“Fuori i secondi” (Luca Pensa Editore, 2009), un titolo e allo stesso tempo una dichiarazione più che mai polivalente. “Fuori i secondi” è l’invito dell’arbitro della boxe a fare uscire dal ring tutti quelli che non hanno a che fare con l’incontro, perché restino soltanto i due combattenti; l’autore è quindi uno dei due boxeur e i suoi avversari cambiano a ogni ripresa/racconto/poesia: la vita, la sorte, l’amore, la donna, il lavoro, la fuga. L’autore del testo è Vito Antonio Conte, scrittore e poeta di quella terra di mezzo i cui abitanti non sono mai soddisfatti di ciò che hanno fatto e già si proiettano a quello che devono fare; salvo poi guardarsi indietro e accorgersi di quanta strada si è percorsa, correndo, scappando, camminando, fuggendo. Bisogna prendere il presente a due mani, incrociare la paura, attraversare il coraggio come una feritoia; e poi ancora, percorrere la propria vita come se fossimo un vagone che va adagio, senza la fretta né il pensiero di tutte le stazioni. E poi ancora, restare in piedi, round dopo round, in un ipotetico incontro di boxe che va al di là della consuetudine atletica, facendo finta che l’avversario accetti il nostro patto insano, e prosegua la lotta – per quanto osservando le regole – per lunghe e interminabili ore. E poi ancora, quando con l’occhio pesto si osserva la platea ci si accorge che gli spettatori sono rimasti pochi, quelli rimasti sono gli appassionati, gli sportivi, tutti quelli che c’erano prima e facevano baccano altro non erano se non eventuali occupatori di posto a sedere, culi per seggiole, paganti plausibili perché i pop-corn terminassero e la coca-cola non perdesse la frizzantezza. Ma poi? Cosa resta quando è finita la “sorda lotta notturna” di campaniana memoria, posta in esergo al volume? Restano frammenti sui quali puntellare le rovine di un’epoca di crisi, non solo economica, non solo letteraria, non solo affettiva. Talia, Tatoo, Last the Moon, Motel senza stelle, Jesus Dream, sono i titoli dei racconti presenti nella parte centrale dell’ultimo libro pubblicato da Vito Antonio Conte. Tra i più riusciti della raccolta ci fanno rivivere le atmosfere de “L’improbabile vera storia di un uomo chiamato Luna” (2004) o “Frammenti di un interno” (2008) con qualche ingrediente in più. Tanto per cominciare questo è un libro che può essere letto in due modi, io li ho sperimentati entrambi. Prima lo leggi d’un fiato, come una medicina che ti aiuta a farti passare quella schifosa malattia che si chiama realtà, ipocrisia, falsità. Poi lo leggi a salti, aprendolo come si aprono varchi nel buio. In questo modo ti accorgi di quanto lo stile di Vito Antonio Conte, soprattutto nella prosa, abbia guadagnato in lirismo, rincorrendo un’essenzialità e un’asciuttezza della lingua, dove tutto è necessario e nulla è ridondante. Ne è una prova la resa delle performance nelle quali l’ascoltatore ha l’opportunità di ascoltare dal vivo i racconti, dalla voce stessa dell’autore, che rende il suo ‘ragionare’ con un ritmo che sembra avvolgersi su se stesso per poi riprendersi come un vortice. Questa è una raccolta di ‘materiali’: versi, racconti, racconti che contengono versi e poesie che raccontano; secondo me le protagoniste assolute qui sono due: la Donna e la Musica. La donna in questi racconti è quasi sempre incontrata e raggiunta in uno spazio ritagliato dal mondo, come in “D’autunno“, dove viene presentato un vero e proprio idillio salentino capitato in una stagione che non lascia dubbi al caso: è l’unica in cui un uomo e una donna possono visitare uno dei luoghi caratteristici di questa terra assaporandone la natura e non il na-turismo; l’autore riesce sempre a trattare la materia, anche quando si tratti di storie andate a male, con una poesia e un pudore incredibili (anche quando si tratti di sesso), basti leggere come esempio il racconto intitolato Tatoo. La musica nella produzione di Vito Antonio Conte occupa un discorso a parte. Sempre presente fin dai primi racconti e poesie, in quest’ultimo lavoro diviene una presenza assoluta, il che è indice sia di una dose di autobiografismo maggiore rispetto al passato, sia di un invito a mescolare il più possibile gli ambiti, la scrittura e la musica, cosa che dovrebbe essere naturale dato che secondo l’autore (ma anche secondo chi scrive) il libro del mondo è scritto al 90% con i suoni e al restante 10% con le parole, che guarda caso sono anche esse suoni. L’effetto che si ottiene è di grande curiosità, il lettore è spinto a approfondire le diverse ‘citazioni sonore’, alcune delle quali consuete, altre vere e proprie chicche da intenditori che si trasformano in indizi per comprendere al meglio l’atmosfera che l’autore ha voluto rendere nella narrazione. La cifra del racconto, come già in “Frammenti di un interno”, Vito Antonio Conte l’aveva individuata, restituendoci un Salento fattuale, pragmatico, dove gli eventi si susseguono senza troppe smancerie, quasi al riparo dal mistero di cui si ammantano certi luoghi. In “Fuori i secondi” la ricerca compie un passo in avanti verso la sperimentazione, si passa dal monologo interiore al canto ritmato, alternando le voci dei personaggi ai tumulti di un pensiero sconnesso, quasi prelinguistico; momenti certo che non alterano la percezione dei racconti, essendo localizzati nei punti giusti. Un suo spazio merita anche la copertina, in tema, un quadro di Luigi Massari scelto appositamente dall’autore e riprodotto anche all’interno del volume. Un ultimo pensiero, a conclusione di queste riflessioni, mi viene ripensando al titolo. In questi giorni sto leggendo un bel romanzo scritto dal norvegese Johan Harstad, dal titolo “Che ne è stato di te, Buzz Aldrin?“. Per chi non lo sapesse Buzz Aldrin è il nome di uno dei tre componenti della missione Apollo 11, per intenderci quella che ha portato l’uomo sulla Luna nel 1969. Armstrong è il primo uomo a aver messo piede sulla Luna. Aldrin è stato il secondo. Dei secondi non ci si ricorda mai. “Figuriamoci dei terzi!” scommetto che direbbe uno dei protagonisti di un racconto di Vito Antonio Conte, magari di “Motel senza stelle”. Ecco che invece, per paradosso, la maggior parte dei protagonisti di “Fuori i secondi” sono proprio i ‘secondi’ in questione, quelli che arrivano dopo, quelli che non capiscono subito da che parte va il mondo, e allora ecco che il titolo scelto dall’autore acquista un nuovo significato, perché se il ring in questione diventa la scena del mondo, una volta alzato il sipario, da dietro le quinte, siamo spinti con forza irresistibile da una voce che ci obbliga a calcare il palcoscenico, prendendo la parte che ci è stata assegnata. Quella voce grida proprio così: “Fuori i secondi”!