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Canto Blues alla Deriva. Tutto pronto per Noci.


cbd_s.jpgE’ tutto pronto (copie comprese) per la prima presentazione del “Canto Blues alla Deriva“, giovedì 3 agosto a Noci, presso Atrio Palazzo Lenti di Via Porta Nuova Centro Storico (Noci), ore 21.30.
Vittorino Curci presenterà “Canto Blues alla Deriva“, insieme a Francesco Sasso e Luciano Pagano, con l’augurio, a cavallo di quest’estate (“l’estate più calda del secolo”) di organizzare assieme un reading di tutti gli autori presenti (quanti più sarà possibile) in quel del Salento. Nel frattempo potete acquistare la vostra copia del “Canto Blues alla Deriva” al prezzo popolarissimo di 5€ acquista CANTO BLUES ALLA DERIVA su Ibs acquista CANTO BLUES ALLA DERIVA su Unilibro oppure richiedendola nella vostra libreria di fiducia.
Approfitto di questo mio blog personalissimo per ringraziare ANZITUTTO gli autori (oltre a me e Francesco ci sono Vito Antonio Conte, Irene Leo, Gioia Perrone, Matteo Chiarello, Stefano Donno, Rossano Astremo, Davide D’Elia, Angelo Ciciriello, Tiziano Serra, Paolo Simoncini), un grazie a Mauro Marino che ha creduto nella nostra idea, insieme all’editore e a tutto lo staff della casa editrice, che l’ha appoggiata da subito sotto ogni aspetto organizzativo. “Canto Blues alla Deriva” riporta, in pagina 2, la dicitura “Musicaos.it – uno sguardo su poesia e letteratura”, è il primo testo che dalla rete riusciamo a fare arrivare in libreria, dopo un percorso iniziato nel gennaio 2004 e – per quanto riguarda il “Canto Blues alla Deriva” – un’elaborazione incominciata nel marzo del 2005. La cosa più interessante di questo poema collettivo è costituita dal fatto – sembra un’ovvietà – che si tratta di un’opera scritta a più voci e, soprattutto, scritta per passione e spontaneità nei confronti della poesia. Non avremmo mai immaginato, io e Francesco, che il “Canto Blues alla Deriva” avrebbe preso questa forma. Interessante è stato vedere come si è sviluppata, da zero, l’interazione tra alcuni di noi. Di tutto ciò che sono stati la dinamica e lo sviluppo del testo, potrete trovare materiale interessante, indicazioni, testi, nel prossimo numero di Tabula Rasa; in parallelo alla redazione del “Canto Blues alla Deriva”, infatti, ho scritto alcune note, ho raccolto alcune notizie dal forum, ho chiesto agli autori versi inediti (alcuni hanno già risposto), insomma, ho recuperato in editing e redazione le misure che all’inizio mi aveva lasciato Francesco. Quindi – anticipo – nel prossimo numero di Tabula Rasa, assieme alla seconda selezione di racconti tratta da INCIQUID (cui si aggiungono due inediti di Massimiliano Zambetta e Flavia Piccinni), nella sezione poesia troverà posto un DOSSIER/1 sul “Canto Blues alla Deriva”. Saprete tutto tra qualche giorno.

Angelo Petrelli: farsi di un’elegia esordio.


Angelo Petrelli, dopo essere approdato nel 2003 sulle pagine di Vertigine, il periodico di letteratura curato da Rossano Astremo, ha esordito nel gennaio del 2004 su musicaos.it. Archi di tempo che potrebbero sembrare brevi come potrebbero, invece, fornire il tempo ragionevole per la riflessione sulla maturazione di un pensiero poetico, su un esordio di un poeta poco più che ventenne. Questo breve scritto raccoglie spunti di lettura, brevi annotazioni sulla densità dei testi poetici contenuti in Elegia, esordio importante dal punto di vista della produzione di Angelo Petrelli, che nel frattempo ha avuto modo di riflettere anch’egli su questi testi e meditare altre direzioni, alcune simili ai testi contenuti in questo libro, altre totalmente differenti. L’esordio di una voce reclama il suo status con prepotenza, irruzione, frattura. Nell’esordio di un poeta finiscono le poesie che hanno chiuso, a giudizio dell’autore, la fase di apprendistato necessario alla scrittura di versi. L’esordio in tal senso costituisce uno iato sul piano delle scritture possibili. Angelo Petrelli è di sicuro un (giovane) poeta. Del giovane poeta possiede una delle caratteristiche fondanti, l’incoscienza, quel sentimento che si mescola all’irruenza che i giovani coltivano al margine delle estenuanti letture, e che si concretizza nel possedere un’idea certa, un pensiero manifesto di ciò che comporta scrivere, anzi, di ciò che è la propria scrittura. E’ come se in assenza di maturità ogni giovane poeta se ne costruisse una propria da sé, e in questa si specchiasse per trovare i motivi della propria scrittura. Le poesie di Elegia dimostrano come questa prima maturità sia stata costruita e raggiunta.
Costruzione di situazioni ed ambienti che riescono ad essere delineati e sfocati insieme, delineati nella presentazione del verso, localizzati, compatti, e sfocati nell’intenzione del resoconto, fumosi, sfuggenti. C’è una tendenza, diffusa in questi versi, nell’assumere su sé i contorni dei paesaggi notturni, del tempo in cui ci si svolge come pensiero (“quando ancora buio disperavo”, “quel tempo ero da poco immaginario”). Questi modi presuppongono un estraniamento, voluto, del poeta da sé come oggetto del canto e del poeta dai suoi stessi versi. In sostanza, Angelo Petrelli, tra le varie condizioni che va via via costruendo come proprie, instaura un rapporto di supervisione del reale, supervisione che, certamente, è portatrice di un giudizio. Ciò ci fa intuire, a lato, la genesi di un carattere. Allo stesso modo l’esperienza del vissuto, amoroso elegiaco diviene oggetto di continua riflessione, dominata da costante amarezza.
Il poeta muove i suoi passi all’interno di una città, Lecce, “sonora/di dozzine di piccole orchestre/all’aperto[…]” e nella ripetizione di..di si sente il distacco nei confronti di questi luoghi, della “gente fottuta”, nell’”insidia sull’oscura/pietra”. Una città dominata dalla propria ansia di mettersi in scena, all’interno della quale si consuma il dramma del poeta, insofferente ad ogni convenzione.
Tema ricorrente è la morte, il distacco, vissuto per lo più come terrore del distacco dalla persona amata che si traduce in amara considerazione di irreparabile perdita, a prescindere che questa sia reale o puro appoggio di finzione. L’amore è questa cosa su cui si è costruito l’episodio, l’antecedente, che si risolve nei versi di Angelo Petrelli come assoluzione (“che tutta la fatica risarcirai/…/la mia soluzione”). Continuo il richiamo ad un ‘non morire’ presunto, culmine negativo di un amore epico, se con questo aggettivo traduce il sovraccarico tensionale del quale il poeta investe ogni situazione raccontata. La vita e la morte sembrano volersi scontrare in questi versi, lente di ingrandimento voltata all’indietro, sulla coscienza del poeta, che ingigantisce ogni piccolo avvenimento, fino a farlo divenire un appuntamento con il nulla, una partita di scacchi con la morte (“you are to kill me today -/(,…)/as though me drowning/within your last play”), trasformandosi da lente di ingrandimento in specchio ustorio. Questa vena sotterranea, figlia dei crepuscolari e del D’Annunzio di Alcyone affiora poche volte, ma è presente, anche tenuto conto del fatto che i riferimenti più vicini di Angelo Petrelli giungono fino alle soglie della poesia del novecento, senza sconfinare nella contemporaneità più dichiarata e qui è necessaria una precisazione: lo stile della propria poesia, la scelta di seguire alcuni suggerimenti e alcune letture, tutte queste sono le componenti che fanno un esordio differente rispetto ad un altro, e qui potremmo inserire, senza timore di inferire ai versi del Petrelli soluzioni non sue, autori come Pavese o Rilke. Sono i versi questi, dove si riconoscerà l’ordito delle letture, l’utilizzo di soluzioni culturalmente mediate, di sicuro effetto, nonostante siano esse esenti da ogni ricercatezza (“dove dolgono le mani suonare, m’è morta tutta/intorno la risposta”, “noi tale fu la voglia che un’invenzione, et forma d’una fredda”). E’ nell’apparente tortuosità di certe soluzioni che vanno rinvenute le tracce di influenze letterarie. A proposito dell’idea di soluzione, va aggiunto che proprio in contrapposizione di questo discorso poetico, la cui dominante cromatica è il nero, nel testo che da il titolo a tutta quanta la raccolta è contenuta la soluzione, il perché di una luce assente a questi versi.
In questi versi si delinea la forma di una religiosità aliena da ogni divino, se non come simulacro di parole (“nel nome del suo nome”, “da Dio stesso capirò la storia ridicola/della genesi[..]”,”la breve croce”), non v’è alcun conflitto con il divino, che non si pone in alcun modo come alter nel discorso poetico di Angelo Petrelli, chiuso tra il sé del poeta, con se stesso, e la donna alimento d’elegia.
Rien Nul è la silloge, all’interno di Elegia, nella quale si ritaglia lo spazio di un breve canzoniere, il cui pretesto è dato da una relazione d’amore interrotta. Va notato che Angelo Petrelli riesce a non incappare in un errore comune agli esordienti, quello cioè di riempire con filosofemi le proprie poesie. Il suo non può certo dirsi un dialogo a due voci. Il poeta prende spunto da quanto accaduto con la sua (reale e distante) interlocutrice, per ri-versare in poesia l’astio nei confronti delle convenzioni sociali e dell’amore concluso. Queste poesie sono dense del rimpianto di ciò che è stato, al punto che per brevi attimi l’aderenza tra l’immagine di sé che il poeta ha costruito in altri luoghi della raccolta cede il passo all’immagine reale, all’autore in carne ed ossa, carico del suo vissuto sentimentale ed emotivo. Certo, la bravura dell’autore consiste nel non cedere il passo ad alcun sentimentalismo, nonostante uno scarto linguistico evidente. La realtà diviene esploso dell’intimità (“[…] come/alla finestra ansiosa, pronta”), fino a tendersi in forme volutamente piane (“giocavamo all’amore senza/fuggire – e sincero ti chiesi/puerile d’amarmi per sempre,…”). Se in questo verso non ci fosse stato quel “puerile” difficilmente avremmo potuto considerare seriamente come poesia il resto della costruzione. Qui si riconnette, semplicemente, la condizione biografica da cui la silloge è scaturita, il poeta, almeno in ciò che gli compete, i versi, cerca di recuperare lo scarto sulla vita vissuta, terreno sul quale l’interlocutrice (assente) si è dimostrata sicuramente più abile.
Il tempo, in Rien Nul è luogo della disfatta, nel quale si consuma l’amarezza del vivere il leit motiv del “ho ingoiato” come quello delle ripetute negazioni: “[…] tutto l’amaro/che non importa deve essere una/via del cuore”, “[…] il tempo/feroce che non finisce” e ancora “[…] del giorno che pensai/un domani e l’avevo già visto”
Il poeta si assesta nel mezzo del tempo con forme di completa di negazione, “non posso più credere” diviene, in sostanza, la formula di queste poesie. Il poeta non può “morire tra le tue braccia”. La silloge si chiude, nuovamente come si era aperta, su quell’”amaro”, altra chiave di questa sezione di versi.
Si è parlato dello specchio che viene costruito utilizzando i richiami ad esperienze poetiche complete (Thomas, Celan), in alcuni luoghi il poeta sembra disporre di mezzi inaspettati, basti leggere questa strofa, una delle più riuscite e che vale la pena di riportare:

Mi lamento per ogni grazia ricevuta
perché la breve croce sotto muta – la donna
che sembra disciolta nel mio seme
è donna perché mi cresca come radice
assai più profonda del mio cancro
di questo Dio dal cuore troppo inesauribile.

Ma c’è un altro elemento che affiora da questi versi, sia che esso voglia solversi in un estetismo reiterato e onirico, con l’utilizzo di immagini prese dalla poesia macabra, con riferimenti chiari a Baudelaire, dove il macabro è inteso come autocompiacimento nell’osservazione del male, della cattività generata dal distacco e dalla perdita, miste ad un’ammirazione della propria, crescente, angoscia. Questa influenza, che può ascriversi a buona parte della raccolta, costituisce un elemento dal quale, il lento distacco è già presente nell’ultima produzione di Angelo Petrelli. Avere posto il proprio io e la propria esperienza al centro di tutte le tematiche di questa raccolta è il motivo per cui Elegia, nell’equilibrio degli elementi fin qui esposti, si presenta come esordio notevole. La città, le persone, Dio, sono figure lontane, fanno da sfondo; la morte, il distacco, l’amore, anche se a volte tradito da un amore di sé più spiccato, sono tutte sfaccettature di un unico piano.
Cosa resta dunque, al termine della lettura di questa raccolta? La prima domanda, legittima, è quella relativa al titolo/genere scelto dall’autore per il suo esordio, un’indicazione chiara. Elegia, se intesa come ‘lamento funebre’ in senso lato, non sostiene nel caso di Angelo Petrelli una poesia che centra il proprio fulcro sul tema della morte. Rifiuto dell’eros d’essere elegia può forse voler significare il contrario, l’eros, in tal senso, può salvarsi, può essere la variabile che non dipende da tutto quanto detto riguardo l’angoscia, il desiderio di non morire, l’amarezza dell’esistenza. E’ proprio l’ansia di elegia, “questa mia sete d’angoscia t’ha fatto morire”.
Angelo Petrelli riesce, riesce nel tentativo di non affrontare le tematiche dell’amore e del distacco senza essere scontato, si pensi ad esempio alla breve sezione intitolata Death and love song, il cui titolo potrebbe essere tranquillamente posto come sottotitolo ad Elegia.
Riesce, nonostante la giovanissima età, a non essere affetto da giovanilismo del verso, e quindi a poter interloquire con la materia che si è scelta senza soccombere ad essa.
Quello che adesso necessitano, le poesie qui contenute è il dialogo con i lettori.
Certo, è presto per cogliere tutte le coordinate di questo esordio. Una nuova silloge, già in lavorazione racchiude ulteriori soluzioni a questi quesiti e questa introduzione sarebbe capziosa ed ingannevole se non fosse riuscita a racchiudere, anche marginalmente, quanto c’è di Angelo Petrelli in Elegia.

Pubblico in questo post l’introduzione scritta per i versi di Elegia, l’esordio di Angelo Petrelli; il volume, edito da Besa Editrice nella collana Poet Bar, diretta da Mauro Marino, contiene inoltre interventi di Michelangelo Zizzi, Giuliana Coppola e Serena Mauro.

Elegia, Angelo Petrelli, euro 5,00, pp. 48.

su “D’indolenti dipendenze” di Ilaria Seclì


E’ uscito nella collana dei Poet/Bar, diretta da Mauro Marino, l’esordio poetico di Ilaria Seclì, intitolato “D’indolenti dipendenze” e, come è successo per altri titoli di questa stessa collana (vedi Astremo, Semeraro, Benedetto, Petrelli), siamo qui a chiederci se anche questo volume mantenga le premesse di qualità, sperimentazione e ricerca che sono insite nel lavoro condotto da Mauro Marino e nella sua continua ricettività/ascolto di quanto accade attorno all’arte ed in particolare alla scrittura nella nostra regione. Ebbene quello di Ilaria è sicuramente uno dei prodotti più maturi usciti in questa collana. La maturità è data, in questo caso, dalla delineazione di sé e della sua poesia che la Seclì è riuscita a rendere visibile in questa raccolta. Fermandoci per il momento a questo risultato possiamo dire che qui sono contenute diverse e molteplici direttrici che porteranno altri buoni versi. Sarà compito dell’autrice scegliere di intraprendere una di queste direttrici come percorso, quella più interessante è sicuramente nascosta nel sottile intreccio tra la parola e il suono, la parola detta, sentita, strettamente collegata al suo significato. Mi riferisco all’intreccio di ‘corde’, ‘fiati’, ‘respiri’ cha danno densità a questi versi. L’effetto dell’opera d’arte ben riuscita è quello di provocare un effetto di ritorno. In alcuni testi della Seclì il ritorno è puramente ascrivibile all’utilizzo di alcuni vocaboli (barbari/barbarie, mongole corde, “Di odore di terra di fuoco carne e feto”), mentre in altri all’utilizzo di un ritmo ricorsivo. Dove il richiamo e l’influenza sono più manifesti l’autrice è brava nel accumulare una serie di immagini dense, che fanno sciogliere in soluzione gli elementi ascrivibili a questo effetto. Un’altra caratteristica rintracciabile in questi versi è la stretta connessione, a livello di senso, tra gesto quotidiano inteso come rito e gesto intriso di mistero della ritualità, il percorso dei mesi, il tempo che spazia attraverso il respiro (Quei mesi artigiani preparavano linde bende e resistenti di sepolcro/e le attorcigliavamo – occhi bassi e pazienti – ai tronchi delle viti.). E’ come se in certi versi – ma questa a dire il vero è una caratteristica che permea la poesia di Ilaria Seclì – ripeto, è come se in alcuni punti la parola venga masticata, venga triturata nei minimi rivoli del suono, in modo del tutto musicale, senza mai ammiccare ad un gioco puramente sonoro o privo di densità.
LODE AD ADE è una delle liriche simbolo del sapiente mescolìo che l’autrice sa condurre tra il sangue e la terra, spalmato nei miti delle teogonie (cfr anche “lo squarto di fegato titano”, in Postuma) e delle letterature, che quasi sempre rincorre e chiude in un’immagine finale degna delle migliori catastrofi: “Che lo sposo nell’utero polveroso attende/che mi asciuga il sudore e il liquido voglioso/la terra che mi succhia/e mi riprende”, così accade anche in Quei mesi artigiani : “[…] stirpe barbarica/a cavallo attraversava il paese/e se ne andava.”.
L’esordio di Ilaria Seclì è compiuto. Su più piani e più sensi, ed è compiuto. Lo è perché le tracce di influenze che affiorano in alcuni luoghi sono prontamente sopite da un carico di immagini notevole, lo stesso carico che viene dosato in un incedere ritmico, denso di rime internem proveniente dall’abitudine di leggere ad alta voce i propri versi, ripeterli come ritornelli, fletterli.
Alcune di queste poesie potrebbero essere tranquillamente cantate e ritmate, in particolare per una di queste (mi guarda di sottecchi mi ha riconosciuta) sembra quasi automatico il rintracciarne la trama e l’intelaiatura sonora. Un esordio che ha saputo coltivarsi ed attendere, buona fortuna.

D’indolenti dipendenze, Ilaria Seclì, Poet/Bar, Besa Editrice,
con un intervento di Giovanni Lindo Ferretti e postfazione di Michelangelo Zizzi