letteratura e critica letteraria
Classifica dei più venduti su Amazon.it
(al 25 Marzo 2013)

1. Doppio ritratto: San Francesco in Dante e Giotto (Biblioteca minima) Massimo Cacciari
2. Mondo, romanzo – Mario Vargas Llosa, Claudio Magris, Glauco Felici (Traduttore)
3. Letteratura italiana. Schemi riassuntivi, quadri di approfondimento (Tutto) – Aa. Vv
4. Lezioni americane (Oscar opere di Italo Calvino) – Italo Calvino
5. Ai piani bassi (Einaudi. Stile libero big) – Margaret Powell, C. Palmieri (Traduttore), A. Martini (Traduttore)
6. Danubio (Nuova Biblioteca Garzanti) – Claudio Magris
7. Viaggio in Sardegna (Super ET) – Michela Murgia
8. Anna Karenina – Lev Tolstoj
9. Il realismo è l’impossibile – Walter Siti

10. È facile smettere di scrivere, se sai come farlo! (Musicaos) – Luciano Pagano

“È facile smettere di scrivere se sai come farlo” – Luciano PaganoSCHEDA
http://www.scribd.com/doc/130257842/E-facile-smettere-di-scrivere-se-sai-come-farlo-Luciano-Pagano-Ebook-02-Musicaos-scheda

Info:
ebook

Catalogo:
http://www.amazon.it/s/?_encoding=UTF8&camp=3370&creative=24114&field-keywords=musicaos&linkCode=ur2&tag=musicaosit-21&url=search-alias%3Ddigital-text

“Meccaniche del pianeta terra” – Ebook in cerca d’autore? Musicaos Contest


“Sul pianeta terra il gioco all’infinito dei giovani dentro l’umanità per vivere contro l’andamento del mondo sembra essere tutt’uno con l’esistenza dell’umanità, soggetto ora al rialzo ora al ribasso nei tempi e spazi del mondo. La pagina più bella resta forse ancora da scrivere e a un certo momento può anche risultare indifferente, a distanza di anni, che cosa è accaduto prima e che cosa dopo, chi ha giocato prima del Sessantotto, per esempio nel ’64 a Berkeley quando dalla metà di settembre alla fine dell’anno la rivolta giovanile Free Speech Movement, «Movimento per la libertà di parola», portò un soffio di vita negli spazi del Campus, e chi dopo, nel Cile del ’73 una volta ucciso l’11 settembre Salvador Allende, o nella Milano del Movimento nato da «Autonomia Operaia» nel ’77. Cosicché può accadere che uno, sgattaiolando fra le memorie, finisca in un altro tempo, dove daccapo si incontrano giovani trasgressivi, nuovamente abbagliati da grandi idee. Ci saranno allora daccapo momenti in cui essi grideranno massime di fuoco e incolleranno manifesti sui muri.”

(Maria Corti, Le pietre verbali, 2001, Einaudi)

Meccaniche del pianeta terra“, ecco il titolo, e la copertina di uno dei prossimi ebook di Musicaos.it, in uscita nei prossimi mesi.

meccanichedelpianetaterra_ebook_contest_musicaos

Se avete scritto un racconto o un romanzo, di almeno 40.000 battute (spazi inclusi) e non più di 150.000 battute (spazi inclusi), e accettate di pubblicarlo, con il titolo di “Meccaniche del pianeta terra“, nella collana di narrativa degli ebook di Musicaos.it, speditelo al seguente indirizzo ebook@musicaos.it, allegando, insieme al file (in formato .DOC o .ODT) un breve profilo biografico (in un file dello stesso formato) corredato di tutte le informazioni che ritenete utili. Diamo per scontato che il racconto in questione sia inedito e che voi siate gli autori del racconto, e che non siete avatar, pseudonimi o altra forma di vita che non sia raggiungibile tramite telefono e email. L’invito è aperto a tutti gli autori. Potete consultare il nostro catalogo per avere un’idea delle nostre pubblicazioni, oppure anche visitare questo link.

Il racconto che verrà selezionato uscirà nella collana degli ebook di Musicaos.it, con il titolo “Meccaniche del pianeta terra“.
Domande? E se ci arrivasse più di qualche racconto, meritevole di essere pubblicato in questo ebook? Decideremo, magari, che l’ebook sarà antologico. E se di racconti belli non ne arrivano? Rilanciamo il contest fino al raggiungimento dell’obiettivo. Cosa c’entra la citazione di Maria Corti? Niente di più che uno spunto, come potrebbero essercene altri, per lasciarsi influenzare, in caso di nuove scritture, o non-influenzare, se quel che scritto è scritto. Altre domande?
Scrivetele qui: ebook@musicaos.it

Grazie,
Luciano Pagano

Ebook Musicaos.it
il catalogo: https://lucianopagano.wordpress.com/ebook-musicaos-it-catalogo/

Finalmente disponibile: “Confessioni di un editore di merda” di Luigi Tarantino, ebook 09 – Musicaos.it


luigi_tarantino_confessionidiuneditoredimerda_ebook_09_musicaos__“Confessioni di un editore di merda” di Luigi Tarantino
(ebook 09 – Musicaos.it)

Il mondo dell’editoria raccontato da un editore, in presa diretta, scritto da un libraio, per la prima volta, in un ebook.

“Vendere libri è arduo, ha ragione un mio amico libraio, il mondo dei libri è una bagatella continua: C’è il rappresentante editoriale che pronuncia Freud così come lo vede scritto invece di dire “Froid”, c’è il povero cliente che vuole “I fratelli Kulisciov” di un certo “Don Tojesky” o il “Sequestro di un uomo” di “Primo Allevi”. Poi il libro che chiedono è sempre quello che non c’è: se chiedono quattro libri e di questi quattro ne manca uno, puntualmente rispondono che è proprio quello che serviva di più e per dispetto non ne comprano neanche uno. Ha ragione il mio amico libraio che mi dice che i libri non sono tappeti, non sono scarpe, il libro non si indossa, non ti puoi vantare con nessuno perché non legge nessuno. Leggere è come inoltrarsi in mare aperto, con una barca a remi e senza motore: se ci riesci compare d’incanto una vela gonfiata dal vento che ti porta lontano, sennò rimani lì a spezzarti la schiena con un pezzo di remo in mano.”

L’autore apparecchia due scene diverse: da una parte c’è il personaggio dell’editore, poco fantomatico, molto realista, così vicino e allo stesso tempo così lontano dalla vulgata tradizionale che vorrebbe incarnata, nella sua figura, quella di un laico missionario della cultura e dell’oggetto libro. Il racconto è come sospeso nello spazio e nel tempo, capiamo che il centro di gravità attorno al quale ruotano queste considerazioni è una libreria, e capiamo anche che chi scrive ha veduto e sentito generazioni di lettori, librai, editori e, soprattutto, scrittori. Scrittori di ogni genere: non a caso è soprattutto la catalogazione dei vari ‘tipi’ che più ci sorprende e ci fa sorridere, dato che assurge qui a vera e propria scienza del temperamento, ai limiti della fisiognomica più spietata.

Don Rafeli è il protagonista del secondo racconto, il vecchio stanco che vive in un mutismo afasico, una sorta di Oblomov dal passato nobile ma sconosciuto, che si affida totalmente alle cure e alle attenzioni dell’energica moglie, donna Emma. L’immagine di Don Rafeli sconvolge, capace di vivere una vita immobile, quasi senza respirare, inseparabile dalla percezione dello spazio in cui vive come una fiera selvaggia, in cattività. Quelle di Luigi Tarantino sono narrazioni meridiane.

Luigi Tarantino, nato a Montesano Salentino nel 1964, vive a Lecce, scrive, lavora in una nota libreria. Da anni si dedica all’osservazione e allo studio delle tradizioni popolari salentine. È autore del saggio “La notte dei tamburi e dei coltelli” (Besa, 2001), uno studio dedicato alla tradizione religiosa e musicale di San Rocco, nella tradizionale festa del 15 Agosto, a Torrepaduli e alla “danza delle spade”.

“CONFESSIONI DI UN EDITORE DI MERDA”, di Luigi TARANTINO, ebook 09 – Musicaos.it

info
ebook@musicaos.it

catalogo

Presto online “La verità” di Roberta Pilar Jarussi, ebook 07 Musicaos.it


robertapilarjarussi_laverita_musicaos_ebook_07_cover?w=352

presto online:

Roberta Pilar Jarussi, “La verità”
postfazione Luciano Pagano
ebook 07 Musicaos.it

Novità: “Panni sacri” di Roberta Pilar Iarussi, ebook 06 Musicaos.it


“Panni sacri” di Roberta Pilar Jarussi (ebook 06 Musicaos.it)
disponibile qui:
http://www.amazon.it/Panni-sacri-musicaos-ebook/dp/B00B6F63BS/ref=sr_1_1?s=digital-text&ie=UTF8&qid=1359246183&sr=1-1

“Ho stretto con forza il mio sesso giovane e l’ho spinto fuori da me. Ho chiuso le gambe. Ho irrigidito tutti i muscoli fino a sentire dolore. Ho serrato la bocca. Mi ha sporcato l’inguine di liquido giallastro senza seme, andava fiero del suo pesce morto come fosse un trofeo di guerra. Prima dell’orgasmo che non è arrivato più, ha sussurrato alcune parole in disordine, sbattevano nell’abitacolo della macchina e nella mia pancia e da tutte le parti…” (Panni sacri)

In un piccolo centro del nostro sud, decadente e insieme rassicurante, un prete anziano, socialmente impegnato e sensibile alle ferite dell’umanità, incontra casualmente una bellissima ragazza. La giovane donna è sola e anche il prete, a suo modo, lo è.
Tra i due nasce subito una forte intesa. L’uomo e la donna avviano una strana frequentazione, a metà strada tra la voglia ingenua della donna di affidarsi completamente e la smania dell’uomo di impastar le mani nelle vite degli altri.
La storia segue così un doppio filo narrativo: se nella vita vera, la ragazza si confronta con un uomo maturo, spirituale, distante dai nodi carnali che sempre complicano le relazioni, nella realtà virtuale, condita di chat erotiche notturne e veloci sms, la donna ‘frequenta’ un “Ragazzo” giovane, desiderante e lubrico. Evidentemente, però, le cose sono diverse da come appaiono.
Il racconto Panni sacri è parte di una mini raccolta che mette insieme tre diverse storie accomunate dall’elemento di uno ‘strappo’.
Il medesimo strappo in forme differenti. L’Amore, non solo erotico, quindi, e quell’inevitabile lacerazione che si porta appresso, quasi come se le due cose, piacere e ferita, fossero inscindibili.

[dalla postfazione a “Panni sacri”, Luciano Pagano]

‘Due che fanno sesso virtuale, come si chiamano?’. La prima domanda che compare in ‘Panni sacri’ di Roberta Pilar Jarussi, è di una semplicità disarmante, eppure nasconde quello che sarà uno degli atteggiamenti ricorrenti in tutta la narrazione, ovvero sia il contrasto continuo tra sacro e profano, tra ingenuità nell’amore e esperienza del sesso, tra conoscenza dei profondi anditi della psiche umana e ricerca ossessiva della verità corporea, quando due, tre persone, hanno a che fare con l’innamoramento e con la totale miscredenza delle reazioni che l’amore può indurre, d’improvviso.

La protagonista di questo racconto vive due storie contemporaneamente, più esatto sarebbe dire che vive diverse storie, dato che la schizofrenia amorosa, ad esempio nel rapporto con Ragazzo, si identifica con il duplice rapportarsi all’immagine virtuale, digitale, web-voyeuristica e all’immagine fisica, materiale, a quel verbo ricorrente con cui di denota l’incontro e l’atto insieme, cioè il “prendersi”.

Una realtà fatta di gesti, atti, sequenze di prendere, stringere, abbandonare. Roberta Pilar Jarussi, in questo suo trittico di storie che si intrecciano, presenta una vera e propria fenomenologia dell’amor ‘intrapreso’, per tentativi, approcci, manovre lontane che si appressano e diventano vere e proprie sospensioni di gravità. La cosa che colpisce di più il lettore è sempre questo correre su un crinale, da una parte la purezza della carne e dall’altra la (presunta) falsità di uno spirito che ambisce a qualcosa di impossibile, salvare le capre e i cavoli, avere tutto, possedere la carne e dominare il pensiero, carpire, se c’è, l’amore cerebrale. Come se ciò non bastasse Celso, il francescano narcolettico esperto in mercatali pesche miracolose e avances etoromani, è brutto e con la pancia, mentre Ragazzo è bello, punto e basta. La protagonista del racconto sembra oscillare come un pendolo tra entrambi, ed è come se la virtualità dell’amore, a tratti, concedesse un po’ di stupore in avanzo al fatto che la forma fisica, forse, non importa granché quando c’è di mezzo il desiderio.

Una lettura, quella di “Panni sacri”, che procede rapidamente, come scorrendo delle polaroid, una dopo l’altra, anticipando ciò che sarà, ripetendosi che no, la protagonista non cadrà nel tranello, per poi scoprire che è come se questi tranelli, in fondo, fanno parte di un gioco meditato, una partita a scacchi dove la regina è circondata, per scelta, da una manciata di minuscoli pedoni. Fino al culmine del suo personale viaggio al termine della notte, in un ‘solito’ pomeriggio, sudicio e afoso, col finestrino abbassato per respirare, in attesa di un afflato che non è spirito, perché lo spirito oramai se l’è squagliata…chissà che fine ha fatto, da questo quadro così perfetto, lo spirito.

§

Roberta Pilar Jarussi ha pubblicato il romanzo “Nella casa” (2003, Palomar – collana Cromosoma Y, diretta da Michele Trecca e Andrea Consoli) e Dal vivo, racconti (2002 , zerozerosud). Nell’ottobre 2003, è selezionata a ‘Ricercare’ convegno-laboratorio per nuove scritture (Reggio Emilia), con un brano dell’allora inedito romanzo “Nella casa”. Collabora con BooksBrothers, sito e laboratorio letterario, che ha prodotto l’antologia “Frammenti di cose volgari – Acqua passata – Volume Uno 2006/08”, a cura di Maurizio Cotrona e Antonio Gurrado (2009), nella quale sono presenti alcuni suoi racconti inediti.

È operatrice culturale della Biblioteca Provinciale di Foggia. Dal 2006 al 2009, ha curato il progetto e Premio Letterario nazionale ‘Libri a trazione anteriore’ della Provincia di Foggia, in collaborazione con Casa Circondariale di Foggia, con la direzione artistica di Michele Trecca, che includeva, in Carcere, un ciclo di incontri con gli autori ed eventi per i detenuti’; ha collaborato con il Kollettivo – associazione studentesca dell’Università degli Studi Foggia, nella realizzazione delle prime edizioni di BAOL – concorso letterario per scrittori esordienti, rivolto agli studenti e ai detenuti di Foggia, giunto ora alla sua 4° edizione.

Nel 2006 ha curato l’organizzazione del convegno nazionale sui blog letterari, “Le tribù dei Blog”, tenutosi a Foggia e al quale hanno partecipato (anche) Christian Raimo, Maurizio Cotrona, Giulio Mozzi, Michele Trecca, Enzo Verrengia, Anna Maria Paladino, Rossano Astremo, Ivano Bariani, Luciano Pagano, Silvana Rigobon, Fabio Dellisanti, Manila Benedetto.

Ha collaborato con il gruppo di musica popolare ‘I cantori di Carpino’ e con studiosi e portatori della tradizione, lavorando sulla struttura originaria della Danza Tradizionale Pugliese e sulle sue contaminazioni.

Il suo blog personale è “In punta di dita”: http://robertajarussi.blogspot.com/

“Il giorno della fioritura”, da oggi su Amazon.it


ilgiornodellafioritura_ilpaesenuovo_12012013

“Il romanzo osceno di Fabio” – FINE


Il romanzo osceno di Fabio” / 21 Set 2012 – 4 Gen 2013 di Luciano Pagano

Da oggi il profilo twitter @romanzosceno diventa privato e il sito http://romanzosceno.tumblr.com scompare.

Ringraziamenti.

Grazie a Claudio, per l’idea, una delle molteplici, che ho deciso di cogliere.
Grazie a Luigi per avere contribuito con il cipiglio di un pasticcere trotzkista nell’Italia degli anni ’50.

Grazie in particolare a @RobSaporito, @loredanadevitis, @dionisiacamente, @tunue, @robertajarussi, @RobyRecchimurzo, @GiuliaMadonna, @gloriapoetry, @OrodeDeoro, @simonacleopazzo, @_faprile, @TizianaCazzato, @MeLoLeggo, @decimocirenaica, @RobQuarato, @GrecoDaniele, @mastru1, @russoprof, @ThorVantek, @MaffiRaffi, @xybarbara, @SnowLeopard_89, @valsinthesky, @CosiWanKenobi, @ErikaBiancalana, @c_ipad

Questa storia è frutto d’invenzione, dal primo all’ultimo tweet.

Da oggi “Il romanzo osceno di Fabio” è disponibile qui:

http://www.amazon.it/The-obscene-novel-Fabio-ebook/dp/B00ASBB7NA/ref=pd_rhf_gw_p_t_2

“Follow me down”

10 Libri da leggere assolutamente DOPO il 21 Dicembre 2012


Domani è il 21 dicembre 2012. Era tanto che aspettavate l’arrivo di questo giorno, ma anche no.

Ho chiesto ai miei lettori e amici, su twitter e facebook, di suggerirmi un libro da leggere, per Natale, avevo bisogno di un consiglio per darmi la possibilità di farmi un (auto)regalo senza pensarci troppo, a cuor leggero. Siccome domani è il 21 dicembre, vorrei approfittare di questi suggerimenti per condividerli con i lettori del mio blog. Li trovate qui di seguito. Approfitto per augurare a tutti buone feste, buon divertimento e buone letture.

Per i suggerimenti su Twitter ringrazio: @ineziessenziali per avermi suggerito di leggere qualcosa di Philip Roth, una qualunque; @marinapallina per avermi suggerito di leggere Philippe Besson e Audur Ava Olafsdottir, due autori di cui ignoravo l’esistenza, grazie di cuore. Per lo stesso motivo ringrazio @FlaviaClaire per avermi suggerito Stiefvater Maggie. Grazie @Agne_75 per avermi suggerito di leggere “Correzioni” oppure “Libertà” di Jonathan Franzen, lo farò appena possibile.
Per i suggerimenti su Facebook ringrazio: Laura per avermi suggerito due bei libri di Dino Buzzati, che non ho ancora letto. Grazie a Antonio, per avermi suggerito Yu Hua e, infine, Alessandra per avermi suggerito l’ultimo di Benni. Siccome i libri suggeriti in tutto sono 7 e quando si fanno post di questo tipo anche i più stupidi suggeriscono di metterne 10, se proprio non siete riusciti a fermarvi a 5, ne aggiungo altri tre. Il primo è “GoodMooning!”, di Stefano Saldarelli, lo aggiungo perché mia sorella su facebook mi ha suggerito di leggere qualcosa di leggero e ironico. Poi aggiungo un libro che sto leggendo in questo periodo “I cento fratelli” di Donald Antrim. Il terzo libro che vi consiglio, è “L’inumano” di Massimiliano Parente.

Vi auguro un 2013 migliore di questo 2012 che sta per finire, cari lettori, so che non è difficile vista la pessima media raggiunta nel 2012 in questo nostro paese, però sono un “ottimista sistemico”, quindi non si può mai dire. Approfitto di questo post anche per ringraziare tutti i lettori di Musicaos.it, oltre 200.000. Se guardate il menu in cima al blog leggete, tra le prime voci “Novità, gli ebook di Musicaos.it” (; si tratta dei nostri primi 3 ebook pubblicati su Amazon.it, tutti e tre, insieme, costano meno di 10€; quindi se quest’anno vi regaleranno un ebook reader con la K iniziale, oppure quello della Mondadori, o ancora quello del portale che vende libri, potete acquistare anche gli ebook di Musicaos.it. Adieu!

Ps. Prima di chiudere questo post, su Twitter, ho ricevuto il suggerimento di @Robertofludd, che mi consiglia di leggere Solo, di Dasgupta Rana, quindi i libri diventano 11, e anche se fare un titolo “11 Libri da leggere assolutamente DOPO il 21 dicembre 2012” potrebbe essere un gesto naif, non cambierò il titolo, perché non sono naif.
PpSs. Questo post è idealmente dedicato a due compari, Giuseppe Cristaldi, non sa lui perché, e Orodè, che mi ha chiesto una classifica dei 10 migliori libri del 2012 consigliati da me; non l’ho ancora stilata, ma ci sto ancora ragionando.

Dino Buzzati, Poema a fumetti, Mondadori

“Capita nella vita di fare cose che piacciono senza riserve, cose che vengono su dai visceri. Poema a fumetti è per me una di queste, come Il deserto dei Tartari, come Un amore.” Così Dino Buzzati presentava ai suoi lettori questo libro, troppo a lungo sottovalutato, se non dimenticato. Uscito con grande scalpore nel settembre 1969, è infatti rimasto per decenni irreperibile nelle librerie. In questa rilettura in chiave moderna del mito di Orfeo ed Euridice, Buzzati ci parla di se stesso, concentrando in 208 tavole a colori tutti i temi a lui più cari, a partire dall’eterno dialogo tra la vita e la morte. Attraverso un raffinato gioco di citazioni e autocitazioni, l’omaggio ad artisti di ogni epoca, la contaminazione di generi, queste pagine svelano l’intero universo creativo di Dino Buzzati, i suoi riferimenti culturali, le fonti di ispirazione, le suggestioni infantili, gli interessi di adulto, il metodo di lavoro. Facendo di “Poema a fumetti” un libro che ne racchiude in sé molti altri, come solo i capolavori possono fare.

Dino Buzzati, Un amore, Mondadori Un amore è un romanzo dello scrittore italiano Dino Buzzati ideato nel 1959 e pubblicato da Arnoldo Mondadori Editore nel 1963.
Si tratta di un’opera del tutto eccentrica rispetto alla produzione abituale dello scrittore, dettata da un’esperienza autobiografica che Buzzati aveva vissuto intensamente[senza fonte]. Attraverso una tecnica di flusso di coscienza utilizzata con originalità e maestria vengono vivisezionati i conflitti dell’uomo maturo irresistibilmente attratto dalla giovinezza, ma anche quelli del borghese colto affascinato da ciò che è popolare. Laide infatti rappresenta non solo il proletariato, ma anche i miti degli anni Sessanta in cui le classi incolte si stanno gettando a capofitto (le auto veloci, i “night clubs”, il consumismo montante) di cui Buzzati-Dorigo avverte, come una sorta di fascino dell’orrido, tutta la brutale energia. [Wikipedia]

Yu Hua, Brothers, Feltrinelli

Due fratelli crescono in un mondo che suona loro incomprensibile a loro che sono bambini e intollerabile agli adulti: la cittadina di Liuzhen è sconvolta dalla Rivoluzione culturale. La follia non ha limiti, ha un colore, però, il rosso delle bandiere, delle spillette di Mao e del sangue. Yu Hua racconta una storia palpitante che sgretola l’idea grigia di collettività come una massa indistinta, inscenando una commedia tutta cinese e una tragedia umana disarmante. Brothers è un mondo che travolge e risucchia, dove l’orrore più osceno si stempera nella risata più liberatoria e le passioni che fanno grandi gli uomini coesistono con le loro piccolezze. Il ruggito grandioso dell’oceano di notte, il trionfo incontenibile della primavera, un uomo e una donna che si amano teneramente. Una pazza che corre nuda nella campagna, un professore ucciso a bastonate e un disgraziato che spia il didietro delle donne. E due bambini, di fronte a questo mondo indecifrabile, stanno a guardare con il moccio al naso.

Stefano Benni, Di tutte le ricchezze, Feltrinelli

Martin è un maturo professore e poeta che si è ritirato a vivere ai margini di un bosco: è una nuova stagione della vita, vissuta con consapevolezza e arricchita dai ricordi e dalle conversazioni che Martin intrattiene con il cane Ombra e con molti altri animali bizzarri e filosofi. In questa solitudine coltiva la sua passione di studioso per la poesia giocosa e per il Catena, un misterioso poeta locale morto in manicomio. Questa tranquillità, che nasconde però strani segreti, è turbata dall’arrivo di una coppia che viene a vivere in un casale vicino: un mercante d’arte in fuga dalla città e Michelle, la sua bellissima e biondissima compagna. L’apparizione di Michelle, simile a una donna conosciuta da Martin nel passato, gonfia di vento, pensieri e speranze i giorni del buon vecchio professore. Il ritmo del cuore e il ritmo della vita prendono una velocità imprevista. Una velocità che una sera, a una festa di paese, innesca il vortice di un fantastico giro di valzer. Leggende, sogni, canzoni, versi di un poeta che la tradizione vuole folle e suicida, telefonate attese, contattisti rock, cinghiali assassini, visite di colleghi inopportuni, comiche sorprese, goffi corteggiamenti e inattese tentazioni: tutto riempie di nuova linfa una stagione che si credeva conclusa, e che si riapre sul futuro come un’alba. Martin e tutti quelli che lo circondano sembrano chiusi in un bozzolo di misteri: si tratta di attendere la farfalla che ne uscirà.

Philippe Besson, E le altre sere verrai?, Guanda

Una donna e un uomo in un bar di Cape Cod. Lei indossa un abito rosso e sorseggia un Martini. Lui pulisce con cura il bancone. Sono Louise, autrice teatrale, e Ben, barman del Phillies. Louise non rinuncia da anni al suo cocktail in quel locale un po’ appartato dalla folla, Ben non si perde nessuna messa in scena delle pièce di lei. Ma è anche lo spettatore, discreto e intelligente, della vita e degli amori della donna. Conosce Norman, attore passionale e uomo sposato, e sa che è da lui che Louise sta attendendo una telefonata, un cenno. Ma quando si apre la porta e sulla soglia compare Stephen Townsend, ex di Louise, il Phillies si affolla dei ricordi di un grande amore finito. Ma è finito davvero?

Rosa candida, Ólafsdóttir Audur Ava, Einaudi

Lobbi ha ventidue anni quando accetta di prendersi cura di un leggendario roseto in un monastero del Nord Europa. E stata la madre, morta da poco in un incidente d’auto, a trasmettergli l’amore per la natura, i fiori e l’arte di accudirli, il giardinaggio. Cosi Lobbi decide di lasciare l’Islanda, un anziano padre perso dietro al quaderno di ricette della moglie, e un fratello gemello autistico. Lascia anche qualcun altro: Flòra Sòl, la figlia di sette mesi avuta dopo una sola notte d’amore (anzi, precisa lui, “un quinto di notte”) con Anna. Con sé Lobbi porta alcune piantine di una rara varietà di rose a otto petali, molto cara alla madre, la Rosa candida. Questi fiori saranno i silenziosi compagni di un viaggio avventuroso come solo i viaggi che ti cambiano la vita sanno essere. Ad accoglierlo al monastero c’è padre Thomas, un monaco cinefilo che con la sua saggezza e una sua personale “cine-terapia” saprà diradare le ombre dal cuore di Lobbi. Ma sarà soprattutto l’arrivo di Anna e Flòra Sòl in quell’angolo fatato di mondo a provocare i cambiamenti più profondi e imprevisti nell’animo del ragazzo. Perché, per la prima volta, Lobbi scopre in sé un desiderio nuovo, che non è solo amore per la figlia e attrazione per Anna: è il desiderio di una famiglia.

La corsa delle onde, Stiefvater Maggie, Rizzoli

Succede ogni autunno, sull’isola di Thisby. Dalle gelide acque dell’oceano si spingono a riva i cavalli d’acqua, creature affascinanti e crudeli che gli abitanti catturano per montarli nella Corsa dello Scorpione. Il vincitore guadagnerà fama e denaro, i meno fortunati incontreranno la morte. Ma qualcosa cambia quando alla gara si iscrive Kate Connolly, capelli rossi e tempra di ferro. Kate è determinata a correre con la sua cavalla Dove, sfidando usanze secolari che vogliono solo concorrenti maschi e nessun cavallo ordinario. Certo, non ha molte possibilità contro Scan Kendrick, diciannove anni, il favorito, esperto domatore di cavalli. Nessuno dei due è preparato a ciò che sta per succedere, perché quest’anno la Corsa dello Scorpione non sarà solo questione di gloria e denaro, ma di amore e destino.

GoodMooning!, Stefano Saldarelli, Phasar Edizioni

La missione spaziale che portò l’uomo sulla Luna nel luglio 1969 non fu la prima. Anche se di pochi mesi, fu preceduta da un’altra. Assolutamente top secret. Poiché la posta in gioco era altissima e gli imprevisti inimmaginabili, fu deciso di inviare alcuni volontari sulla Luna per preparare lo sbarco ufficiale.

Questo libro raccoglie i diari di missione del programma spaziale più segreto al mondo, oggi conosciuto grazie al contributo di alcuni testimoni chiave che hanno messo a rischio la loro vita per far luce sul caso di insabbiamento più importante della storia.
Questa missione fu battezzata GoodMooning! ed oggi voi conoscerete la verità. http://www.phasar.net/catalogo/libro/goodmooning

I cento fratelli, Donald Antrim, Minimum Fax

Immaginate un ibrido fra l’estetica dark di Tim Burton, la comicità provocatoria dei Monty Python, la scrittura pirotecnica dei maestri del postmoderno: il risultato è I cento fratelli, a detta di molti il miglior romanzo di Donald Antrim, autore americano inclassificabile e geniale, oggetto di dichiarata ammirazione da parte di coetanei illustri come Jonathan Franzen, David Foster Wallace e Jeffrey Eugenides, e insieme a loro lanciato dal New Yorker come uno dei «venti scrittori per il nuovo secolo». Nell’enorme biblioteca diroccata di un’antica villa, cento fratelli (diversi per età, professione, interessi, carattere, ma uniti da un’infinità di piccole perversioni e devianze psicologiche) si riuniscono per cenare insieme e ritrovare l’urna delle ceneri del padre, temporaneamente smarrita. In un claustrofobico tourde force, esilarante e tragico al tempo stesso, seguiamo le loro vicende dal tramonto all’alba, fra scambi di insulti, formarsi e sciogliersi di alleanze, incontri di football improvvisati, scricchiolii sui soffitti, dobermann scatenati e un tasso alcolico in crescita perenne, finché le tensioni familiari non si scioglieranno in una sublime e sanguinaria conclusione.

L’inumano, Massimiliano Parente, Mondadori

Di cosa parlerà il nuovo romanzo di Massimiliano Parente, ex biologo e ora odiatissimo scrittore, noto nell’ambiente giornalistico e nei salotti televisivi per le sentenze tranchant e l’insulto facile? Poco o nulla è trapelato, se non il titolo, “L’inumano”, e il fatto che i suoi capitoli ripercorreranno lo scandirsi delle ere cosmiche e geologiche. Eppure Kara Murnau, titolare senza scrupoli dell’omonima casa editrice, ha già deciso di farlo concorrere al Premio Strenna, e organizza una serie di incontri con i giurati, perché l’autore possa conquistarsene, nei modi più spregiudicati, il favore. Ma Parente – che nel frattempo sotto pseudonimo firma la saga di Giusi S., romanzetti pornotrash di infima categoria e grandi tirature, e che tra telefonate anonime e più o meno reali pedinamenti si sente incastrato nelle trame di un presunto complotto – di quel libro non ha ancora scritto una riga. Così quando si risveglia, nudo, con i polsi e le caviglie legati, all’interno di una stanza buia in cui viene esposto – e sottoposto – a continue atrocità, lo scrittore sa che è giunto il momento di raccontare una storia completamente nuova. Sicuro che, per il mondo esterno, “Massimiliano Parente” non esiste più, che nessuno verrà mai a cercarlo, sente che non c’è via d’uscita all’orrore in cui si è trasformata la sua quotidianità. Se non quella di lasciare che si faccia di lui un esperimento biologico, nel tentativo estremo di superare il concetto stesso di “umano”…

Solo, di Dasgupta Rana

Diviso in due movimenti, “Solo” racconta la vita e i sogni di Ulrich, un chimico bulgaro nato nella prima decade del Ventesimo secolo. Nel primo movimento Ulrich, ormai cieco e vecchissimo, chiuso in un anonimo appartamento di Sofia, si abbandona ai ricordi e rievoca la sua vita. Figlio di un ingegnere ferroviario, poco più che bambino, Ulrich ha due grandi passioni: il violino e la chimica. Negatagli la prima dal padre, parte per la Berlino di Einstein e Fritz Haber per approfondire la seconda. Ma i suoi studi sono interrotti quando la fortuna di famiglia si estingue e deve tornare a Sofia per aiutare i genitori. Non lascerà più la Bulgaria. Le ambizioni che gli rimangono sono seppellite prima dall’avvento del comunismo e poi da quello del capitalismo selvaggio. Una vita fallimentare. Ma avvicinandosi alla fine, Ulrich si rende conto di come le frustrazioni della sua esistenza siano state un terreno fertile per la creazione di una vita sognata. E sono questi sogni che compongono la volatile seconda parte del libro. Nel secondo movimento, in un rapido balzo dal passato al presente, da vite vissute a vite fantasticate, Dasgupta segue i figli immaginari di Ulrich, che, pur nati nel comunismo, si fanno strada in un mondo post comunista fatto di celebrità e violenza. Personaggi e moventi s’intrecciano con il ritmo del sogno dietro alle palpebre dell’anziano narratore che vede i suoi figli sognati, variazioni sul tema della sua vita, tentare di vivere come a lui non è riuscito.

Gli ebook di Musicaos.it

Su Marco Montanaro alla maniera di un noto giallista di quelli che vanno in tv


[Interno Studio. Sagome di scrittori sparsi nello studio. Sagoma di amici e conoscenti di Marco Montanaro in bianco e nero sullo sfondo. Sagoma di Marco Montanaro a colori in primo piano. Luci].

“Romanzi. Parole. Persone. Dietro i libri si nascondono persone, dietro i romanzi si nascondono autori, raccontatori di storie. Storie. La storia di Marco Montanaro è una di queste. Marco Montanaro nasce nel 1982, l’anno dei Mondiali, l’anno di Pertini, l’anno in cui frequentavo la seconda elementare e l’anno in cui ho ambientato buona parte del mio secondo romanzo, un anno magico che a pensarlo viene in mente il Salento di pomodori da spremere per fare la salsa, con le bottiglie bollenti avvolte in panni, dentro le tinozze di metallo, a bagnomaria. Ma Marco Montanaro, nato in provincia di Brindisi, non si interessa di bottiglie bollenti avvolte in panni, né di tinozze di metallo, a dire il vero Marco Montanaro si interessa di poco e conduce una vita molto simile a quella dei suoi coetanei, trascorrendo gli anni novanta e diventando maggiorenne proprio nel duemila. Eh già, perché nel duemila, l’anno del millenium bug, Marco Montanaro diventando maggiorenne inizia a prendere consapevolezza di sé, così vuole lo stato italiano, così vuole quella realtà – anche letteraria – nei confronti della quale Marco Montanaro, fino a quel giorno, non ha compiuto nessuna azione oltraggiosa.

“Fin qui tutto bene” è la frase che ci viene in mente, già, fin qui tutto bene, fino al giorno in cui Marco Montanaro non inizia a scrivere e pubblicare un po’ di racconti in giro. È l’inizio per lui, che d’ora in poi chiameremo l’autore, di un percorso iniziatico e iniziativo, che lo condurrà in luoghi ancora inesplorati. “Sono un ragazzo fortunato” (Lupo Editore/Coolibrì) è il titolo della sua prima raccolta di racconti, prima pubblicazione arrivata dopo una serie di altre pubblicazioni, alcune delle quali anche su questo canale. L’autore, che fino a quel momento aveva condotto una vita normale al riparo dall’esposizione episodica contro cui il libro lo avrebbe scaraventato, ebbene, l’autore compie un gesto di chiusura. Un gesto che ci aiuterà a capire ciò che accadrà nel seguito della nostra storia.”

[Spot pubblicitari. Spot di dado gelatinoso che si scioglie nella pentola. Spot di scheda telefonica promozione 2000 sms verso chi vuoi tu, autoricarica quando ti chiamano, navigazione su internet anche quando non c’è campo. Spot di fiction rai ambientanta subito dopo poco prima del boom economico, tra gli anni cinquanta e sessanta, nella quale un noto pasticciere troskista decide di intraprendere la carriera di scrittore. Fine intervallo spot 1].

“Dicevamo quindi del gesto inedito di Marco Montanaro. Ebbene, SURF, “Sono un ragazzo fortunato”, è il suo libro, intanto perché questo titolo. Molti di voi ricorderanno la canzone di Lorenzo Cherubini, aka Jovanotti, alla quale rimanda questo titolo. Ebbene, la citazione dell’autore è una citazione nella citazione che si riferisce al momento in cui, nel film “Aprile” di Nanni Moretti, il regista canta questo testo. Tenete questo particolare bene a mente perché risulterà importante nel seguito di questa storia. La storia di Marco Montanaro. L’autore dicevamo, uscito il suo libro, anziché presentarlo decide di compiere un viaggio, un lungo viaggio. Si reca in un negozio di articoli sportivi, uno di quei grandi negozi che sono vicini ai centri commerciali dei capoluoghi di provincia, e acquista tutto il necessario per il viaggio. Tutto ciò accade pochi anni fa, ci avviciniamo ai giorni nostri. L’autore nel suo viaggio incontra diverse persone, libri, musica, tanta musica. E poi un giorno ritorna. Ritorna sul suo libro, ritorna a una realtà abbastanza ostile, e qui fa affidamento su un particolare che in questa storia non avevamo ancora menzionato. Un particolare importante.

[Spot pubblicitari. Spot di crema per massaggi sessuali rilassanti acquistabile da chiunque in qualsiasi supermercato. Spot di ultimo libro di Federico Moccia, quello che quando entri in libreria il libraio per spiegarti di che cosa si tratta ti dice che si tratta di un ‘libro per adulti’, ovvero sia di un libro che Moccia ha ‘rivolto a un pubblico adulto’ al contrario dei precedenti rivolti ai ragazzini, e pensi che è una stronzata perché la cosa più bella di quando si era ragazzini era proprio il fatto di leggere libri rivolti a un pubblico adulto, come ad esempio “Le 120 Giornate di Sodoma di Sade”, senza nessuno che ti imponesse steccati nel gusto e nelle letture, allora quando il libraio ti dice, Moccia ha scritto un libro ‘per adulti’ tu nemmeno lo acquisti perché hai paura di trovare un fallo nella prima pagina, appena aperto, o una vulva, o qualcosa di simile. Spot che ti ricorda di pagare il canone Rai in tempo, operazione da eseguire quando siete allo stremo delle forze per tutti gli spot che avete visto. Fine Intervallo spot 2. Luci].

“Quindi, dicevamo, il Grunge. Il grunge è l’elemento che inquadra l’opera iniziale di questo autore, compreso i racconti successivi a SURF. In Italia, dopo l’uccisione per un attentato in volo di Enrico Mattei e dopo la strage del treno Italicus, non si è mai avuta una letteratura propriamente Grunge; e non si mai avuta una letteratura propriamente Grunge nemmeno dopo il ritrovamento dei diari di Moro, nella nota intercapedine. Anzi, negli anni novanta, per via della grande fascinazione che una pellicola come Pulp Fiction impose nei crani editoriali, la moda del “pulp” fu l’etichetta sotto cui si misero in evidenza diversi giovani autori. Una reclame incredibile, se si pensa che poco prima lo scouting di letteratura scritta da giovani si era arenato appena dopo le ricerche di Pier Vittorio Tondelli. Ecco, finita la stagione del pulp, scavalcammo il Grunge e ci trovammo nel duemila senza avere una Grunge Literature degna di questo nome. Una letteratura cioè prodotta dai nati negli anni settanta che ne avevano diciotto negli anni novanta. Tutto il resto è una malinconia strutturale che Marco Montanaro, e qui arriviamo a un punto saliente della vicenda, sa trasformare in arma contro l’appiattimento cerebrale di massa, imponendo al lettore la ‘partecipazione’. Già perché in momenti di condivisione virtuale due punto zero è difficile trovare autori che trovino l’umiltà sufficiente per staccarsi dal proprio libro come opera compiuta e comprendano che il proprio libro è una merce, non un feticcio, smettendo tuttavia di essere feticisti del proprio libro per diventare feticisti della merce. Insomma, in soldoni, per organizzarsi in modalità che permettano di vendere il proprio libro senza annoiare. Ma soprattutto, come nel caso di Marco Montanaro, per non annoiare e vendere”. Al termine della presentazione di Marco Montanaro resta un frammento di pagina strappata. Lo stesso che si può vedere riprodotto nella sequenza fotografica alle mie spalle. Questo frammento di “Sono un ragazzo fortunato”

[Spot pubblicitari. Spot del Governo che invita tutti quanti i cittadini a rimanere chiusi in casa, sprangando porte e finestre, perché una nuova generazione di autori, affamata, in delirio, senza alcun freno, è oramai decisa a conquistare il paese. Spot del Papa. Spot del noto cane Spot. Fine Intervallo spot 3. Luci]

“Non si vedeva un libro così viralmente impegnato e intriso di realtà dai tempi di “Comizi d’amore” di Pasolini o della “Vita agra” di Luciano Bianciardi; finalmente un autore che fa fare al dialetto brindisino il suo mestiere, quello di lingua, inesplorata, inattesa, deflagrante”. Questo giudizio comparso sul più noto quotidiano nazionale, Cronache dalla Sera, è riferito a “La passione” di Marco Montanaro, il suo secondo libro, di cui ci occuperemo in una delle prossime puntate di questa serie, dove vi mostreremo anche le immagini inedite riferite al ritrovamento de “Il corpo estraneo”. [Fine prima puntata]

“Mignotta” graphic novel di Giovanni Matteo, da un soggetto di Pier Paolo Pasolini. Disponibile su Amazon


È disponibile per il download da Amazon “Mignotta“, di Giovanni Matteo, graphic novel ispirata a un soggetto scritto per il cinema da Pier Paolo Pasolini e pubblicato nel volume “Alì dagli occhi azzurri” che raccoglie racconti, scritti sparsi, soggetti, redatti da Pier Paolo Pasolini nel periodo 1950-1965.
La postfazione dell’ebook è a cura di Luciano Pagano. Tutte le informazioni per il download qui. Si tratta del terzo ebook di musicaos, dopo “Il romanzo osceno di Fabio” e la guida “È facile smettere di scrivere se sai come farlo!“. Altre informazioni sugli ebook di musicaos qui.
Per informazioni o altro potete scrivere direttamente a lucianopagano[at]gmail[punto]com

La fiction, la merce, il reale, la vita vera.


La fiction, la merce, il reale, la vita vera.

Molti, almeno quelli di voi che ogni tanto accendono il televisore per seguire qualche trasmissione, si saranno accorti che da qualche tempo in qua, nei quiz a premi come nelle fiction, è stata inserita una dicitura che suona pressappoco così, “il programma contiene prodotti a uso commerciale”. Ciò significa che, ad esempio, il concorrente di un quiz, al fianco della sua postazione, ha una bottiglia d’acqua di una marca in particolare, oppure che in una fiction la protagonista utilizza una borsa di una marca determinata oppure tutte le auto sono di una marca piuttosto che un’altra. Ciò che un tempo poteva essere una coincidenza, in tempi di crisi, si trasforma in un’opportunità economica in più per gli sponsor. Fin qui tutto bene, direte voi. Non so per quale motivo questo pensiero, qualche giorno fa, ha scatenato una serie di reazioni a catena che si sono concretizzate con quanto segue. Stavo vedendo una puntata della solita fiction, a ora di pranzo, quando l’occhio mi è caduto sul logo di una ditta.
In quel momento, la prima cosa che ho pensato non è stata “ecco, una pubblicità”, ma, ecco “un’intromissione della realtà nella fiction”. In effetti gli oggetti pubblicizzati, in quanto facenti richiamo esplicito a oggetti reali, merci della cosiddetta “vita vera”, rompono quel patto per cui quando osserviamo una fiction sappiamo di avere oltrepassato una porta con su scritto “sospensione della credulità” e realtà a essa annesse. Non si tratta di semplice product placement, si tratta di un ritorno forzato della realtà all’interno della logica della finzione. Facciamo un passo indietro. Tutti hanno presente le pubblicità in cui il giovanotto di turno lava i panni e li stende, per poi cantare le lodi del detersivo utilizzato. In uno spot del genere assistiamo alla ripresentazione di una scena di vita reale asservita allo scopo di veicolare un prodotto pubblicitario.
Ciò che avviene invece con i prodotti pubblicitari messi nelle fiction, pur essendo simile, in un certo senso ‘restituisce’ il prodotto dall’ambito del reale a quello dell’immaginario, stabilendo che ciò che vedete “è vero” potete trovarlo “anche fuori” dalla cornice della fiction. Dopo questa premessa, arrivo al punto della questione, ovvero sia al fatto, consistente, che nella vita vera, quella senza telecamere, i clienti sono già abituati a essere veicolo di un messaggio commerciale. Nell’attimo stesso in cui indosso un paio di scarpe di una determinata marca o guido un’auto, in un certo senso sono veicolo di un messaggio; questo lo sapevamo già. Quello che non sapevamo è che anche l’immaginazione, per forza di cose e per colpa della penuria di denaro, potesse essere invasa dagli sponsor.

La frontiera ulteriore del travaso del reale falsificato nella finzione sono le fiction come quella che a cui ho assistito ieri sera, ambientata nella solita fabbrica di automobili del Nord, a Torino, dove gli operai vengono ripresi mentre lavorano alle lamiere etc. etc. Ecco: quando le fabbriche in Italia saranno tutte chiuse non verranno dismesse, continueranno a essere utilizzate come set per girare le fiction ambientate nell’epoca in cui c’erano ancora le fabbriche.

Giuliano Sangiorgi in Puglia per presentare “Lo spacciatore di carne” (Einaudi)


Lo spacciatore di carneOggi, 15 OTTOBRE 2012,presso la libreria Feltrinelli di Bari di via Melo 119, alle ore 17.00, Giuliano Sangiorgi, voce e autore, dei Negramaro, presenterà il suo esordio letterario, “Lo spacciatore di carne” edito da Einaudi e già entrato nella classifica dei libri più venduti in Italia.
Ne parleranno con l’autore Rosella Santoro e Antonella Gaeta. L’attore e regista Mimmo Mongelli leggerà brani del romanzo.

“Lo spacciatore di carne” di Giuliano Sangiorgi, oltre al plauso dei lettori ha iniziato a ricevere buoni giudizi anche da parte della critica; Renato Barilli, individuando le influenze con il passato prossimo (vedi alla voce Ballestra) e le novità nell’utilizzo di una lingua ‘materica’, che si fa corpo, è il primo ad aver riconosciuto, nella prova del giovane autore, i segni di un lavoro che di sicuro, nel prossimo futuro, potrà portare buoni frutti nel campo della letteratura.

L’appuntamento si rinnoverà il giorno dopo, Martedì 16 Ottobre, a Lecce (evento organizzato da Liberrima), dove il romanzo verrà presentato presso il Cinema Multisala Massimo. In questa occasione, a leggere brani del libro, sarà l’attore Ippolito Chiarello.

§

“Lo spacciatore di carne” (Einaudi), Giuliano Sangiorgi

Non c’è legame più forte del sangue. E il sangue, la carne, nella vita di Edoardo sono molto più che una metafora: sono la materia di cui è fatto il suo passato e quella a cui deve tornare. Aveva cinque anni, «cinque anni di niente» il giorno in cui ha visto suo padre sgozzare un agnello. Da allora il sangue non ha smesso di scorrere nel mattatoio, «la carne-officina» dove il padre macellaio (un tempo il suo gigante buono, adesso un estraneo) attende con pazienza che prenda la laurea prima di raggiungerlo e mettersi all’opera accanto a lui. Perché quello è il destino che la sorte – una sorte incarnata in famiglia – gli ha assegnato, contro cui Edoardo può al limite provare a ribellarsi nascondendo gli agnellini sotto al suo letto, illudendosi che giocare a proteggerli possa salvarli davvero dal loro futuro segnato, e non semplicemente rimandarlo. Dopotutto rimandare, nascondersi, è quello che fa anche lui: studente fuorisede a Bologna, è lontano da casa da due anni ma ha dato solo un esame, il più facile. Vive in un appartamento di via Zamboni con due ragazzi, in uno spazio a compartimenti stagni, dove l’unico contatto con gli altri è dato dagli odori e dal vuoto lasciato dai coinquilini quando vanno in facoltà. La sua è una vita in stallo, «un presente parcheggiato». Finché, sul treno per Bologna, incontra Stella. Un faccia bianchissima da bambima, vent’anni sulla pelle e mille negli occhi. Stella è bellissima, misteriosa, bacia e morde con la stessa passione, e Edoardo se ne innamora in un istante. È l’inizio di un rapporto simbiotico, un triangolo travolgente e pericolosissimo che ha come terzo vertice la droga. Per procurarsela (per lui, ma soprattutto per Stella) Edoardo rivende i tagli pregiatissimi di carne che suo padre gli spedisce orgoglioso ogni settimana: la carne in cambio della droga, la droga in cambio di Stella. Ma ciò che inizia nel sangue non può che finire nel sangue. Quando Edoardo capisce che Stella l’ha abbandonato, quella carne che alimentava il suo legame comincia a trasformarsi in ossessione. In un mondo ormai allucinato dove tutto appare possibile, la carne diventa denaro contante e l’amore diventa incontrollabile follia. L’abilità di paroliere dimostrata da Giuliano Sangiorgi, leader dei Negramaro, nei pezzi per il suo gruppo, l’ha trasformato in uno degli autori più richiesti dai grandi interpreti italiani (ha scritto tra gli altri per Jovanotti, Andrea Bocelli, Malika Ayane, Elisa, Patty Pravo, Adriano Celentano); oggi, il suo esordio letterario mantiene intatta la potenza di una delle voci più forti della nuova scena italiana. Diviso in 35 capitoli brevi e fulminanti come canzoni, Lo spacciatore di carne getta una sguardo straniato sulla vita studentesca, superandone i cliché e portando invece alla luce gli aspetti più ancestrali. Sangue, destino, amore e follia sono gli archetipi su cui Sangiorgi costruisce questo romanzo che sembra ispirarsi al mito, che gioca con la lingua e la scrittura e ci regala il ritratto inedito di una generazione in lotta con il futuro. Un libro appassionato e viscerale, come il rock migliore.”

(fonte Repubblica.it – Bari)

Esce L’ANTITEMPO, satira a colori. Monti candidato alla Premiership. “Era ora”


L’ANTITEMPO”, una cosa è certa, ce n’è bisogno. Se ne accorgono i mercati che alla notizia saltano in aria, seppure per poco, se ne accorge perfino Mario Monti che avanza l’ipotesi di candidarsi alla Premiership del paese, basta andare in America un giorno e ti vengono i pensieri. Già dall’editoriale mi viene voglia di consigliarvi la lettura di questa rivista satirica, “è tempo dell’Antitempo”, ho letto su un muro.
Non so se nelle librerie della città dove vivo arriverà, ovvero sia a Lecce; se non arriva peccato, bisogna chiamare qualche amico da fuori, magari aiutandosi con i social network tipo facebook, twitter, antony’s chain; in fondo ne vale la pena.

Tanto per cominciare sempre nell’editoriale facciamo i conti con una delle bestie più nere degli ultimi mesi, l’ottimismo; chi lo ha visto dice che ha assunto una forma terribile, tale da far scappare perfino i più temerari, a breve le strade saranno percorse da tir di vati inneggianti la fine del mondo; epperò, se questa è la fine, mica è peggio dello svolgimento, anzitempo. E io quindi lo leggo, anzi, lo mando giù tutto d’un fiato, come una dolce euchessina, dolce al momento, amara dopo il tempo.
Poi c’è Grègori, con il grammelot sinofirenzico, da fare invidia perfino a Renzi. A proposito, anche lui questa notte è stato gettato da Mario Monti nello scompiglio più leninista, “Che fare?”

E poi c’è la sezione dedicata ai libri della casa editrice “Giulio È in Audi”, delle vere chicche, roba da marketing editoriale al vetriolo, roba da comprare il plexiglass di plastica 21×29,7 e appenderle in casa, magari con il poster Boteriano; non si capisce, queste scoperte È in Audiane, fatte così bene, copertina, quarta, descrizione, estratto, se sono fuoriuscite dalla cartellina di qualche redattore della casa “È in Audi”, oppure sono fatte così ad arte perché questi di Èinaudi Seconda Fila sono bravi almeno quanto la prima fila e soprattutto non ti fanno mancare nulla, arte pura; anzi, la prima cosa che mi colpisce de “L’ANTITEMPO” o dell’Antitempo che dir si possa è proprio l’azzeratempo insito nel mio ricordatoio. Non provavo un’emozione simile da quando uscì Cuore, con la “C”, e non parlo di Edmondo De Amicis; ed è così, con Ehi Now Dì, e col 3d, ti prendo in giro quelli lì, gli scrittorì, radical scì. Un caldo strano, quello che accompagna l’uscita de “L’ANTITEMPO”, che oltre a essere contro il tempo per via dei contenuti sopraffini lo è anche perché affronta il problema di questo tempo senza sesto nel quale viviamo, e nel quale a fine-settembre-praticamente-ottobre possiamo andare ancora in giro in manichine, quindi ci sta bene la rubrica dal mare, il fumetto, le poppe, i coiti underwater, le zinne sotto al sole perfino la lettera del CattoPioBagnante; insomma!

Qua non si sono scorte nemmeno venti pagine che già c’è materia per rivoltar cervelli come guanti; a parte che 6 numeri a 25 euro è proprio poco; ma se arriva a Lecce…poi ti giri è c’è l’inserto enigmistico, da panico; anzi, forse non tutti sanno che…com’è che incominciai la prima guerra, come…è; non si fanno mancare proprio nulla i lettori del deleuziano Anti-tempo, rivista rizomatica che al prezzo di 5€ da molto, molto più di ciò che promette.
Pensate che c’è chi alla stessa cifra vi da i Pensieri di Biagio Pascal o Uno, nessuno, centomila di Louis Pirandello; classici, è vero, ma la verve che si respira ne “L’ANTITEMPO” è qualcosa d’altro; storie d’artista narrate a fumetti, storia a fumetti narrate da artisti, mescolate in doppiapagina per ottenere “Essi infilano” (Klacid), “Paul Niente” (Strolippo&Stan), La Ballata del ‘13-’18 (Grègori), Ora e sempre (Akab).

Il fatto è che questo è linguaggio puro, roba che ti anima, certe cose ti fanno pensare che alcuni autori, prima di mettersi a scrivere romanzi o poesie, dovrebbero leggere L’ANTITEMPO, non fosse altro che per accorgersi che le vere idee sono avanti, stanno altrove, corrono rapide, e se i tuoi pensieri sono chiusi in gabbia, perché sguinzagliarli ad un lettore? Chiudete i cassetti.

C’era bisogno di una sezione dedicata agli annunci cerco offro lavoro, data la grande quantità di lavoro sparso in giro per la penisola? La redazione, con molta probabilità, immaginava l’enorme numero di persone che già durante la preparazione del numero si sarebbero trovate a spasso, ad. es. giunte regionali, aspiranti premier, liste laterali. Coglierà questa timida nuances la Ministra Fornero, il Monti Bis, e il Ter e il Quater? Penseranno al lavoro come volontà e rappresentazione?
E poi eccoti alla fine una cosa che proprio non potevo farmi mancare, da buon autore de “Il romanzo osceno di Fabio”, un po’ di oscenità, in cauda, come venenum.

Per iniziare, in questo mio post precedente potete trovare gli appuntamenti in cui L’ANTITEMPO viene presentato:

https://lucianopagano.wordpress.com/2012/09/27/dal-28-settembre-2012-arriva-in-libreria-il-numero-4-de-lantitempo-rivista-satirica-a-fumetti/

Per continuare: L’ANTITEMPO 4 è tirato in numero mille esemplari non numerati e tutti uguali, ciò significa che manco è nato e già ce n’è penuria, affrettatevi dunque per poter dire un giorno, io c’ero.

Per qualsiasi informazione supplementare, non esitate a scrivere a ufficiostampa@ o per telefono: Andrea Coccia 348 72 92 696 e Vito Manolo Roma 340 2938514.

Inferno, VI – Letto da Simone Giorgino


Al tornar de la mente, che si chiuse
dinanzi a la pietà d’i due cognati,
che di trestizia tutto mi confuse,

novi tormenti e novi tormentati
mi veggio intorno, come ch’io mi mova
e ch’io mi volga, e come che io guati.

Io sono al terzo cerchio, de la piova
etterna, maladetta, fredda e greve;
regola e qualità mai non l’è nova.

Grandine grossa, acqua tinta e neve
per l’aere tenebroso si riversa;
pute la terra che questo riceve.

Cerbero, fiera crudele e diversa,
con tre gole caninamente latra
sovra la gente che quivi è sommersa.

Dante, Inferno – letto da Simone Giorgino, disponibile in formato MP3 su Musicaos.it

“How did you find this magazine?”. A column written for McSweeney’s contest


How did you find this magazine?
by Luciano Pagano

After having passed the 150,000 hits on my blog I decided to write this story. Once I have started writing this story I wondered why. Why should a young and promising Italian writer under forty years have decided to compete with one of his stories to collaborate on a magazine overseas? I found an answer in the questionnaire that I have attached below.

How did you find this magazine?

A) A friend told you about the magazine.

Impossible.

The only two friends that I know that have read some of the stories present on this magazine were not present in my office when I read the link about this contest on Twitter. Because of my job I spend a lot of time behind a computer and yet I can not write the amount of writing that I would like. I read a lot more than I write, unlike most writers I know.
However only one of two friends who know the magazine, making a total of fifty percent of my friends, has an account on Twitter but this friend of mine can not write fluently in English.
This fact means that even if my friend who knows this magazine and that has a Twitter account he had read the announcement of this competition, it would not be able to suggest to take part in it. I would not wish this answer could be inferred that I have a few friends, because I have a facebook page that has over 1700 fans.
How can a writer who has almost two thousand fans on his personal page on facebook does not even have a friend?

B) You saw an advertisement of the magazine on television.

Impossible.

In the state where I live, Italy, the transition from analogue to digital terrestrial television system has taken several years, at least five.
In recent years the small region where I live, better known as the “heel of Italy,” has not yet been reached by the terrestrial digital television system.
I own a satellite television system, but even on this type of system, tuning into the channels of the United States of America, I was able to follow television programs in which the magazine is advertised. Besides, I’m not used to watching much television. I work ten hours during the day and during this time I am aware of losing the best part of television programming. For example, I can never see the programs that are broadcast at noon, where teams of chefs make the race to see who cooks the best dish. To compensate for the lack of television I usually legally download and store a large number of movies on my computer. But I do not have enough time to see all those movies. The only thing I can earn and consume without getting behind in the purchases were the books.

C) Someone told you about the magazine during a séance.

Impossible.

A longtime friend, one day, he invited me into his home. For many years he had a problem to solve and did not know how. Without asking my friend what was the nature of the problem I joined him at his home on the day that we set to meet. The problem was simple: her grandmother before she died had promised that once arrived in the Kingdom of Heaven would appear in a dream to give him lottery numbers. In Italy we are very superstitious, everyone plays the lottery, several times during the week, at least three more times in the month, at least ten. Many young writers are frequent lottery players. The dedication of the Italians for the lottery is so morbid that anyone who comes to live in Italy, even if it comes from a distant country like China, it is immediately infected with this passion for the game.

You have to imagine that yesterday when I went to bet a dollar on my favorite lottery, before me, in the same betting center, a clerk in a china shop was pointing couple of hundred dollars on the same lottery. On the same numbers that I was betting. Despite the system of the lottery wants to make me believe that the clerk had two hundred times more likely to win than for me, I prefer to think that the chances of becoming a millionaire, for both was the same. If my friend wins the lottery for example, would finally be able to buy a restaurant and fulfill the dream of his life. In that restaurant could take a young writer as a waiter.

Finally I arrived at my friend’s house. Despite his grandmother had died a few years the old lady still had not appeared in a dream to my friend. The times in which the woman had appeared in a dream to my friend, had not communicated any number. My friend was frustrated. My friend convinced me to join him at his home, where he, along with a specialist in spiritualism, had organized a seance. When I entered the room where the seance was held, I felt a little embarrassed because among the people present there was my ex-girlfriend. “You just sit there, outside the circle,” said my friend, “take note of all the numbers that are mentioned during the session.” A daunting task. What happened is unbelievable. Indeed, during the seance, the spirit of my grandma’s friend is materialized in the room. The old woman had a large book in his hands. It was not a copy of the magazine. The spirit began to read aloud the numbers of the pages of the book. My friend was excited, finally would have bet on the numbers that he had heard from the spirit of his grandmother and became rich. However my friend before the seance had forgotten to tell me that his grandmother was Belarusian. I never studied in Belarus. I know the French, English, I speak German and understand Spanish. Nothing to do with Belarus. The impression I had was that the spirit of the grandmother said, twice the number 12. Unfortunately I was not able to understand all the other numbers.

D) You have received a brochure of the magazine in your mailbox.

Impossible.

I know that the magazine does not send mail at home, unless it is an issue of the magazine purchased with a regular subscription. Most of my mail is usually delivered can be divided into two categories. The first category includes the weekly letters that my girlfriend receives from the cosmetics shop in the mall. In those letters are proposed to my girlfriend big rebates on all products. Products that cost up to twenty euros the previous week are offered at twenty cents. Every time my girlfriend searches inside the mailbox and recognizes one of the letters of the cosmetics shop his eyes shine with a bright light, a light that does not happen to see me often and I remember the light that was in his eyes in the days of the first week we met.
All other letters are delivered to my house, that is the letters that belong to the second category, are payment notices or notices of payment due.

E) the Internet.

Probably yes.

The Internet is the source of knowledge for an increasingly large amount of people who know nothing, or who know little, or who would like to know everything. I admit that one of the most direct ways in which I was able to read the contents of the magazine was read the stories present on the website of the magazine. I am also a follower of the internet profile of the journal found on Twitter and then, during a summer night, I read about this contest.

At this point, after having explained how I came to the attention of the magazine, it is necessary for me to describe what happened today.

During the afternoon I and a friend of mine had an important business meeting. Me and my colleague have founded a company that deals with facilitating the exchange of news and information between large companies and the public. What we needed after a year of activity, it was a good contact with new companies. After several studies we finally managed to get a good contact with an important man that we would receive and that we could address to other companies just as important. We were both received by the director of a company in which we have made an interesting business proposition.

In our country, Italy, you are considered a young author until you reach the age of fifty years. Similarly, you are considered a young entrepreneur when you have not yet reached the same age. Italy is not a country for young people. Whatever you do in the field of industry and art in our country, if you have less than fifty years, you’re still a young man.
This argument works with everything except that with the crimes. If you kill someone and you have thirty years in the newspaper the next morning it will write: “The murderess is a man of thirty years”. However, if you are the victim, that is, if you have been killed and you have thirty years in the newspaper the morning after the title will be “murdered a boy of thirty years.” So in our country, if you’ve just passed the fifty years, from one day to the other, you come suddenly considered a captain of industry. Even without industry. It is as if maturity comes into your life without notice, and you wake up one morning and you’re old. You’ve just graduated, you got your first job, you’ve married and had two children. You’ve
finally bought a decent car, a house and boom! Fifty years you’re a captain!
In the meeting of work me and my friend had to convince the entrepreneur that we would have received that was worth investing the money on our own ideas. Most guys our age, instead of running this business risk, with the summer temperature of forty degrees there in the office, they would rather go to the beach to sunbathe.
After an hour spent talking business, the entrepreneur at one point he turned to the window and spoke these words: “You two, I like you, you look like two good fellows, we will do great business together!”

After the meeting I went home and started thinking about “everything”.
The choices I made in life are right? Why I decided that I would never teach in a school despite my degree with honors in philosophy? Why I left my last job and I preferred to stay in this city with my girlfriend and my dog rather than moving to a new city and earn more money, to live without a dog without a girlfriend?
Every time that my life has reached a point where I feel that you can not go without changing anything important in me then I stop and think “everything”.
On the radio today I happened to hear the words of our Prime Minister in a telephone would have said about these words “I’d go out of this shitty country.”

I love this country. And I love writing. That’s why I decided that despite all the African heat, where I spent the month of August would be useful to stay at home to write this story. I wrote this story for the good of my country. Every writer should always have great objectives in front of him. I asked for a hint to my dog, I always ask for a hint to my dog before embarking on something new. My dog’s name is Siro and is a bit ‘as if it were my I-Ching staff. My dog is a cross between a jack russell and another. I say that my dog is a cross instead of white because it is brindle. When my dog was born on google I sought help in the search field enter “jack russell tiggered” to see if it came out a few pictures belonging to a dog like mine. No response. So I asked my dog if he thought I’d better write a story for the magazine. If the dog had been standing since it meant that I would have done well. If my dog was gone, then I would have stripped and instead of writing I had a shower. The heat was unbearable. “I must write this story?”. My dog remained motionless. “Are you sure, I have to write this story?”. My dog stood still again. “I have to write even if I never wrote anything for this magazine, even though I’m Italian, even if our prime minister suggests implicitly to all the inhabitants of our country to escape?”. The dog remained motionless and barked. If the dog barked means that he wanted to give some strength to his suggestions. The suggestion was: “Write idiot.”
So I turned on the computer and started writing.

[Pubblico qui il racconto “How did you find this magazine?” con cui ho partecipato al Column Contest indetto dalla rivista McSweeney’s. Per la traduzione ringrazio Mr Thanks]

§

Chiunque voglia contribuire a Musicaos.it, con Racconti, Recensioni, Suggerimenti, O-Altro-Tipo-Di-Materiale-Che-Sai-Tu, può seguire le semplicissime istruzioni contenute nella pagina dei contatti]

“Ketty 1” – Un racconto inedito di Serena Corrao. “Lo sbaglio” di Flavia Piccinni e altri utili suggerimenti


“KETTY 1”
di Serena Corrao

Se qualcuno crede che i pomeriggi di città offrano solo grigie camminate tra le auto fumiganti, percorsi di guerra tra i passeggini intralcianti, l’insulso andare su e giù per i negozi col foglietto della spesa, non si è mai imbattuto in Ketty La Farfalla.
Ketty, monella, furia erotica per le strade della città, fa vacillare le certezze quotidiane che si tornerà a casa con la noia di sempre, stanchi dei supermercati affollati e dei semafori rossi. Lei, invece, nel far west del suo eros, trama agguati ai passanti ignari; li coglie al lazo soffocante delle sue oscene prodezze, cavallerizza indomabile e 17 anni di impenitente impudenza.
Esce sempre con un gonnellino leggero, ampio e cortissimo, nero a fiori rossi, che si adagia su quella linea dei glutei che spezza subito l’ovvio dei costumi quotidiani, dell’ethos civico, delle certezze assodate che nessuno mai mostrerebbe il sedere nudo su un autobus, fingendo che la gonna s’impigli mentre si china, con aria pietosa e innocente, a prender la moneta caduta alla vecchietta.
E invece lei lo fa.
Indomita, percorre le strade della città, violentando una sensibilità urbana regolata sul pane quotidiano del buon costume e della monotonia.
Dovete vederla; dovete seguirla, quando cerca i luoghi dove mettere a segno i suoi colpi. Quando esce dai bar poggiando la tazzina del caffè sul bancone e svoltando, sotto gli occhi di tutti, con tale ardore che il gonnellino si attorciglia per un istante intorno ai fianchi, lasciando vedere la linea orizzontale dei glutei. E gli avventori avvampano, lamentando che il caffè è tiepido.
Bisogna alzare il passo per non perderla, quando rincorre il suo piacere, di quel tipo che l’accende perché è fugace, è impertinente, è estraneo, dura un attimo, senza intimità: eros metropolitano in corsa.
Tocca prendere il tram e poi l’autobus e poi il metro, mentre percorre la città spruzzando come una gatta i suoi odori, pronta all’attacco, bambina cattiva e cattiva cittadina, sempre nuda sotto il gonnellino.
Qualcuno vorrà lasciarla perdere, stanco di quella lezione di filosofia, di sfida al buon senso civico, alla morale cittadina del cappotto grigio, lungo, delle camicette abbottonate fino al collo.
Ma forse la incrocerà di nuovo, quell’impertinente, maratoneta odorante di sesso che, infaticabile, fa suo ogni angolo di città.
Magari domani, magari su un bus; eccola lì, lì sul bus, Ketty, la Farfalla, gli occhi persi tra i palazzi, assorti in quelle geometrie metropolitane, il naso all’insù colpito dai mille odori della gente che si affolla nel mezzo. Ma che succede?
Un vecchio sale alla fermata 38. Il corpo robusto e pesante, la giacca scura e demodé, il ventre straripante sul bottone del pantalone grigio-verde. Le mani col peso della senilità e in esse un ombrello ben chiuso e affusolato. Il volto avido di gioventù, di tette, di culi, di belle ragazze. E Ketty lo sa. Legge nell’animo, legge negli occhi, vigile come una bestiola che odora il tuo desiderio. Non sfuggi.
Il vecchio prende posto dietro di lei e nel giro di due fermate l’autobus si ritrova quasi vuoto.
Ketty La Farfalla, libera, impudente, sentendosi gli occhi addosso, sulla spina dorsale, sulle natiche pressate, si sfila il gonnellino da sotto al sedere e lo lascia pendere dal seggiolino. Il vuoto tra lo schienale e il sedile fa come da cornice ai suoi bei glutei velati dalla stoffa che traballa agli orli per il movimento del bus. Ha preso il volo, Ketty La Farfalla, Ketty-impertinente, lolita metropolitana e pubblica.
Il vecchio regge l’ombrello-fuso tra le mani e prende a usarne la punta per sfiorare il gonnellino che gli penzola davanti agli occhi. Lo sposta di qua e di là, lo fa dondolare fino a ché, preso dal gioco, dà un impulso più forte all’asta e sfiora le natiche di Ketty.
Ketty regge lo sguardo fisso in avanti. Deve giocare e lottare, fingendo quella preziosa indifferenza che permette di non irrompere nella distrazione degli altri attirando gli sguardi. Ma in cuor suo si delizia e gode di quel tiro andato a segno. Gode di un gioco rischioso e senza regole, che a volte può morire se il caos del mezzo fa mancare la palla lanciata, se confonde l’indizio, che rotola via tra il frastuono degli utenti, le borse della spesa, le donne gravide che ti chiedono il posto, l’improvviso salire del controllore.
Altra fermata, altri passanti scendono, calori che si allontanano, aliti che si disperdono, lasciando nella rumorosa vettura il respiro di una più grande libertà.
Ketty si guarda intorno: due uomini assorti sui loro giornali, una donna in piedi che parla al conducente, un’altra traballante sui tacchi e in procinto di lasciare la vettura. Bene. Sente la superficie liscia del sedile pressare sulle cosce e le natiche nude. Sente la vulva palpitare, reclamare libertà. Con la noncuranza di una bambina che siede con le gambe aperte non per malizia, ma perché ancora ignara della buona educazione, si porta le mani sui fianchi e raccoglie il gonnellino tra le dita, alzandolo come un sipario. Poi inarca la schiena e sporge il sedere indietro, il più possibile fuori dal sedile, per quanto glielo consenta il vuoto nello schienale, finché parte della vulva sente l’aria che circola penetrando dai finestrini.
Puttanella, farfalla, birichina. Cortigiana tra il rombo dei motori e lo smog di città. Cosa fai?
Il vecchio impugna l’asta di legno lussuriosa e prende a sfiorare la carne di Ketty in mezzo alla linea dei glutei. La punta dell’ombrello le tamburella la vulva, le tenta il sedere. Il fuso si bagna, l’autobus si arresta. Ketty ha sfidato la presenza dell’ultimo grappolo di gente e ha vinto. Si precipitano tutti giù, abbandonando la vettura sgomenti; i due uomini sudati e coi cazzi all’insù.
Nella solitudine del bus vacuo e oscillante, gorgogliante sull’asfalto sconnesso, Ketty e il vecchio godono di ogni buca della strada che fa sussultare il mezzo e scuotere il sedere impertinente, ora infilzato, ora sfuggito. Ketty vola libera, in un gioco spudorato, farfalla che cerca i suoi fiori avventizi in una prossimità fatua, senza conoscenza, senza intimità.
Sono questi i suoi giochi di bambina, di peccatrice irredenta che ruba piaceri in corsa sugli autobus di città.
Cosa fai? Puttanella, pubblica, pubblicana. Innocente e oscena. Che provochi, fai avvampare, inorridire. Che fai smarrire i passanti, colpiti in un agguato di città, dolce e osceno, scuotendoli dai grigiori quotidiani con un breve sogno di impudicizia vergognosa, pericolosa e fresca.

§

Serena Corrao, assegnista in Filosofia Morale presso l’Università del Salento è l’autrice di questo racconto inedito, tratto dalla sua prima raccolta. È il secondo racconto che pubblichiamo dopo le ‘vacanze’ estive, il primo, di Luigi Salerno, potete trovarlo qui, https://lucianopagano.wordpress.com/2011/09/09/sera-del-giorno-decimo-un-racconto-di-luigi-salerno/ (Sera del giorno decimo). Questi sono i link delle pagine per chi vuole inviare materiale in lettura (https://lucianopagano.wordpress.com/contatti/, https://lucianopagano.wordpress.com/about-2/).

Gli ultimi libri di cui potete leggere recensioni sono: “L’interdetto” di Luca Canali, “Bambina e la fatina computerina” di Virginia Defendi, “Malafede” di Maurizio Cotrona, “Vangelo del cavolo” di Edoardo Monti e “L’isola dei voli arcobaleno” di Sabrina Minetti.

§

“Lo sbaglio” (Rizzoli), il secondo romanzo di Flavia Piccinni.

Nel Best Off 2006, edito da Minimim Fax, la giovane scrittrice Flavia Piccinni esordiva con un suo racconto uscito su Musicaos.it. In seguito pubblicò il suo bell’esordio, il romanzo “Adesso tienimi” (Fazi Editore), del quale ho scritto qui. Il secondo romanzo di Flavia Piccinni è da pochi giorni in libreria, si intitola “Lo sbaglio” ed è edito da Rizzoli. Vi consigliamo di leggere questo romanzo, qui di seguito la descrizione della vicenda attorno alla quale ruota la storia.

“Caterina gioca a scacchi e studia farmacia. È una studentessa mediocre ma come giocatrice sa sempre condurre i propri avversari dove vuole, fino a sbagliare la mossa decisiva. Davanti alle sessantaquattro caselle Caterina ha imparato a perdere ogni insicurezza, a rimandare le decisioni sgradevoli e ad accettare le partite della vita in cui per gli altri, i familiari il fidanzato Riccardo, lei è solo una pedina. Sa bene, Caterina, che una logica spietata impedisce alle cose di cambiare, e che il suo destino è già scritto: nonostante ora sia a un passo dalle Olimpiadi, sua madre ha deciso che dovrà essere una farmacista, nella migliore tradizione di famiglia. Quando però una variabile imprevista irrompe nel suo mondo, tutto sembra andare in frantumi e a nulla servono gli sforzi di nonna Ines, che è arrivata da Taranto illudendosi di poter incollare cocci. Così, sullo sfondo di una Lucca assonnata e infelice, impietoso specchio della provincia italiana di oggi, Caterina capirà che forse una via d’uscita c’è ma che, proprio come il suo idolo Paul Morphy, l’ultimo scacchista romantico, dovrà osare e rischiare tutto contro ogni logica, senza farsi dominare dalla paura. Perché a volte la vita stessa è una crudele partita a scacchi in cui anche la mossa apparentemente più insignificante può rivelarsi fatale.”

§

http://twitter.com/lucianopagano

“Straniero sarai tu. Quando il semaforo non basta”. Un racconto


Straniero sarai tu.
Quando il semaforo non basta.
Un racconto

“Io sono il numero zero
facce diffidenti quando passa lo straniero”
Sangue Misto

Caro lettore, mi preme rassicurarti, prima ancora che tu prosegua nella lettura di questo racconto, che qui non si parlerà di viabilità, di domeniche in bicicletta, di filobus e/o eventuale procrastinazione del servizio di trasporto pubblico, e argomenti simili. Il semaforo, in questo caso, è inteso come luogo di concentrazione del ‘lavoro diffuso’, elemento reso stabile da una precarietà oramai storicizzata e soprattutto denigrata dalle stesse parole del Premier e dalle sue recenti affermazioni sul Decreto Sviluppo. Silvio Berlusconi, in più di un’intervista concessa alle sue reti personali, ovvero sia “Rete 4” e “Rai Uno”, ha ribadito i risultati ‘forti’ del suo governo, che poi sono quelli di facciata più visibili dal punto di vista mediatico ma smentiti nell’attimo stesso in cui ne viene data notizia. Il leit-motiv che ci ha accompagnato nel periodo delle elezioni nei Comuni sarà lo stesso tormentone che ci accompagnerà fino alle prossime Politiche, ovvero sia il trittico “Spazzatura” – “Terremoto” – “Come Siamo Usciti a Testa Alta dalla Crisi”.
È per questo motivo, caro Lettore, che mi sembrava giusto riportare una testimonianza, qualcosa di piccolo di fronte a tanto dispiegamento di mezzi informativi, e lo farò a partire dal semaforo. Il semaforo in questione è quello davanti al quale ho modo di passare ogni giorno, per più di una volta al giorno.

C’è un rumeno, sempre lo stesso da almeno cinque anni, che chiede i soldi in cambio di una lavata di vetro. Un giorno, passando vicino a una cabina del telefono, mi sento chiamare “Amico, amico!”, quando un rumeno ti chiama ‘amico’ è come se un uomo di colore, nell’Harlem degli anni sessanta, ti chiamasse ‘fratello’, stesso effetto semantico, “vieni, ci serve un favore”. Mi avvicino alla cabina rispondendomi nella testa alla domanda “ma chi può utilizzare, nel duemila, una cabina telefonica?”, uno che deve fare un numero verde in mezzo alla strada, ecco chi. Pietro (questo il nome tradotto in salentino) mi mostra la ricevuta di un bonifico estero effettuato con un corriere espresso. In pratica gli hanno invertito il nome con il cognome e quindi, la persona dall’altra parte del globo, in Romania, non può riscuotere la cifra. Pietro mi chiede di fare il numero verde, ascoltare, seguire le istruzioni e segnalare il problema all’Ufficio Clienti. La mia esperienza nei call-center mi fa subito capire che Pietro si trova alle prese con un problema degno dei tempi moderni, ovvero sia l’incomunicabilità tra uomo e operatore. Prendo il telefono, faccio tre tentativi (una buona media per essere un presupposto esperto), riesco finalmente a parlare con una signorina, risolvo il problema. Da qualche parte in Romania la sorella di Pietro, oggi, riceverà 100 euro. Caro Lettore, devi immaginare che quando stavo chiuso dentro la cabina, lì fuori, insieme a Pietro, c’erano altri due suoi amici; se fossi stato più suggestionabile avrei creduto che non mi avrebbero fatto uscire senza una soluzione, se tu stesso li avessi incontrati da soli magari avresti potuto credere che non erano tipi raccomandabili, ma questo è l’effetto che ti fa vedere alcuni telegiornali, quelli che dipingono l’altro come nemico; io non l’ho pensato, anche se uno dei due aveva la chiostra dei denti completamente d’oro. Da quel giorno sono amico di Pietro. Gli ho risolto un problema senza mandarlo a quel paese temendo chissà cosa, l’ho trattato come una persona e non come un lavavetri, quindi ha deciso che siamo amici. Quando arrivo con la macchina davanti al semaforo lui mi dice sempre ‘ciao amico, ti saluto e ti stringo la mano’, a Pasqua mi ha fatto gli auguri.

Caro lettore, dovevo farti questa premessa per raggiungere più semplicemente la conclusione, avvenuta stamattina, quando, fermo con l’auto al semaforo, scambio il mio solito saluto con Pietro. Lui si avvicina, mi stringe la mano, gli dico “Apposto?”, lui mi risponde “facciamo finta di dire apposto! è diventato più complicato, troppe tasse da pagare, il semaforo non basta più”.
Ecco, in quel momento mi sarebbe piaciuto tanto che, a quel semaforo, facesse la sua comparsa San Silvio B., patrono delle emergenze risolte in televisione e rimaste tali nel mondo reale, con le sue rassicurazioni di avere esteso la cassa integrazione anche a fasce dei lavoratori che precedentemente non ne usufruivano; lo stesso San Silvio B. che si prepara a benedire i risultati del recente turno elettorale come un vero e proprio ‘test di governo’, mentre la Confindustria e la Marcegaglia, appoggiata da tutti i precedenti presidenti della Confindustria, continua nell’affermare che l’Italia è un paese frenato, e che il Governo è uno dei freni più forti al rilancio dell’economia. Altro che Decreto Sviluppo. Cosa ne pensa del Ministro Tremonti il nostro Pietro, lavavetri che paga le tasse e nel frattempo deve anche sorbirsi le prediche di una quindicina di commercianti limitrofi che a turno gli sparlano alle spalle recitando la litania del “e perché non torni nel tuo paese, e come fai a camparti con l’elemosina chissà cosa fai di losco, e quanti siete, e se vi contassimo a tutti i semafori, tirate su un milione di euro al giorno”. Mi chiedo, ma c’è stato qualcuno che ha mai chiesto a Pietro se pagava le tasse, prima di dirsi – nel pregiudizio – che è venuto a fregarci i soldi nell’illegalità?

Ecco, caro Lettore, quello che mi premeva dirti con questo racconto è: mentre in questi dieci anni ‘davi addosso’ allo straniero, in tutte le salse e su tutti i canali e con tutte le proposte di leggi allucinanti, le persone che fomentavano il tuo odio erano le stesse che contribuivano a impoverirti al punto da raggiungere una soglia di sussistenza minima, in un paese dove il tasso di disoccupazione giovanile è del 28,2% e dove ci sono fasce della popolazione che non sono MAI state assunte e quindi non hanno MAI, tecnicamente e realmente, lavorato e quindi non sapranno MAI cosa vuol dire essere tutelati. Ma noi continuiamo a dare addosso allo straniero. C’è una canzone dei Sangue Misto, il gruppo cui apparteneva Neffa, che si intitolava “Lo straniero” (1994), ascoltarla oggi e vedere che così poco è cambiato fa venire la pelle d’oca, “Io quando andavo a scuola da bambino/la gente nella classe mi chiamava marocchino,/terrone “Muto! Torna un po’ da dove sei venuto!”

Questo racconto, caro Lettore, è dedicato a Pietro che paga le tasse su quella che tu chiami elemosina, nel paese del lavoro sommerso, ma anche a tutte le famiglie del Nord Italia che alla sera cenano con latte e biscotti perché non hanno più soldi per fare la spesa. Grazie di averci preso in considerazione, Lettore, le faremo sapere al più presto.

pubblicato su “Il Paese Nuovo”
di Domenica 15 Maggio 2011

http://twitter.com/lucianopagano

Post della domenica. “Col bene che ti voglio” (2008) ripubblicazione


Da sette settimane circa, sul portale Scribd.com, sto ripubblicando episodio dopo episodio il mio secondo romanzo, “Col bene che ti voglio“. Il romanzo è stato pubblicato a puntate nel 2008 sul quotidiano “Il Paese Nuovo” (dall’8 maggio 2008 al 12 giugno 2008). Per una serie di motivi e coincidenze la pubblicazione si arrestò al sesto episodio, il che vuol dire che dal settimo episodio online il romanzo è edito, per la prima volta, in rete.

L’indirizzo per leggere tutti gli episodi è questo 
http://www.scribd.com/my_document_collections/2964163
.

Fino a oggi, la somma dei download per i primi 7 capitoli è stata di 862 scaricamenti.

Ogni sabato farò l’upload di un episodio, fino a completare l’upload dei 16 episodi.

Questo è il link del post da cui, l’8 maggio 2008, segnalavo l’inizio della pubblicazione di “Col bene che ti voglio” https://lucianopagano.wordpress.com/2008/05/08/col-bene-che-ti-voglio-da-oggi-in-edicola/

Ecco la trama del romanzo.

“Col bene che ti voglio” (2008) – Luciano Pagano

4 Luglio 1998. Andrea vive a Lecce, frequenta la facoltà di Filosofia. Prossimo alla laurea, trascorre le sue giornate oziando nell’abulia, dimentico del fatto che deve terminare la stesura della sua tesi. Il giovane divide il suo appartamento con M., il suo amico che è partito da due giorni per trascorrere le vacanze in India, lasciando Andrea solo nell’appartamento, con la mansione di innaffiare le piante. Andrea una mattina riceve una visita, si tratta di Marina, un’amica del suo coinquilino che credeva di trovarlo in casa. Marina è una ragazza attraente, spigliata, disinibita, risponde all’identikit delle amiche di M., in parole povere è il tipo di ragazza con cui Andrea non ha mai legato. Sempre quel sabato mattina fa irruzione nell’appartamento Pesaro, l’ex-marito di Marina. Pesaro ha pedinato la donna, è furioso, quando entra in casa e vede la sua ex insieme a Andrea, viene preso dalla furia, fracassa lo stereo con un pugno e viene cacciato da Marina appena prima che possa fare altri danni. Marina resta a pranzo con Andrea, che resta affascinato dalla donna. La sera stessa Andrea andrà a Torre Sant’Andrea dove c’è un concerto, per cercare sollievo dal caldo opprimente e per trascorrere un sabato sera assieme agli amici. Nella pizzeria del locale incontrerà nuovamente Marina, una felice coincidenza. Andrea trascorrerà la serata insieme alla ragazza, si ubriacherà a tal punto da sentirsi male. Marina lo accompagnerà a casa in auto, trascorrendo la notte insieme a lui, i due faranno l’amore. Al mattino dopo Andrea si sveglierà nel letto da solo, nel pomeriggio camminerà senza meta nella città, indeciso se chiamare o meno Marina al telefono. Quando arriverà a casa troverà la ragazza ad attenderlo nel suo appartamento, Marina possedeva le chiavi, lasciatele da M. I due fanno nuovamente l’amore. Andrea vorrebbe restare con la ragazza che tuttavia deve tornare a casa, c’è qualcosa che la preoccupa, Andrea non le chiede nulla perché non vuole sembrare invadente, intuisce che il problema, se c’è, è dovuto al rapporto con il suo ex-marito, Pesaro.

Al mattino dopo Andrea si alza presto e decide di andare al mare, entra in un bar per fare colazione e apprende sfogliando un giornale che Marina è stata trovata morta, probabilmente uccisa, in casa sua. Da quel momento i giorni di Andrea cambiano. Tanto per cominciare fa ingresso nella sua vita la strana figura del Commissario Tini, un personaggio che non va tanto per il sottile e che lo attende al suo ritorno a casa per condurlo in Questura e interrogarlo. Ma non è tutto, a quanto pare dietro la morte di Marina c’è molto di più, Andrea scopre infatti che Marina è figlia dell’Onorevole Pilieri, un parlamentare e allo stesso tempo il proprietario a Lecce di una grossa ditta di costruzioni, che sta per candidarsi come Sindaco della città. Andrea sarà costretto suo malgrado a scoprire i segreti di Marina, grazie all’aiuto del Commissario Tini, che intende sfruttare quei due giorni che il ragazzo ha trascorso con Marina per mettere in trappola Pesaro, indiziato da subito per l’omicidio della ragazza. Tuttavia le cose non sono come sembrano, dietro l’omicidio di Marina c’è molto di più, Andrea, Pesaro e lo stesso Commissario Tini si riveleranno pedine di un gioco più grande.

Questo è l’elenco dei pezzi che compongono la colonna sonora del romanzo:

Luglio, Riccardo Del Turco, 1968
Pink Floyd, I wish you were here (live)
Radiohead, Paranoid Android
Bob Marley, One love
The Police – Every breathe you take
Beautiful (soap) – Main track
Rolling Stones – Paint it black
Depeche Mode – It’s not good

Extraterrestre, vattene via (da Los Angeles)


Extraterrestre, vattene via (da Los Angeles).
Quando gli alieni non decidono più

“12 Agosto 2011. Abbiamo un’unica certezza. Il mondo è in guerra.” Basta questo per riportare indietro le lancette dell’orologio a una data mitica nell’epoca delle narrazioni contemporanee, mi riferisco a quel 30 ottobre 1938, giorno in cui un uomo di nome Orson Welles, davanti a un microfono, incominciò a leggere “La guerra dei mondi”, romanzo del suo quasi omonimo H. G. Wells, gettando nel panico quei radio-ascoltatori che credettero di stare ascoltando un radiogiornale.
Da quel momento il modo migliore di presentare l’invasione aliena agli occhi e alle orecchie stupite degli spettatori è stato farlo nel modo più semplice, ovvero sia scegliendo la via del realismo.

È quello che si evince fin dalle prime immagini di “World Invasion: Battle Los Angeles” (diretto da Jonathan Liebesman), film che con questo titolo fa già immaginare una serie di film dedicati alla resistenza contro gli alieni ambientata nelle diverse città degli Stati Uniti d’America.
Lo stratagemma narrativo dell’incipit utilizzato da “World Invasion” è lo stesso del recente “Skyline”, altra pellicola nella quale si narra dell’invasione della terra e del tentativo di sterminio del genere umano da parte degli alieni. Si inizia entrando ‘in medias res’ presentando la situazione di catastrofe già in corso, e dopo qualche minuto si riporta il contatore indietro di ventiquattro ore, facendo vivere allo spettatore ciò che è successo il giorno prima dell’attacco. È una regola non scritta dei nuovi film apocalittici e di azione, quella per cui lo spettatore, una volta al suo posto, vuole subito prendere parte alla catastrofe per poi capire come ci si è arrivati. Questo forse accade perché a causa delle molte distrazioni domestiche, quali possono essere libri, partite a scacchi, riunioni di circoli ricreativi dove si commentano i classici della letteratura latina e affini, lo spettatore esige di essere risarcito subito di quanto ha pagato al botteghino. È un principio che i registi di questo tipo di pellicole conoscono bene.

Ci sono i soldati che giunti al termine del loro percorso di addestramento vivono pensando che da un momento all’altro potranno essere impiegati in quale missione speciale, Iraq, Afghanistan, Medio Oriente, Libia. C’è il soldato che si congeda un giorno prima dell’attacco, giunto al termine della sua carriera, dopo avere sacrificato all’arma tutta una vita. I marinai in questione festeggiano di sera, lanciando palline da golf in un campo deserto, con la musica di sottofondo, in compagnia di belle ragazze, anche esse pericolose appartenenti all’arma dei marines. Ci troviamo di fronte alla classica scena da fine-corso-college-nel-tipico-campus-USA, per intenderci quella che precede di poco l’evento cardine della vicenda. Il Sergente Nantz nasconde un’ombra nel suo passato. Il tempo stringe, le notizie dei telegiornali si accavallano, i cieli nello spazio sono solcati da strani oggetti. Un fenomeno che normalmente si sarebbe dovuto verificare in diversi mesi avviene rapidamente, uno sciame di meteoriti si avvicina al nostro pianeta.

La scena in cui tutto si svolge è il campo di addestramento di Pendelton, dove i marines devono prepararsi all’evacuazione della costa ovest per l’arrivo dei primi meteoriti su Los Angeles. Il Sergente Nantz ha deciso di abbandonare l’arma proprio nel giorno che precede lo scoppio dell’emergenza, circondato da una brutta fama che gli deriva dal fatto che i suoi compagni sono morti nella sua ultima missione, forse per causa sua, così dicono le voci che girano sul suo conto. Alla partenza della missione è subito chiaro che non si tratta di meteoriti, ciò che sta attraversando i cieli di tutto il mondo per atterrare nell’acqua della West Coast sono astronavi aliene. È iniziato il conto alla rovescia per l’invasione del mondo.

La prima missione rivela fin da subito le difficoltà che avranno gli umani ad affrontare i soldati alieni sparatutto, che sembrano avere un unico punto debole, ovvero sia il fatto di muoversi a terra e su due gambe, per quanto meccaniche, ma di non essere supportati da mezzi aerei. Per quanto forti gli alieni sembrano essere vulnerabili all’attacco dei marines, se questi restano uniti in gruppo. Finché non accade che, giunti sul luogo del primo obiettivo da evacuare, i marines si imbattono nei primi alieni dotati di supporto aereo. La cosa che salta subito all’occhio è il realismo delle riprese di una città, Los Angeles, rasa completamente al suolo. Ciò che sta avvenendo sotto gli occhi di tutti è una colonizzazione in prima regola, dove l’interesse alieno è impossessarsi di tutte le risorse del nostro pianeta sterminando ogni abitante. A quanto pare il pianeta terra è uno dei pochi che nell’universo dispone di risorse d’acqua allo stato liquido e l’acqua è il carburante delle astronavi aliene. Le squadre hanno 3 ore per evacuare tutta la costa prima che venga rasa al suolo dai bombardamenti a tappeto, quando arriva l’ora attesa non accade nulla. La contraerea è stata abbattuta, la base militare distrutta. Un plotone di marines capeggiato proprio dal famigerato Nantz si trova a essere l’unico fronte di resistenza. Come andrà a finire potrà saperlo soltanto chi vedrà interamente le quasi due (rapidissime) ore di questa pellicola.

“World Invasion” è di certo migliore e meglio girato rispetto al più brutto e recente Skyline, uscito da poco più di tre mesi e già dimenticato per via del messaggio distruttivo e molto poco edificante circa la sorte degli umani. Con ciò che accade nel mondo reale del non-filmico l’ultima cosa con cui mi va di fare i conti è un’umanità che non riesce a fronteggiare un attacco extraterrestre. Il Sergente Nantz è l’equivalente contemporaneo di John Wayne, l’uomo che sacrifica la sua vita intera al dovere, fino all’ultimo. Alla fine resta il motto “Ritirata? Al diavolo. Al diavolo cosa? Al diavolo la ritirata, un marine non si ritira mai”.
La cosa più triste invece, è notare che il tipo di missioni e l’addestramento che vengono rappresentati sullo schermo, malgrado siano atti a fronteggiare una minaccia aliena di proporzioni immani, cerchino di restituire il sogno che una truppa di marines, in poco meno di due giorni e mezzo, riesca in ciò dove più di centomila soldati nel deserto del Medio Oriente, e senza extraterrestri come nemici, hanno fallito.

http://twitter.com/lucianopagano

articolo pubblicato sul quotidiano “Il Paese Nuovo” di oggi

Un Papa per chi è stufo dei “Papi”


“Habemus Papam”, l’ultima pellicola del regista Nanni Moretti, da qualche giorno nelle sale, è a mio parere uno dei risultati meglio riusciti del regista. Lo dico a scanso di equivoci anteponendo le parole “a mio parere”, al giudizio della critica e a tutto ciò che già in questi giorni sta nascendo in ambito cattolico sotto forma di prime critiche nei confronti di questa pellicola. Quale il perché di questa affermazione? Tanto per cominciare prima della visione partivo dalla piccola delusione a seguito de “Il caimano” (2006), il film incentrato sulla figura del premier Silvio Berlusconi. Prima ancora che la realtà oltrepassasse la fantasia (Rubygate etc. etc.), di quel film, comunque un bel film ‘morettiano’, non mi era piaciuto l’incastro narrativo dei diversi nuclei presenti nella storia e in particolare come si passava da una fase iniziale tutta fatta di preparativi per un film ‘definitivo’ da allestire a opera del produttore Silvio Orlando in conflitto ‘costruttivo’ con la giovane regista, interpretata dalla bravissima Jasmine Trinca, a una fase in cui il finale mi sembrava troppo ‘bruciato’ date le aspettative, e nel quale il finale, seppure altamente rivelatore, lasciava con un senso di impotenza narrativa prima ancora che di impotenza descrittiva, in poche parole, amaro in bocca. In “Habemus Papam” si ha proprio ciò che ci si aspettava dalla visione de “Il Caimano”, ovvero sia vedere la realtà cambiata, stravolta, immaginata, reinventata. Ciò che Nanni Moretti non era riuscito a realizzare con una pellicola su Silvio Berlusconi (molto più difficile sarebbe girarne una ora, forse) riesce invece con un film d’invenzione che parla della breve storia di un papa eletto immediatamente dopo la morte di Giovanni Paolo II.
Il Pontefice viene assalito dai dubbi fin dal primo sentore di dovere essere lui, l’eletto. Raccontare la pellicola, dove non c’è un solo punto della sceneggiatura che sappia di scontato o nemmeno gratuito, sarebbe un peccato.

Molti si sarebbero attesi la descrizione di un pontefice-macchietta, caratterizzato dall’essere l’uomo sbagliato nel momento sbagliato. Quello che capiremo soltanto quando l’ultima scena della pellicola si sarà consumata è che forse, nel dramma umano di questa umanità, la figura impersonata da Michel Piccoli è niente meno che un uomo giusto nel momento giusto, a essere sbagliata è l’aspettativa di un mondo che non potendo più attendere né sperare in una redenzione afideistica, si affida all’elezione di un leader maximo. E se l’”Habemus Papam” di Moretti fosse una metafora filmica atta a descrivere il meccanismo dell’esigenza di leader, innescato da Silvio Berlusconi, e contagioso pure per la sinistra? E se il regista avesse scelto un soggetto, un tema, un tempo e una vicenda ‘blindati’, per parlare d’altro?

Si potrebbe quasi dire che Nanni Moretti, dopo avere previsto e descritto ne “Il caimano” i germi di tutto ciò che negli anni successivi, nonostante il Governo, avrebbe decretato il decadimento del “Papi”, sia passato a descrivere ‘criticamente’ – e senza criticare, il nucleo fondamentale della nostra cultura, ovvero sia la forte unione tra Stato e Chiesa. Proprio nell’anno del 150° anniversario dell’Unità d’Italia uno dei nostri registi più apprezzati all’estero ci ricorda del nostro conflitto storico con il Cattolicesimo, la Religione e Dio, conflitto vissuto molto più interiormente di quanto non sia dato di immaginare. Si paventa quasi l’ombra di quel “Porno-Teo-Kolossal”, ultima opera alla quale lavorava Pasolini, contemporanea a ‘Petrolio’ e alle ‘Salò o le 120 giornate di Sodoma’. Segno che per un regista dello spessore di Moretti il confronto con il tema trattato in “Habemus Papam” rappresenta una tappa cruciale, anche perché a prescindere che si tratti di un Papa, quello della ‘successione’ è un tema ricorrente di questi tempi e importantissimo, basta fare qualche nome (Berlusconi, Fidel Castro, Gheddafi etc.) per immaginare tutte le tematiche relative alla successione e alla ‘sudditanza’ psicologica da leader, fenomeno di deriva molto psicoanalitica e molto poco democratica. Ecco perché Nanni Moretti, come ne “La stanza del figlio” e come in altre pellicole, vedi “Sogni d’oro”, torna a fare lo ‘psicoanalista’, è il personaggio che nella contemporaneità, come un tempo solo gli dei dell’Odissea, domina e allo stesso tempo fa da supervisore alle psicologie, ai caratteri e alle anime di tutti i personaggi.

C’è uno scambio di battute nella pellicola, quello in cui si descrive la posizione del Pontefice nella gerarchia ecclesiastica, laddove si dice che il Papa è il ‘primo’ fedele, ma che è anche l’ultimo. Nel rappresentare sua Santità come un uomo, con i suoi drammi e con le sue titubanze, Nanni Moretti fa un favore anche ai fedeli, innalzando loro stessi a ruolo di ‘primi’. Lo psicanalista impersonato da Moretti non è un credente, non importa, quel che importa è che la Chiesa, in questi giorni che seguono immediatamente l’inizio della proiezione, anziché scagliarsi contro una pellicola per affermare la sua primazia su ogni dubbio ‘umano’ che potrebbe investire la ‘carica’, rischia di fare un autogol. Ciò di cui dovremmo essere curiosi, come fedeli, dovrebbe essere molto di più un altro quesito, ovvero sia “Che cosa pensa, di questa pellicola, Joseph Ratzinger?”.

Fornire allo spettatore un’apertura al dubbio umano, laddove il mondo richiede certezze per essere rassicurato. Dare al lettore certezze in un campo dove il dubbio, la ricerca, l’approfondimento empirico e le leggi fisiche sovrastano la nostra capacità decisionale diventando problemi morali. Questi sono i due estremi delle riflessione che scaturiscono dalla visione di un film, “Habemus Papam” pellicola del regista Nanni Moretti in questi giorni nelle sale, e dalla lettura di “Scienza e verità” (Pensa Multimedia), libro che raccoglie le encicliche dedicate alla scienza da Giovanni Paolo II e che assume un ruolo particolare proprio in questo breve lasso di tempo che ci separa dalla fatidica data del 1° Maggio 2011, giorno in cui Giovanni Paolo II verrà beatificato. Perfino il fatto che un Pontefice venga beatificato, dovrebbe essere oggetto di riflessione da parte di credenti e non credenti, in quanto con questo contesto un uomo viene innalzato agli onori degli altari, con un processo – potremmo dire – ‘transumano’.

Mentre “Habemus Papam” ci presenta un papa dubbioso, questa raccolta di discorsi e lettere di Giovanni Paolo II ai rappresentanti delle più importanti istituzioni e accademie scientifiche del nostro tempo ci restituisce il pensiero consapevole di un pontefice che è stato ‘cardinale’ nel suo ruolo di trait d’union tra epoca moderna e epoca contemporanea. Grazie a lui infatti il dibattito sulla sul rapporto tra scienza, filosofia e morale è potuto divenire tale, e non si è fossilizzato in un’esacerbazione di posizioni a senso unico da parte della Chiesa, che ha, nel suo pontificato, ritrattato e rivisto alcune posizioni oltranziste dal punto di vista storico, basti pensare all’episodio di Galileo Galilei. Lo studio e l’approfondimento del creato da parte della scienza non vanno viste come la numerazione di una serie di cause che minerebbero l’esistenza di Dio, anzi “La scienza contemporanea, la vostra, permette di scoprire un mondo molto più meraviglioso, ed essa ci rinvia ancor più fortemente al Creatore, alla sua saggezza, alla sua potenza, al suo mistero, ed al mistero dell’uomo al quale Dio ha donato questo potere di decifrare ciò che esiste prima di lui”. Tutto rimanda alla gloria e alla potenza del Signore che si dispiega nel creato, sosteneva Giovanni Paolo II, e ben venga che l’uomo possa scoprire gli infinitesimi componenti della materia, siano essi atomi, leptoni, quark: tutto ciò non fa che ribadire la complessità e la bellazza della creazione. Lo stesso dicasi dell’atteggiamento di positività della Chiesa (cfr. “Gaudium et Spes”) nei confronti dei miglioramenti che la scienza apporta di continuo nella nostra vita quotidiana. Ecco perché questo libro “Scienza e Verità” (Pensa Multimedia,Giovanni Paolo II, introduzione a cura di Mario Castellana, in appendice scritti di Arcangelo Rossi e Demetrio Ria, Pensa Multimedia, pp.196, € 14,00, 9788882327910), curato da Mario Castellana, Docente Epistemologia e di Filosofia presso l’Università del Salento, e che si avvale delle riflessioni di Arcangelo Rossi e Demetrio Ria, presenta in un unico volume quella che potremmo definire l’”avanguardia” del pensiero della Chiesa circa il suo rapporto con la scienza e gli scienziati. Non mancano le sorprese, nella lettura, anche per chi più scetticamente crede nell’immobilità dell’istituzione cattolica.

Concludo suggerendo che la visione della pellicola “Habemus Papam”, così come la lettura di “Scienza e Verità”, sono capaci di porre lo spettatore, così come il lettore, di fronte ai limiti della propria coscienza nei confronti del sacro, elemento dal cui rapporto non possiamo prescindere nella vita di ogni giorno, a prescindere che siamo credenti oppure no.

http://twitter.com/lucianopagano

pubblicato sul quotidiano “Il Paese Nuovo” di oggi mercoledì 20 aprile 2011

Per un’arte a carte scoperte. “Bluff Point” di Massimiliano Manieri. Il 31 Marzo 2011 a Perugia


“Per un’arte a carte scoperte”
su “Bluff Point” di Massimiliano Manieri

La terza performance di Massimiliano Manieri di cui mi occupo su Musicaos.it (dopo “Plink” e “L’inizio delle trasmissioni”), si intitola “Bluff Point”, potrà essere vissuta la prossima volta giovedì 31 marzo 2011 presso la ROCCA PAOLINA SALA “EX BOOK SHOP”, a Perugia, nell’ambito di un’interessante manifestazione curata da Alessandro Turco, “SalentinUmbria. Pietra nella pietra: Suggestioni dal Tempo”. Il Salento incontra l’Umbria.

Massimiliano Manieri, presenterà “Bluff Point”, definita programmaticamente come “un cubo contiene un abitante che interagisce con l’esterno, quindi col visitatore, solo attraverso un foro attraverso cui passa il braccio dell’abitante interno al cubo. Al visitatore è permesso interagire tattilmente con la mano dell’abitante rinchiuso, ma anche di parlare attraverso la seta che ricopre il cubo”.

Esiste una menzogna messa in circolazione da diversi millenni secondo la quale l’arte incorpora un processo di condivisione con il quale l’artista cerca di esondare all’esterno, verso un ipotetico mondo, qualcosa che è al suo interno. “Bluff Point”, di Massimiliano Manieri, colpisce direttamente al cuore di questa antica certezza. Una braccio bianco è l’unica cosa che fuoriesce dal buco praticato in un drappo rosso. Il gesto di tendere una mano è forse il gesto storicamente più fraterno, sotto il sole. Come potremmo intendere questo gesto se non con il tendere una mano al prossimo, tendere una mano al nemico in segno di riappacificazione? Questa mano bianca è la stessa che si tende come in un trucco, porgendo una carta che potrebbe contenere il prossimo bluff, il bluff della fratellanza e insieme a esso il bluff che vorrebbe l’uno amico dell’altro.

Per questa volta Manieri rinuncia alla totalità del suo corpo trafitto o del suo corpo scagliato sul suolo, come aveva fatto in precedenti performance, per concentrarsi sul messaggio. Il linguaggio non è in fondo una protesi del nostro essere che comunica? Quindi perché non ridurre tutto il nostro corpo a una sola parte? Con parsimonia di mezzi e concentrandosi ancora di più sul messaggio Massimiliano Manieri astrae il corpo dal luogo della performance per ridurlo a protesi organica di braccio che comunica. Quel che ne risulta è una sinèddoche esistenziale irredimibile. Non c’è più senso nel cercare una verità in un arto che non comunica oltre il gesto; eppure, se riflettiamo sul senso di questa performance, non è forse il linguaggio dei gesti quello che più ci caratterizza, così forte da essere accompagnato (parlo per noi italiani – volenti e nolenti) da una gestualità così marcata? Al di là della proposta stelarchiana di protesi meccanica (anche questa possibilmente messa in ridicolo dalla ‘semplicità’ anestetica e priva dell’elemento dolorifico) il braccio di Manieri non intende farsi portatore di un messaggio bionico, il corpo-oggetto che si dà è tutto lì, nell’essenza di quel qualcosa che viene nascosto, sicuramente un uomo, sicuramente un beffardo, di certo un giocatore astuto che sa quale carta porgere per suscitare la riflessione o il riso dello scherzo. Il richiamo al colore rosso può significare alcune delle riflessioni che si celano al di là della performance.

Le domande e le risposte, per una volta, non sono sullo stesso piano. Il ‘rosso’ di Massimiliano Manieri, ad esempio, è un segnale o una scusa? Ecco quindi spiegato uno dei motivi dell’importanza della ricerca di questo performer: non dobbiamo chiedere all’artista il senso della performance, ma è la performance, forse, che deve stillare in noi il desiderio e il moto di approfondimento del nostro senso di spettatori. Tanto è vero che perfino chi volesse trovare un filo rosso dovrebbe scontrarsi proprio con questo colore, così presente in questa come in altre sue opere.

Un “Bluff Point” che funge da ‘check point’ per le nostre illusioni, dove l’artista rappresenta come sempre se stesso nell’atto triplice di essere-artista, essere-opera e essere-artista che rappresenta se stesso e il suo rapporto con il mondo dell’opera d’arte; chiuso all’interno di una gabbia, velato da un rosso che lo nasconde per lasciare libero di agire soltanto un braccio dipinto di bianco. Questo braccio comunica con l’esterno grazie al senso e alle carte da gioco. “Uno scandalo che dura da secoli”, questa frase accompagnava nel retro della copertina il capolavoro di Elsa Morante, “La Storia”. Uno scandalo millenario concentrato nei pochi anni a cavallo della Seconda Guerra e del Dopoguerra. Lo stesso arco di tempo millenario che si traduce in questo cubo rosso, dove lo scandalo dell’arte di Massimiliano Manieri e della sua ripresentazione che non rappresenta riesce a mettere in difficoltà anche i critici e gli spettatori più saccenti. Il bluff della comunicazione e del suo cortocircuito – qui oggi, altrove sempre – sono compiuti.

Luciano Pagano

Questo slideshow richiede JavaScript.


Progetto BLUFF POINT – Scheda Tecnica:

L’installazione consiste in un cubo delle dimensioni di 2 mt. in ogni direzione.
Il cubo contiene un abitante che interagisce con l’esterno, quindi col visitatore, solo attraverso un foro attraverso cui passa il braccio dell’abitante interno al cubo.
Al visitatore è permesso interagire tattilmente con la mano dell’abitante rinchiuso, ma anche di parlare attraverso la seta che ricopre il cubo.
La voce dell’abitante è microfonata ed amplificata dall’interno.
Chiaro che le presenze non rivelate lasciano il dialogo sospeso all’interno di un concetto di “incontro tra sconosciuti” che tale rimarrà…
Compito dell’abitante del cubo è tirare fuori dal visitatore la voglia di parlare liberamente del proprio “io”
La componente teatrale dell’installazione non concede comunque spazio a cliché, sicché ogni visitatore porta con sé le proprie problematiche, i personali segreti, che volendo confesserà, viceversa tra i due si instaurerà un semplice rapporto di ascolto che tocca i semplici cassetti che il visitatore vuole toccare ed aprire…
Intorno al cubo sono disseminati oggetti surreali e simbolici che rendono la scena una specie di territorio di sogno che vorrebbe toccare corde legate a ricordi, rimandi a fanciullezze mai del tutto svilite.
Si accede all’installazione uno per volta, ed i due personaggi, una volta entrati in contatto, sono isolati dal resto del luogo, in una reale possibilità di intimo dialogo.
La durata media di ogni singolo incontro varia dai tre ai sei minuti, tempo sufficiente per accorgersi di che livello assumerà l’approccio e liberare i gradi di confidenza voluti.
All’interno del luogo che contiene il Bluff Point viene diffusa musica molto rilassante che immerge ulteriolmente lo spazio in una atmosfera di assoluto distacco dal resto.
Naturalmente, non essendoci condizioni dettate, ognuno, nel dialogo, a seconda del livello di profondità intrapreso, scava nell’altro ciò che l’altro concede, ma il risultato è, nella media, intimo e soffuso, molto più raccolto delle possibilità naturalmente offerte dagli schemi quotidiani fatti di diffidenze legate a delusioni, amarezze.
All’interno del BLUFF POINT non si deve dimostrare nulla, non avendo aspettative mirate, ci si libera e ci si confida, in un semplice momento vuotato da zavorre…

[Se spesso lo sguardo altrui ci precipita in un maelstrom personale spalancato da quegli stessi infiniti che, attraverso il buco della pupilla, ci inondano e ci stramazzano, si provi a pensare a come l’assenza di quegli stessi occhi possa raggelare.
Un’indagine nei propri meandri quotidiani, guidati solo da una voce al di là di una tenda rossa, dall’inquietante forma di un cubo, e da un braccio lattiginoso che segna il cammino della nostra autoanalisi a tentoni: questo il Bluff point.
Per dimostrarsi che non solo gli altri sono il nostro inferno]. (Giovanni Carrozzini su “Bluff Point”)

§


Più che un’installazione, la costruzione di un’esperienza…
Più che il passivo assistere, un più diretto modo di esserne al centro…
Un modo differente di attraversare un aspetto di noi…
Si richiede forse un pizzico di incoscienza, di abbandono…
Da qualche parte dovrebbe essercene rimasta, un poco…

§

“BLUFF POINT”

Osservate…
l’alieno rinchiuso…
e l’uomo libero…
Tenetelo d’occhio…
Questo posto è al sicuro, ora, dicono…
Ed ora che i selvaggi sono ammanettati, strappati ai luoghi nativi e la nostra arroganza ben protetta, si può prosperare sereni, sembra…
E se invece vi offrissero un punto di squilibrio a questo fingersi giornaliero…
Un luogo neutro dove impiccare per un momento la corazza,
Di cosa sareste capaci…?
Quale parte di voi rimarrebbe denudata…?
In questo punto rosso…
in questo angolo cosa portereste di vero..?
In un luogo così anomalo fare incontrare un prigioniero assoluto ed apparente…
E qualcuno solo “relativamente” libero…
Uno dei tanti, davanti ad un confine non segnato dalle mappe, ma soltanto esiliato, nella mente…

Benvenuti al BLUFF POINT

§

Se volete collaborare con Musicaos.it, inviando materiali, racconti, romanzi, proposte, saggi, articoli, interventi, utilizzate gli indirizzi (postali e/o digitali) che troverete in fondo a questa pagina. Il lavoro di Musicaos.it è gratis, ma non è gratuito; non ha un costo, ma non ha nemmeno un prezzo. Potete seguire gli aggiornamenti inviare comunicati relativi a eventi relativi all’arte, la letteratura, la musica, il cinema, il teatro o altro agli indirizzi email che troverete in fondo a questa pagina, verranno selezionati manualmente e pubblicati su musicaos.wordpress.com. Un interesse per gli aggiornamenti di Musicaos.it disponibili su Facebook potrebbe spingervi sulla pagina di Musicaos.it presente sul Social Network appena citato. Nel momento in cui viene chiuso questo articolo sono passati 2644 giorni, liberi e indipendenti, da quando è stato pubblicato il primo articolo su Musicaos.it.


È TUTTO NORMALE (Lupo Editore) al Festival della Cultura 2011 – Giovedì 17 Marzo ore 17.00


(H)OMO ITALICUS, ovvero: È TUTTO NORMALE al Festival della Cultura 2011 – Giovedì 17 Marzo ore 17.00

Carissimi amici e lettori,

vi scrivo per dirvi che Giovedì 17 Marzo, alle ore 17.00, nell’ambito del Festival della Cultura 2011, a Galatina (Quartiere Fieristico), presenterò il mio secondo romanzo, “È TUTTO NORMALE” (Lupo Editore), insieme all’artista e pittrice Paola Scialpi.

Sono passati otto mesi dalla pubblicazione del romanzo, otto mesi di soddisfazioni che costituiscono soltanto l’inizio di tutto quello che questo romanzo, al quale ho lavorato tanto, potranno darmi.

È PER QUESTO CHE DURANTE LA PRESENTAZIONE DI GIOVEDÌ 17 MARZO HO DECISO DI FARE UN REGALO AI MIEI LETTORI:

A tutti coloro che verranno alla presentazione regalerò una copia di CELLE (2003, utal), la mia seconda autoproduzione, stampata in 200 esemplari numerati presso la storica UTAL (Unione Tipografica Artigiana Lecce). Chi ha già acquistato È TUTTO NORMALE potrà venire con la sua copia per ricevere in regalo “Celle”. Se avete acquistato È TUTTO NORMALE e abitate fuori dalla Puglia potete mandare un amico o amica, se non avete acquistato È TUTTO NORMALE potete appprofittare dell’occasione per avere due opere al prezzo di una, “Celle” è un titolo a tiratura limitata, quindi difficilmente potrò ripetere un esperimento del genere.

“Celle” è un racconto di fantascienza scritto nel 2001. Non scorderò mai l’immagine che mi fece scrivere il testo, un sogno nel quale una colonna di veicoli fuggiva da una città nella quale era successo ‘qualcosa’ di indefinito.

“Celle” è il testo grazie al quale ho deciso di approfondire alcuni aspetti della mia ricerca letteraria. Il rapporto tra utopia/ucronia e distopia/discronia sarà uno degli aspetti che verranno approfonditi nel mio terzo romanzo, attualmente in lavorazione.

“Celle” testimonia il sodalizio con l’artista Fabio Colella, la sua opera ASSENZE è l’illustrazione della copertina, così come “Go-Fly_Me” illustrava la mia prima autoproduzione dal titolo “Opuscriptu”.

Alcuni giudizi critici:

“Il tentativo di ribellione dell’io narrante, nel suo passaggio da una condizione di prigionia ad una di assoluta libertà, si costruisce attraverso una prosa frammentata, sincopata, a tratti strozzata. La lotta quotidiana del protagonista è lotta anche con i limiti del linguaggio, che non riesce mai a dire quanto di profondo siamo in grado di sentire. Celle, che si chiude con un finale a sorpresa, non è scrittura nichilista allo stato puro, pessimismo grondante di incertezze, ma lascia uno spiraglio, lascia la certezza che le sbarre mentali e fisiche nelle quali le nostre esistenze sono rinchiuse possono essere e devono essere divelte, come dimostra il finale: “La pace era interrotta da tempo. Gli abitanti della Città erano da sempre bersaglio prediletto di ogni sua critica. Non sapeva più cosa pensare. quel che adesso poteva fare per scrollarsi questa notizia di dosso era camminare” [“Celle, il viaggio sinuoso che va dalla reclusione al risveglio”, Rossano Astremo, leggi il resto della recensione qui: http://www.musicaos.it/interventi/26_astremo.htm]

“Celle è la parafrasi delle nostre schiavitù, un interrogativo per la coscienza, un libro aperto sulle enigmatiche barriere che sovrastano la nostra specie.” [Davide D’Elia, leggi il resto della recensione qui: http://www.musicaos.it/interventi/2005/89_pagano_delia.htm]

La presentazione di GIOVEDÌ 17 MARZO sarà una bella occasione per ritrovarci, grazie a un romanzo come “È TUTTO NORMALE”.

Vi aspetto!

Luciano Pagano

“Una notte d’agosto”. Un ricordo di Edoardo Sanguineti scritto da Josè Pascal


Una notte d’agosto, seduti sul muraglione del porto di Costsaid, al riparo dall’assordante formicaio turistico estivo, proveniente dal centro storico del piccolo e prezioso paese, discorrevamo placidamente io, Edoardo e gli altri.
Nel cielo, la Luna baldanzosa e piena di sé si specchiava nell’esausto Mar. Solita com’è Lei a chiacchierar con le stelle, ascoltava in lontananza il fermento musicale che sgorgava dai locali protesi sul mare.
Era da un paio d’anni che non mi rincontravo con Edoardo. Da piccoli, durante le nostre estati solevamo venir qui la sera, per cercare un angolo di pace nel nostro paesino stuprato dal branco turistico. Lui invece, come tanti miei amici, era emigrato per studiare e probabilmente in futuro per lavorare.
Impaziente mi voltai verso lui e dissi: “Ogni volta che mi ritrovo a parlare con qualcuno che non vedo da un po’ di tempo, rammento che il tempo passa inesorabilmente e non è possibile tornare indietro. A volte la malinconia assale il mio cuore spingendomi a ricordare alcuni piacevoli episodi passati; altre volte invece sono molto più felice di ciò che sono ora e non rimpiango minimamente quel che è stato. Dipende molto dal mio interlocutore!”.
Eduardo, dacché ricordi, aveva sempre avuto la predilezione nello scrivere poesie e pensieri sul suo caro diario, ma quella notte mi regalò dei versi indimenticabili. Fissando il quieto Mar, mi disse:

“Quando ci penso, che il tempo è passato,
le vecchie madri che ci hanno portato,
poi le ragazze, che furono amore,
e poi le mogli e le figlie e le nuore,
femmina penso, se penso una gioia:
pensarci il maschio, ci penso la noia.
Quando ci penso, che il tempo è venuto,
la partigiana che qui ha combattuto,
quella colpita, ferita una volta,
e quella morta, che abbiamo sepolta,
femmina penso, se penso la pace:
pensarci il maschio, pensare non piace.
Quando ci penso, che il tempo ritorna,
che arriva il giorno che il giorno raggiorna,
penso che è nulla una pancia di donna,
e casa è pancia che tiene una gonna,
e pancia è cassa, che viene al finire,
che arriva il giorno che si va a dormire”.

E’ da tanto che non ci vediamo io e Edoardo. Ma penso ancora a quella notte, quando la Luna si specchiava nel Mare stremato e le stelle pulsavano nel Ciel.

(In ricordo di Edoardo Sanguineti “Ballata delle donne”)

§

Josè Pascal (figlio di Mattia Pascal) è lo pseudonimo dell’autore che scrive sul blog “In parole semplici“, che tutti noi dovremmo leggere e che abbiamo inserito nei nostri link. Josè Pascal scrive pensieri, poesie e racconti. Su Musicaos.it pubblicheremo altri suoi interventi. Buona lettura. Se volete intervenire, inviare materiale, le istruzioni sono a questo indirizzo: http://www.musicaos.it se siete così interessati da ricevere aggiornamenti potete iscrivervi ai feed di questo blog o, addirittura addirittura, diventare fan della pagina di Musicaos.it a questo indirizzo http://www.facebook.com/musicaosrivista.

Vi ricordiamo (il Premier direbbe ‘ci tengo a precisarlo’) che diventare fan della pagina di Musicaos.it sul facebook non vi rende ‘automaticamente’ fan della letteratura.

Saluti, Luciano Pagano

Antonio Verri. La cultura dei tao


Antonio Verri
La cultura dei tao

a Damiano Stefano

<<Era ancora luna chiara di gennaio, giovane luna. Il freddo di quell’inverno tagliava le gambe. A casa c’era poco. Voi figli uscivate coi pantaloni gonfi di fichi secchi, le domeniche le passavamo con della pasta d’orzo, con bocconi che m’ingegnavo d’insaporire per voi signorini seduti su sedie altissime. Qualche volta cuocevo sciscèri di pollo, qualche altra volta si ammazzava una pecora che stava male, poi c’era il pane cotto e il lardo che tutto condiva…
Era questa la vita e voi avevate grandi occhi da birbanti…solo tu, ecco, imbronciavi un po’ più spesso sui carrettini che da me ti costruivo…
L’inverno fu tristissimo quell’anno. Non era ancora febbraio ed era già bella e finita la scorta della monda.>>

La madre. La mar. La scorta della monda. Cioè, grossi rami inutili ma soprattutto le giovani cime, a colpi di forbice e serracchio, per impedire la crescita, per impedire quell’avanzo in armonia di un albero bello sì, temerario sì, ma senza frutto.
<<Se no dà in furia>>, dice la mar. Col tremore di chi di quella furia è madre.

Caprarica di Lecce, 30 Aprile 1986

* * *

Tanto ho appreso, altrettanto mi è stato insegnato. Mi è stato insegnato, per esempio, che per molti fiori di giardino esiste un corrispondente selvatico: e allora ho scoperto che mi era caro il profumo del secondo dei due tipi di ciclamino, rose, mimose, margherite…
Mi è stato insegnato – ma poi l’ho sperimentato da me – che vivendo, stando quanto più possibile lontano dal nulla, non si può fare a meno della saggezza e del piacere curioso dei proverbi, dei mille proverbi che dalla terra nascono; che i proverbi aprono al mondo, a variegate realtà, che niente c’è di tanto misterioso, di tanto affascinante, di tanto poetico, quanto un proverbio che si dipana al punto giusto, al posto giusto; che attraverso i proverbi è tanto magica, tanto plastica l’interpretazione del mondo che niente, nessuna cosa sulla terra, mi è parsa, mi pare così naturale, così saggia, così strapiena di candore…
Mi è stato anche insegnato, con ardore, ad apprezzare – ed io continuo a guardare e amare con tale ardore… – poveri oggetti (stilizzati, essenziali, ma solidi), situazioni le più umili, ma portate con tale dignità, che serenità, buon senso, innamoramenti al limite del pianto, sono cose che oggi io, figlio di questa cultura, posso opporre a volte con tale incauta destrezza da rischiare di bruciare, con legna d’ulivo, il sibilo lungo di una cultura millenaria…
Cambia, cambierà, di molto il volto della campagna, degli aggregati umani, di interi paesi: è cambiato dal dopoguerra ad oggi, cambierà ancora tra due, tre generazioni. E cambieranno naturalmente anche abitudini, modi di lavoro, rapporti…, ecco, quello che non cambierà mai sarà l’idea del dialogo con la terra che l’uomo ha stabilito dal tempo dei tempi, il grosso respiro, il sibilo lungo che si può udire solo di mattina, mirando nella vastità dei campi, con accanto sentinelle silenziose gli alberi d’argento…
Ma torniamo al racconto, nostra sede, ad uno dei mille rivoli del racconto…al padre che nella canna ricurva della pipa di pietra infila una di quelle chiavi di cinquant’anni fa, la fa partire, ecco, adesso gira nell’aria, la canna percorre il tondo della chiave, adesso basta un impercettibile armonioso movimento della mano per far andare il tutto. Il padre, nell’eterna sua magrezza, a capo chino, severo, somiglia un pìstico sognatore di lucchi, un tenero rabdomante di chissà quali sotterranei giacimenti, di chissà quali gore di distanza. Di rado bofonchia, è come assorto nel suo gioco, con la nequizia, la permalosità di sempre. Dal giro della chiave nasce un suono, un leggero crepitìo…
Le figlie sposate in altri paesi (quanto sono cambiate!) rientrano, fuori è il venticinque aprile, San Marco, giorno della fiera, con i venditori “napoletani” di Martina, di Ceglie, di Corato, che dal barese, dal foggiano si riversano in questa come nelle altre fiere che in tutto il meridione hanno scadenze regolate da cicli agricoli, attese con genuina allegria, infinita baldanza, con intensità pari solo alle “straordinarie” mercatanzie che verranno acquistate: lunghe teorie di attrezzi da lavoro, finimenti, “quernamenti”, solidi utensili modellati sul vecchio tipo, piatti per l’occasione vengono dichiarati “infrangibili”, rosette per uno spruzzo a largo raggio, lo spargisale da campagna ultima novità, e poi creta rozza, creta smaltata, cippi, vasi, campanelli, chicche sonore dei buoni tempi andati, la dignità solita di una baracca di cappelli, ogni anno al solito posto, sotto il castello (anche i cappelli hanno un loro posto importante nella vita di un paese… a cominciare da uno sfanciato, di piché, per finire a quello che mettono nella cassa da morto: serve al congiunto per presentarsi a Dio!), e ancora, cupeta e mostaccioli, tovaglie, corredo, polveri e sementi per la campagna, Lattuga gigante, Spronelle di Corigliano, Cicorie rizze; e poi, è un affarone il nuovissimo pupazzo gigante per far bolle di sapone?
Bisogni, necessità per tutto l’anno, futilità le più ingenue, cose da conservare sul comò, la scapece da consumare a mezzogiorno, la faenza (bicchieri, tazze, chincaglierie) da mettere in mostra nell’elegante credenza, grida, fatti, parole che dei fatti trasmettono il suono… è questo il paese, è questa la cultura del sibilo lungo!
Sta per arrivare la banda… C’è armonia, c’è avventura, c’è completezza in tutto in quei posti. E quando anche quest’armonia dovesse esse rosa in qualche punto, ecco, c’è la madre riparatrice, ispiratrice, che aizza all’ardore, al furore di parole… è lei la depositaria, è lei rappresentante di questo mondo. E la stagione è l’inverno !

L’inverno era di quelli allegri, mai mesti, del pirichilli. Di quelli che poi se vengono qualcosa dovrà succedere, qualche nato importante, ribeglione, o qualche grande morto che tiene fino al freddo. L’inverno del pirichilli. Freddo cioè, dal mangiarsi sul serio anche cardilli. Stranamente freddo però, ecco, tanto da panegorisare contrade, crocicchi, pianori, interi paesi che solo per l’occasione bruciano bitume, resti di olive, trucioli, lievi napte di legno trinciato. Tutto. Tutto.
Inverni del genere arrivano ogni due, tre generazioni, quando ormai i ragazzi natanei non servono che loro stessi, esplodono di solito con l’accensione dei fuochi di metà gennaio ma sono nell’aria fin dall’ultima fiera di dicembre: li annuncia con testardo, sonante furore di parole, l’òrico venditore dal pelo rosso, l’incomparabile mestatore, molitore di segni e di linguaggi.
Arrivano così in questi strani posti questi strani inverni, come falsi castighi, come cose nibate, indicibili, con lo stupore gelato che sosta su case basse, che dà vita rotante ai vicoli, che cala nel fondo dei frantoi, risale, mulinella nei secchi del pozzo, agli usci delle porte; si perde poi sui terrazzi, su schegge di pietra che tengono, uno sull’altro, solidi massi fuori squadro. Uno sull’altro. Più su, più su…
-‘Na lusione, ‘na lusione, dice la mar che, con sciroppo di lauro e di mortella, in inverni come questo, separava, puliva e preservava i sonni, le parole, le iose di un figlio che segue l’abuso, che vive per l’eccesso… La mar, la mar, che vede del figlio quel che con lei è nato, che non sa di quell’altro che brucia sperso negli inverni, di quell’altro dagli occhi spalancati dal sogno, dalla voglia di farcela, per il padre, per lei…
Ecco, la mar dice del tempo cambiato, di quando la navetta correva legata a bande di colore, ci ripete che vededi noi pilladori quel che con lei è nato. Durano conti… Durerà quel nitore di carta, o mammaniva, quel narrare brandea di teneri suasori?
Ecco, la mar m’abboffa come se dovesse nicare. Ma nicare non nicherà, passerà come lento fiume il tempo – l’idea del tempo che passa, del tempo cambiato, della navetta che corre a bande bianche a bande di colore, la dette lei, lei l’ideò quando, intristita dall’umido del cucinino, disse: “ Un tempo mettevano zorfo in questi uncini! ”.
Ecco, la mar m’abboffa come se dovesse nicare…parole e suoni avviticchiati alle cose che mi racconta, alle cose che mi avvicina col solito decoro, parole che copre nei canestri – le parole del figlio a zacchinetta – per farle maturare, per far colar quel croco che al figlio assicuri la narrazione del santo pancro, l’oromìa, l’olòfora, l’incanto; xhe questo che cuce sia palisma, òrico, sonoro, dolce impanto.
Mar, o mar, nicare non nicherà, nicare proprio non nicherà!
Oh nive, oh nive bianca, oh tantanton de barba bianca!
– Figlio, sempre qualcosa mette ciglio. La mar. Mi dice ancora del tempo cambiato – passano quadri piscatori – del tempo che oggi corre dietro al fiscolo del niente… Lei, intanto, quando non balla tabacco secca palate, ha mani sapienti, bianche cedono coperchi pressati nove volte… e invece di boccoli di pane, frigge piccoli tesori del tempo dei suoi tramonti rossi!
– La prima volta che vidi un treno gridai “ passa la tuzzuìa, passa la tuzzuìa ”, e la campagna bianca rispose “ passa la tuzzuìa, passa la tuzzuìa ”, e la contrada col nero dei camini “ passa la tuzzuìa, passa la tuzzuìa ”,e i miei morti e la mia casa, i miei viaggi e il mio biroccio, e il mio vestito e il mio terrazzo, tutti insieme gridarono “ passa la tuzzuìa, passa la tuzzuìa ”, e ancora  “ passa la tuzzuìa, passa la tuzzuìa…! ”.
Ecco, dissi, ancora una volta prima di spegnere, con un suono grave che ancora ho nelle orecchie: “ Sarà quel che sarà, ma tu cerca… al mondo stiamo per cercare!”.
È vero, o mar, non sono ancora passato al libro vecchio, non riesco a seguire il tuo “ quanto conta il saper fare ”, le parole, soprattutto per me, sono un po’ come cirase (una tira l’altra), febbraio è sempre un mese corto e amaro, le serpi sono ancora nascoste e le rane non “cantano” ancora… ma sono il figlio della storia del miglio e del mortaio, della camomilla dorata della sera, quello che perdeva gli occhi su quel vecchio comò a casa della nonna, con la campana del santo, due candelieri argentati (quelle cose che in una casa arrivano non si sa come, da tutti considerate pregiate, si conservano con orgoglio smisurato, diventano simbolo della famiglia, a volte; quelle cose che restano negli occhi dei piccoli di casa anche quando la casa non c’è più…), un centrino sul marmo, qualche fiore la cui continua freschezza è l’effetto di un incanto… Tutto fermo là, pissocerato, quasi un altare al dio del buon consiglio che vive, con altri folletti, nel rosso fumante della terra appena “scapolata”… Ma cercate dovunque, nelle foto qui dietro, altrove, ci deve essere quel vecchio comò, ci deve essere quella vecchia credenza (il figlio, nella nicchia accanto, rubava liquore giallo), una cassapanca essenziale e capiente, il cassone dei fichi secchi, il saccone di fronze, la monaca scaldaletto, la cucina sempre bianca, lo stipo di legno che conservava ruote di creta che chiamavano piatti, la paglia nella pagliera, l’“acchiattura” nella stanza accanto…
Ma è ancora inverno. Non è cambiato molto, o mar. Oggi girano squadre per la monda come allora. Il paese intero è diviso in squadre, come allora. Mi dicono che hanno le loro leggi, regole loro, ogni squadra ha una sua carta di comportamento, di tenuta. A volte, o mar, sono così necessarie alla vita del paese che mondare mondano un po’ tutto (ogni squadra ha un suo declaro, ecco, e sfronzare gli eccessi… non è soltanto un vezzo!).  Comune a tutte, però, è la proibizione del vino, del vino prima di salire: svettare l’olivo, far sì che cresca in chioppa, non è cosa da niente!.
Solo qualche capomonda permissivo, distratto, nembrotico, istigatore, a volte permette il vino, permette di danzare, il tsiritirò… e allora l’albero è libertà, piacere e tentazione, riso, sghignazzo, intolleranza… ecco, riprende con foga la navetta, torna a rotar la tuzzuìa, ricresce, bòffolo, il sogno…
– Un tempo avevo occhi che tutto miravano. Tuo padre giovane…
Ma è sempre inverno: si attenua il dolore al ginocchio, tutte le storie sono cariche di lusione che in altri posti un nonno favolista vendeva a costo di decoro, storie intorno al tavolo, col fuoco, col padre appeso al miracolo della radio, con la foto del figlio lontano bene in vista, gli scampoli di una figlia sarta, uno specchio senza cornice, ad angolo, interrogato chissà quante volte, chissà quante volte odiato…
Durano conti…! Parole nugose, cantilenanti, sogni, costruzioni le più audaci (da far impallidire scrittori di professione), artifici, fisime di smalto, possibili solo a terreno cherso, nella stagione morta, o di sera quando il ragazzo figlio ascolta, risponde, sorride, anche se il suo pensiero, lui stesso, è sulla ciminiera accanto, dove un galletto, nella sua muta nettezza a mezz’aria, compie giri quasi completi…
La letteratura di questa gente magra, dalle mani callose, è fatta di fole e di angiolesse, di orchi benevoli, di tao che girano a mezz’aria, di spiritelli biricchini, di donne di pasta cresciuta, di fibule, glimpe, pènule, di purissimi cavalieri che di notte riposano sui tetti bassi delle case bianche, o nelle corti, sotto la prèula, accanto al gelsomino, o in stàbule di campagna sopra lettiere di sarmenti, nella paglia (sono loro, i cavalieri, che di mattina prestissimo, innaffiano d’argento gli olivi, intonano il colore delle margherite, spargono a caso fiori di lampone…), succhiando liquirizia a pesciolini, sciogliendo in bocca un tripizzo dolcissimo, facendo capriole inaudite, lasciando biglietti a ragazze dai lunghi capelli, sacchetti di talleri d’oro, colore per le guance, crinoline e merletti per gli anni a venire…
La letteratura della mar era il narrare dei sogni il mattino dopo, degli idoli suoi, i morti , che venivano a trovarla – fresca, mai turbata, come fosse un altro sorriso, un altro abbraccio alla sua gente…
Ecco, durano i conti… e ci sarà sempre un povero favolista a narrarvi di un cuecolo di neve che molto tempo fa dei ragazzi festosi, goliardi, furenti, cominciarono ad appallottolare nella piazza bianca per farlo poi rotolare, alimentandolo, per una discesa in paese: tre mesi restò giù senza squagliarsi… Tutti tornarono. Tutti. Meno Stefan. Stefan, cominciò a dire la mar, fu rapito dai tao!

– Credeva fosse uno dei soliti pupazzi di neve, uno dei soliti pupi bianchi che da ragazzi si fanno, e uscì di casa col passello per fornarne gli occhi… Non l’ho più visto. Chissà… Il portamento, l’allegria, tutto in lui poteva far innamorare un tao, un lieve tao, un tao del freddo, uno di quei tao insolenti che saltellano a mezz’aria mangiando girandole di neve, col corpo in piena luce…
– Tuo padre fece poi una guarnice ai suoi grossi occhi chiari, e da allora aspetto…Oh, aspetto la tornata dei tao, il mio ribaldo!
La mar. La solita storia. La sentivo cento volte al giorno, ne sapevo pieghe e accenti, ogni particolare, tutto quello che accadde, tutto quello che un tempo rese possibile. Era ormai diventato tutto così assurdo, così strano, così ingannevole, che sia io che lei, all’improvviso, eravamo entrati come in un vortice nugoso, in una grande ruota bianca, avvolti, per nostra stessa volontà, per tacito patto, nel manto perlaceo di parole sonanti, favolose, antiche, cantilenanti…
– Come! Lasciarsi prendere dai tao!?!
La mar.
Parlava di un figlio che a vent’anni s’era allontanato da casa gridando come un matto, correndo festoso verso il cueculo di neve che stava per nascere, che già cominciava a rotolare… Molte madri non videro i figli per tre giorni, quanto durò l’inusuale appallottolamento. Poi tutti tornarono, meno lui. Meno Stefan. Stefan non tornò.
– Il mio magnuccio! La mar.
I tao. Da quel momento la mar cominciò a parlare dei tao, s’inventò i tao, questa specie di folletti predoni, di elfi colorati, che vivono a mezz’aria, che così maleficamente sono entrati nella sua vita… Poi s’inventò dell’altro. Del figlio in stàbula, un casolare lontanissimo – ne vedeva il lumicino -, perso a giocare a zacchinetta. Perso perdente.
Altro, tanto altro. Tante sorti del figlio s’inventò, tante vite, tante possibili buone soluzioni, pensate per piacere di spasimo, per quel follicolo di voluttà che ricopre – li argenta – i percorsi di vane illusioni. La mar.
Era stato proprio un inverno tristissimo quello. L’inverno della calata dei tao. Un inverno come pochi altri inverni. Così amaro!!!
Ecco. La cultura dei tao. La mar. La sua costante autorizzazione al furore, il suo costante invito a fabulare, ad abusare della lingua… E tutto ciò che entra tra le nostre righe è quel croco che non ha vissuto, che ha sempre inseguito, di cui ci ha sempre parlato, e che ora per noi è suono, armonia nascosta, nive, nive farinosa…
I tao ci sono sempre in un paese. I nostri paesi ne sono strapieni. Esistono anche per questo i campanili nei paesi.
L’idea del campanile arriva quando la gente è esasperata, quando non ce la fa più a sopportare i tao. Formelle su formelle, cotto su cotto – in un silenzio operoso – la gente alza il campanile per sorprendere i tao, per piombare di sorpresa sui tao come sempre intenti a biffarsi dall’alto le zone in cui predare.
Bisogna dire, però, che i tao sono dei predoni fascinosi, a volte quasi necessari… guardate la mar, per esempio, lei è ormai al punto che coi tao ci gioca, azzarda, retrocede, favoleggia, lei ormai è di quel mondo a mezz’aria, non esiste altro mondo per la mar – dapprima, un po’ come tutti qua in paese, covò il campanile, con furia, con disperazione, poi tutto cambiò, cominciò ad usare, a viverci nel campanile, ad un certo punto cominciò, con gessi neri, a scrivere sui muri del campanile, dapprima strofette al figlio, poi le canzoni della giovinezza, le contra che lei cantava così bene, i cori d’inverno tra gli ulivi, ma anche scioglilingua sui tao, descrizione dei loro giochi, bagatelle…
Andavano in aria i tao, alle angiolesse obìte, ai transiti dei loro padri elfi, in oblivione completa, con lo stupore dell’ebbro, galoppando ossessi sul vapore, sui tetti color pigna, sulle madri di Robinia, sulle madri dell’oro di coppella…
– Un tempo avevo occhi che tutto miravano. Tuo padre giovane… La mar. Quelle che lei mirava sono poi cose che hanno fatto la mia vita.
Quando stavo con lei, figlio com’ero di una dea dell’aria, quando camminavo con lei, non c’era necessità di sprecar parole, erano gli occhi a raccontare, era negli occhi che riuscivamo a fermare, in un attimo di mille parole, gli eccessi, gli scoppi, lo smorire, la meraviglia… Non esisteva niente allora, niente dei travagli di tanti giorni neri: lei era all’improvviso una lieve festuca dorata, era in quella fibula d’oro giallo al petto, nel regno sempre bianco della tuzzuìa, nel lumicino lontano delle fortune che ogni sera tremolavano in una stàbula d’uomini persi a zacchinetta, nel tripizzo che in bocca squagliava, nelle margheritine di camomilla, nelle fresie in alto sul portone…
Chissà se poi la mar avrebbe, in realtà, voluto una vita diversa!
– ‘Na lusione, ‘na lusione, mi pare di sentirla ancora adesso.

– Sotto la neve il pane, mi ripeteva. A me piaceva sentire quelle cinque parole una dietro l’altra, e domandavo, domandavo continuamente. Come?, il pane sotto la neve? Certo, diceva lei, con voce di velluto, il pane sotto la neve, proprio così, il pane sotto la neve: quando c’è neve – tanto meglio se è farinosa – che copre un campo seminato, il seme è costretto a lavorare sotto, il raccolto è rassicurato.
Il ragazzo continuava a chiedere con avidità, la mar cominciava con le sue storie, i suoi “segreti”. Per niente altro c’era posto. Tutto intorno la vita lievitava.
La sera prima di Sant’Antonio andavo dal fornaio – la mar -, ordinavo un canestro di buon pane, poi la mattina di buon’ora lo portavo in chiesa, lo distribuivo… Non mettere mai il pane sottosopra, porta lutti, porta disgrazie… Potevi vincere, con una cotta di pane fresco, persino la Madonna all’asta… Prima di un matrimonio si faceva doppia cotta di pane, allora i matrimoni avevano il pranzo in casa…
Anche i tao erano come storditi quando in paese si faceva il pane. Sostavano a gruppi sul tetto del forno, volavano così in basso che a volte urtavano i galletti sui camini; qualcuno con improvvisa spavalderia, approfittando della rapida apertura del forno, vi si infilava dentro, nelle fiamme, attirato dal pane che cuoceva: se ne usciva u po’ frastornato, stravolto, rosso, ma…quattro passi ed era in volo!
Parlava, la mar, di freddo, di neve, mi raccontava la storia dei tre giorni della merla… io ci legavo il pane (non sapevo pensare ad altro, ormai), il panetto di lievito acido che il fornaio conservava per la famiglia del giorno dopo, la màttira di legno chiaro, le tàule con costati, senza costati, il miracolo, la meraviglia della pasta che cresceva…
I racconti continuavano. Una grande fame ma una grandissima dignità. Le generazioni di gatti tutti somiglianti. Il teatro che cinquant’anni fa approdò in paese, la fabbrica di tabacchi ne fu il palco, con le attrici piene di trini e pizzi, colli lunghi… “e noi non riuscivamo a tenere in casa i nostri ragazzi”! Le storie di gelosia, la gente magra, le case basse, la vita essenziale; anche le morti erano importanti, se il morto era un ragazzo o una ragazza, era preso dai tao, diventava un tao perfetto, uno di quei tao di meraviglia… Era questa la vita di un paese!
Ma il favolista, di casa in casa, comincia a narrare di un essere legendario, selvaggio, uno spirito silvano dei campi, dei paesi, che è un tutt’uno con alberi, foglie, boschi, un orco benevolo, uno spiritello biricchino, bizzarro, lieto e allegro anche quando dovrebbe essere triste; mangiaparole, mangiasuoni, un po’ buffone, mai sazio, mai saggio. Questo essere è il Bel Tempo. Arriva allora la Primavera. Le rane cantano la fine dell’inverno; son fuori, inoffensive, le natrici d’acqua; le mulacchione, le ragazze inesplose, rosse, continuando raffinate e lievi trame di ricamo, aspettano il loro ambasciatore (“arriva l’ambasciatore, oilì oilà, a cercare la più bella”), il loro principe azzurro. Se lo immaginano in divisa… Ed eccolo che arriva, per le più fortunate: è un musicante del Gran Concerto di Gioia, è un postino aitante che lavora al nord, è un carabiniere che tornando a casa lucida scarpe e divisa…
È in arrivo anche la banda, i tao saltellano come impazziti sulle berrette dei musicanti che continuano a sbandare, il cielo è più basso, le stelle lucenti (tendono ad offuscarsi solo quando in paese arriva la cassarmonica e gli occhi brillano e si corre verso il centro illuminato…), i ragazzi come intontiti. Arriva l venditore di stoffa inglese, di lino, di percalla, arriva l’incantato venditore di grattate di neve, ma quello che più si corteggia, che più incuriosisce è il venditore ce in un carro a vari ripiani, a cassetti, vende di tutto, le cose più varie, le più belle…
I tao continuano allegramente a saltellare, la mar è con gli occhi alla cima della sua lenta torre, cotto su cotto, formella su formella; il padre porta su, con la solita caparbietà, altre cime, quelle della vita d’orto: ci lavora fin dall’alba, dispone in certo modo le canne, realizza, sempre più assorto, sue geometrie, costruzioni misteriose, oscure. Il cueculo è… ormai sciolto. Ha tenuto tre mesi, però. A squagliarlo non è stato il tepore di uno sbadiglio, né lo scotimento leggero dei seni della madre terra, è stato l’avvolgente e caldo agitatore delle ali dei tao bianchi che prima di tutti avevano captato il magico potere della palla bianca, perfetta, immensa, come una sfida babelica, l’enorme sfida (saldare nel cueculo le spezzature di una lingua, le variegate imperfezioni terrene…) portata da cinque irrisolti mestatori d’incanti che anche stavolta avevano sospettato un cueculo tondo, grosso, immutabile…: la mar – ispiratrice di cotte, di furore – che in inverni come questo aveva tutto previsto, tutto con cenere ideato, aspetta a casa col pan cotto, col boldone!
Girano, vorticano, continuamente i tao in questa cultura, in queste contrade. A mezz’aria. Sono loro i regolatori di questa cultura. Sono loro che, con piroette profumate, sovrintendono agli oggetti, agli attrezzi  da lavoro, ai pianti per la figlia che si sposa, alle nenie, alle ballate, alle contra dei trovieri di paese, sono loro che regolano i discorsi, che pizzicano nel sonno, che istigano alle cose insensate, al ridere sfrenato, loro che vivono, si rotolano nella marza preparata per l’innesto, loro che hanno inventato il cane dello Scialla che fece cento chilometri per un bicchiere di vino, la Peppa Landa che compra galline cadenti, il magico lumicino della Lucerna di Iacca, il Morso che ti fa ballare, i giorni della Vecchia, le acchiature in ogni angolo…
Sono i tao regolatori che presiedono agli oggetti, alle situazioni, i momenti di vita che troverete illustrati nel volume. Oggetti, situazioni, momenti che nella loro armonia, nella loro dimensione, nella loro completezza assoluta, vivono anche dell’inaudito che continuamente generano…: e per noi è sempre più chiaro che se le cose hanno tutte un nome, una loro ironia, loro virtù, paradossi, bufferie da tao, è con una lingua che comprenda tutte le lingue che parleremo del sogno, che scriveremo del sogno. Meglio dei sogni, visto che altri balzeranno, altri rotoleranno, piscatori, tra le righe.

(scelta di termini dal) DIZIONARIETTO
dei termini magici, nuovi o non comuni allegato da A. Verri al testo sui Tao

[il] CANE DELLO SCIALLA, LA PEPPA LANDA, LA LUCERNA DI LACCA…: non sono soltanto storie, assolutamente!: sono dimensioni fantastiche, suoni antichi, voci antiche e magiche di un paese e della sua gente.

CONTI: sta per racconti.

CONTRA, [le]: canzoni da contrasto amoroso. Le sentiamo cantare ancora a Borgagne (Le), da due vecchie contadine; il profumo è medievale, di campagna…

COTTA [di pane]: più o meno determinata dalla quantità, di grano o di orzo, impiegata. Una cotta, di solito, è sugli ottanta chili.

CUECULO: per palla, cosa tonda; qui palla magica, bianca…

DECLARO: per dizionario, riandando a fra’ Senisio.

GRATTATE [di neve]: un blocco di ghiaccio in una cassetta piena di paglia, un aggeggio che, grattando leggermente il ghiaccio, si riempie di neve farinosa, un bicchiere pronto a ricevere i cristalli di neve, sono queste le grattate. Ce’ra poi un venditore…

LIBRO VECCHIO [passare al]: espressione popolare [salentina?] per dire che hai concepito e realizzato qualcosa, che da te è nato qualcosa: la nuova nascita, allora, di passare al libro vecchio, l’attenzione, è per euql qualcosa.

LUCCO: anche s eun qualsiasi dizionario vi darà significato diverso, qui è usato, ha significato di cosa magica, lucente, impenetrabile.

MARZA: quello strato umido, sottilissimo, tra la corteccia e il legno. La marza è indispensabile per l’innesto <<a pezza>>.

MATTIRA: grossa madia a forma di barca, nel cui fondo si lavora la farinia.

MERLA, [i tre giorni della]: gli ultimi tre giorni di gennaio, freddissimi, tre giorni che gennaio prese in prestito da febbraio per punire il merlo troppo sicuro di sé.

MULACCHIONA: (non ci stancheremo mai di dire che per noi il plurale è mulacchione), ragazza tonda, passionale, strapiena di carica inesplosa. C’entra la luna…

NATRICI: serpi d’acqua; in questi posti girano, d’estate, intorno a pozzi e cisterne.

NEMBROTICO: d Nembroth, istigatore all’impresa della torre di Babele.

NIBATO: splendido nevoso, da nubo-is o da nix-nivis.

NICARE: nevicare.

NUGOSO: di scherzo, di celia.

PALATA: massa di fichi che si seccherà tra <<pale>>.

PANE COTTO: è pane che si fa bollire insieme a foglie di alloro, prezzemolo e ad un pizzico di peperoncino. Era il piatto rapido saporitissimo, dei contadini. Si mangiava soprattutto d’inverno,a metà mattina, tre, quattro ore prima del pranzo vero e proprio.

PANEGORISARE: sostentare con solo pane.

PESCIOLINI, (liquirizia a): forme dorate di un tempo; non la chiamavano più liquirizia ma pesciolini!

PIRICHILLI – è un termine di un detto, <<pirichilli ca mangia li cardilli>>, ascoltato in Martano (Le), qui usato come folletto di neve.

PREULA: è la vite da orto fatta allungare su delle canne incrociate.

SCISCERI: ventriglio dei polli e degli uccelli.

TANTANTON DE BARBA BIANCA: il proverbio è questo <<Sant’Antonio dalla barba bianca / se non piove la neve norì manca>>; è il cuore dell’inverno, il 17 gennaio.

TAO: folletti dell’aria, della mezz’aria anzi; c’è dentro il salentino mao, il veneto bao, tanto altro…

TRIPIZZO: dolce che si scioglie in bocca rapidamente.

TSIRITRO’: termine dal ritornello di una ballata popolare greca, legatop all’uva, al vino, alla vita allegra.

TUZZUIA: grande cavalletta verde; i danni non si contavano, la gente se la ricorda con terrore.

ZORFO: sta per zolfo, e uncini sta per fiammiferi.

(da “La cultura contadina”, catalogo di una mostra fotografica, Distretto scolastico 42, Assessorato alla Pubblica Istruzione della Regione Puglia,maggio 1986, versione pubblicata su Quaderni del Fondo Alberto Moravia, Numero 1, Anno 2002, con scelta dai termini del Dizionarietto)

§

Antonio Verri, “La cultura dei tao”, da Musicaos.it – Anno 2, Numero 18, Giugno 2005

Pagina Facebook di Musicaos.it : http://www.facebook.com/musicaosrivista

“La compagna di classe”. Un racconto di Luigi Salerno


“La compagna di classe”
di Luigi Salerno


Rientrare di sabato nelle luci delle macchine e le mie gambe che affrettano, perché quando è di sabato non ho più il controllo del tempo e a volte me ne accorgo troppo tardi. Ma in ogni caso devo immergermi lo stesso nel caos del centro per poi ritornare subito. Rientrare con le strisce pedonali ingabbiate dalle ruote e la scaltrezza di un cattivo atleta, poco allenato nello scansare gli ostacoli fiammanti. Il fumo dei motori e le mie bottiglie che rischiano di sbattere e di infrangersi. Il mio passo accelera, e allora riesco a raggiungere il tratto meno illuminato e più tranquillo. Il solito marciapiede. Le pizzerie sfornano e infornano, come bocche di leoni accecanti. Le ragazze con i capelli sciolti. Qualcuna con la coda alta che mi sorride; e i profumi dei corpi con quelli delle sigarette. Allora affretto, ancora, anche se in fondo non ho nulla da fare. Ma è quella mia città che mi attira e mi respinge e anche quei visi che si organizzano la sera e che cominceranno a cenare quando starò già dormendo, adesso mi mettono un’ansia profonda e nel passo quest’ansia si scioglie e così raggiungo casa nella metà del tempo. Sfioro con le mani le chiavi dall’esterno del borsello grigio, ancora prima di impugnarle, -perché ricordo sempre di non anticipare mai le mosse prima del tempo. Devo abituarmi a estrarle quando il cancello mi attraversa appena le ginocchia, e non prima. Stasera sono fredde le mie ginocchia. Tintinnano chiavi, bottiglie e ginocchia, in una sola consonanza. Rintocca lo scatto della chiave, ma c’è una macchina che attira la mia attenzione, prima che io chiuda. Mi giro per accostare il cancelletto e per evitare il tuono del metallo, quando scorgo due figure magre e romantiche, in un’ auto bianca che non ho mai visto prima, proprio accanto al mio cancello, quello grande delle macchine. Il motore acceso. I loro visi sono lontani e sepolti nel fumo dell’abitacolo. Forse è la donna che sta fumando, ma non ne sono così sicuro, che mentre accosto per non sbattere, gli occhi della coppia si posano sulle mie mani e poi risalgono insieme sul mio viso, stupito e curioso, prima di andare. Ma tanto non li conosco. Forse ho un’aria troppo agitata, un’aria che desta spettacolo. Guardo le luci della mia finestra, che sono spente. È strano, perché mia madre a quell’ora dovrebbe essere già su, o forse avrà acceso dalla stanza che affaccia dall’altro lato. Intanto apro il portone interno e dimentico di colpo quel poco dei loro visi, così confusi. Il suono moderno del motore è ancora presente, romba come quelli dalle cilindrate importanti e non ho nemmeno visto il tipo di auto. Salgo e rientro in casa. I termosifoni sono spenti come le luci, e dentro non c’è nessuno. Nemmeno un messaggio, eppure quello è l’orario della cena per una madre così abitudinaria come la mia. Allora riscendo, e trovo ancora la stessa auto, e cerco di trovare una soluzione: andare da mia sorella, che è di fronte, e vedere se mia madre sia finita lì. Elvira non ha telefono, è isolata da due giorni, e allora mi tocca citofonare. La coppia che mi guarda ancora, mentre attraverso, poi non ci faccio più caso. Forse aspettano la ripresa di un bacio o di un litigio e io li avrò interrotti. Elvira mi risponde al citofono, con la bocca piena. Ormai è l’ora di cena o ancora oltre, e mi dice che mia madre non è proprio passata e che probabilmente avrà preso il pullman e starà sepolta nel traffico del sabato. Cerco di tranquillizzarmi, tirando il fiato a più riprese. Immagino il tragitto della linea che si avvicina alla nostra strada; le luci dei nostri lampioni, i fari dell’auto che si spengono. Alzando la testa noto che Elvira ha già abbassato tutte le tapparelle. Mi ha solo detto di farle sapere qualcosa e di non preoccuparmi. Intanto salgo sopra e manca la luce, proprio mentre sto apparecchiando la tavola per due. Mi affaccio per vedere quante case siano rimaste al buio e quanto sia serio il guasto. Guardo l’ora e noto che il tempo scivola e lei ancora non ritorna. Anche Elvira sarà senza luce, ma non voglio allarmarla. Con il buio ogni cosa si allarma, come in un furto d’auto. Il cancello è elettrico, se voglio prendere l’auto e andarla a cercare non posso più farlo. Scendo lo stesso, lasciando la tovaglia a metà sul tavolo di marmo ghiacciato e allarmato. Le scale allarmate a più gradini, riesco ad aprire il cancelletto pedonale con la chiave. I due sono ancora nella stessa auto, ancora immobili. Ormai non mi fanno quasi più effetto. Mi guardo intorno, tentato di avviarmi a piedi e da solo alla sua ricerca. Elvira non può avvertirmi di niente, è sopra con i bambini. Se fosse successo qualcosa dovrei sbrigarmela da solo e arrivarci sempre prima io. Come avviene con le buone notizie, anche con le cattive: c’è chi si espone sempre per primo, perché ha maggiore raggio di azione; forse maggiore resistenza, scaltrezza e autonomia in certe dinamiche o una certa maledizione nel cuore o nel destino. Così mi avvio, senza meta, senza telefono. Sperando che spunti un taxi con la sua mano che batte il vetro e mi saluta o forse la sua sagoma a piedi, sul primo tratto di curva, prima dei due pini. Con la sua solita andatura baluginante, le buste piene attorcigliate alle sue dita. Scorgo appena delle ombre, ma poi non c’è più nessuno, e sono passate già le nove e non ricordo nemmeno se mi abbia detto qualcosa prima di scendere. Cerco di ricordare e intanto oltrepasso la prima striscia di negozi già chiusi. Mi guardo bene da ambo i lati, prima di attraversare e ancora ricordando a vuoto, e poi rallento. Perché il traffico scema e allora quelli più violenti alla guida corrono come matti e finisce che poi ti falciano se non stai attento. Ci sono i lampioni muti, quando attendo ancora e il tempo passa e quasi non me ne accorgo. Quando mi si accosta al fianco destro, quella macchina bianca con i due romantici; quella che poco prima era parcheggiata davanti al mio cancello. Mi giro di scatto, e proprio in quel momento l’uomo che guida abbassa il finestrino e mi guarda. Tira piano di fumo, -è solo lui il fumatore- e poi mi parla. La donna seduta al suo fianco è tutta annebbiata dal fumo della sigaretta. Deve essere una di quelle sigarette forti, e intanto mentre l’uomo mi parla non riesco a sentire bene quello che mi dice. Scorgo appena il viso della sua forse compagna, che si abbassa e un poco si storzella per guardarmi meglio. Mi parla solo lui, ma in una lingua oscura e incomprensibile. Forse nemmeno italiana e nemmeno europea, troppo lontana. Sarà perché sono agitato ma non riesco a cogliere un senso definito da quello che l’uomo mi dice. Soltanto il suono. Il suono caldo e opaco della sua voce folta di vino, quello soltanto è chiaro, anche se le sillabe non mi ricordano nessuna sequenza logica. Quel suo suono invece mi incute una strana calma e poi, quando le spire del suo fumo si dipanano nelle strade, ormai sempre più libere, emerge il profumo speziato della sua compagna e parte del suo viso. Dall’abitacolo soffocante, la sua figura femminile che si ricompone nelle le luci della radio. La radio ha una frequenza disturbata. Scorgo un suo ginocchio scoperto, da una gonna scura. Cerco di sviare da quel contatto e guardo l’uomo. Lo guardo fisso come prima mi ha guardato lui, adesso che ha finito di parlare e aspetta solo una mia risposta. Che non ho. Cerco di sforzarmi, sia per trovare qualcosa da dire, che per comunicarglielo. Intanto mi accorgo di aver dimenticato l’assenza di mia madre, in cambio della loro inquietante presenza. L’uomo mi guarda, la sigaretta adesso l’ha già spenta. Io comincio a ripensare a tante cose, che mi allontanano ancora di più dalla possibilità di lanciargli un segnale di risposta, ma mi allontanano anche dal pensiero di mia madre e della sua assenza. Penso al fatto che forse quei due al cancello aspettavano me e che erano due malfattori che stavano cercando di rapinarmi con eleganza, senza violenza, forse per non rovinarsi la piazza. Siamo in silenzio, tutti e tre. La donna e i miei occhi che adesso tremano nei suoi, quando si allungano verso di me o su di una direzione di penombra parallela che non ricordo più, quando le sirene gonfiano i polmoni per il black-out, e intanto mi accorgo che la loro attesa mi inquieta ancora di più e che forse mi tocca lanciargli un saluto sfumato e ritornare indietro. Semmai da Elvira, mia sorella, con i suoi bambini che saranno crollati di sonno e di buio sul tappeto rosso del soggiorno. Ma senza luce non penso che possa aprirmi o forse sì. Potrei chiamarla a voce dalla strada e dirle che sono preoccupato. A quei due salutarli in inglese, o meglio alzando un braccio, sorridendo. Capiranno che non riesco a capirli, che di certo nemmeno loro capirebbero me se io gli parlassi, e intanto cerco di articolare un qualsiasi segno di saluto, che mi sganci dalla loro morsa, quando la donna mi chiama per nome. La macchina è ancora accesa, mi dice “Ottavio”, così ben scandito, da lasciarmi perplesso per il calore confidente e familiare della sua voce quando entra nel mio nome. Un nome detto da una che mi conosce e che forse mi ha già chiamato altre volte. Forse perché quando chiami un nome che hai già chiamato, la tua voce si trasforma, si fa più calda e l’altro che è chiamato riesce a sentire che esisti da prima, perché quel tipo di inflessione, nel breve spazio del nome, è la stessa delle persone che ti conoscono, che ti amano, che ti sopportano o che ti odiano di nascosto e senza dirtelo mai, ma che in qualche modo sono finite o dirette dentro la tua vita. Abbasso la testa, scavalco quella dell’uomo, che intanto ne accende un’altra, e poi la fisso. Le chiedo se mi conosce, perché quella sera non sono stato chiamato da nessuno nei pochi minuti della loro presenza e del mio rapido passaggio. La donna mi guarda, con una calma profonda nello sguardo. Aspetta anche lei qualche segnale, non rispondendo però alla mia domanda.
Forse nemmeno lei conosce la mia lingua. Conosce il mio nome ma non la mia lingua, -questo potrebbe essere ancora possibile. Insisto, mi faccio ancora più vicino. La stazione radio si assesta e suona una canzone americana, mi pare When i fall in love di Nat King Cole, e l’uomo chiude gli occhi e le posa un palmo sulla coscia e il vestito un po’ le sale e attendiamo ciascuno uno stacco di luce. “Sali, Ottavio”, mi dice la donna, “sali che parliamo in auto”. Fa freddo e non c’è luce, e a quel punto non mi rimane che approfittare per farmi accompagnare all’ospedale più vicino o al commissariato, che la mia macchina è bloccata nel garage con le porte automatiche. Ma forse è ancora troppo presto per il commissariato. Con l’ospedale avrei almeno escluso il peggio e allora faccio il gesto impacciato di entrare dentro. L’uomo mi accompagna appena lo sportello laterale posteriore verso l’esterno, senza guardarmi. Entro imbarazzato, ma sono sicuro di fare la cosa più logica. La donna mi guarda e avverto che può capirmi, anche se non so come sappia il nome l’importante è che adesso io ritrovi mia madre. Ci ritroviamo in tre in quell’auto. Il primo pensiero è quello di avvertire mia sorella; di avvertirla ma senza allarmarla e purtroppo non trovo il modo se non quello di raggiungere il suo palazzo. Così dico alla donna di chiedere all’uomo che guida di riportarmi al palazzo di mia sorella, quello così vicino al mio, quasi nel punto dove avevano parcheggiato. L’uomo tossisce, la donna gli parla in un’altra lingua. L’uomo fa subito inversione, senza esitare. La donna mi sorride, poi si gira ancora avanti, abbassa la radio e commenta qualcosa in una lingua ancora più oscura. Osservando alcuni palazzi, abbassando la testa per guardarli meglio, mentre glieli indica allo stesso tempo con un dito. L’altro guida e li guarda appena. Le dico dove farlo fermare. La macchina accosta, scendo e la luce ormai è tornata. Le sirene tacciono, mentre le citofono e la sento preoccupata, che si è fatto davvero tardi e che non è mai successo che la mamma abbia tardato così tanto e senza avvertirci. E intanto mi sento imbevuto anche io di una strana ansia, e non so ancora se dirle che in macchina ci sono due sconosciuti che mi aspettano; così cerco di temporeggiare ancora un poco, valutando in silenzio sul da farsi, fino a quando Elvira non mi chiede di salire sopra, e io le dico subito che è inutile, perché non ha il telefono e che c’è qualcuno che potrebbe accompagnarmi a cercarla e fare molto prima. Qualcuno che conosco bene, cercando di tranquillizzarla, senza fare nomi – che d’altra parte non so. Quando Elvira mi chiede i nomi, io vado sul vago, e le dico che in questi casi l’importante è ottenere un passaggio per il primo ospedale, senza entrare troppo nei dettagli. Ho cercato di balbettarglielo per non farla allarmare, ma lei mi fa notare che io ho una macchina nuova di due mesi e che vuole venire con me. Il tempo di lasciare i bambini alla signora Staffini, la sua vicina che molte mattine li accudisce. E che adesso sarebbe un’emergenza e che allora io la devo aspettare. Non ho scelta, così acconsento. Mi volto e li guardo. Sono rimasti fermi dove erano, guardandomi le spalle tutto il tempo della breve citofonata con Elvira. Adesso mi aspettano nell’auto, me lo dicono i loro occhi spenti, la loro forma dei visi vicini e spettrali. Alzo subito un braccio, in modo svogliato, e li ringrazio, sperando che adesso se ne vadano, e dicendo che adesso è tutto risolto, che la luce è tornata, che posso prendere la mia auto, che è nuova di due mesi, come mi ha appena ricordato mia sorella, e che sono stati molto gentili a riportarmi al palazzo. Tra poco sarebbe scesa Elvira e così saremmo scappati nel mio garage a prendere la mia auto e così l’avremmo cercata per bene, come soltanto due fratelli di sangue possono cercare una madre.
L’auto bianca rimane ferma: cerco di scandire le frasi verso la donna, che adesso ha il viso preoccupato, mentre cerca di tradurre al suo autista sinistro le mie ultime confuse parole, e forse il fatto che sono risaliti e che devono andare senza di me. Non riesco a capire quale sia il problema. Sento solo l’uomo alzare la voce, lo vedo strattonarla per un braccio, anche se nelle ombre dell’auto il polso della donna muove dei bracciali che suonano e rischiarano per qualche istante il buio dell’abitacolo. La donna che comincia ad infastidirsi, si scrolla il braccio avvinghiato dalla grossa mano dell’uomo, comincia a reagire con violenza. Alza la voce anche lei, un breve scambio di battute, ancora più secche e più tese. La donna apre di colpo lo sportello, l’uomo cerca di trattenerla, ma scende di furia e glielo sbatte in faccia. L’uomo rincagnito sputa una bestemmia nel vuoto. Si ricompone, mette subito in moto e scatta lontano, come un lampo secco di temporale.
La donna è rimasta da sola, a pochi metri da me. Non mi guarda, ma si osserva le scarpe e intanto con le mani si aggiusta la giacca scomposta. Adesso sembra appena più tranquilla, come se disintossicata, dalla sua ultima espressione nella macchina, quando mi ero appena girato dopo la difficile citofonata con Elvira. Si ricompone appena la gonna e la giacca, i capelli e poi mi si fa più vicina. La guardo con imbarazzo, attendo che mi dica qualcosa. Io non so davvero che cosa dirle, e mi chiama di nuovo con il mio nome, e mi chiede di portarla con noi, che adesso è rimasta a piedi, e io la trovo una cosa ancora normalissima, una cosa che comprenderebbe anche mia sorella Elvira, e senza troppe inutili giustificazioni. Così la donna senza nome mi rimane passo passo accanto, come un’ombra che segue ogni mio spostamento e senza parlarmi. Il tragitto verso il garage è brevissimo. Lo apro con uno scatto del telecomando, che porto sempre con me, insieme al mazzo di chiavi, la porta scorrevole di sinistra si prende il suo tempo automatico. Entriamo dentro il garage. Raggiungo in fretta la mia auto ancora nuova. La donna rallenta, perché i pilastri le sporcano la giacca, nell’ultimo tratto del corridoio delle auto. Entro in macchina e cerco di mettere un po’ d’ordine; accendo la luce nell’abitacolo, comincio ad aprirle lo sportello anteriore, dimenticandomi di mia sorella Elvira, e lei mi piomba dentro e da soli lo sguardo prende coraggio. La porta scorrevole prende a richiudersi, il mazzo di chiavi è ancora nella tasca posteriore. Non faccio in tempo a recuperarlo anche perché la donna mi ride addosso e si aggiusta la gonna con lentezza. Il tempo che la porta si chiuda del tutto e la luce vada via di nuovo, murandoci, senza speranze.
Le sue risate adesso si mozzano. Nel buio la sento farsi più vicina, ancora di più. Il suo odore, l’odore della sua paura del buio o di quello che rappresenti io dentro quel buio, in quel momento così strano, anche se conosce il mio nome, potrei essere un qualsiasi estraneo pericoloso come sono pericolosi tutti gli estranei o tutti quelli che si accostano a noi per la prima volta al mondo. E allora cerco di rimanerle vicino, e di farle coraggio e intanto mi si avvinghia addosso e sento che le sue mani cercano un approdo, forse hanno freddo e mi stringono e allora la guardo ancora meglio. Dico che vado a cercare la chiave per l’apertura manuale delle porte. Mi tocca accendere i fari, ma non so se raggiungono l’angolo opposto del pilastro dove è sistemato l’arnese di sblocco per l’emergenza. Tento con gli abbaglianti e cerco di capire se riescono a farmi strada ma sono dislocati in un raggio ancora insufficiente. Mi servirebbe anche un accendino, ma mi dice che lei non fuma e che adesso le manca l’aria, e che la luce degli abbaglianti non le basta più. Mi chiede di cercare al più presto quell’arnese, altrimenti si mette a gridare e poi ha la paura dei gatti oltre a quella del buio. Mi chiede se lì dentro si rifugiano i gatti, e che il troppo buio la prende alla gola come quella sua voce così stanca sta prendendo alla gola me. Ma io le rispondo di no: che di gatti lì dentro non ne ho mai visti, anche se non sono così sicuro, ma mi conviene tenerla calma e cercare al più presto di uscire dal bunker-garage. La sento che mi stringe più forte, perché ha paura di rimanere lì dentro, perché teme che i morti si vogliano vendicare di quello che ha fatto, mi dice, e allora comincia a singhiozzare e io non capisco che cosa significano quelle strane cose che comincia a sviscerarmi, con un tono sommesso ma profondo, che mi ferma e non riesce a farmi uscire più dalla gabbia delle sue parole convulse. Le chiedo di spiegarmi meglio, ma non riesce a parlare. Le sento solo il respiro che si fa più pesante o è forse lo sforzo per articolare e allora rimango impiantato vicino a quell’ansia e me ne rapprendo fino a dentro le viscere, cercando di sentire oltre e quanto altro potesse esserci oltre quell’angoscia palpabile e così nera.
Gatti non ce ne sono in quel garage, ma non mi crede come forse io non credo a nulla di lei, tranne al mistero del suo odore e del suo corpo elegante e un po’ francese e malinconico, uguale allo stile del suo viso. Forse avverte dei rumori impercettibili, che io non riesco neppure a cogliere,e vuole dirmi qualcosa, a fatica. Ma così al buio anche le parole perdono orientamento,anche se acquistano peso, che forse avrebbero bisogno di uno spiraglio anche minimo per partire; e intanto sento una sua gamba che mi sfiora e poi il silenzio, che la capsula dell’auto protegge e amplifica, ancora più grande di quello riverberante del garage. Le porte bloccate: saranno quelle la causa del suo affanno, forse la claustrofobia; ma non riesco a chiederle niente. Non farei altro che agitarla, e adesso quella donna mi inquieta ancora di più, perché mi spinge con la gamba e forse non se ne accorge, e intanto mi ritornano a raffica dentro la testa Elvira e mia madre, che sembrano così lontane e sconosciute alla mia vita sospesa di quel momento; soprattutto mia madre, che dimenticavo a intermittenze così rapide. Adesso avverto l’odore di quella donna ancora senza nome, ma era colpa mia che non glielo avevo ancora chiesto, e poi conosceva il mio nome. Ottavio, lo ricordo bene, così mi aveva chiamato, con il tono riposato e cordiale di una che mi conosce bene, forse una compagna di classe, una che ricordava ancora il mio nome lontano, sfigurata o trasformata dal tempo. Eppure stare al buio con quel contatto così silente e invasivo, quanto elegante, mi fa sentire al mio posto, in un posto così misterioso e mai occupato, che avrei quasi preferito che non si modificasse niente di quella strana variante serale, e che il tempo continuasse sospeso e indisturbato a scorrerci addosso e che le sue ginocchia mi parlassero, semmai di dove fosse finita mia madre o la mia vita e in quell’ora così strana del sabato, o della voglia improvvisa di un bacio, da scivolarle sui capelli che le nascondono il viso mischiati al buio del garage, che me la ricordavo piuttosto ordinata, da come la ricordavo alla luce intendo. Come una che forse stavo cercando da sempre, ma che adesso riprende a parlarmi, a fatica; forse perché ha ripreso il fiato giusto e allora i miei pensieri ritornano al loro posto come cadetti, nel forziere oscuro della mia coscienza, quando un richiamo mi risveglia dal sogno di quel reale.
Mi dice che sta un po’ meglio e che adesso vuole parlarmi di qualcosa di importante e che devo ascoltarla senza interromperla, altrimenti non ci riesce. A quel punto mi concentro, le chiedo se ha bisogno di luce, ma lei preferisce così, come a volte alcune donne con l’amore…, e allora la sento più vicina ancora. Più della sua gamba sul ginocchio di poco prima, mentre mi parla di una situazione oscura che all’inizio non riesco a comprendere. Le sue parole sembrano sfuggirmi, dovrei chiederle di ripetere ancora, ma sono troppo preso dallo sviluppo, è come se il punto importante debba ancora arrivare e non devo a tutti i costi distrarmi, quando mi parla di quella stessa sera, in effetti di poco prima che io li avessi visti nella macchina, e mi dice forse di qualche ora prima, forse meno di due ore, – altrimenti sarebbe stato pomeriggio – e mi parla di una donna che si spogliava, in una traversa di via Cervantes. Una donna che si toglieva gli abiti di dosso, davanti a tutti, senza ritegno e pudore. Si alzava la gonna e si toglieva le mutande nere, le aveva viste bene e scopriva anche la pancia e poi si metteva a sedere sul marciapiede e nella stessa inquietudine continuava a togliersi tutto quello che poteva, con uno sguardo smarrito nel vuoto. Se avesse potuto, mi diceva, quella strana signora si sarebbe strappata anche la carne, perché in quei gesti c’era come un’insofferenza profonda, come di oppressione per qualsiasi cosa di proprio costituisse una sensazione viva di contatto. E allora ogni tessuto andava allontanato d’urgenza, quasi a strapparlo, sembrava una donna perduta nelle sue stesse fiamme. Rimango raggelato, me la vedo davanti, come me l’ha descritta, e penso a via Cervantes, alle diramazioni e ai percorsi possibili di quell’ora. Se potesse essere passata proprio mia madre di lì, dentro un sabato qualsiasi di autunno come era quello e poi impazzire, così all’improvviso; e poi ricollegare il fatto che quella donna conoscesse il mio nome, forse l’attinenza con un indizio e lo svelarsi di un segreto terribile, quanto quella sua bellezza purissima e opprimente, che continuava a insidiarmi nelle ombre. Le sue parole mi frenano di nuovo il flusso e allora cerco di capire e lei continuando mi dice che si trovavano di passaggio, con lo stesso uomo di prima, quello che era alla guida di quella stessa macchina, quello stesso uomo sinistro che io non capivo e che non capiva nemmeno lui me, molto probabilmente. Con la loro stessa auto, che avevo visto anche io e nella quale anche io ero entrato per qualche minuto, rallentavano e accostavano. C’era spazio in quella piccola traversa che imbucavano, e rimasero a guardarla, quella donna che apriva le gambe e scivolava le sue mutande oltre le ginocchia e si alzava i capelli, che erano curati. Insisteva col dirmi che sembravano freschi di parrucchiere, di una persona distinta, che adesso faceva allontanare tutti i passanti e creava solo il vuoto e lo spavento intorno a sé, e non il desiderio di un corpo. Quel tipo di svestimento disturbante, era afflitto solo dallo spavento, non c’era altro. Mi diceva che vestiva davvero bene, e anche il cappotto che era spalancato sul marciapiede era un cappotto molto buono, di una signora importante o per bene, che certe cose forse non le avrà mai fatte prima nella sua vita; e anche le scarpe erano alte e io volevo chiederle di che colore fossero quelle scarpe alte, perché anche mia madre portava delle scarpe alte quando usciva ed era una persona molto elegante; e anche il suo cappotto, ma non trovavo il modo di interromperla né la forza di parlarle. Si ferma. La sento fredda nel buio, spaventata. Forse deve ricaricarsi o si è già pentita o ha sentito un rumore. Mi chiede la mano, e la sento tremare forte, come non ho mai sentito tremare nessuno così in tutta la mia vita. Allora gliela stringo più forte, cercando di calmarla; ma è molto difficile essere più forti di un tremore così preciso e ghiacciato, da far tremare e indebolire anche la mia mano, e allora il suo racconto continuava, riprendendo quota, e io cercavo di stare calmo ma non ci riuscivo, e poi pensavo anche a Elvira: chissà se stava ancora ad aspettarmi, ma senza luce avrebbe capito che ero rimasto chiuso lì dentro, e forse era già risalita, a chiedere aiuto o a controllare i bambini dalla vicina, in attesa che la luce ritornasse. Ma in quel momento io non avrei mai voluto che la luce ritornasse. Mi intrappolava l’odore amaro di quel racconto e quello del suo corpo, che prendeva sempre più calore dal mio e me lo toglieva, e che adesso mi era ancora più vicino. Le sento la tempia scivolarmi addosso, e coricarsi verso il mio fianco. Stiamo scomodi, ma riesce a continuare meglio da distesa e adesso le sue orecchie sono vicine alla mia pancia e avvertono meglio il mio respiro, che cambiava a tempo con l’affilarsi delle sue piccole frasi spezzate, come coltelli, quando mi diceva dell’idea che era venuta al suo strano autista, quando la guardò negli occhi e le disse di controllare che non ci fosse nessuno a guardare, mentre se la sarebbe caricata dietro, prendendosela in braccio. “Non sapevo cosa fare, di solito decideva sempre tutto lui e allora, in un momento che non passava nessuno, ero scesa a fare da palo, come mi aveva detto di fare, mentre quello se la prendeva di peso, quella povera matta, e se la caricava in macchina, quasi nuda, sui sediolini posteriori. E io allora, le avevo preso il cappotto che era rimasto disteso e anche una scarpa e piombavo spaventata in avanti, e cominciava a correre forte, e quello stupido che rideva e spingeva sull’acceleratore, e io che non capivo cosa ci fosse di così divertente e dove diavolo stesse mai andando; e poi mi giravo a guardarla, quando quella donna sembrava rapita dal passaggio rapido delle prime luci cittadine dai finestrini e allora sembrava più calma. Aveva la pancia e la schiena ancora scoperte e messa tutta di fianco le si vedeva mezza natica con dei lividi e tutta sporca. La borsa gliela aveva presa lui, forse era convinto che una fuori di testa non è detto che fosse necessariamente una poveraccia e allora cominciavo a capire che voleva ricavarci qualcosa in qualche modo da quell’accidente così triste e io non potevo crederci che potesse arrivare a tanto e mi aveva già scagliato la borsa con l’altra mano sulle ginocchia” adesso riprendendo ad affannare, “e poi mi diceva di controllare che cosa ci fosse e se avesse i documenti, e intanto imbucava una strada secondaria e meno trafficata e molto isolata, una strada che mi metteva paura, come il suo viso, quello perduto della donna che aveva portato in auto, come tutta la situazione. Forse voleva raggiungere qualche luogo nascosto, che non conoscevo nemmeno io e intanto, mentre frugavo nella borsa, la tenevo di profilo. Era ancora scompigliata, ma aveva un gran bel viso e così umano, e allora davvero mi dispiaceva, perché sembrava una persona così per bene e speravo che non avesse mai ricordato il male che le stavamo facendo a portarla via; e in quel momento che sembrava non finire mai io non riuscivo più a frenarlo, e non capivo più le sue intenzioni e nemmeno quello che mi diceva. Intenzioni che forse nemmeno aveva, non riuscivo nemmeno a capire che cosa gli fosse scattato, se era solo per la borsa o per qualcosa di più oscuro e inscrutabile, qualcosa che non avrei mai saputo. Adesso avevo le mani affondate nella borsa e gli occhi sui suoi capelli e poi sul suo naso: un naso così nobile e gli occhi ancora così sperduti e serali, e con quell’unica scarpa ancora al piede la sentivo una donna disperatamente sola, forse sola quanto me. Ma forse non povera, diceva lui, e sorrideva forte e mi guardava, gustandosi in pieno la chiazza lorda del mio spavento. Le avevo preso il documento, era in una piccola custodia arancione di plastica, sfuso nella borsa, insieme alle chiavi. Ma fu in quel momento esatto che l’auto sbandava, per fortuna quel brutto diavolo riuscì a recuperare con una sterzata. Io avevo la cintura, come l’aveva lui, ma quella poveraccia dietro stava tutta storta, senza nessuna cintura, e così sbatté la testa nel vetro, senza romperlo ma così forte da perdere il sangue dal naso e da farsi come nera nera sotto gli occhi e fino alla bocca. Aveva cambiato viso. Ci guardammo spaventati, in quel punto non potevamo nemmeno accostare per vedere che cosa le fosse successo dopo il colpo, e allora lui continuava a correre, ancora di più, forse in cerca di una zona più isolata. Quell’orario era già trafficato, sarebbe stato meglio abbandonarla, morta o viva, mi gridava; io intanto la chiamavo, per capire se mi sentiva, ma aveva gli occhi aperti e più tranquilli, come quelli di una cerva. Ma era fredda, ancora così fredda, quasi come me e il documento mi scivolò nell’auto. In quel momento non pensai più a nulla, alla borsa, a quanti soldi avesse avuto dentro, ma mi girai tutta per sentirle il respiro da qualche parte del corpo, perché si respira un po’ dovunque, uno vivo anche se svenuto dovrebbe in qualche modo pompare, ma invece quella signora non pompava se non quel nero di morte sotto gli occhi, che le dislagava come il trucco sciolto e lui mi diceva che era una matta, e che quella è la fine che fanno tutti i matti prima o poi, e che non era colpa di nessuno, e che aveva trovato una radura nei pressi della strada senza uscita delle tre croci, dove accostò.
Scese, tirò una boccata folta di fiato stirandosi al massimo le due braccia verso la schiena. Poi aprì con calma lo sportello, dopo essersi guardato intorno per accertarsi che non vi fosse nessuno in giro. Così la controllò, con una certa competenza, la stessa che avrebbe potuto riservare a qualsiasi estraneo o creatura animale in difficoltà incontrata durante un qualsiasi tratto di strada. Lo vedevo molto sicuro, e come se avesse avuto già a che fare con quelle situazioni, e allora io guardavo a tratti alternati il suo viso e quello della donna, che si faceva scuro come se abitato da un ragno. Speravo di essermi sbagliata, che fosse solo una mia impressione e un gioco della luce, e invece quell’uomo mi fece segno con la testa che era andata. Il colpo era stato molto forte, molto più forte e preciso dei colpi forti e possibilmente volontari che si possono infierire a qualcuno con intenzioni sinistre. Così forte che ancora me lo sento dentro e io non avevo il coraggio nemmeno di muovermi, che era già buio, quando l’uomo se la prese di peso e la scaraventò in un dirupo profondo e oscuro, forse una mezza discarica abusiva, lasciandola ingoiare dalle ortiche e dai rovi, dove non l’avrebbero trovata per giorni, forse per mesi, perché lì era davvero molto profondo e non ci sarebbe arrivato mai nessuno. La borsa rovesciata, vicino a una sua scarpa e allora lui prese quello che c’era da prendere, una quarantina di euro in tutto, e buttò via il resto delle poche cose, comprese le chiavi. Risalì in auto e scattò via, una molla di fuoco, ritornando verso il centro, appena più sereno. Mi chiese di passargli l’accendino e si mise a fumare con una mano sola e soffiava molto forte il fumo dalla bocca, lo spingeva con un brutto suono di drago. L’altra scarpa della donna, quella che era rimasta in auto, mi disse di buttarla in un cassonetto, che nessuno avrebbe ricollegato. Poi accese la radio”.
Riprende fiato e si allontana da me con la testa. “Perché, perché eravate tornati proprio davanti al mio cancello?”, e mi disse che di solito il sabato si appartavano dove capitava e che avevano deciso di prendere fiato e di rilassarsi e cercare di farsene una ragione parlando, “ma io ero agitata e non volevo restare a parlare; poi sei passato tu e ti ho sentito chiamare dal balcone, forse tua sorella, io ho capito che cercava te, ma tu eri un po’ stordito e allora non capivi, ecco, e poi il resto tu lo sai”.
Rimaniamo in silenzio, raggelati e sfiniti. Il garage immerso nell’oscurità. “Il documento, per favore. Devo vedere il documento”. La donna non si muove, rimane ferma, impassibile. “Non ce l’ho più, il documento. Mi è caduto a terra nella macchina quando quel pazzo ha sbandato, e poi non l’ho nemmeno aperto”.
Non riesco più a muovermi. Intanto la curiosità si fa così grande, o forse avremmo potuto lasciare tutto nel vuoto, nel vuoto di quel momento, e lasciare nella nebbia anche quell’identità, come in fondo era la nostra. In attesa che avessero ritrovato mia madre o che fosse ritornata lei da sola, che in quel caso lì sarebbe stato tutto molto più semplice. Ma i miei dubbi erano sempre più laceranti. In quel momento avrei dovuto sbloccare soltanto la porta e raggiungere Elvira, e chiederle se avesse avuto qualche notizia e allora la lascio nell’auto. Scosta ancora la testa e una volta che io esco, riprende a fatica la stessa posizione. Vagando tra i pilastri, senza riuscire ad orientarmi. Chiedo alla donna di accendermi i fari, che avevo spento quando mi parlava, almeno per orientarmi. Ma lei non mi risponde e allora mi avvicino all’auto. Mi corico verso i comandi e la sfioro, e solo in quel momento ritorna la luce…
In un colpo la donna si ricompone. Io afferro il telecomando e apro la porta automatica. Metto in moto e scatto fuori, e in quel momento vedo Elvira e mia madre che mi vengono incontro, con lo stesso sorriso stampato nel volto. Mia madre che sembra rimproverarci, ma che pare così felice di tutta quell’ansia così grassa e imbastita solo per lei, e che le lascia un gran calco sulla bocca che ride. E poi ci dice che quella era la serata del suo poker e che noi avremmo dovuto ricordarlo, il terzo sabato del mese. E che per fortuna quel gentiluomo dell’avvocato Tassoni, sempre così gentile e premuroso, l’aveva appena riaccompagnata, che era tutto buio anche lì da loro al corso Nelson. Gli occhi di mia madre si posano sul viso sperduto di quella donna, che mi sta ancora vicino e che si sente esclusa e smarrita dalla nostra gioia domestica, e che in un baleno mi saluta, con un bacio sfuggente e si precipita fuori dal cortile, verso la strada. Le grido qualcosa, mi dice che avrebbe preso un taxi, ormai è più lontana e si muove così in fretta, senza voltarsi, quando gli occhi di Elvira e di mia madre mi guardano perplessi, quando ormai la donna è svanita. Mia madre decide di andare a salutare i nipoti, e allora si allontana piano con Elvira. Prima di avviarsi sopra mi chiedono chi fosse quella persona che non avevano mai visto. Io dico una compagna di classe, perché non so che dire e una compagna di classe è una cosa ancora molto tenera e rassicurante da dire, e di una certa nostalgia ancora così ben riuscita e funzionante a quell’ora; e specialmente in una sera come quella e a quell’ora di quel sabato così spiritico, quando ci eravamo ritrovati tutti a dispetto di tutto il resto, e subito dopo il maglio irreale di quell’inferno vivo e così privato, che non avrebbero mai saputo. Intanto chiamo un attimo Elvira e le chiedo se dal balcone quella sera mi avesse chiamato davvero per nome, ma lei nega: quella sera non si era affacciata. Ci siamo parlati solo al citofono, mi dice con sicurezza, che stava cenando e che aveva già abbassato le tapparelle da un pezzo. Le lascio andare vicine e spengo il motore. Poi lo riaccendo e chiudo gli occhi. Nell’auto ancora il suo odore speziato, bellissimo a quell’ora già troppo notturna, quando sono mosso dal desiderio di raggiungerla e di svelarci quell’identità oscura per entrambi, che nonostante il sollievo adesso mi logorava ancora di più.

* * *

Vagai per diverse ore, e non solo quella sera, ma non la rincontrai mai più e nemmeno seppi mai se fosse stata ritrovata una donna in qualche macchia di erbacce selvatiche e di rovi, e nemmeno se qualche scarpa da donna alta e di una per bene fosse sbucata appena sformata da un cassonetto. Non seppi più nulla, perché forse era davvero fatto di nulla quello che quella sera mi era accaduto. Come tutto quello che avviene solo agli altri e che non ci tocca mai direttamente, che non ha a che fare con le nostre relazioni, con i nostri affari di cuore o di morte e con i nomi di persona; con la sfera eletta dei nostri consanguinei o con quella dei nostri piccoli clan solitari e borghesi, e con tutti i piccoli tasselli ordinati della nostra vita e forse con l’ apagoge di quel sabato sera e notturno. Eppure quella donna doveva avere una grande fantasia, o una grande indimenticabile maledizione nell’animo che un po’ mi contagiò e che mi è rimasta ancora dentro anche se mi rassegnai in qualche modo a dimenticarla, come una compagna di classe in controluce, dopo tanto tempo, e pensando così che non fosse avvenuto nulla di tutto quel racconto al buio, e che ne era rimasto solo il suo debole fantasma, soltanto dentro di noi. Quando un giorno di non molto tempo dopo, mi trovavo al solito autolavaggio, e un ragazzo biondo e quasi straniero del personale, scrollandomi il tappetino dal lato passeggero, mi fa cenno con la voce e muove il braccio con un gesto ampio nella mia direzione. Mi giro, e intanto noto che ha qualcosa in mano, un qualcosa di un arancione acceso.
“Che fa, viene lei o glielo porto io?”.
“Ma che cos’è?”

fine

§

Luigi Salerno è nato a Napoli nel ’67, e lì risiede attualmente. Specializzato in alta formazione musicale, con tesi per il secondo livello specialistico, sulla musica classica nel cinema (La musica colta nel fotogramma) conseguita con il massimo dei voti al Conservatorio di Napoli S. Pietro a Majella. Ha ottenuto diverse segnalazioni e premi (Premio W. Ciapetti 2007, 15 TH International Gypsy Friend Arts Competition 2008. Categoria Short Story Racconto Il sole negli occhi.)
Con la Scuola Holden è stato tra i finalisti del Concorso nazionale autori italiani e stranieri “Terre di Mezzo”, 2008. Il suo racconto “il telegramma”, è stato pubblicato da “Terre di Mezzo”. Ha ottenuto il Diploma d’onore al “16 TH International Gypsy Friend Arts Competition 2008”, nella categoria “Short Story” con il racconto “La sassata”.

Con il racconto che abbiamo pubblicato qui su Musicaos.it Luigi Salerno è stato finalista al Concorso OXP 2009, organizzato dalla Casa Editrice legata all’Istituto Universitario l’Orientale di Napoli (2009).

Di recente si è classificato al secondo posto alla II Edizione del Concorso “Festival Libriamo 2009” a Vicenza (continuazione ideale “Sillabari” di G. Parise) con il racconto “La canzone” pubblicato con “La Serenissima”; è stato finalista alla III Edizione di “Libriamo 2010 Vicenza”, dedicata allo scrittore Giovanni Comisso, con il racconto “Fuga dal Medrano”, di prossima pubblicazione.

Ha collaborato con Terra Nullius: “Bottoni”; “On the phone”. Il suo romanzo dal titolo “Il disabitato” è di prossima pubblicazione. Per il teatro ha scritto “Meerschaum” (Atto unico); “L’interruzione di viaggio” ;“La stanza di Fritz”.

Luigi Salerno si occupa di un blog letterario: http://bookandshade.blogspot.com/.
Contatti: luisgroove@libero.it

(clicca qui il racconto in formato pdf “La compagna di classe” di Luigi Salerno)

§

Racconti, recensioni, proposte, interventi, collaborazioni con Musicaos.it, le istruzioni sono qui http://www.musicaos.it

La pagina facebook di Musicaos.it è qui: http://www.facebook.com/musicaosrivista