Daniela Estrafallaces recensisce “Cercando petali nel fango” di Fernanda Filippo
La narrazione si lavora la sfera degli istinti. È una cosa che fa con calma e non è neanche detto che lo comunichi formalmente. Si prende i suoi tempi e quando decide di prendere forma sul pelo dell’acqua della manifestazione cosciente di sé lo fa con un atto impulsivo che non disconosce la sua fonte di nascita, ma la spinge verso l’esterno, alla stregua della forza propulsiva di una pianta che si fa spazio attraverso la terra seguendo il canale evolutivo tracciato dalla semina. Un percorso che la narrazione conosce, ci è passata milioni di volte, ci ha lasciato le sue orme, trascinandoci attraverso pezzi di sé. È un mosaico di tracce da interpretare e l’aspetto più affasciante dell’intera faccenda è che mentre le guardi possono cambiare forma. È solo una questione di prospettiva. È questa la prima impressione che la mente del lettore si costruisce accostandosi alla raccolta Cercando petali nel fango di Fernanda Filippo (Musicaos Editore, Neviano, 2018). La narrazione nasce con il duplice obiettivo di mantenere viva una memoria collettiva di carattere conservativo e, al tempo stesso, ripercorrerne i temi dominanti nella modalità di interpretazione che segua il cambiamento dinamico dei tempi.
Una realtà appartenente ad una tradizione narrativa millenaria, che individua nel testo poetico una modalità rappresentativa preferenziale dei percorsi evolutivi di carattere introspettivo ed interpersonale. Il climax narrativo di questa raccolta si fa portavoce della tradizione comunicativa rendendola condivisibile ed osservabile, favorendo processi di identificazione, costruendo canali comunicativi che divengono un ponte ideale fra emittente e destinatario. La realtà è materia in movimento sulle pagine bianche. Non se ne sta ferma ad offrire all’osservatore una contemplazione passiva di sé, ma si muove e muovendosi crea effetti cromatici (“Ombre che mutano/Abbracciandosi ai colori del mondo”, p. 39). Il movimento è fatto di colori, suoni ed emozioni ma anche di spazi che si dilatano o si restringono parlando il linguaggio dell’universo, di una piccola stella (“Abbracci sinceri di/una piccola stella dagli occhi del mare”, p. 24), oppure di un intero universo che contiene evoluzioni ed involuzioni intimistiche. Questo perché l’essere umano non è univoco né perfetto. Un delicato lavoro di trasformazione spoglia il sentimento inconscio di quel bozzolo che ancora lo protegge nella sua fase REM e centra il bersaglio spaziando dall’intimismo più profondo in cui è in atto la ricerca di sé, alla rappresentazione del quotidiano con i suoi contenuti colmi di instabilità. Il mediatore del rapporto con il mondo esterno è l’arte poetica, modalità narrativa che più di tutte gioca con il pieno e con il vuoto, facendoci accomodare all’interno immagini e parole. Contrasto e complementarietà, buio e luce, sconfitta e rivalsa percorrono la raccolta, proposti attraverso l’uso sapiente della metafora, strumento prezioso attraverso il quale la realtà ci viene mostrata come teatro fatto di colori più ricchi e vivaci di quelli che ci offre il quotidiano, persino invisibili e in ogni caso diversi dalle tinte che siamo abituati ad osservare. Questo accade perché il modo in cui guardiamo il mondo ed il modo in cui guardiamo l’arte sono ben differenti.
Nelle poesie della raccolta, la realtà viene plasmata nel senso di immortalità dei suoi contenuti. La rappresentazione del mondo si fa allegoria e nel momento in cui ciò accade, i contenuti perdono i filtri abituali; il pensiero razionale si ferma e lascia spazio a modalità percettive inusuali, solo apparentemente prive di senso. È come abbassare il volume di un aspetto della coscienza razionale per tenere più alto l’elemento emotivo che opera con il mondo del raziocinio in un rapporto di mediazione. In questa nuova tonalità percettiva, sentiamo in modo diverso, accogliamo messaggi diversi, riceviamo i segnali cangianti di un linguaggio universale.