
Quando ci si accosta alla lettura di un testo poetico è inevitabile porre attenzioni al titolo del libro o della silloge in questione. In poesia ogni parola conta, è segno che evoca, ma il titolo è condensato inequivocabile di una direttrice di senso, un viatico al pensiero dell’autore. E per questo che mi soffermo sempre sui titoli dei libri, perché sono il sunto massimo di ciò che si cela tra le pagine, nelle poesie, lungo la poetica dell’autore. Non sfuggono a questa mia attenzione neppure “Le maschere dell’ombra” di Mario Matera Frassese pubblicato nel 2021 da Musicaos Editore.
Se poi penso a quel mirabile padre putativo che è stato il mio insegnante di lettere alle superiori, per cui l’opera già a partire dal titolo fonda l’autore e ce lo sviscera fin nella sua biografia, è presto detto quanto siano chiari in questo caso i rimandi culturali, le reminiscenze colte per esempio a Pirandello e al teatro delle maschere di cui siamo primi attori sul proscenio della vita. E le Maschere dell’Ombra che si muovono tra Spazio e Tempo, maiuscole categorie fisse nell’immaginario poetico del nostro poeta, siamo noi: «Noi siamo ombre/citate, appena, dal tempo della storia/Sfiliamo a stento/con in nostri sogni/sul proscenio della vita/notati appena/dagli eventi/che scorrono/tra i fiumi di un’ubriacatura/di potere/di denaro/E ci siamo abituati/così, a un ruolo di comparse/che svaniscono/tra le nebbie/delle molte, inutili parole». Bellissima presa di coscienza del poeta e dichiarazione di poetica.
Quindi, dicevamo, che se è dato per scontato la conoscenza di quegli autori in Frassese che l’hanno formato come docente di lettere e ne dettano i temi della sua poetica, non è scontato superare schemi, modelli e ombre del proprio beckground letterario. In Frassese avviene proprio questo: le maschere diventano la manifestazione delle ombre che ci portiamo dentro, dovunque e comunque, l’anima del nostro essere tra malattia e santità, nello spazio e nel tempo della nostra esistenza, fantasmi e ricordi, sogni e speranze; in altre parole di ciò che siamo.
In Frassese l’Ombra è divina, orfica, ispiratrice, ma si fa anche coro di anime «Recito/al mio pubblico di ombre/che affolla la mia stanza/i versi scritti per non so chi».
E così Frassese supera l’incomunicabilità e l’ipocrisia umana di pirandelliana memoria, in lui c’è molto di più. Le maschere si palesano per quel che sono, con le loro paure per le ombre che nascondono, ma ci sono e sono reali e dicono: «Vivono Maschere oscure nell’Ombra/non viste/eppure presenti». La “paura” è in effetti parola ricorrente nei versi di Frassese non a caso. Paura di vivere allora? No certo, piuttosto consapevolezza delle insidie della vita da smascherare appunto: «Notturne ombre e sogni ingannatori/danzate sotto gli alberi d’autunno/un sabba di parole oscene, gesti/ lividi di rabbia di contorte menti/ rinserrate nell’acquisita certezza/di antiche paure erette a vita/quotidiana dell’inesistente Sé».
Potremmo dire che le ombre di Frassese somigliano ai demoni di dostojevskiana memoria, inquietanti che aleggiano sulla sua poesia: «Si agitano nell’ombra/ i miei fantasmi» e che sfiancano perché «Erano tarli che rispondevano/alle voci di familiari Ombre». Altre volte si fanno vera e propria inquietudine, così simile a quella del poeta portoghese Fernando Pessoa: «noi cerchiamo la magia del sogno/in ogni luogo visitato/mossi dalla nostra inquietudine». Ma la grandezza del poeta, a mio avviso, si rivela tutta in una domanda (che quindi non risolve il quesito!), che sintetizza l’animo inquieto del poeta, l’anima che si interroga in cerca di una risposta: «Chi ride/delle mie ossessioni infantili/e delle fiabe narrate/alle mie ombre/sorridenti/eppur presenti/nei nostri vuoti/giorni?».
È una poesia che si fa memoria di se stesso e dell’altro, testimonianza dove si mostrano le maschere di luoghi, affetti, amori e dolori come punti da congiungere per intrecciare una rete di senso. Cosi troviamo il Nostro ora immerso nel paesaggio idilliaco della campagna pugliese, ora nei ricordi dell’emigrato in Piemonte e infine di nuovo tra le cittadine del suo amato sud in un percorso di crescita dell’uomo e del poeta. Una poesia quindi che si arricchisce delle luci e dei colori del sud, ma che porta anche le ombre e le nebbie del nord, una poesia al chiaroscuro, potremmo definirla, come un quadro di Rembrandt che si rivela anche nello stesso significante, nella forma metrica: i versi hanno un suono cupo e nostalgico sebbene toccati a tratti dalla luce fresca dei ricordi che ne fa vibrare un respiro distensivo, pacato. Ma l’anelito del poeta resta sospeso nei versi che slittano nei successivi con repentine enjambemant oppure campeggia su un sintagma o addirittura su un solo elemento lessicale che arricchisce il senso del suo dire

Lucio Toma, docente, poeta e giornalista, è nato nel 1971 a San Severo (FG). Nel 1999 pubblica Zigrinature (All’insegna del Cinghiale ferito) e nel 2006 A Gonfie Vene (Ianua editore con pref. di Plinio Perilli). Ha collaborato con magazine locali e quotidiani, ha presentato eventi letterari e interventi critici. Ha coodiretto per Radio Gargano la rubrica “Books & Music”. È risultato finalista e vincitore di alcuni concorsi poetici. Alcuni suoi versi sono apparsi su varie antologie (“Letteratura del ‘900 in Puglia 1970-2008”, “Sotto il più largo cielo del mondo” 2016, “iPoet Lietocolle” 2017) e riviste anche on line (versanteripido, Poetarum Silva, Poesia ultracontemporanea, Tinelli poetici, L’ombra delle parole).