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Sotto il vestito niente. Su “Tegumenta” di Evertrip (Paolo Ferrante)


paoloferrante_tegumenta_edizioniesperidiSotto il vestito niente. Su “Tegumenta” di Evertrip (Paolo Ferrante)

“Tegumenta. Dizionario emozionale” (Edizioni Esperidi) è il titolo della seconda opera pubblicata da Evertrip aka Paolo Ferrante, poeta e artista pugliese. Della prima “Le commedie del buio” ho scritto qui https://lucianopagano.wordpress.com/2009/04/16/le-stranezze-del-buio-su-le-commedie-del-buio-di-paolo-ferrante/.

Evertrip è uno scrittore che si muove in quella zona della sperimentazione, con un percorso personalissimo, nella quale le parole sono sempre insufficienti per lo stretto spazio di un foglio, e necessitano di accompagnarsi ad altro, tanto che l’oggetto libro che ne deriva è quasi sempre più di una semplice raccolta di testi poetici. Un libro d’arte pret-a-porter, una serie limitata in 250 copie che ambisce all’unicità editoriale scegliendo la semplicità. La sperimentazione, l’avanguardia, la ricerca, nella poesia sono un viaggio che viene intrapreso senza sapere, in anticipo, se la pagina sarà un deserto o un bazar.

Questo ‘gioco’, un tempo possibile per la lungimiranza artigiana dell’autore, era affidato al taglia e incolla (e poi fotocopia) materialmente effettuato con le forbici. Penso così a esperimenti poetici che mi hanno colpito, due su tutti: il primo è il Poet/Bar-Magazzino di Poesia, curato da Mauro Marino, nel quale l’iter iconografico era affidato alle xilografie tratte da un’antica edizione dell’Asino d’oro di Apuleio, e “Il pensiero generale alla fine del secondo millennio” di Ettore Sottsass, edito da Stampalternativa nel 1995.  Entrambi sono testi nei quali le immagini costituiscono parte integrante del progetto e della narrazione editoriale, nel caso di Sottsass, addirittura, creando una teoria senza teoria, un testo/saggio senza la lingua del saggio, ma con quella dell’immagine e del dato iconografico puro.

Il testo di TEGUMENTA è preceduto da una nota di Claudio Martino, editore di Edizioni Esperidi, che introduce il testo inquadrandolo nella collana alla quale dà inizio, Traffici d’artista, che sarà aperta a questo tipo di ibridazione tra immagine e parola. Seguono le avvertenze di Maria Cristina Strati, che offrono una chiave di lettura ‘corporea’ del testo, nella tensione – una delle tensioni presenti – tra corpo e anima, o superfici di corpo e superfici di anima, strati, come preferisco immaginarli.

La lettura di TEGUMENTA ci fa attraversare uno di quegli almanacchi di cose straordinarie, così simile nell’impianto ai resoconti immaginari di viaggi in territori altrettanto fantastici, a prescindere che questi fossero scritti da Borges (o da uno dei suoi tanti alter ego) oppure da Marco Polo o da qualche altro viaggiatore vissuto nell’anno mille. La sensazione è che l’autore sia partito appunto da uno ‘studio’ sul corpo, inteso proprio in senso rinascimentale, e abbia ricostruito nello spazio di questo volume un’opera che vuole somigliare a una sorta di ‘codice’ contemporaneo, nel quale la vegetazione, l’amore, l’epidermide, le case lontane, dominio della morte, entrano in gioco come oggetti che il lettore, fino al momento della lettura, non conosceva o non comprendeva, dato che la loro descrizione in prosa poetica stimola la creatività, non solo il pensiero.

questo è un frammento, estratto dalla lettera “B”:

“ti sento vera come il panico, infatti scivolo, scivolo nello stagno, ho le stoppie in gola, scivolo e non sono ancora pazzo, l’acqua è fredda e sembra un suicidio (FIG. 4) non posso cadere del tutto non prima di averti portata alle giostre averti accarezzato l’attaccatura dei capelli come stoppie della terra e ti sento lontana dall’amarmi, tutto pur di giungerti al cuore anche i polmoni pieni di carpe dorate, ho le convulsioni tienimi la mano che ci alziamo insieme, tienimi la mano che ci alziamo insieme amore, ci alziamo e non moriamo, ci alzeremo al canto del lampione”

a cui segue “C,c – CÀSE LONTÀNE”, da cui prendo questi prosiversi:

“la cadenza di due ventri disegnati dalla foga e ti sento ripiegare un poco a valle, a fare perno già con decisione, sopra l’Avemaria (alla faccia della nostra meglio eternità) e sa offendermi la guancia, poi m’ammazza lei, la donna mia piena di grazia”

è qui che si individuano quegli elementi che fanno del corpo il centro del testo, e della tensione intellettiva la tangente del quadro che viene disegnato e raccolto nelle immagini, nei quali il fiore, il germe, la pianta, sono elementi ricorrenti, a simboleggiare e racchiudere, forse, la rinascita. Un senso di latente carnalità fa venire in mente certi versi di Federico García Lorca, mentre è di Patrizia Valduga l’anelito che cerca di congiungere, come in un solstizio, lo spirito e la carne nella musicalità del metro, che si nasconde tra blocchi di prosa, andando a capo: è necessità di impaginazione o volontà di frantumazione?

Una delle cose che mi colpiva di più, quando da ragazzo leggevo le pagine de “L’essere e il nulla” di Sartre, era la spiegazione, semplice, in stile lineare, del fatto che tutto il mondo è superficie, e che non esiste ‘interiorità’ del percepire, perché tutto ciò che possiamo apprendere del corpo è superficiale. Difficile è, per chi non sia pratico di lettura o scrittura, godere dell’aggettivo ‘superficiale’ avulso da tutte le sue accezioni negativizzanti.

sanbartolomeoduomodimilanoLa poesia di Evertrip, man mano che procediamo nella lettura, si fa apprezzare per l’evocazione di atmosfere che esteticamente si rifanno al gotico, ma non al barocco, in un libro che può essere letto senza seguire un verso, una direzione di indice, un motivo in particolare. Per quanto riguarda le immagini, ciò che non è collage, selezione, ma è dipinto, ricorda posizioni alterne del San Bartolomeo custodito nel Duomo di Milano, e anche qui, l’uomo scarnificato, con i muscoli e i fasci di nervi visibili non fa che ricordarci che appena sotto la pelle c’è qualcosa che pulsa.

Tegumenta” di Evertrip, per concludere (trattandosi questa di una rubrica per le letture estive) è un lavoro da leggere, è la dimostrazione che Evertrip/Paolo Ferrante, ha individuato una sua lingua e, soprattutto, possiede, a cinque anni di distanza dal suo esordio nella scrittura pubblicata, gli strumenti per proporre una sua personale visione della realtà, con una lingua che, seppure ispirata, non è copiata da nessun dove, è tutta sua.

Avendo indagato a modo mio l’osceno, e pensando che forse la poesia è una sottaciuta, costante, indagine dell’osceno, mi piace lasciarvi con quest’ultima citazione, dalla lettera “O,o. OSCENITÀ:

“Tutto sommato, ce ne andammo in miseria; ciascuno con i suoi orrori: bronchi, scapole, uteri, e il sospetto di non aver mai vissuto davvero”.

Approfondimenti

Poet/Bar – Magazzino di poesia (Besa) , a cura di Mauro Marino, 2004
Ettore Sottsass – “Il pensiero generale alla fine del secondo millennio” – Stampalternativa, 1995
L’asino d’oro – Apuleio (traduzione di Massimo Bontempelli), 2011, SE
Francesco D’Isa, I., Nottetempo, 2011
Jean Paul Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore Tascabili, 2008

Link:

http://tegumenta.blogspot.it/

http://www.edizioniesperidi.com/

Le stranezze del buio. Su “Le commedie del buio” di Paolo Ferrante


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Sabato 18 Aprile alle 20.30, presenterò “Le commedie del buio”, di Paolo Ferrante, insieme all’autore presso il FondoVerri di Lecce, in Vico Santa Maria del Paradiso. Sarà l’occasione per porgli alcune domande e discutere di questa sua opera. Siete tutti invitati.

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Le stranezze del buio. Su “Le commedie del buio” di Paolo Ferrante

La prima opera in versi di Paolo Ferrante, dal titolo “Le commedie del buio“, è stata pubblicata circa un anno fa, per l’esattezza nel marzo del 2008. L’edizione esce per “Kipple Officina Libraria” (www.kipple.it), un associazione culturale futurologica che pubblica narrativa, saggistica e musica sperimentale, senza porre limite al genere di partenza, ovvero la science-fiction. La prima cosa che colpisce di questo testo, la prima ‘stranezza’, è la sua presentazione, infatti il formato è superiore nelle dimensioni a un foglio A4, cosa che secondo me impone al lettore una diversa ottica di ricezione del testo. È indubbio che la poesia, genere di espressione più alto e di difficile risoluzione per eccellenza, richieda il suo tempo. Io stesso non sarei qui a scrivere di un libro uscito più di un anno fa se non credessi nel fatto che spesso la poesia non si comprende solo perché non ci si affida ai ‘tempi’ che la poesia stessa richiede. Faccio un esempio. Chi abbia letto il poema pubblicato da Carmelo Bene nel 2000, “‘l mal de fiori“, non può non essere stato colpito dal formato scelto per l’impaginazione del libro (Bompiani, 2000). Un libro ‘grande’, un libro che reclama il leggio, un testo che già dalla sua posizione chiede al lettore un approccio differente, diverso da quello usa e getta, ai limiti del foglietto da bacio-perugina, cui la poesia spesso viene relegata. Procedere per ‘stranezze’ nella lettura del testo mi è utile perché un testo poetico, a mio parere, deve correre sul filo, conciliando la propria peculiarità e con la propria aderenza a un presupposto canone. Un’opera di poesia deve farsi portatrice della propria singolarità (il pensiero dell’autore, la lingua adottata, il linguaggio, etc.) senza perdere di vista l’appartenenza a una pluralità (il contesto, le altre opere di poesia, il modo di trattare determinati temi). Paolo Ferrante, nella prosa del testo introduttivo al volume, dichiara i presupposti teorici di questo suo “viaggio nel sé” sotto forma di poema. Nella lettura del testo l’approccio è misterico. Ci si rifa alla meditazione ascetica, al recupero della dimensione spirituale cui si può raggiungere con le tecniche meditative. Un varco si apre sull’oblio della mente, dal sonno all’ipnosi, fino a rendere tangibile il nucleo della nostra essenza. Un itinerario della mente verso l’uno che ci permette di scoprire l’Universale. Con un “ma” di rito. Che cosa succederebbe se nella nostra ricerca dell’universale condotta tramite la meditazione dovessimo scontrarci con i fatti del mondo materiale? La funzione di questo prologo è quella di favorire la sospensione del giudizio, creando nel lettore quello stato di credulità che si rende necessario per inquadrare l’opera e allo stesso tempo comprendere qual’è la rappresentazione/cornice entro cui inscrivere la lettura dei frammenti che compongono il poema, i quali altrimenti rischierebbero di risultare liriche disperse, per di più del genere più complicato da esprimere, quello dell’introspezione psicologica su sé. Lo sdoppiamento della persona (non della personalità) e il raggiungimento dello stato meditativo possono essere indotte dall’utilizzo di droghe. Qui si allude in eguale misura all’utilizzo di sostanze psicotrope e all’allontanamento dal sé che può prodursi, ad esempio, con l’autoipnosi.

Fatte queste premesse prima ancora di accostarsi alla lettura dei versi che compongono il poema è lecito pensare se la forma poetica non sia il pretesto per il racconto di un viaggio misterico. Ciò che importa dunque, oltre al verso, è indagare su quale sia il pensiero di questo poema, ancora prima del messaggio che vuole essere trasmesso. Da un lato c’è il nostro corpo che viene vissuto come una corazza che imprigiona uno spirito. Allo stesso tempo il corpo si fa medium, riuscendo quindi a captare i segnali del cosmo. Un universo di messaggi che ci rende partecipi della nostra partecipazione a qualche cosa di trascendentale che non viene vissuto né come “più grande”, né tanto meno come “sconosciuto”. Ciò cui si assiste è una ripresentazione del “sentimento panico della natura”, scomposto fino alla radice e senza le stratificazioni storiche (vedi D’Annunzio) della poesia novecentesca, malgrado poi l’utilizzo di certi termini si faccia evocatore delle stesse atmosfere, con inedite, moderne contaminazioni “L’alba tacque/in digiuno,/mani d’alabastro/e d’ozono/mi sorressero,/l’etere fu/il mio cuore,/e non pensai più/d’essere degno/del tuo nome,/basta,/te ne prego/sono sordo ti te”. Paolo Ferrante fa una scelta vigile, imponendo al suo versificare un tempo breve, netto, senza ridondanze. Ciò che ne risulta è un invito a concentrare la nostra attenzione sulla componente narrativa dell’opera, frammento dopo frammento, insieme all’evoluzione del pensiero che l’autore intende trasmettere. Ci si accorge quindi che il “buio” cui si fa riferimento è un buio misterico, una dimensione che forse rappresenta il timore di sperimentare la perdita del proprio ruolo di essere vivente calato nel macrocosmo. I versi si fanno allora portatrici di un’ansia del distacco e allo stesso tempo di un desiderio di recupero: “Farò ritorno/alla casa/dove sono nato;/le ali d’etere/offriranno strada,/nel cielo caligino,/e mi riposerò/una sera di pace/vicino/alle magnolie,/dove il cespuglio/e l’aroma,/il flauto stonato/mi daranno vitto”. Il viaggio del poeta, dall’universo, si chiude con il ritorno in sé.

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Nato il 7 novembre del 1984 in provincia di Lecce, Paolo Ferrante esordisce come poeta nel marzo 2006 pubblicando online la raccolta di poesie Gerogrammi sulla rivista musicaos.it. Dal gennaio 2007 è membro dell’associazione culturale “C-Arte” con la quale opera realizzando reading poetici e performance artistiche. Su internet è conosciuto con lo pseudonimo di Evertrip, ed è webmaster all’indirizzo www.evertrip.tk, nel quale sono raccolti i blog di musica e poesia.

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Le commedie del buio, Paolo Ferrante, Kipple Officina Libraria, fuori (collana) 2, marzo 2008, ISBN 9788895414089