Archivi tag: News

Anteprima. “La Nera” il romanzo di Manlio Ranieri inaugura “idieci:ventuno” di Musicaos Editore


ANTEPRIMA. “La Nera” il romanzo di Manlio Ranieri, dopo essere stato pubblicato in formato ebook, uscirà a breve nella versione cartacea, disponibile per l’acquisto in libreria e sulle librerie digitali. Pubblicato a puntate nel 2015 sul sito Colori Vivaci Magazine, e protagonista di un contest fotografico che ha portato alla scelta della fotografia di Ludovico Bellacosa, utilizzata per la copertina dell’ebook, “La Nera” è stato il secondo romanzo pubblicato da Manlio Ranieri con Musicaos Editore, dopo “Un romanzo inutile”. “La Nera”  inaugura la collana idieci:ventuno di Musicaos Editore.

“Leo, conduttore radiofonico, sicuro dietro il microfono, riservato nella vita di tutti i giorni e single “quasi per scelta”; Angelica, bellissima, intrigante, sensuale, enigmatica, con un passato oscuro che tiene ben celato. Due ragazzi, una storia d’amore intensa e delicata; un’avventura turbolenta e fascinosa come la musica Dark e New Wave che fa da colonna sonora alle vicende che vedono coinvolti i protagonisti. Tra passione e amicizia, inquietudine e voglia di cambiamento, un legame travagliato quanto indissolubile unisce Leo e Angelica, ma c’è un mistero tutto da scoprire…”

Manlio Ranieri è nato a Bari, dove vive e lavora nel campo delle energie rinnovabili. Laureato in ingegneria meccanica, si dedica da sempre alla scrittura, alla musica e alla fotografia, pubblicando diversi, tra racconti, storie, romanzi, in rete e fuori. Ha pubblicato “Di Notte” (Palomar – 2000), “Correre per rimanere immobili” e “Fra santi e falsi dei” (Akkuaria – 2008 e 2010). Ha vinto i premi “Aci S. Antonio”, “I veli della luna”, “Creatività itinerante” e partecipato a diverse antologie di racconti, fra cui “Qualcosa da dire” (Kora – 2005) e “Haiti chiama Bari” (Levante – 2010). Si definisce uno “scrittore rock”. Il suo romanzo inedito dal titolo “Rosso”, è risultato tra i finalisti della III Edizione del Premio Letterario “La Giara” della Rai. Con Musicaos Editore ha pubblicato “Un romanzo inutile” (2014, 2016), e, in formato ebook, “La Nera”.

IN COPERTINA , fotografia di Ludovico Bellacosa
progetto grafico bookground

“La Nera”, Manlio Ranieri – idieci:ventuno, 1, Musicaos Editore, pagine 80, €7, Isbn 978-88-99315-870

Ebook disponibile (anche) qui:

Salvatore Nuzzo. “Pigramente cigola il tempo. Poesie 1972 · 2017”, Poesia 05


“Pigramente cigola il tempo. Poesie 1972 · 2017”,
Salvatore Nuzzo, (Musicaos Editore, Poesia 5)

Questo volume raccoglie le poesie di Salvatore Nuzzo, scritte tra il 1972 e il 2017. Quarantacinque anni di scrittura e ricerca di una forma che delinea la realtà con mezzi essenziali. È il “tempo” il protagonista assoluto in questa storia, come delinea Nicola Russi nella prefazione al volume. Salvatore Nuzzo, è “l’archeologo dei suoi luoghi dell’anima, pronubo d’una poesia che si fa epifania del nostro esistere da giovani: si fa autunno, colore di ottobre; si fa carnevale che fa incetta di urla, per strada, di fanciulli; la poesia si fa sogno che raccoglie gli anni del poeta “in una favola triste”; di un poeta “presente ad ogni umana vicenda”, un giullare, “il più triste giullare/ che scrive versi d’amore/ a una ragazza segreta”; si fa estasi davanti a un mare che gli regala l’estro dei sogni e il ripetere delle ultime cose ancora sue; si fa orrore perché s’empie di morte la terra, con tutti i cieli in fuga, con “oceani e mari senz’acque”. La sua poesia si avvia a correre il rischio di mitizzare un sentimento che adombra un’immagine che volge ad un’istanza: quella di rimanere “felicità incorporea, pura ombra”, come si esprimerebbe Pedro Salinas, nella sua poesia “Possesso del tuo nome”.

“Un labirinto di fatiche
l’umana esistenza,
un filo tenue
che lega e sostiene sequenze e stagioni,
accadimenti imprevisti
snodando una storia,
costruendo un’identità;

manoscritto
compilato giorno per giorno
con errori e abrasioni,
slanci e timori;

biografia inquieta e nervosa
con frenate e silenzi,
tristezza e fierezza,
lotta e resa,
dubbio e certezza,
passione e delusione.

Ordine e disordine
il tempo della vita.”

“La poesia di Salvatore Nuzzo va incontro ad un Oscillamento d’amore, ad una Assenza struggente; ad un Impegno d’amore; e prorompe in un turbinio di parole che si mescolano al vento che entra nei capelli scarmigliati della donna amata; alla pioggia che bagna i due corpi cadendo sulla loro allegria.” (Nicola Russi)

Nei versi di Salvatore Nuzzo è caratterizzante la presenza della natura, nella quale si inscrive l’uomo come partecipe del paesaggio, comprimario, c’è l’alternarsi delle stagioni con i diversi stadi del tempo in relazione agli stati dell’animo. L’acqua che lava, la pioggia che cade, una “ragazza segreta”, il distacco di un amore che non è raggiunto. La collocazione geografica precisa, sulle coste dell’Adriatico, con gli scogli, la natura, il tempo che passa, il fragore delle onde, il frangersi dei flutti, insieme alle atmosfere brumose del Nord Italia, negli anni Settanta. La poesia, in “Pigramente cigola il tempo”, è intesa come luogo di soluzione dell’essere, dove trovano compimento i pensieri dinanzi alla forza della natura. Lo scorrere del tempo attraverso lo scorrere dei momenti fotografati nei versi, un altro autunno, una sequenza, ad esempio, tra quello del 1972 e quello del 1973, “Sono io l’ottobre più triste,/brandelli d’uomo/senza tinte,/argilla pagana.”

La vicinanza a Ungaretti è una vera e propria influenza, un percorso appartato, una volontà di ascolto, presente in componimenti come “Il sogno” (“il libello sfogliare/pupilla tremula/al fragile rimorso d’amore”). “S’empie di morte la terra” è una delle poesie da cui l’autore incomincia il percorso di liberazione da ulteriori influenze, per acquisire una voce autonoma. “Svelamento”, “Impegno d’amore”, “Il vincolo”, “Entrava il vento”, i testi del 1974 e seguenti portano a una riflessione ancora più intensa, nella quale gli elementi del paesaggio fanno ancora da contralto a quelli dell’umore.

Importante anche il richiamo religioso, il ruolo dell’arca, la citazione dell’Ararat e delle Scritture. Il tema della pioggia, ricorrente in questi versi, trova nel tema simbolo dell’Arca e quindi del Diluvio, un punto di contatto tra la storia personale e la storia universale. “Fuori il buio si perde/in un labirinto di pioggia”. L’Arca di Noè è ciò che si salva dopo il disastro, ciò che racchiude quel che resta dell’umanità, il residuo, del sentimento e dell’individuo, ciò che ha ricevuto da Dio il permesso di restare, continuare la specie.

Salvatore Nuzzo (Marittima di Diso – Lecce, 1954) è Psicologo Psicoterapeuta a indirizzo cognitivo comportamentale nel Consultorio Familiare di Poggiardo, ASL Lecce, titolare di incarico di Alta Professionalità “Adozioni, Abuso e Maltrattamento minori”. Inoltre è coordinatore del Servizio Integrato Affido e Adozione dell’Ambito Territoriale Sociale di Poggiardo. Già Consigliere dell’Ordine degli Psicologi della Regione Puglia, è stato coordinatore della Commissione per l’Etica e Deontologia professionale e Direttore di “Psicopuglia”, Rivista – Notiziario dell’Ordine.
È perito del Tribunale Ecclesiastico Regionale Pugliese di Bari e CTU del Tribunale Civile e del Tribunale per i Minorenni di Lecce. È autore di diversi contributi su temi di psicologia clinica, psicologia dell’educazione e delle relazioni familiari e affettive, deontologia professionale, organizzazione dei servizi socio-sanitari, etc.
Svolge attività di formatore e di consulente rivolta a genitori, insegnanti, educatori e operatori socio-sanitari presso scuole, parrocchie, comuni, associazioni e istituzioni.

“Pigramente cigola il tempo. Poesie 1972 · 2017”, Salvatore Nuzzo,
Musicaos Editore, Poesia 5, ISBN 9788899315763, Pagine 178, €14
Prefazione di Nicola Russi

“Le strade di Laura” di Patrizia Caffiero (Musicaos Editore)


Una nuova storia scritta da Patrizia Caffiero, un racconto, anticipazione del volume di racconti che uscirà, in autunno, con Musicaos Editore. L’ebook è scaricabile gratuitamente.

“Le strade di Laura” di Patrizia Caffiero (Musicaos Editore)

Laura vive con la sua famiglia a Pescara, è una giovane ragazza, i suoi occhi evocano creature del bosco e spazi sovrannaturali. Allʼetà di quattordici anni Laura si è iscritta allʼIstituto dʼArte della sua città. La vita di Laura è divisa tra il mondo di fuori e casa sua, dove viene picchiata, senza preavviso, senza motivo, senza ragione, dal padre, senza che sua madre muova un dito. Laura frequenta un uomo più grande di lei. Laura sogna di scappare, un giorno, scappare di casa, e andare a vivere in unʼaltra città.

“Molte volte, negli ultimi anni, aveva pianificato quella partenza senza confidarlo a nessuno. Un sorriso perenne le premeva dietro le guance tonde; era la certezza di poter fuggire dal suo luogo d’origine, che le aveva dato forza. I genitori credevano che aspirasse soltanto a farsi una famiglia, come tutte le figlie degli amici che conoscevano. Avevano sempre nascosto con cura agli estranei – così chiamavano tutti gli altri che non erano di famiglia – i problemi familiari, riuscivano a mostrare un’aria rispettabile. Per qualche misterioso motivo i genitori di Laura credevano che, nonostante tutto, la figlia fosse felice in casa con loro. Le botte erano incidenti e basta, accadevano di rado, i lividi svanivano e i sorrisi tornavano a tavola regolarmente, dopo qualche giorno.”

Lʼunica cosa che fa vivere Laura in armonia con se stessa è la pittura. Le sue grandi tele e le sue “teste” evocano una forza illimitata, una tenacia interiore che non ha freni. Perché cambiare è possibile, la fuga è a un passo. A Bologna Laura troverà unʼesistenza nuova, un lavoro, la realizzazione.

La violenza tuttavia ha segnato la sua vita, incidendo sul suo percorso una linea che Laura non sa se seguire o cancellare, una strada che è diversa da tutte quelle che ha percorso fino a oggi.

“Le strade di Laura” di Patrizia Caffiero è la storia di unʼesistenza difficile, radicale, alternativa. Un racconto estratto dalla raccolta di racconti inediti che Patrizia Caffiero pubblicherà con Musicaos Editore nellʼautunno del 2017.

Patrizia Caffiero, nata e vissuta a Lecce fino al 1996, si è trasferita prima a Ferrara, poi a Bologna e infine ad Anzola dell’Emilia dove ha “trovato” le sue radici, e lavora dal 2006 per il Comune come addetta alla cultura e bibliotecaria. È laureata in Lettere e Filosofia (Università di Lecce) con una laurea dak titolo “Pasolini e il Potere. Linee per un’interpretazione storico-politica.” S’interessa di cinema, il teatro, la letteratura; i suoi scrittori preferiti sono Maeve Brennan, Truman Capote, Karen Blixen, Jean Stafford, Paul Auster. Ha pubblicato per Miraviglia editore, nel 2007, “Guarda che prima o poi Dio si stancherà di te”; sempre nello stesso anno, per la casa editrice Fernandel, un racconto per l’ antologia “Quote rosa”; nel 2009 un racconto per l’antologia “Fobieril – soluzione MANIAzina” (Jar Edizioni).
Aggiorna settimanalmente il blog letterario “Prima della pioggia” visitabile all’indirizzo: https://testiappuntinotedablogs.wordpress.com/

“Le strade di Laura”, di Patrizia Caffiero, Musicaos Editore, ebook, isbn 9788899315887
disponibile gratuitamente su tutti gli ebook store, anche su:

BookRepublic
https://goo.gl/zggpGj

Kobo
https://goo.gl/c5nZsF

Amazon
https://goo.gl/QVucep

OmniaBuk
https://goo.gl/MKkjHd

 

Novità: “Amata tela” di Giulia Madonna


“AMATA TELA” di Giulia Madonna
musicaos:ed, smartlit 07

Giulia-Madonna-Amata-tela-musicaos-ed-cover

La storia.

Un segreto tenuto nascosto per lunghi anni, una scoperta sconvolgente, un uomo di successo e una donna in carriera, un artista squattrinato ma geniale, autore di un quadro misterioso. Immersa nelle atmosfere di una Trieste nebulosa e di una Venezia dal fascino liquido, si agita l’intrigante storia di Eugenio e Francesca, amanti sanguigni, dolci quanto irascibili. “Amata tela” è un romanzo in cui le vicende dei protagonisti si tingono di passioni travolgenti, in un vortice senza fine che si abbatterà inesorabilmente sulle loro vite. Amore, sesso e arte, si mescolano nei luoghi del sogno e del sentimento. “Amata tela” costruisce un’epica di esperienze umane, tra gioie e paure, attraverso un disegno sapientemente tracciato dalla penna di Giulia Madonna.

L’autrice.

Nata a Pescara il 31 luglio del 1963, dopo la maturità scientifica, Giulia Madonna si è laureata in Architettura presso l’Università “Gabriele D’Annunzio” di Pescara. Ha collaborato con studi tecnici della sua città e presso Istituti Paritari è stata docente di corsi regionali di formazione professionale per “Arredatore d’Interni”. Nel 2011 ha pubblicato il romanzo “La stanza vuota” con cui ha vinto il premio della giuria, nel 2012, al “Cinque terre – Golfo dei poeti” (dove si è anche classificata al terzo posto con un racconto dal titolo “Ossessione”) e il premio della giuria “Val di Vara – Alessandra Marziale”. In seguito ha preso parte a diversi concorsi, riscuotendo un buon successo presso i lettori e aggiudicandosi, con un capitolo, il concorso di “Scrittura Collettiva” per la stesura di un romanzo collettivo, organizzato da 24letture, la pagina letteraria del Sole 24 Ore su Twitter.

GIULIA MADONNA – AMATA TELA
MUSICAOS:ED – SMARTLIT 07, pp. 226, €18, ISBN 978-1500716998

in copertina: Fabio Colella, “Senza Titolo”, 2005, acrilico su tela
fotografia di Renato Colella

Libro:

http://www.amazon.it/gp/product/1500716995/ref=as_li_ss_tl?ie=UTF8&camp=3370&creative=24114&creativeASIN=1500716995&linkCode=as2&tag=musicaosit-21

Ebook:

http://www.amazon.it/gp/product/B00MGHXOM6/ref=as_li_ss_tl?ie=UTF8&camp=3370&creative=24114&creativeASIN=B00MGHXOM6&linkCode=as2&tag=musicaosit-21

“La bellezza delle cose fragili” di Taiye Selasi (Einaudi Editore)


“La bellezza delle cose fragili” di Taiye Selasi (Einaudi Editore)

Questa è la storia di una famiglia.

La storia dei modi semplici e devastanti in cui una famiglia può dividersi.
La storia dei modi, ogni volta unici e miracolosi, in cui una famiglia può riunirsi.
Tra il Ghana e gli Stati Uniti, tra Londra e la Nigeria, la famiglia Sai percorrerà ogni strada per tornare insieme. Anche i sentieri piú tortuosi: quelli interiori.

Kweku Sai è morto all’alba, davanti al mare della sua casa in Ghana. Quella casa l’aveva disegnata lui stesso su un tovagliolino di carta, tanti anni prima: un rapido schizzo, poco piú che un appunto, come quando si annota un sogno prima che svanisca. Il suo sogno era avere accanto a sé, ognuno in una stanza, i quattro figli e la moglie Fola. Una casa che fosse contenuta in una casa piú grande – il Ghana, da cui era fuggito giovanissimo – e che, a sua volta, contenesse una casa piú piccola, la sua famiglia.

Ma quella mattina Kweku è lontano dai suoi figli e da Fola. Tra loro, adesso, ci sono «chilometri, oceani, fusi orari (e altri tipi di distanze piú difficili da coprire, come il cuore spezzato, la rabbia, il dolore calcificato e domande che per troppo tempo nessuno ha fatto)». Perché il chirurgo piú geniale di Boston, il ragazzo prodigio che da un villaggio africano era riuscito a scalare le piú importanti università statunitensi, il padre premuroso e venerato, il marito fedele e innamorato, oggi muore lontano dalla sua famiglia? Lontano da Olu, il figlio maggiore, che ha seguito le orme del padre per vivere la vita che il genitore avrebbe dovuto vivere. Lontano dai gemelli, Taiwo e Kehinde, la cui miracolosa bellezza non riesce a nascondere le loro ferite. Lontano da Sadie, dalla sua inquietudine, dal suo sentimento di costante inadeguatezza. E lontano da Fola, la sua Fola.

taiyeselasi_s

Ma le cose che sembrano piú fragili, come i sogni, come certe famiglie, a volte sono quelle che si rivelano piú resistenti, quelle che si scoprono piú forti della Storia (delle sue guerre, delle sue ingiustizie) e del Tempo.

L’esordio di Taiye Selasi è un romanzo su una famiglia contemporanea, un affresco potente e vertiginoso del mondo globalizzato (non a caso è stata proprio lei a coniare il termine, subito entrato nel linguaggio comune, di «afropolitan» per descrivere quei figli dell’immigrazione degli anni Sessanta e Settanta, brillanti, privi di complessi d’inferiorità, lontani da ogni stereotipo «etnico»), ma anche un’elegia, delicata, intima, sulla perdita e sulla bellezza.

«Selasi va oltre al rinnovamento della nostra idea di romanzo africano: reinventa la nostra idea di romanzo, punto».
Teju Cole, autore di Città aperta

«Fatevi scappare La bellezza delle cose fragili e vi perderete uno dei migliori nuovi romanzi della stagione».
«The Economist»

«Questo libro sembra contenere il mondo intero, non lo dimenticherò mai».
Elizabeth Gilbert, autrice di Mangia, prega, ama

“La bellezza delle cose fragili” di Taiye Selasi (Einaudi Editore)
2013, Supercoralli, pp. 344, € 19,00, ISBN 9788806208028
Traduzione di Federica Aceto
leggi un estratto in pdf
acquista il libro qui

Anteprima: Enrico Lo Storto, Mirna e Martina Marić, le foto dei nuovi ebook di Musicaos.it


Anteprima: Enrico Lo Storto, Mirna e Martina Marić, le foto dei nuovi ebook di Musicaos.it

Manca poco perché sia online “Se Hank avesso incontrato Anaïs”, il romanzo di Stefano Donno, nella sua nuova edizione ideata e edita per gli ebook di Musicaos.it. Approfitto di questo post per dare un’altra anteprima, quella sull’ebook numero 11, e per parlare dei fotografi che hanno collaborato con le prossime uscite degli ebook di Musicaos.it. L’ebook 11 si intitolerà “Cani acerbi”, scritto da Gianluca Conte. Questo post è dedicato ai fotografi che hanno illustrato le copertine, rispettivamente, degli ebook 10 e 11 di Musicaos.it.

ilcuoreindisparte_robertapilarjarussi_musicaos_010Enrico Lo Storto è l’autore della foto che illustrerà la copertina di “IL CUORE IN DISPARTE” di Roberta Pilar Jarussi.
Enrico Lo Storto è nato a Cerignola nel 1963 e risiede a Foggia.  Inizia a fotografare nei primi anni ’80 con una Olympus, per passare subito dopo alla Nikon, di cui possiede vari corpi corredati da ottiche fisse e non. Nel 2004 la sua espressione fotografica ha un forte scossone grazie sopratutto all’avvento del digitale che Lo Storto approfondisce, in ogni direzione.

Enrico Lo Storto vanta varie partecipazioni e ammissioni a concorsi Internazionali e ultimamente ha collaborato con l’azienda italiana produttrice di gioielli, Bulgari. Già da numerosi anni è parte attiva del Foto Cine Club di Foggia di cui è anche docente oltre che facente parte delle commissioni Artistica e Formazione.

gianlucaconte_caniacerbi_musicaos_ebook_11Mirna Marić è autrice della foto (“The underwater girl”) che illustrerà la copertina di “CANI ACERBI” di Gianluca Conte. Le sorelle Mirna e Martina Marić (Marić Sisters Photography) hanno rispettivamente 18 e 20 anni, vivono e lavorano in Croazia e fanno parte della nuova generazione di fotografi/artisti visuali europei (http://www.facebook.com/MaricSistersPhotography); i loro lavori sono caratterizzati da un’attenzione particolare alla natura, alla figura umana e alla presenza dei corpi nello spazio.

Chi fosse interessato a conoscere gli altri ebook di Musicaos.it può trovarli qui:
https://lucianopagano.wordpress.com/ebook-musicaos-it-catalogo/

Chi volesse leggere che cosa si dice in giro degli ebook di Musicaos.it può proseguire qui:
https://lucianopagano.wordpress.com/ebooks/scrivono-di-noi-gli-ebook-di-musicaos-it/

Non accontentarmi di piccole gioie quotidiane.


“Mignotta” graphic novel di Giovanni Matteo, da un soggetto di Pier Paolo Pasolini. Disponibile su Amazon


È disponibile per il download da Amazon “Mignotta“, di Giovanni Matteo, graphic novel ispirata a un soggetto scritto per il cinema da Pier Paolo Pasolini e pubblicato nel volume “Alì dagli occhi azzurri” che raccoglie racconti, scritti sparsi, soggetti, redatti da Pier Paolo Pasolini nel periodo 1950-1965.
La postfazione dell’ebook è a cura di Luciano Pagano. Tutte le informazioni per il download qui. Si tratta del terzo ebook di musicaos, dopo “Il romanzo osceno di Fabio” e la guida “È facile smettere di scrivere se sai come farlo!“. Altre informazioni sugli ebook di musicaos qui.
Per informazioni o altro potete scrivere direttamente a lucianopagano[at]gmail[punto]com

Noi contro la legge. Berlusconi e il corto circuito mediatico.


C’è una cosa che, chi mi conosce bene lo sa, non ho mai fatto negli ultimi sei anni. E se l’ho fatto è stato con criterio, per un motivo particolare, mai sentito come in questo momento. Berlusconi ha un potere, anzi, è dire poco, Berlusconi ha tanti poteri. Uno dei suoi poteri più efficaci, quello più subdolo, è il potere che lo fa entrare strisciando per la porta di casa, attraverso uno schermo, un modo di dire, una battuta. Il potere di seduzione con cui cattura quotidianamente sempre più italiani disposti a dimenticare che cosa Berlusconi è stato. Perché è troppo difficile studiare, documentarsi, leggere i libri, guardare i film, i telegiornali, ascoltare le interviste, cercare gli approfondimenti. Così basta una battuta detta al momento giusto e il sorrisino scappa anche a chi ha votato Bertinotti fino alla legislazione precedente. Sempre migliore di chi non è andato a votare con la convinzione che comunque il nostro posticino lo avremmo avuto. Ed ecco che mi trovo a fare qualcosa che ho fatto poche volte, ovvero sia prendere un articolo per intero e postarlo su Musicaos.it. Oggi è stato un giorno particolare, per via del caldo sono rimasto chiuso in casa fino alle 19.30, ho twitterato e ho avuto modo di seguire la vicenda di Daniele Luttazzi e la replica di Wu Ming. Secondo me tutta questa vicenda deve essere letta sotto la lente orbicolare dell’ansia da prestazione di resistenza culturale cui ci impone, per il solo fatto di esserci e agire, Berlusconi. Ecco, dopo ciò che ho veduto e letto in questa settimana posso soltanto dare una definizione di Berlusconi, quella cioè di Re Mida, con la differenza che al posto dell’oro c’è la merda, con la differenza che la merda ha lo stesso inodore colore dell’oro. Ci sembra che sia oro finché non ne apprezziamo le conseguenze sulla democrazia. Daniele Luttazzi? Soltanto uno che copia le sue battute. Travaglio e Santoro? Due furbi che tirano su soldi grazie all’odio che riescono a diffondere per Berlusconi. Beppe Grillo? Andiamo a controllare il suo 740 prima di parlare! Saviano?!? Non parliamo di Saviano, lui che grazie a Berlusconi ha fatto i soldi con Gomorra! Berlusconi: ciò che tocca lo trasforma in merda, anche quando ad agire non è direttamente il premier bensì il modello robotico mentale che ognuno di noi, volente o nolente, ha implementato nel cervello. Apriamo gli occhi, con un po’ di anarchia, al di sopra delle parti. Con questo spirito e soprattutto con la voglia di lanciare un messaggio a chi ci sta più vicino, almeno a loro, che ricopio per intero l’articolo di Umberto Eco preso dal sito de L’Espresso. Buona lettura, finché è possibile.

§

Umberto Eco
“A piccoli passi verso il regime”

Le norme sulle intercettazioni. Il controllo dei tg della tv pubblica. E prima il lodo Alfano, i tagli alla scuola… Berlusconi trasforma le istituzioni un passo dopo l’altro, con lentezza. Perché i cittadini assorbano i cambiamenti come naturali. Così al colpo di Stato si è sostituito lo struscio di Stato

È nota la definizione della democrazia come sistema pieno di difetti ma di cui non si è ancora trovato nulla di meglio. Da questa ragionevole assunzione discende, per la maggior parte della gente, la convinzione errata che la democrazia (il migliore o il meno peggio dei sistemi di governo) sia quello per cui la maggioranza ha sempre ragione. Nulla di più falso. La democrazia è il sistema per cui, visto che è difficile definire in termini qualitativi chi abbia più ragione degli altri, si ricorre a un sistema bassamente quantitativo, ma oggettivamente controllabile: in democrazia governa chi prende più consensi. E se qualcuno ritiene che la maggioranza abbia torto, peggio per lui: se ha accettato i principi democratici deve accettare che governi una maggioranza che si sbaglia.

Una delle funzioni delle opposizioni è quella di dimostrare alla maggioranza che si era sbagliata. E se non ce la fa? Allora abbiamo, oltre a una cattiva maggioranza, anche una cattiva opposizione. Quante volte la maggioranza può sbagliarsi? Per millenni la maggioranza degli uomini ha creduto che il sole girasse intorno alla terra (e, considerando le vaste aree poco alfabetizzate del mondo, e il fatto che sondaggi fatti nei paesi più avanzati hanno dimostrato che moltissimi occidentali ancora credono che il sole giri) ecco un bel caso in cui la maggioranza non solo si è sbagliata ma si sbaglia ancora. Le maggioranze si sono sbagliate a ritenere Beethoven inascoltabile o Picasso inguardabile, la maggioranza a Gerusalemme si è sbagliata a preferire Barabba a Gesù, la maggioranza degli americani sbaglia a credere che due uova con pancetta tutte le mattine e una bella bistecca a pasto siano garanzie di buona salute, la maggioranza si sbagliava a preferire gli orsi a Terenzio e (forse) si sbaglia ancora a preferire “La pupa e il secchione” a Sofocle. Per secoli la maggioranza della gente ha ritenuto che esistessero le streghe e che fosse giusto bruciarle, nel Seicento la maggioranza dei milanesi credeva che la peste fosse provocata dagli untori, l’enorme maggioranza degli occidentali, compreso Voltaire, riteneva legittima e naturale la schiavitù, la maggioranza degli europei credeva che fosse nobile e sacrosanto colonizzare l’Africa.

In politica Hitler non è andato al potere per un colpo di Stato ma è stato eletto dalla maggioranza, Mussolini ha instaurato la dittatura dopo l’assassinio di Matteotti ma prima godeva di una maggioranza parlamentare, anche se disprezzava quell’aula «sorda e grigia». Sarebbe ingiusto giocare di paradossi e dire dunque che la maggioranza è quella che sbaglia sempre, ma è certo che non sempre ha ragione. In politica l’appello alla volontà popolare ha soltanto valore legale (“Ho diritto a governare perché ho ricevuto più voti”) ma non permette che da questo dato quantitativo si traggano conseguenze teoriche ed etiche (“Ho la maggioranza dei consensi e dunque sono il migliore”).

In certe aree della Sicilia e della Campania i mafiosi e i camorristi hanno la maggioranza dei consensi ma sarebbe difficile concluderne che siano pertanto i migliori rappresentati di quelle nobilissime popolazioni. Recentemente leggevo un giornalista governativo (ma non era il solo ad usare quell’argomento) che, nell’ironizzare sul caso Santoro (bersaglio ormai felicemente bipartisan), diceva che costui aveva la curiosa persuasione che la maggioranza degli italiani si fosse piegata di buon grado a essere sodomizzata da Berlusconi. Ora non credo che Berlusconi abbia mai sodomizzato qualcuno, ma è certo che una consistente quantità di italiani consente con lui senza accorgersi che il loro beniamino sta lentamente erodendo le loro libertà. Erodere le libertà di un paese significa di solito mettere in atto un colpo di Stato e instaurare violentemente una dittatura. Se questo avviene, gli elettori se ne accorgono e, se pure non hanno la forza di zione di colpo di Stato che è con lui cambiata. Al colpo di Stato si è sostituito lo struscio di Stato. All’idea di una trasformazione delle strutture dello Stato attraverso l’azione violenta il genio di Berlusconi è stato ed è quello di attuarle con estrema lentezza, passettino per passettino, in modo estremamente lubrificato.

Pensate alla inutile violenza con cui il fascismo, per fare tacere la voce scomoda di Matteotti, ha dovuto farlo ammazzare. Cose da medioevo. Non sarebbe bastato pagargli una buona uscita megagalattica (e tra l’altro non con i soldi del governo ma con quelli dei cittadini che pagano il canone)? Mussolini era davvero uomo rozzissimo. Quando una trasformazione delle istituzioni del Paese avviene passo per passo, e cioè per dosi omeopatiche, è difficile dire che ciascuna, presa di per sé, prefiguri una dittatura – e infatti quando qualche cassandra lo fa viene sbertucciata. Il fatto è che per un nuovo populismo mediatico la stessa dittatura è un sistema antiquato che non serve a nulla. Si possono modificare le strutture dello Stato a proprio piacere e secondo il proprio interesse senza instaurare alcuna dittatura.

Si può dire che il lodo Alfano prefiguri una tirannia? Sciocchezze. E calmierare le intercettazioni attenta davvero alla libertà d’informazione? Ma suvvia, se qualcuno ha delitto lo sapranno tutti a giudizio avvenuto, e l’evitare di parlare in anticipo di delitti solo presunti rispetta se mai la privatezza di ciascuno di noi. Vi piacerebbe che andasse sui giornali la vostra conversazione con l’amante, così che lo venisse a sapere la vostra signora? No, certo. E se il prezzo da pagare è che non venga intercettata la conversazione di un potente corrotto o di un mafioso in servizio permanente effettivo, ebbene, la nostra privatezza avrà bene un prezzo. Vi pare nazifascismo ridurre i fondi per la scuola pubblica? Ma dobbiamo risparmiare tutti, e bisogna pur dare l’esempio a cominciare dalle spese collettive. E se questo consegna il paese alle scuole private? Non sarà la fine del mondo, ce ne sono delle buonissime. È stalinismo rendere inguardabili i telegiornali delle reti pubbliche? No, se mai le vecchie dittature facevano di tutto per rendere la radio affettuosissima. Ma se questo va a favore delle reti private? Beh, vi risulta che Stalin abbia mai favorito le televisioni private?

Ecco, la funzione dei colpi di Stato striscianti è che le modificazioni costituzionali non vengono quasi percepite, o sono avvertite come irrilevanti. E quando la loro somma avrà prodotto non la seconda ma la terza Repubblica, sarà troppo tardi. Non perché non si potrebbe tornare indietro, ma perché la maggioranza avrà assorbito i cambiamenti come naturali e si sarà, per così dire, mitridatizzata. Un nuovo Malaparte potrebbe scrivere un trattato superbo su questa nuova tecnica dello struscio di Stato. Anche perché di fronte a essa ogni protesta e ogni denuncia perde valore provocatorio e sembra che chi si lamenta dia corpo alle ombre.

Pessimismo globale, dunque? No, fiducia nell’azione benigna del tempo e della sua erosione continua. Una trasformazione delle istituzioni che procede a piccoli passi può non avere tempo per compiersi del tutto, a metà strada possono avvenire smandrappamenti, stanchezze, cadute di tensione, incidenti di percorso. È un poco come la barzelletta sulla differenza tra inferno tedesco e inferno italiano. In entrambi bagno nella benzina bollente al mattino, sedia elettrica a mezzogiorno, squartamento a sera. Salvo che nell’inferno italiano un giorno la benzina non arriva, un altro la centrale elettrica è in sciopero, un altro ancora il boia si è dato malato… Tagliare la testa al re o occupare il Palazzo d’Inverno è cosa che si fa in cinque minuti. Avvelenare qualcuno con piccole dosi d’arsenico nella minestra prende molto tempo, e nel frattempo chissà, vedrà chi vivrà. Per il momento, resistere, resistere, resistere.

http://espresso.repubblica.it/dettaglio/noi-contro-la-legge/2127975

Questione di palle (da tennis).


Sto pensando che gli italiani e le italiane con le palle (da tennis) non ci sono più. A breve Scajola sarà a “Porta a Porta” per manifestare i suoi dubbi sul fatto di essere stato ‘incastrato’ dentro a un complotto. Eccoci qui. Vittime di una democratura così forte e radicata che nemmeno ce ne accorgiamo più, basta che respiriamo. Dove mai può accadere che un ladro possa andare in diretta nelle case degli italiani a dire “beh, dai, ero un bravo ministro in fondo, secondo me è un complotto”. Italia, gli imbarazzi di Del Turco, gli imbarazzi di Mastella, gli imbarazzi di Scajola. L’unico che non si imbarazza è Lui, che può andare con le escort di stato e dire che in Italia, in fondo, c’è troppa libertà di stampa. Va a finire che Silvio invidia la Cina. La cosa bella è che tutto ciò funzionerà perfettamente perché gli italiani e le italiane hanno smarrito le palle (da tennis).
E pensare che da Decathlon costano solo 80cent l’una, le palle (da tennis).

“L’inverno dell’alveare” di Devis Bellucci


A due anni di distanza dal suo primo romanzo, La memoria al di là del mare (Giraldi Editore), l’autore modenese Devis Bellucci torna alle stampe con L’inverno dell’alveare (AEB Editrice), un’originale favola di formazione ricca di metafore e abilmente tessuta. In una società che termina la propria esistenza con l’arrivo dell’inverno, si snodano le vicende di una giovane esploratrice incapace di accettare il proprio destino. Tormentata dalle domande, vola attraverso i prati in cerca dei “diversi”, i figli delle altre società capaci di superare l’inverno. Solo loro potranno indicarle che cosa siano neve, gelo ed oscurità, in modo che da permetterle di costruire una casa nuova, “che l’inverno non porti via”. “Ho scelto il linguaggio della favola”, spiega Bellucci, “per poter parlare in modo semplice a tutti, giovani e adulti. Il punto di vista, nel racconto, è quello di un’ape azzurra, mentre i diversi, spesso guardati con diffidenze dalle altre api, sono gli uccelli migratori, le lucertole, le spighe di grano, le acque di un torrente”. I personaggi della storia, senz’altro uno dei suoi punti di forza, vengono dipinti in modo sempre diverso: ora surreali, come la cavalletta festaiola che teme l’inverno del cuore e se ne infischia di quello del mondo, ora tragici, come il grande albero dalle quattro foglie che vive nel terrore di seccare. Nell’insieme, l’inverno da superare diventa metafora di un viaggio al di là del sentire comune, dove i limiti oggettivi non sono altro che invenzioni della nostra cattiva volontà. Idealmente dedicata “a chi disubbidisce con saggezza per essere un bravo esploratore”, L’inverno dell’alveare è un inno al valore dell’insegnamento e del dialogo, commovente e poetico, in cui la fervida creatività dell’autore modenese raggiunge un ragguardevole traguardo.

L’autore

Devis Bellucci è nato a Vignola nel 1977. Ha studiato fisica all’Università di Modena e Reggio Emilia, dove si è laureato e ha conseguito il Dottorato di Ricerca. Viaggiatore on the road, ha partecipato a campi di volontariato in diversi paesi, tra cui l’Albania, l’India e il Brasile. Appassionato di fotografia, ha raccolto i suoi lavori secondo due percorsi, “Il colore della terra – Impressioni di viaggio” e “Il colore delle stelle – Le strade del pensiero” in parte pubblicata on_line. A fine 2007 è uscito “La memoria al di là del mare” (Giraldi Editore), il suo primo romanzo. Attualmente è assegnista di Ricerca presso il Dipartimento d’Ingegneria dei Materiali e dell’Ambiente dell’Università di Modena e Reggio Emilia, dove si occupa di biomateriali.

La riabilitazione di un piccolo omicida. Lo strano caso di James Melton


Nella primavera del 1948 il nostro paese è percorso da un fremito elettorale, stanno per svolgersi le prime elezioni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. L’Italia è una Repubblica che si affaccia alla storia divisa in molteplici partiti, i più importanti dei quali sono due: Democrazia Cristiana e Partito Comunista. Una parte del nostro paese guarda agli Stati Uniti come a un esempio. La storia di cui scrivo potrebbe essere un esempio ancora oggi, non soltanto negli Stati Uniti. “Direttore del carcere adotta un giovane omicida. Al ragazzo che ha ucciso sua sorella viene data una chance per condurre una vita normale” questo è il titolo di un articolo che comparve sul settimanale statunitense Life nel numero del 12 aprile 1948. Nell’articolo si raccontava la storia dell’allora dodicenne James Melton, un ragazzino dalla faccia perbene che viveva insieme al padre e a sua sorella Phyllis Marie. I genitori del piccolo erano separati e la sorella, per come poteva, cercava di fare le veci della madre andata via di casa. I due figli si toglievano quattro anni, gli stessi che ci toglievamo io e mia sorella da piccoli, a dire il vero gli stessi che ci togliamo anche oggi io e mia sorella. Vi posso assicurare che non c’è niente di peggio che vivere la propria adolescenza con una sorella più grande di voi, e ciò alla luce dei forti conflitti domestici che si possono instaurare. Tanto per cominciare non avete a che fare con un fratello maggiore. Un fratello maggiore potrebbe essere il vostro confidente, potrebbe picchiarvi e allo stesso tempo insegnarvi a dare botte. Con un fratello maggiore potete fumare le prime sigarette e uscire insieme e fare quattro passi in città, quando arriva il momento. Per non parlare di tutte le scuse che potete inventare con i genitori per coprirvi a vicenda. Insomma, un fratello maggiore è qualcosa che facilita la crescita, soprattutto perché se vi vuole bene sa che ha appena compiuto un percorso simile al vostro e quindi vi può dare qualche dritta per cadere in piedi. Quando lui va alle superiori voi andate alle medie, e vostro fratello vi dice come fregare i professori. Quando lui si iscrive all’università voi siete alle superiori, e vostro fratello vi spiega come avvicinare le ragazze. Purtroppo James Melton non ha avuto un fratello maggiore, il caso gli ha dato una sorella, Phyllis Marie. Nel Colorado del 1948, appena finita la guerra, le case si riempiono di novità, grammofoni che diventano giradischi elettrici, il frigorifero, le pall mall nel loro pacchetto rosso, la pasta dentifricia in tubetto e le lattine di salsa tomato. James è un ragazzino con gli occhiali, uno di quei ragazzini che potrebbero tanto recitare la parte del ragazzino sfigato nei romanzi di Stephen King. Uno di quei ragazzini che magari sta zitto, ingoia un po’ di rancore e non ha nemmeno la soddisfazione di avere una sorella più piccola, come il giovane Holden, giusto per metterle a disposizione tutta la sua piccola saggezza quattrocchi. No. James ha una sorellina di quattro anni più grande, per usare un termine tecnico attinto al linguaggio contemporaneo, una rompicoglioni. O almeno così lui la vede, “mi rimproverava sempre”, saranno le prime parole che James dirà allo sceriffo che va a prenderlo a casa dopo il fattaccio. Sì perché James, stanco e insofferente per i continui rimproveri che riceve dalla sorella, un giorno di dicembre del 1947 si nasconde dietro la tenda del soggiorno. Quante volte non è successo anche a voi di nascondervi da piccoli dietro a una tenda per spaventare qualcuno che entrava nella stanza? Cose che da grandi non faremmo per non avere cattive sorprese. Quel giorno James si nasconde dietro la tenda, imbraccia un fucile calibro 22 – tutti gli americani ne possiedono uno anche nel 1948 – e spara. Cinque colpi tutti diretti alla sorella, che muore. Nel soggiorno di casa c’è ancora l’odore di polvere da sparo quando James Melton viene portato via dalle autorità. In Colorado, nel 1948, ci sono due istituti di correzione minorile dove Jimmy potrà scontare la sua pena, ovvero l’ergastolo. Esistono anche delle leggi, però, in Colorado, che impongono agli assassini, indipendentemente dall’età, il trasferimento al penitenziario di stato a Canon City. Canon City è una piccola cittadina alle pendici delle montagne, lì vicino ci sono diversi parchi, Temple Canyon, Royal George, Lincoln; da quelle parti si respira aria pulita, non ci sono sfumature, gli uomini e le donne sono tutte d’un pezzo, lavoro duro, piccole soddisfazioni. Proprio come Roy Best, duro e efficiente esperto del crimine, direttore del carcere di Canon City. È a lui che spetta il compito di prendere le impronte digitali del piccolo Jimmy, il quale arrivato in carcere viene anche aggredito e piange. Proprio così, il piccolo assassino, il dodicenne che ha appena ucciso sua sorella con cinque colpi di fucile, viene aggredito in carcere. Basta vederlo in foto per immaginare quante botte deve aver meritato dai suoi futuri compagni di galera, uno con quella faccia da saputello, magari è capitato fra le mani di qualche ragazzo appena più grande di lui, qualcuno finito in carcere per furto, un ladruncolo di galline. Lo avranno riempito di botte dal primo quarto d’ora. Roy Best vede il ragazzo e prende una decisione. Il direttore del carcere è un uomo tutto d’un pezzo, non ha figli. È giovane, sua moglie lo aspetta a casa ogni giorno con la cena già pronta sulla tavola imbandita, non c’è bisogno che lui comandi anche a casa, sua moglie è felice di obbedire, punto e basta, felice come può essere la moglie di un rispettabile e morigerato direttore di carcere negli Stati Uniti del 1947. Roy Best pensa che quel ragazzino, se avesse avuto una famiglia che lo avesse seguito e gli avesse insegnato qualcosa, a quest’ora non sarebbe lì; si capisce subito a guardarlo che un quattrocchi del genere non sarebbe in grado di far male a una mosca; Roy Best ha in mente un piano, un esperimento, qualcosa che per un attimo gli fa dimenticare di essere capitato davanti a un ragazzino che a dodici anni si è reso colpevole di omicidio premeditato. Cinque colpi di fucile. Sua sorella che non fa nemmeno in tempo a accorgersene, urlare o scappare. Cinque colpi, tutti mortali, ne sarebbe bastato uno soltanto. Il ragazzino con gli occhiali ci ha visto bene. La distanza era ravvicinata. Roy Best decide di portarsi quel ragazzino a casa, lo prende con sé come se fosse suo figlio. Decide di iscriverlo a scuola “se questo ragazzo riesce a diventare un cittadino onesto allora dovrà avere tutti i vantaggi dei suoi coetanei, nei limiti delle possibilità imposte dal caso”. In poche parole, se Jimmy va a scuola e dimostra di essere un ragazzo educato perché negargli l’adolescenza che si merita? C’è un problema, tuttavia. Il ragazzo non può andare a scuola. Va bene che Roy Best è rispettabile, va bene che la maggior parte degli abitanti della comunità riconosce in lui un benefattore, però non va bene, soprattutto ai genitori degli alunni che frequentano la scuola di Canon City. Come spiegare ai loro figli che il loro nuovo compagno di classe è un assassino? Quando i suoi compagni torneranno a casa lo inviteranno a mangiare una fetta di crostata dopo i compiti? E se un giorno qualcuno dei suoi piccoli amichetti volesse seguire il suo esempio e uccidere un familiare scomodo? Il problema di fondo è dato dal fatto che tutti i bambini vengono sgridati dai genitori che a loro volta, almeno la maggior parte – ieri come oggi – hanno (almeno) un fucile in casa. Non si può fare. Jimmy non può frequentare la scuola. Roy Best non è un tipo abituato a darsi per vinto, ingaggia una vecchia professoressa in pensione, che tutti in paese stimano, e la promuove tutrice del ragazzo, sarà lei che ogni giorno terrà le lezioni scolastiche al giovane assassino. C’è di più, lei non si reca a casa di Best per dare le lezione, è il ragazzino, invece, che la raggiunge in casa sua con la bicicletta che Roy Best gli ha regalato. Immaginate la gratitudine del piccolo. È così grato alla sua nuova famiglia da non scappare via con la sua bicicletta. È così poco votato al crimine da non pensare nemmeno una volta di nuocere alla sua vecchia insegnante, né a nessuno dei componenti della nuova famiglia. Eppure possiamo immaginare quante deve avergliene dette Roy Best, il quale non nega che il suo obiettivo è soprattutto quello di far comprendere al ragazzo, ogni giorno, costantemente, la gravità del suo gesto. Così il piccolo Jimmy Melton si ritrova a scontare la sua pena agli arresti domiciliari, nella casa del direttore del carcere di Canon City, conducendo una vita quasi normale, come difficilmente gli sarebbe stata concessa in altri luoghi e tempi, ad esempio gli Stati Uniti d’America oggi. E come sempre accade negli Stati Uniti la storia ha anche un risvolto cinematografico: Roy Best, il direttore del carcere, nello stesso 1948 ha recitato la parte di se stesso in un film dal titolo Canon City, ambientato nel suo stesso carcere; nella pellicola si racconta la fuga di dodici carcerati dal penitenziario. In Colorado è stato di recente approvato un disegno di legge per abolire la pena di morte, l’ultima esecuzione capitale in questo stato risale a quaranta anni fa. L’abolizione della pena di morte consentirebbe di risparmiare soldi sui processi, consentendo di riaprire molti ‘cold case’ irrisolti; i criminali, se scoperti, verrebbero condannati all’ergastolo. Costituisce quindi uno spunto di riflessione la vicenda di un bambino resosi colpevole di un omicidio al quale viene concessa una possibilità di riscatto al di fuori della struttura carceraria e in un regime di semi-libertà quasi immediato; specie considerando che si tratta di una vicenda svoltasi 62 anni fa.

pubblicato su “il Paese nuovo
di martedì 16 febbraio 2010

Viaggio nel paese del comunismo reale.


Animal Farm - George OrwellNon ci vedevamo da un po’ di tempo. Negli ultimi anni ho finito col frequentare il negozio sempre meno perché trovare un parcheggio da quelle parti era impossibile. Non basta perdere tempo in cerca di un posto di lavoro, adesso devo impazzire anche per un posto auto, non era cosa. Così entro in negozio. Gironzolo tra le mercanzie. Lui mi accoglie subito “allora, ti sei sposato?”, “…ancora no, ci devo pensare, dammi dieci minuti”. Continuo a gironzolare. “Quindi non ti sei sposato. Devo dirti una cosa. Tu sai che io sono comunista vero?”. Annuisco. “Ma non comunista come quelli che ci sono adesso…” – il mio viso si fa interrogativo, lascio che prosegua – “…ma sì, sciacquati, io non sono come quelli, io sono comunista-comunista”. Ha ragione. “Ebbene, c’è un luogo nel mondo dove sono riuscito a realizzare il comunismo reale, ed è la mia famiglia, te lo confesso, io sono contento, sono contento di questa cosa”. Come lo invidio, è riuscito a creare una microcellula comunista in terra, come avrà fatto? “A casa mia – siamo in tre – ognuno produce secondo le sue possibilità e consuma secondo i suoi bisogni reali. Tanto è vero che mio figlio non produce nulla (nds non lavora o lavora poco o lavoricchia o non fa nulla) e consuma più di tutti”. Uau! Passo alle domande. “E se fossi solo, se non mi dovessi o potessi sposare, come potrei realizzare il comunismo da solo? Esistono forme di autocomunismo?”. Fa un sorriso “…ma certo che esistono, la sega: la sega è autocomunismo. Anche se per fare il vero comunismo bisogna essere almeno in due, con un figlio è meglio, in tre esce meglio, quindi devi sposarti e fare un figlio al più presto”. Io che credevo di essere capitato lì per caso soltanto adesso scopro di essere stato mosso come una pedina dalle dita sottili del Signore, che oggi ha deciso al posto mio in materia illuminazione personale. Ho bisogno di ragguagli, “…quindi se ho capito bene, produci secondo la possibilità e consumi secondo il bisogno, e se non produci nulla? Non consumi nulla?”. “Vedi che non hai capito? Quello è il Socialismo”. M’illumino d’immenso, “…bene, quindi se non produci non consumi e in più ti chiudo in camera per punizione abbiamo lo Stalinismo…”. L’amico s’intorvisce, come se avessi trasceso, “no, non hai capito, quella è un’altra storia”. Va bene. Prendo, vado alla cassa, pago e esco salutando “dammi il tempo, una cosa alla volta, comincerò dalla più semplice, quando ci vedremo ti aggiorno”. Gli animali sono tutti uguali, è vero, ma certi sono più uguali degli altri. Ciao.

Di enti e superfici. Su “Dermica per versi” di Stefano Donno


Dermica per versi” (Lietocolle, 2009, nota introduttiva Alessandra Bianco) è l’ultima raccolta di versi pubblicata da Stefano Donno nella fortunata collana “Solodieci poesie” dell’editore comasco, da anni marchio di qualità per ciò che concerne la poesia di “ricerca” nel nostro paese. Un dato che va sottolineato per la cura e l’attenzione necessarie – e non ovunque riscontrate – non soltanto da parte di un autore, nei confronti del verso. Una silloge di dieci testi è lo spazio necessario perché i risultati di una ricerca, condotta da circa due anni nel caso di Stefano Donno, trovino la giusta proposizione, catalizzando l’attenzione del lettore (e non solo del critico o del lettore-poeta), senza quella dispersione che potrebbe costituire una pregiudiziale nell’accostarsi alla poesia. Vi è qui la dimensione della ricerca e di una scrittura poetica intesa nella “possibilità di una ricerca”. Una poesia che non può essere né descrizione, né celebrazione del momento.
Perfino il titolo scelto per questa raccolta di dieci componimenti è misurato e allo stesso tempo ambiguo, decentrante, “Dermica per versi” rimanda infatti a qualcosa che potrebbe somigliare a una mappatura poetica di stile e ispirazione deleuziana, una sorta di descrizione di superfici che rimandano a altre superfici. Non è così. Non c’è nulla di più intimo e scavatore in questi versi.
È scomparso l’utilizzo dei segni di interpunzione e della simbologia trans-linguistica (matematica, fisica, scientifica, etc), è scomparsa l’influenza di uno sperimentalismo esasperato, a dire il vero condotta in un ambiente che di sperimentalismo ne aveva percorso poco. Sono scomparsi quasi del tutto i segnali (già intermittenti) da un mondo che non sia quello interiore del proprio lirismo. La cosa più interessante, soprattutto per chi abbia letto tutti i libri, e quindi tutti i ‘passaggi’ di Donno, è notare come la concentrazione raggiunta in questi versi non sia una semplice tappa, cioè un tassello ulteriore e differente dai precedenti, quanto si tratti piuttosto della sussunzione di scritture oramai lasciate alle proprie spalle, con una risultante di netta maturità rispetto a ciò che è stato in precedenza. La forma della raccolta compiuta permette di affrontarne uno a uno i momenti. (1) La silloge si apre con un’invocazione a un tu, ipotesi femminile che potrebbe essere la destinataria dei pensieri contenuti in questi componimenti. La dimensione prescelta è quella di un presente problematico, che si pone come tappa finale di un percorso, uno dei tanti dell’esistenza, giunto a conclusione. Il protagonista è pronto a uscire di scena, affidando ciò che resta del suo corpo de-sensualizzato a chi potrà accogliere i suoi baci/segnali: “sordo, cieco, muto porgo le mani verso te:/ finché in lacrime il vento non ti porterà i miei baci”. (2) Nel secondo componimento l’autore chiarisce che il campo d’azione del suo discorrere poetico è costituito dal corpo e che di conseguenza la ‘dermica’ cosiddetta va intesa come percorrenza del corpo sotto specie di emozioni, “ogni centimetro di pelle”, viene percorso, la dimensione estetica/sensuale ha il sopravvento su quella estetico/espressiva, tanto che “si perdono le parole migliori/ che non scriverò mai”. Tutto fin qui suona come un’arresa della possibilità di poetare dinanzi al reale che può essere vissuto e espresso. La “lingua” di questa poesia – in questo senso – è niente più che un organo facente parte di un apparato digerente. Supponendo che il corpo/mente sia il punto di contatto fra la realtà del mondo e l’io lirico di questi versi, ecco che il corpo non ha la determinazione sufficiente per imprimere una traccia, “Le mie impronte saranno solo un alone sfocato”. Una delle cifre che caratterizzano questi versi può essere quindi individuata nella “sfiducia”. (3) Il terzo componimento costituisce un dittico ideale insieme al quinto, in cui diviene reale e tangibile il contatto con l’altra, quell’elemento femminile che è l’interlocutrice sottesa della silloge. C’è qui la descrizione di un rapporto intimo nel quale è chiara la dimensione dell’attrito come impossibilità di comunicazione tra le due parti, “rovinare tutto con un semplice gesto senza maestria”. In tal senso l’amore è ‘dermico’, perché si ha a che fare con “L’involucro del mio male” riportato immediatamente a un’esperienza di analisi mediante poesia – “saturo d’inchiostro” – in un opporsi continuo di immagini aeree e diafane, “accarezza i tuoi seni”, “farfalle sui prati”, alle quali vengono contrapposte “meschine le serpi/ tra carcasse”. (4) La quarta poesia della raccolta si pone come cesura del dialogo tra quella che la precede e la seguente. C’è qui la consapevolezza di un meccanismo che si è inceppato, di un’abitudine amorosa che è venuta meno, non nella sequela dei gesti, bensì nell’autenticità dell’ispirazione. Vi è qui una netta presa di posizione dell’io-poetante nei confronti della donna, alla quale viene negata ogni arrendevolezza “Dovrei annuire con la testa/in segno di accondiscendenza” […] Dico dovrei/ma non lo faccio”. (5) Il componimento che occupa la parte centrale della silloge è anche quello dove la consapevolezza del distacco raggiunge il suo punto più alto. Da qui in poi sarà difficile individuare punti di contatto fra l’io-poetante e l’Altra, che non abbiano il solo sapore del rimorso o della consapevolezza che tutto ciò che è stato in una determinata misura non potrà essere più. “Quel che è rimasto di noi/è un disordinato museo dei tempi andati”. Insieme alla sfiducia si delinea un’altra caratteristica di questo sistema rizomatico, quella cioè che la rende una corazza impenetrabile perfino a chi ne aveva condiviso i tutti momenti qualche istante prima. C’è da parte dell’io-poetante una sorta di remissione nell’accettare il passato come somma di tentativi volti all’instaurazione di un rapporto che va oltre la superficie dermica “dove ho imparato ad attendere/in religioso silenzio ogni tuo cenno/riordinando per ore le spazzole per capelli/i cosmetici, gli orsacchiotti di peluche, la tua biancheria”. Quello che si evidenzia è il rapporto con oggetti che a dispetto della loro consuetudine e abitudinarietà non riescono, grazie alla confidenza, a scalfire il manto della superficie per raggiungere un quale-che-sia-presupposto-ente. (6) L’inganno amoroso si conclude in un silenzio illuminato da una “luce fioca”. La sesta poesia della raccolta riprende un’atmosfera cara a Donno, quella della metropoli, anche se a differenza di altri luoghi poetici cari all’autore da essa è scomparso totalmente l’orizzonte storico. L’evento che interessa documentare sono “le noiose giornate di provincia”, le macchine, il centro; questi elementi assumono una finzione straniante, il cuore dell’io-poetante è un qualcosa che scorre lontano, un po’ per salvarsi, un po’ per perdersi, un po’ per non farsi corrompere dall’oblio dell’indifferenza.
Da un punto di vista lessicale “Dermica per versi” è un riuscito esperimento nel quale vi è equilibrio tra linguaggio medio e alto, dove il raro utilizzo di termini più desueti (ad. es. “sciabordio”, “abbuia”, “agglutinare”) si fa indice di una ricerca di comunicazione e comprensibilità come risultati. (7) Il settimo componimento è quello in cui si celebra una ideale resa dei conti. L’io-poetante ci ha fatto comprendere, fin qui, di essere una superficie su cui può essere scritto tutto, perfino la condanna estrema, proprio come accade al protagonista dell’incubo kafkiano contenuto nel capolavoro “Nella colonia penale”, sulla cui schiena viene incisa la condanna che coincide con l’esecuzione della stessa. C’è qui l’abbandono al giustiziere, senza nemmeno un timido accenno alla richiesta di un appello. “Quando sarà il momento/tranciate di netto ogni parte di me”. Eppure in questa arresa è contenuto l’ultimo atto di denuncia nei confronti di un mondo che non vuole capire e che non è compreso, meccanismo ineffabile. Se per un’ipotesi assurda dovessimo chiederci chi tra i due, “io-poetante” e “mondo”, avesse ragione, basterebbe l’ultima strofa di questa poesia per fare vincere il primo: “Ho sempre ubbidito a tutti/e tutti mi hanno accolto/obliqui nelle loro case/come se il dovere dell’indignazione/fosse solo per il mio cuore/lacerato a brani/e nulla avessi più a pretendere/nemmeno la polvere”. Ciò che anima questi versi non è quindi un’arrendevolezza silenziosa, quanto più una forte spinta dialettica a una rivolta interiore che riesca a sovvertire la quiete del rapporto amoroso con l’Altro, il suo assopimento. Una delle cose che ci si augura di più una volta terminata la lettura di questi versi è che l’implosione avvenuta sull’IO, dopo che si sia lasciata da parte la società ‘allargata’, venga rivolta con lo stesso acume all’esterno, forte l’autore di questo affinamento del mezzo espressivo, ottenuto come è giusto che sia dopo aver pagato alla poesia un caro prezzo. (8) L’ottava composizione è quella più atipica e distante dalle corde ritmiche delle precedenti, proprio perché in essa sono individuabili gli accenti, una rapidità e un ritmo ‘propedeutici’ all’arresto repentino e inaspettato dell’ultimo verso. Una corsa che si arresta d’improvviso, come se l’io-poetante, fatti i conti con la realtà, avesse deciso di raccogliere in un punto tutte le sue forze. Una dimostrazione che lo stile del Donno è capace anche di voli repentini e accenti compiuti. Detta tracotanza si scaglia e valorizza in questo caso oggetti inutili, inermi, “sfioravo con le mani/penetravo le morte cose”. Come a dire che tanto ardore tardivo è oramai vano. Tornano infatti le mani, “tremule”, “impudiche”, “coprivano un’ansia latente d’attesa”. Da un lato la corsa affannosa verso qualcosa di invano, e dall’altro la soluzione in nulla che non sia soltanto attesa. (9) La nona poesia segna il termine del discorso intrapreso nella silloge, qui si tirano le somme, tutto l’io-poetante è consapevole di essere stato partecipe di una lezione incompiuta, quella del mondo intimo di un uomo e una donna che per un tempo intenso è trascorsa sul derma per raggiungere fibre più intime. La prima persona singolare che ha accompagnato il lettore per la durata di questo viaggio giunge alle soglie di un abisso. (10) “Dove nessun canto trova dimora”, scriverà Donno nell’ultima poesia della silloge. Nemmeno sulle pagine c’è abbastanza spazio perché la tensione dell’esistenza trovi un luogo adatto a fermarsi, “i miei passi a stento sopportano/ il peso del cielo”.
“Dermica per versi” diviene qui una dichiarazione poetica alla realtà, una denuncia dell’evidenza che in certi momenti sfiora il titanismo, concentrandosi, si potrebbe azzardare un paragone, in un bicchiere d’acqua che va bevuto ogni giorno, mandato giù a sorsi lenti e amari allo stesso tempo. È come se in ognuna delle poesie fin qui lette ci si fosse avvicinati sempre di più a un millimetro dalla sconfitta, al momento in cui si è prossimi a gettare la spugna senza compiere, tuttavia, il gesto dell’arresa. Questa raccolta, tra quelle pubblicate da Stefano Donno in questi undici anni di frequentazione con la parola ‘rivolta’ a un pubblico, è sicuramente la più riuscita, e senza nulla togliere a quelle che l’hanno preceduta costituisce un ottimo punto di partenza per una ulteriore ricerca di mappatura poetica del mondo.

Dermica per versi”, Stefano Donno, Lietocolle, 2009, isbn 9788878485419, €5

Post e dintorni


Primo post dell’anno 2010. Sul quotidiano ilPaesenuovo di oggi c’è una acuta e circostanziata riflessione su “Re Kappa” firmata da Francesco Pasca. Chi sia interessato può leggerla in formato pdf cliccando qui. È l’ultima in ordine di tempo, le altre potete leggerle qui.  Su questo sito, nelle prossime settimane, potrete leggere oltre che le consuete recensioni, le anticipazioni di quello che c’è dopo – nella mia scrittura – ovvero il mio secondo romanzo. Da qualche giorno è online SmartLit, chiunque sia interessato può visitare il sito e scrivermi. Quest’oggi segnalo, per chi fosse a Lecce, la presentazione di “Tutto questo silenzio”, di Rossano Astremo e Elisabetta Liguori, presso la Libreria Gutenberg (Lecce) alle ore 18.00, ci saranno Antonio Errico e Mauro Marino. Il 2010, che per il calendario cinese è l’anno della Tigre, si apre con servizi giornalistici (Repubblica) e telegiornalistici (Tg2) entrambi incentrati sulla riscoperta delle bocce anche tra i giovani e il declino/trasformazione  (Tg2) dei centri sociali. Male che vada se le bocce diventano così importanti qualcuno inventerà (se già non esiste) il gioco delle bocce con la Nintendo Wii. Sigh. Alberto Arbasino, sempre lui, in un’intervista chaise-longue a Andreotti/De Melis (il manifesto, marzo 2001), sosteneva che negli anni ’70 c’erano stati tanti diversi momenti ‘sorgivi’, momenti storici in cui diversi fattori culturali, ambientali, politici, portavano alla nascita di movimenti culturali e opere d’arte fondamentali. La decade trascorsa invece, quella dal 2001 al 2009, è stata catastrofica al punto che alcuni parrucconi già rimpiangono gli anni novanta. “Che carriera!”

La strategia dell’olfatto. “Séparé” di Annalisa Bari


Annalisa bari - Séparé - copertinaNel maggio del 1986 venne pubblicata una raccolta di racconti, la prima postuma, di Italo Calvino, dal titolo “Sotto il sole giaguaro”. Dei cinque racconti, uno per ogni senso, ne vennero ultimati e pubblicati tre soltanto, il primo dei quali “Il nome, il naso”, era dedicato all’olfatto. Il racconto in questione lascia il segno per la descrizione di una realtà percepita attraverso un unico senso. L’olfatto è, dei sensi, quello che più risveglia l’istinto animale, grazie a esso possiamo ricordare e far affiorare alla mente il nostro passato chiudendo gli occhi e tralasciando ogni razionalità. Con questa premessa mi piacerebbe che il lettore si accostasse a “Séparé”, ultimo romanzo di Annalisa Bari, edito da Giuseppe Laterza Editore. L’autrice – il suo romanzo più recente era “I mercanti dell’anima”, uscito l’anno scorso con LAB – è alla sua quinta prova narrativa. Il romanzo racconta le vicende di una bambina che viene allevata da sua zia Giorgia, un’attrice di rivista nel periodo (secondo dopoguerra, boom economico) in cui il cinema comincia a contendere spettatori ai teatri di prosa. Gli odori in questo romanzo giocano un ruolo importante, non a caso si parla di olfatto, perché ogni capitolo inizia proprio con la menzione dell’odore che più diviene protagonista della vicenda in esso narrato. Si parte dai camerini di un teatro napoletano, dall’odore delle candele che si spengono e dalla rapidità con cui la scena viene cambiata, passando dal funerale della madre di una bambina che poi, nolente l’impresario – uno dei personaggi meglio caratterizzati – verrà presa con sé dalla zia. Gli odori si susseguono, la brillantina di un uomo, la cipria sui visi le rose, le caldarroste, i treni degli infiniti spostamenti attraverso l’Italia. L’effetto più interessante della prosa di Annalisa Bari è che la “strategia dell’olfatto” si riflette nello stile prediletto per la narrazione, rapido, sequenziale, quasi che davanti agli occhi del lettore si susseguissero i quadri di un carosello nel quale la scenografia viene cambiata, nel passaggio da un capitolo all’altro, con la stessa velocità con cui si cambiano i costumi delle ballerine nel passaggio da un contesto all’altro della narrazione. Zia Giorgia avrà così modo di condurre nel mondo la protagonista bambina nel percorso tipico del romanzo di formazione. Non nascondo che il personaggio preferito è proprio lei, per quel senso di praticità che si coniuga perfettamente con l’aspirazione artistica, senza cedere a nessuna lusinga. La dedizione di questa madre acquisita non avrà cedimenti nemmeno quando la zia avrà la possibilità di una vera e propria ‘svolta’ nella sua carriera, potendo entrare nella compagnia del mitico Macario, dovendo tuttavia sacrificare il rapporto con la sua nipotina che vivrà quell’episodio con la consapevolezza di non voler essere un peso per la zia, un esempio di come la sensibilità dell’autrice rende il carattere ingenuo e allo stesso tempo introspettivo della piccola:

“Fu quell’episodio che finì di convincermi che ero diventata un fardello, un ostacolo alla carriera della zia. Ebbi paura che lei mi odiasse per questo e pensai di fuggire. Ma dove? Avevo girato in lungo e in largo l’Italia, conoscevo più città io di qualsiasi altra mia coetanea, avevo conosciuto un numero smisurato di persone, folle, platee, ma gli unici esseri viventi con cui avevo un legame, su cui potevo contare, erano veramente pochissimi e tutti raggruppati in quel piccolo mondo della compagnia. Quando tutte furono uscite dal camerino, rimasi lì, raggomitolata per non so quanto tempo, al buio, a cercare una soluzione per sollevare la zia del problema”.

La variazione sul tema concessaci dall’autrice sta nell’amore e nelle cure che riceverà la piccola bambina, vissute con un po’ di nostalgia per un tempo in cui era ancora possibile condurre una vita randagia attraverso l’Italia, magari iscrivendosi a diverse scuole e imparando sul campo della vita/teatro, senza farsi mancare un presepe e l’aspirazione di occupare un posto sulla ribalta della scena. “Séparé”, di Annalisa Bari, a conferma di quanto espresso dall’autrice nei suoi lavori precedenti, è un ottimo romanzo; una riuscita commedia nel quale la malinconia del passato viene mitigata dal disincanto con cui la protagonista, una volta adulta, contempla il presente.

Séparé” di Annalisa Bari è anche su twitter.com/SmartLit: 1 2 3

“Casa della Poesia” chiede aiuto.


Cari amici, vi lascio qui sotto una lettera dei fondatori delle “Casa della poesia”, un luogo unico e di grande valore per la poesia e per la cultura in generale.
Sarebbe un vero peccato, per l’Italia, e per il mondo perderlo.

– – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – –

“Cari amici di Casa della Poesia,

le notizie che dobbiamo darvi continuano a non essere piacevoli. Pur svolgendo in questi mesi un’intensa attività in tante città italiane e all’estero, pur avendo raccolto grandi successi ed entusiasmi per le ultime cose organizzate (Napolipoesia nel Parco, Incontri internazionali di poesia di Sarajevo, Verso Sud a Reggio Calabria, gli Incontri dedicati al Centenario di Alfonso Gatto, gli incontri in “Letture senza confini”, i tour italiani di Jack Hirschman, di Paul Polansky, di Maram al-Masri, ecc. ecc.) la situazione della struttura fisica di Casa della poesia rimane problematica e ancora a rischio di chiusura o trasferimento.

Come sapete ormai da tempo a questa crescita continua del progetto e della considerazione internazionale di cui gode, agli impegni sul territorio nazionale e all’estero, corrispondono problemi di natura finanziaria e di relazioni con gli enti pubblici locali che mettono in grave difficoltà la struttura proprio nel nostro territorio. Dobbiamo quindi segnalarvi di nuovo e con forza il pericolo imminente. È davvero a rischio la stessa esistenza di Casa della poesia!

Ricordiamo che il 2008 è stato l’anno dell’apertura della “Casa dei Poeti”, la struttura residenziale di Casa della poesia che rende la nostra organizzazione unica probabilmente non solo a livello nazionale, ma forse a livello internazionale. E ricordiamo anche che il prossimo anno, 2010, Casa della poesia realizza il quindicesimo anno di attività, un traguardo importante, straordinario per una struttura indipendente.

Torniamo a dare i numeri di quella che ci ostiniamo a considerare una straordinaria impresa: quattordici anni di intensa attività, circa 40 grandi eventi realizzati in varie città (Napoli, Salerno, Baronissi, Reggio Calabria, Pistoia, Trieste, Sarajevo, Potenza, Benevento, ecc. ecc.), incontri, progetti, seminari, in tante città italiane e all’estero, collaborazioni con Ministeri ed enti culturali di tanti paesi europei ed extraeuropei, circa 400 passaggi di poeti di ogni parte del mondo, una bella biblioteca internazionale, una mediateca, un archivio audio (“Le voci della poesia”) tra i più ampi e vasti del mondo, laboratori di produzione audio e video.

E come già  detto l’apertura di una casa-alloggio per poeti che fa di Casa della poesia, nell’insieme delle sue attività, una struttura forse unica al mondo per complessità, approcci, aree di intervento e sviluppo. **Casa della poesia è un’impresa culturale riconosciuta e riconoscibile a livello internazionale, apprezzata e presa ad esempio, con relazioni internazionali di livello altissimo (Università, Ministeri, Ambasciate, Istituti di cultura, Associazioni, Enti pubblici, Case della poesia, ecc.).
Facciamo appello ad amministratori, uomini politici, imprenditori, disponibili a “leggere” i risultati e la qualità dei progetti di Casa della poesia e ad impedire un ulteriore impoverimento culturale del nostro territorio. **Intanto noi proviamo a proseguire le nostre attività (ma non sappiamo ancora per quanto), insieme a coloro che in questi anni sono stati protagonisti (i poeti) e testimoni (gli amici di CdP) del nostro lavoro, con la speranza di non dover rinunciare e trasferire tutto il patrimonio di lavoro, relazioni, contatti, materiali, conoscenze e competenze, in altri ambiti e territori.

Chiediamo a tutti gli amici, i giornalisti, gli uomini di buona volontà, di essere parte attiva in questa operazione di r/esistenza per tenere in vita una struttura che per 14 anni ha dato spazio e voce ad una cultura dell’impegno, della partecipazione, della solidarietà, dell’incontro. Siamo certi di poter contare sul vostro aiuto (articoli, interviste, segnalazioni, ecc.) e di ricambiare continuando a proporre progetti e la grande poesia internazionale.
Aspettiamo un vostro cenno e intanto, un caro saluto, Raffaella Marzano & Sergio Iagulli Info: 089/951621 – 089/953869 – 347/6275911″.


aldamerini

Una fine che non è una fine.


sb_fintomalore

Nel racconto moderno il personaggio non esiste. Esistono delle figure e dei fatti che non sono mai esattamente identificabili con i soggetti e gli oggetti; ci sono lotte e sconfitte, ma sono prive quasi totalmente di senso. Alla lettera potremmo immaginare un personaggio sconfitto e in fuga, lacero, disfatto e senza speranza. Potrebbe anche avere un’ultima notte di sogno e di disperazione, in cui i fantasmi vengono eccetera eccetera… L’ultima cena, l’ultimo addio, e così via. Ma queste sono sciocchezze che non succedono che nella storia – e antica, per giunta -. Questa è la realtà: nel mondo moderno tutti sono gli sconfitti, e agli sconfitti resta un’infinità di vie – dal commercio alla dirigenza d’azienda fino all’idea di scrivere le proprie memorie chiamandole banalmente romanzo -. Sconfitti sì, ma vivi. Niente di meno, niente di più. E niente di meglio che essere (credere di essere) fuori della mischia. Fuori della lotta per la vita. Niente più capo né gregario, vivere come tutti quanti: una vita comune. Ma il problema qui è un altro. Non ha importanza, più, essere quello che si è, oppure un’altra cosa, tutt’altra cosa o tutt’altra persona: tanto siamo tutti uguali. Unici, è vero, come individui, ma uguali, poco meno che identici. La nostra è l’epoca più giacobina che sia mai esistita – e a nostra insaputa -. Il livellamento è tale che non c’è alternativa per nessuno: ai vari livelli di cultura, intelligenza, potenza, ricchezza (quindi anche dei loro contrari) la storia (la vicenda) è quasi sempre la stessa.
Il nostro protagonista non è dunque nessuno in particolare, non rappresenta un’idea particolare, non è un simbolo: niente. Uno qualunque ha infinite possibilità di esistere in questo o in qualsiasi mondo: l’ingranaggio è unico. Immaginiamo che la scena si svolga in un futuro a breve, brevissima scadenza, cerchiamo ragioni di riso in un mondo fantascientifico d’invenzione. Ma non lasciamoci fuorviare del tutto: domani, lunedì, riaprono uffici e banche: la lotta sta per riprendere il suo quitidiano volto di normalità noiosa e indifferenziata. Fra poco tutti correranno, affaccendati, come al solito, il gioco rientra nelle sue regole solite. Chi sono i vincitori? Chi sono i vinti? Nessuno lo sa; occorre mimetizzarsi seguendo una strada qualunque senza sapere dove porta. Le cose non cambiano poi molto. Ci può essere persino una fine che non è una fine.

da “O barare o volare“, Gilberto Finzi, 1977, Garzanti

Dieci e lodo.


scopa

La casa si chiama giustizia. Soltanto dopo aver fatto pulizia si può tornare alla casa di un tempo, la stessa, come se fosse nuova. Soltanto quando la casa è pulita si può iniziare a respirare a pieni polmoni. Riusciranno i nostri sub-eroi a ridare il paese ai suoi abitanti? Riuscirà la legge laddove la legge nella legge ha fallito? Come si può costruire qualcosa che riesca a contrastare sul terreno del voto affermazioni come “il nostro è un governo legittimato dal popolo, uscito fuori dalle urne?”. Come fare intendere a chi lo ha votato che il pensiero è ottuso da anni di non-pensiero, di immagine-di-pensiero? Queste che scorrono sono ore cruciali oppure ci troviamo dinanzi all’ennesimo scivolone dal quale egli si riprenderà riassettandosi come niente la giacchetta? Come con le escort, che oramai ci manca poco perché diventino parlamentari all’opposizione. Un po’ come oggi, che alla presenza di Tarcisio Bertone, Segretario di Stato Vaticano, durante l’inaugurazione di una mostra sui Santi Patroni d’Europa, egli ha detto così “Ho detto a sua eminenza che c’è una grave lacuna nella mostra. Manca San Silvio da Arcore che fa sì che l’Italia non sia in mano a certa sinistra che con la religione ha poco a che fare“. Si tratta dell’unico Premier che rischia di essere più simpatico dei suoi alleati e, soprattutto, dei suoi elettori, di quella ‘ggente…mentre intanto, attorno a questa supernova mediatica, si dilata il Vuoto.

Fuga dal sistema. Un racconto.


exitfrom_lucianopagano

§1

12 settembre 2048. Questa mattina, nel suo appartamento di New York, all’età di 86 anni, si è spento lo scrittore americano David Foster Wallace. Lo scrittore soffriva da diverso tempo di un male incurabile, dovuto ai postumi di un incidente domestico. Wallace era conosciuto presso il grande pubblico per le opere pubblicate a ridosso del passaggio tra il secolo scorso e questo presente. La moglie lo ha continuato ad accudire fino dal giorno in cui, quaranta anni fa, Wallace subì l’incidente che lo immobilizzò su un letto. David Foster Wallace cadde da una scala battendo la testa. Il ritardo dei soccorsi – lo scrittore era solo, la moglie giunse sul luogo due ore dopo l’accaduto – pregiudicò la sua situazione impedendo l’irreparabile. La figura di Wallace, in questi anni, è stata al centro di un doppio dibattito, letterario e medico; il primo incentrato sull’apporto fondamentale alla letteratura post-moderna e all’influenza che lo scrittore di Ithaca ebbe sulle principali figure di autori nati nei primi anni dopo il duemila; il secondo dibattito, più spinoso, sulla sua condizione vegetativa e su come grazie agli sforzi della moglie egli sia riuscito a sopravvivere continuando a dedicarsi alla sue passioni di sempre, la scrittura e i cani. Negli ultimi anni, nonostante l’aggravarsi delle sue condizioni, Wallace ha scritto e dato alle stampe diverse opere non narrative. La critica sembra unanime nel considerare i suoi due capolavori “Infinite Jest” (1996) e “The Pale King” (2010) come due tra le migliori opere di questo secolo. Questi i titoli dei suoi due ultimi romanzi. Le riflessioni di Wallace fino ad oggi si sono in prevalenza soffermate su saggi di cultura e società. “Se ne va uno dei migliori, uno scrittore che ha contribuito a tracciare i confini di ciò che era narrabile in un’epoca che non sembrava riconoscere maestri e si presentava all’inizio di un nuovo secolo completamente smarrita” (L. Pagano). Gli anni in cui è vissuto David Foster Wallace sono stati gli anni in cui gli Stati Uniti hanno fatto fronte a diversi conflitti internazionali in Medio Oriente (Kuwait, Iraq, Afghanistan), sono stati gli anni che hanno immediatamente preceduto la Grande Crisi. Wallace ha osservato questi avvenimenti dal letto collocato nella stanza di un appartamento a New York, città dove era stato trasferito nel 2008, a seguito della caduta, per facilitarne la cura. Non hanno fatto in tempo, la sua penna e il suo stile, a descrivere lo scoramento di una nazione dinanzi alla recente notizia dell’impeachment del nostro attuale Presidente, incriminato dalla Corte Suprema per avere cercato di occultare le prove che l’11/09 è stato voluto dall’amministrazione ombra del Presidente George W. Bush. I nostri lettori più giovani non si ricorderanno delle accuse – poi rivelatesi infondate – mosse alla moglie, secondo le quali Wallace non sarebbe stato vittima di un incidente.

Patrick Emerson
The New Yorker
12 Settembre 2048

§2

“Pronto? Parlo con Mr Emerson?”
“Mi dica”
“Sono Karel Green, possiamo incontrarci?”
“Oh, certo Mrs Wallace, sono addolorato per quanto è successo…”
“Non si preoccupi, ho letto il suo articolo, vediamoci all’incrocio tra la Brodway e la 53th, alle nove e mezza di stasera, ho una cosa da consegnarle”.

Fa fresco. L’estate è appena finita. Che significato ha tutto ciò? Mrs Green mi ha dato appuntamento in mezzo ad una strada. Che strano. Fino a trent’anni fa questo angolo era famoso perché qui c’era il teatro che ospitava il Dave Letterman. Accidenti. Quanto tempo. Dopo le Capovolgimento del 2012 è tutto cambiato. Fine dello show, baby. Che cosa vorrà da me? Arrivo con dieci minuti di anticipo. “Buonasera. Diamoci del tu. Questo è per te. Mio marito mi aveva detto che quando sarebbe morto avrei dovuto fare tre cose. Le prime due le sto facendo in questo momento. David voleva che tu lo leggessi”. Apro il pacchetto che le esili dita di questa nonnina mi hanno appena consegnato. C’è dentro un manoscritto. “The end of time. Romanzo. David Foster Wallace”. “È l’ultima cosa su cui stava lavorando, lo ha finito ieri notte”. Insieme c’è una lettera. La seconda cosa. Faccio appena in tempo ad accorgermi del tesoro che ho tra le mani alzo la testa e Karel Green è scomparsa in mezzo alla folla che cammina su questo lato della strada.

§3

Mr Emerson, mi permetto di scriverle perché credo che negli ultimi anni lei sia stato uno degli scrittori che si è occupato meglio dei miei romanzi. Non ho mai avuto figli. Non ho fatto in tempo, io e Karel non ne volevamo, c’erano giorni in cui ero troppo depresso, l’amore dei miei cani era sufficiente e tutte le altre scuse che mi sono recitato in questi quaranta anni per sopportare la vita alla quale mi sono condannato per…”.

La cena è pronta. Estrarre la cena. Desideri un cocktail per il dopocena Patrick?“. Devo ricordarmi di disattivare la voce del robot da cucina, mi fa venire i nervi. “Nau!”. Idioma non riconosciuto. Errore del sistema. “No Maddy, Nessun cocktail dopo cena. Accendi la televisione Maddy”.

…per un errore che né io né forse il destino avevamo preventivato. Mia moglie sa di cosa parlo. Mr Emerson, il volume che le ho consegnato è il mio ultimo lavoro compiuto, lo affido alle sue cure con la certezza che saprà farne buon uso. Ho fatto in modo che mia moglie Karel consegnasse una lettera identica al nostro avvocato. Spero che mia moglie sia stata cortese con lei quando vi siete incontrati, in questi anni ha dovuto sopportarmi non poco.”

Non ho mai assaggiato un pollo più schifoso. Che fine hanno fatto i polli veri, ne esistono ancora? Secondo me stiamo ancora smaltendo le scorte dei decongelati di venti anni fa. Sullo schermo parete scorrono le immagini di Gerusalemme, il Papa ha annunciato che il suo viaggio in ottobre non sarà rimandato. Tra un mese è il Columbus Day, devo attrezzarmi, il direttore mi ha chiesto un pezzo. Adesso che ci penso. Nove e mezza. Ecco. Mrs Green ha voluto incontrarmi nell’ora in cui Wallace ha avuto l’incidente. Accidenti. Wallace è morto lo stesso giorno in cui ha avuto l’incidente che lo ha immobilizzato. Coincidenze. Chissà qual’è la ‘terza cosa’ che doveva fare Mrs Wallace.

approfitto della presente per ringraziarla, anche da parte di mia moglie”.

Un presentimento. Qualcosa a cui nemmeno Mr Emerson, redattore del New Yorker, vuole dare retta. “Maddy, ho cambiato idea, prepara un gin lemon. Doppio”.

“Interrompiamo il servizio per una notizia dell’ultima ora. Secondo quanto appreso pochi minuti fa da un membro del NYPD Mrs. Karel Green, ottantenne, moglie di David Foster Wallace, il noto scrittore spentosi quest’oggi all’età di ottantasei anni, si sarebbe tolta la vita impiccandosi nella stanza da letto dell’appartamento di New York dove entrambi avevano vissuto negli ultimi quaranta anni, a seguito dell’incidente che colpì Mr Wallace nel 2008. Il suicidio sembra trovare una causa naturale nell’improvvisa avvenuta mancanza dello scrittore. Secondo recenti notizie la moglie di Wallace soffriva di crisi depressive e, dopo quaranta anni, non è riuscita a sopportare il dolore e la prospettiva di rimanere senza suo marito”.

David Foster Wallace
21/02/1962 – 12/09/08

ogni riferimento a fatti, cose, persone
è fittizio

Luciano Pagano

Apostolos Apostolou – La poesia e la filosofia come terapia


APOSTOLOS APOSTOLOU
LA POESIA E LA FILOSOFIA COME TERAPIA

heidegger_pound_joyce

Filosofia e Psicanalisi

Comincerò con una domanda. Come si può oggi parlare di terapia, in un’epoca dove il termine terapia è così carico di un’articolazione burocratica ed è stabilito come un centro funzionale ed un modello di tutto il sistema della guarigione, la quale in sostanza si identifica con il potere? Tanto più che il relatore insegna la filosofia e tecniche terapeutiche per mezzo filosofia e della poesia ed è considerato come l’ispiratore dell’operazione poetico-filosofica. L’operazione poetica- filosofica che non ha per obiettivo di convincere e di impressionare, né di dimostrare, bensì di condividere le opinioni, le conoscenze, le esperienze teorizzate, che sono ricostruttibili e verificabili, rispetto alla responsabilità e la libertà, desiderando così di rendere il suo interlocutore aperto alla negabilità della sua ingegnosità. Come si può parlare oggi di terapia quando anche Sigmund Freud nel testo del «Pirata ed il non Pirata Analisi» annunzia la sua fine. Dicendo che la psicanalisi si stacca dall’obiettivo della terapia. [1] Ossia dalla formazione, noi diremmo sregolamento – nuova regolazione – adattamento, ed anche dalla formazione educazione – stato – terapia. Le domande per quanto riguarda la psicanalisi sono chiare. Chi e come si può determinare la perturbazione e la guarigione? In un’epoca dove il vantaggio comparativo suo, ossia la rappresentazione come processo di pensiero e fabbricazione della fantasia (Derrida dice che la rappresentazione funziona come una copia di qualcos’ altro che non e’ mai stato? Come principio del principio ) [2] si è identificata con l’immobilizzazione astratta, di modo che la filosofia, invece di seguire ogni ipotesi e presupposto, diventi sempre più imitazione di un linguaggio antico e sempre meno contemplazione. Le scienze della natura e dell’uomo diventano sempre più un fiscalismo che ci costringe invece di liberarci. L’arte diventa sempre più tecnica e decorazione. La letteratura e la teoria estetica è un semplice ciarlare e tutte quante messe insieme, sono sotto la pressione del successo e dell’utilità. Così, malgrado certi successi, dimostrano ugualmente le loro debolezze e portano la loro mitologia, rifiutando di vedere che tutte le soluzioni hanno in se’ la loro stessa problematica e rimangono problematiche. Non essendo quindi in misura di evitare la loro sorte, conoscono la loro morte nel pensiero vasto e ricco che sa giocare al gioco della conoscenza assoluta. Molte teorie parlano di vissuto come soglia della autoconoscenza, però come possiamo definire il vissuto? [3] Il vissuto, definito come il fissaggio di un espressione della vita tramite l’attenzione (vede psicanalisi) ed il nesso con processi nozionali, era una condizione per tutte le scuole psicanalitiche e psicoterapeutiche. Per la filosofia, il vissuto è un fare senza interruzioni, una risultante di funzioni e rapporti non qualcosa di costante e fisso mentre Rickert si riferisce al concetto del dopo-vissuto. L’errore sta nel fatto che attraverso il vissuto cercano di arrivare alla comprensione (non dimentichiamo la figura interpreto/capisco). Tuttavia Jaspers crede-dice, che ogni tipo di comprensione comprende un elemento di costruzione. Se vogliamo ricercare un approccio post terapeutico filosofico, questo deve procedere entro una filosofia del gioco. Il gioco come maschera della filosofia di Nietzsche, [4] come metafora/immagine – riferimento costituisce una sfida – invito all’attivazione del soggetto a procedere con la rottura con l’identità e l’unità. La maschera come passione assurda secondo Nietzsche e coesistenza di luoghi opposti della molteplicità e delle contraddizioni permette un avvicinamento pieno di tensioni delle sensazioni che capisce come il luogo dell’intermedio o meglio il luogo del’ insieme (per la prima volta incontriamo il termine nel Platone, quando usa la parola metaxy cioè insieme, Simposio e Filebo, ma anche a Heidegger, con il concetto Lichtung cioè Lucide) .

Il concetto dell’intermedio o di insieme è forse la causa del pericolo forse, la causa della maschera, del gioco, del luogo intermedio (legge oppure insieme) ossia della cultura, (secondo psicanalista Winnicott) della poesia (secondo Platone e Nietzsche). E questo perché come dice il Nietzsche per un poeta autentico la metafora è un immagine, un concetto e quello che vede il poeta è uno spettacolo che costituisce una rappresentazione teatrale dove le parole diventano maschere. Però non come il gioco come terapia che perde il suo taglio di inversione e del quale gli estremi sono definiti in una via di uscita sicura, (come sostiene F. Faun) ma invece un gioco con tutti i rischi. Il gioco è sinonimo del Questo (Cela) – Quello (Id) che può essere paragonato con l’inconscio. È aperto sul luogo/tempo delle risposte. E come dice K. Axelos il gioco non è un predicamento del mondo, il gioco gioca il mondo. (Per il gioco nella filosofia hanno parlato M. Heidegger, E. Fink, J. Granier, K. Axelos. J. Derrida). Il gioco conosce ogni comportamento nostalgico e reattivo, soffoca all’interno dei suoi stessi limiti, ogni opportunismo semplice e pulito perde tempo, ogni opportunismo scuro, o sopraccarico rimane plano e monolineare, mentre alle grandi domande non possiamo che rispondere senza rispondere. Non vede la vita come un labirinto di supplementi o sostituti (la vita come supplemento per ricordare Derrida) né una funzione dell’ellipse/desiderio, (secondo psicanalisi) che crea la metafisica della diaspora.

Poesia come Terapia

Poesia e filosofia del gioco, sono vicini senza che sia tuttavia stabilito che siano deducibili e spiegabili insieme. La poesia da alle cose un nuovo nome, (in letteratura greca antica triviamo il testo quando riguarda la poesia e il nome delle cose. «Ορφέως δε ός και τά όνόματα αύτών πρώτος έξηύρεν…») ma anche filosofia del gioco lo fa, ribattezza le cose. [5] Il poeta impara la dimissione, ci dira Stefan Georg, nel poema con titolo “ Das Wort “ un poema che distingue il M. Heidegger. Ma questo succede anche con il gioco filosofico che si esprime come una sistematica aperta e ci impedisce di giocare senza giocare, (K. Axelos) [6] visto che e’ aperto e insicuro e impone la dimissione rispetto a qualcosa che succede. Tuttavia tramite tutte le negazioni, sorge un’ affermazione. (La dimissione non è che il tutto per quel che si perde e la nuova nomenclatura il familiarizzarsi di uno sguardo nuovo oppure il riconoscimento della conoscenza secondo le teorie psicanalitiche e psicoterapeutiche) Così l’assoluta impasse senza uscita, il rischio esistenziale, l’insicurenza totale, l’esclusione multidimensionale, in una parola, il vuoto assoluto questa utopia della fisica ridotta da noi stessi ad una realta’ quotidiana, costtituisce una flida. Saremo all’ altezza simultaneamente alla corrente sotterranea che si muove all’ ombra nello spazio-tempo e all’ orizzonte degli orizzonti lontani che ci procura le sue luci, in fine questa è la scommessa dell’ uomo.[7]

Oggi le facoltà più profonde e piu’ sottili della psiche, quelle da cui dipende la conoscenza intuitiva che sola ci mette in rapporto con l’ essere, sono state distrute in gran parte da una cultura materialistica e tecnologica. Ma se la coscienza non guida la nostra emotiva, la nostra fantasia – tutto ciò che appartiene alla sfera di ciò che chiamiamo i’ irrazionale – queste facoltà degenerano, e degenerando si appropriano di noi in mondo nascosto e inosservato fino a sconvolgere la nostra vita. Ecco il ruolo della poesia. È quello di indicare l’ importanza dell’incoscienza in modo cosi particolare. Se il depressivo si deve rilassare, se l’ansioso deve dominarsi e l’inibito deve osare, la poesia può aiutare. Perché la poesia risponde alla corrente sotterranea che si muove all’ombra nello spazio e nel tempo, nelle situazioni e nei caratteri umani e all’ orizzonte degli orizzonti lontani che ci proccura la sua luci.

Il famoso ” dove’ era Es, deve diventare Io” di Freud, con la poesia diventa ”dove sono Io bisogna che emerga Es”. Questo non significa l’esaltazione di Breton dell’ Es come ” estremo rimedio”. Secondo poesia il mondo è ”un segno” (Goethe – Mefistofele, Rembaud, Mallarme ) il segno di cio’ che parla. La poesia sostiene che l’ altro parla mezzo di linguaggio. Lo stesso non dice con altre parole, anche S.Freud. ”L’inconsio non parla il linguaggio dell’Altro, ma parla molti dialetti, incomponibili e intraducibili in un linguaggio”. (Vede: S.Freud, Opere, Vol.VII, Ed. Boringhieri, Torino 1975, p.260. Anche qui possiamo vedere che cosa dice per l’analisi.” l’analisi non sarebbe dunque una pratica di trasformazione che, proprio spezzando il grande sasso della verita’ descrive le contraddizioni che questa componeva in una parola piena, totale, ma all’ opposto proprio la conferma della verita’ nella scoperta della parola dell’ inconsio.”)

Siamo davanti in una apertura culturale dove filosofia e poesia insieme (ricordate il pensiero presocratico che era un pensiero poetico-filosofico) dicono che l’ uomo puo’ cercare di imparare e di imparare di nuovo, riflettendo sulla vita e vivendo le nostre riflessioni.

Il gioco poetico-filosofico organizza , se possibile un pensiero interogativo che non sia ne’ scientifico, cioè funzionalità, né psicanalitico ossia narrativa e teoria delle proiezioni, ne’ micro-costruzioni sociologiche ossia ideologie prosaiche. La poesia ci dirà che la nostra epoca non ci appartiene , come una proprietà nostra , ma invece che siamo noi che apparteniamo ad essa come se fossimo suoi figli, in un’ apertura culturale. [8] Per questo dobbiamo essere aperti al fascino del tutto-nulla provando sia il tutto che il nulla.

[ 1] Abrams M. H., The Deconstructive Angel , Critical Inquiry 3 1977,p,425-438.
[2] J.Derrida, L’ Archeologie du frivole. Introduzione, in Essai sur l’ origine de la connaissance humaine, Paris, Galilee, 1973, p, 87.
[3] N. Abraham, L’ Ecorce et le noyau, Paris ,Aubier-Flammarion,1978, p.54.
[4] S. Kofman, Nietzsche et la metaphore,Paris, Payot,1972, p,67.
[5] J.Kristeva,Polylogue,Paris,Seuil,1977,p, 46.
[6] K. Axelos Systemattique ouverte, Paris, Editions de Minuit 1984, Problemes de l’ enjeu, Paris Ed. de Minuit 1979 , Le jeu du monde Paris, Ed. Minuit, 1969.
[7] Jean-Luc,Nancy, L’ Abosolu litteraire,Paris, Seuil,1978, p, 72.
[8] La poesia, natura e registra i sentimenti. Vede con altre parole l’ uomo come ‘possibile essere’, cioe,’ come lui esiste nella decentralizzazione, nell’ inizio dell’ incertezza, come volonta’ che non e’, per questo l’ uomo rimane un divenire aperto (ecco una nuova proposta con un significato analitico)

Apostolos Apostolou
Dr in Filosofia,

BIBLIOGRAFIA GENERALE
DE MAN PAUL, ALLEGORIES OF READING, YALE UNIVERSITY PRESS,1979
LACOUE-LABARTHE PHILIPPE- NANCY JEAN-LUC, LES FINS DE L’ HOMME: APRTIR DU TRAVAIL DE J. DERRIDA, PARIS GALILEE, 1981
TERRY EAGLETON, MARXISM AND LITERARY CRITICISM, LONDON METHUEN,1976.
TRILLING LIONEL, THE OPPOSING SELF, NEW YORK,VIKING,1955.

[in foto Ezra Pound a spasso nel bosco con la statua di James Joyce e Martin Heidegger a spasso nel bosco]

Da un leghista doc un esempio di stile per tutti i terroni.


leghista

Eccomi a voi. Sono un leghista. Vi lascio assaporare la mia persona colta in un momento di rara eccitazione. Siamo proprio noi, è grazie a noi che dall’8 agosto potranno essere istituite le ronde in tutte le città italiane. Certo, faremo in modo che le ronde nelle città del Nord funzionino meglio. D’altronde è sempre così, le idee migliori vengono sempre in mente a noi. C’è una fontana che gocciola? Un decreto legge farà in modo che il gocciolìo delle fontane venga regolamentato a norma affinché le fontane della Padania perdano acqua meglio delle fontane del sud. Grazie alle ronde la criminalità diminuirà drasticamente. Per non parlare dei salari. Quelli sono già scesi abbastanza. Naturalmente al sud sono più bassi che ovunque. Non riuscite a fare occupazione, non riuscite a tenere un lavoro per più di tre mesi. Figuriamoci un anno. E pensare che siete fortunati, la vita nel sud costa il 16,3% in meno rispetto al nord. Ho già in mente una proposta, un de-cretino legge fatto apposta, si, insomma, non è tutto merito mio, ci ho i miei aiutanti, mica come voi. Facile come bere un bicchiere d’acqua del Po: la vita da voi costa meno, quindi è bene che il vostro salario diventi più basso di un quindici percento almeno, ebbene, con quel quindici percento potremmo finanziare le nostre ronde padane. Oppure il prossimo G7 composto dai rappresentanti dei paesi più industrializzati del mondo ovvero Belluno, Padova, Rovigo, Treviso, Venezia, Verona, Vicenza. Una cosa deve esservi chiara. Noi leghisti abbiamo a cuore il bene di tutto il paese, anche quando con la parola ‘paese’ intendete il sud. Tanto è vero che quando qualcosa di buono c’era, nel sud, abbiamo fatto il possibile per prendercelo. Guardate con quale calma affronto la mia platea di elettori. Non sono forse la prima persona a cui vorreste affidare l’educazione dei vostri figli? Altro che braccia tese, altro che saluti romani! Pensate che bello se un giorno Nord e Sud non potranno, magari tra dieci, venti anni, tornare a essere divisi. Due macroregioni. Due eserciti. In guerra tra loro. Due lingue. Incomprese e incomprensibili. Due concorsi di Miss Italia (già ci sono). Tutto diviso. Sarebbe una conquista. L’ultima.
Nel frattempo godetevi il mio modo di fare schietto e gentile. Un esempio di stile.

Mi chiamo Silvio. Lo sanno tutti.


silvioMi chiamo Silvio. Lo sanno tutti. Mi conoscono tutti. Sono socievole e intraprendente. Non sono un santo, quello no. Lo sanno tutti. Non sono nemmeno un politico. Cioè, non voglio dire che io non abbia idee politiche che mi frullino per la testa, né tanto meno che non abbia la possibilità di attuarle. Nello specifico, adesso, faccio il premier. Non sono un premier. Lo sanno tutti. Ho idee che vanno dalla risoluzione dei problemi economici del nostro paese, dell’azzeramento del debito pubblico, e arrivano alla risoluzione della fame del mondo, passando per lo scioglimento dei blocchi Est-Ovest e la sistemazione delle camere da letto nei residence estivi. Ne ho di idee. E non sono un ladro. Malgrado molti ne siano convinti non sono un ladro. Lo sanno tutti. Sono cose che capitano. Ad esempio adesso c’è quest’idea di diventare presidente della Repubblica. Interessante. È l’unico modo che mi è rimasto per non avere nessun veto alle leggi che vengono proposte dal parlamento. Ho un debole per il potere e per il parlamento, italiano e europeo. Lo sanno tutti. E poi c’è una cosa. Una cosa che non hanno ancora capito. Soprattutto a Sinistra. Altrimenti non avrebbero lasciato che il mio consenso sfiorasse il 68%. Il più alto di tutti i tempi. Sono convinto che nemmeno Gesù durante l’ultima cena avesse un consenso del 68% tra gli apostoli. La cosa che non hanno capito è che più passerà il tempo e più le persone mi daranno ragione. E più mi daranno ragione e più potrò fare quello che mi pare, o meglio, pur non facendo più nulla di grave, niente di ciò che ho fatto desterà scalpore perché ogni cosa oramai ha raggiunto il culmine. Ecco, dovevo dirlo e l’ho detto. Sono Silvio. Mica uno fesso. Anche perché non hanno capito un’altra cosa, ancora più importante. Quando voglio una cosa la prendo. Lo sanno tutti. Purtroppo.

Mio padre ha visto il primo uomo andare sulla luna. E ora che è già il futuro più nessuno se ne cura.


Così vanno le cose. Così devono andare. Esco in una delle vie più pulciose della città per portarmi a spasso con il cane. Leggo manuali di sopravvivenza urbana. Leggo “La felicità terrena” di Giulio Mozzi. Elaboro teorie complicate che permettano all’umanità di sbancare il jackpot del superenalotto. Come a dire, il 17 è uscito quattro volte in un anno come numero Superstar. A breve su Musicaos.it qualche racconto interessante, uno di Federico Ligotti insieme a altri giunti in redazione. Un articolo filosofico in arrivo dalla Grecia. “Uccidiamo la luna a marechiaro” (Donzelli)  è un saggio interessantissimo scritto da Daniela Carmosino a margine di un convegno avvenuto qualche anno fa (Notizie dal Sud. La nuova narrativa meridionale. Campobasso, 23-25 ottobre 2003). Il libro è allo stesso tempo un sunto di cronaca ‘a braccio’ – meglio sarebbe dire ‘a bobina’ – e anche un vademecum di ciò che si è agitato nella recente produzione letteraria da parte di autori provenienti dal sud della penisola. La prima domanda è naturale, che cosa può intendersi oggi come ‘autore del sud?’. Che cos’è un autore meridionale? Daniela Carmosino contribuisce non poco a delineare un profilo a partire dalle persone e dalle opere, per quanto riguarda autori che hanno iniziato a pubblicare negli anni novanta. Il suo sguardo si spinge fino ai giorni nostri (Valeria Parrella, Roberto Saviano) mettendo in raccordo due mondi che a mio parere sono vicini idealmente anche se non vicinissimi dal punto di vista delle premesse narrative o dei risultati [continua…]

L’Isola in collina – Tributo a Luigi Tenco – 18a edizione


“L’Isola in collina – tributo a Luigi Tenco”
18a edizione Ricaldone (AL)
24 – 25 luglio 2009

ISOLA IN COLLINA 18a edizione – 2009

flaviogiuratoSi completa il cast della nuova edizione dell’Isola in collina, il prestigioso festival di canzone d’autore che si tiene ogni anno a Ricaldone (AL). Oltre ai già annunciati Sergio Caputo e Frankie HI NRG MC, il programma delle serate (24 e 25 luglio) prevede un cantautore di grande culto come Flavio Giurato ed una band di spicco del panorama rock alternativo italiano come i Tre allegri ragazzi morti. Ad aprire le serate saranno invece due band locali di valore: 17perso e Jeremy. I concerti inizieranno alle ore 21 e si svolgeranno presso il Piazzale della Cantina Tre Secoli. Ingresso 10 euro. “L’Isola in collina” è organizzata dall’Associazione Culturale Luigi Tenco con il Comune di Ricaldone, con il contributo di Cantina Tre Secoli, Regione Piemonte, Provincia di Alessandria e Fondazione CRT, e si avvale della consulenza del giornalista Enrico Deregibus, che presenta anche le serate. La manifestazione nasce dalla volontà di valorizzare la canzone d’autore in un territorio che tanto ha dato alla nostra musica: a Ricaldone Luigi Tenco – unanimemente riconosciuto come uno dei principali cantautori italiani – è cresciuto, prima di trasferirsi a Genova, e dalle colline piemontesi ha assorbito molte delle suggestioni che ha poi riportato nelle sue opere. Rivendicare la sua appartenenza piemontese è uno degli scopi del Festival. Ecco il programma completo:

24 LUGLIO
ore 21 Piazzale della Cantina Tre Secoli
17perso
Flavio Giurato
Sergio Caputo

25 LUGLIO
ore 21 Piazzale della Cantina Tre Secoli
Jeremy
Tre allegri ragazzi morti
Frankie HI NRG MC

Informazioni per il pubblico:
* Associazione Culturale Luigi Tenco – Ricaldone: www.tenco-ricaldone.it ; info@tenco-ricaldone.it * Comune di Ricaldone: Via Roma 6 – 15010 Ricaldone (AL), tel 0144.74120 * Cantina Sociale di Ricaldone: Via Roma 3 – 15010 Ricaldone (AL), tel 0144.74119

La cipolla – Antonio Moresco


La cipolla – Antonio Moresco

antoniomoresco_lacipolla

Carlo Madrignani, in un suo articolo comparso su “L’indice”, definì questo romanzo come «l’unico romanzo sessuale del nostro Novecento». Il giudizio è esatto, la vicenda de “La cipolla” è calata nello spazio indefinito di una città che per alcuni particolari potrebbe essere collocata nel nord Italia. Immaginiamo che si tratti di Milano. Un uomo e una donna hanno traslocato da poco in un piccolo appartamento ricavato da un appartamento un po’ più grande. Su una delle pareti si può intravedere la decalcomania di una cipolla, appartenente a una natura morta. La struttura è un pretesto, ciò che accade è poco rilevante, l’uomo – di cui non sappiamo il nome – vaga nella città lasciandosi trasportare dalle proprie visioni, facendo via via propri i luoghi di questo suo muoversi in un ambiente che è nuovo. Aviorimessa, parco, cinema, ristorante. Il luogo più percorso è il corpo della sua donna con la quale trascorre la maggior parte del tempo nell’appartamento. I due corpi fanno l’amore senza possedersi a vicenda. Etimologicamente parlando riesce difficile l’utilizzo del termine ‘coito’ per descrivere ciò che accade tra l’uomo e la donna nel romanzo. Non si tratta di un ‘andare insieme’, la visione è soggettiva, i pensieri sono quelli interiori dell’uomo, poco viene fatto trapelare della donna. Al termine della lettura mi resta un’immagine di lei nel letto, mentre ascolta la musica con le cuffie. Il lettore cerca indizi di questa donna senza venirne a capo. D’un tratto, dopo la descrizione dei molteplici modi del possesso, succede qualcosa. Il priapismo del protagonista, la sua eccedenza di desiderio, il suo smodato bisogno di possedere la propria donna, diventano psichici. È come se le sue azioni non fossero più frutto di una volontà, bensì di un membro. Nulla a che spartire con un “Io e lui” di Alberto Moravia, per intenderci, perché tutto – anche questo fenomeno di alienazione progressiva – è interiore e descritto così come accade al protagonista. L’uomo origlia al muro i discorsi dei suoi vicini di casa, Tata e Tato: è uno dei pochi momenti in cui la realtà entra nella vita del protagonista, laddove per realtà si intende qualcosa che esali al di fuori di quella cipolla, la natura morta sbiadita che diviene replica della vita. L’anomia interiore viene accolta all’esterno in un processo zen in cui l’uno (il protagonista) si unisce al suo ambiente, i palazzi, la città, il cortile. Il romanzo diviene così la descrizione di uno scivolamento progressivo che conduce un uomo a vivere la felicità dei folli oppure l’estasi, a seconda di un’interpretazione finale che spetta tutta al lettore.

La cipolla, Antonio Moresco, Bollati Boringhieri, 1995

Atelier dell’Errore


Lecce, Teatrino della Biblioteca Provinciale Bernardini
(ex Convitto Palmieri)
25 Giugno 2009 alle 18.30

Atelier dell’Errore
come infermiera della bellezza

atelierdellerrore

un progetto di Luca Santiago Mora per la NeuroPsichiatria Infantile, Ausl di Reggio Emilia

Il cammello purpureo di Correggio, video
Bestiario, dall’Atelier dell’Errore (Campanotto), libro

sul Bestiario
luca santiago mora, artista
marco petroni, critico d’arte
genuario belmonte, zoologo

introduce maria cucurachi, germinazioni

[clicca sull’immagine per ingrandire]

Nefertiti. L’amore di una regina eretica


Jasmina Tesanovic
NEFERTITI

L’amore di una regina eretica nell’antico Egitto (Stampa Alternativa 2009)

nefertiti

Nasce da un’ossessione questa rievocazione di un’antica regina egiziana. L’ossessione per un’eresia fallita, quella di Nefertiti, che vuole abbattere la tradizione usando la bellezza, il rispetto e l’arte. Ma un’altra eresia fallita è quella vissuta dall’autrice: yugoslava prima di essere serba, ha respirato l’esaltazione e poi la caduta di un movimento che non voleva allinearsi al blocco sovietico né farsi colonizzare dallOccidente. Così Nefertiti, condannata lei stessa come eretica, diventa il simbolo di un mondo ancestrale più che mai attuale, caratterizzato da lotte di potere, invidie, donne sottomesse all’oligarchia patriarcale ed emarginazione. Questo romanzo sfonda la barriera del tempo per restituirci una sovrana tanto lontana quanto moderna. Perché Nefertiti è qui (dall’introduzione di Bruce Sterling).

Si tratta di un romanzo storico “sui generis”, concepito e scritto con approccio e ottica moderni. La vita della protagonista, la regina egiziana Nefertiti, è infatti narrata in chiave femminista – esistenzialista.
Nefertiti, figura storica di grande fascino, è personaggio di cui in realtà si conosce ben poco. Circostanza, questa, che fatalmente ha rafforzato l’alone di mistero che lo circonda, e che ne fatto molto parlare, più però come figura mitica che come personaggio, e soprattutto donna, reale.
Nefertiti è in un certo senso una proto-femminista, poiché incarna il mito della bellezza femminile al potere, un mito che però subisce il destino di invisibilità che la storia ha quasi sempre riservato alle donne, sia famose che anonime: quello che l’autrice, Jasmina Tesanovic, definisce “l’immortale anonimato”. In tal senso, “Noi donne siamo tutte Nefertiti.”
Ma il romanzo è anche una storia d’amore, una riflessione sulla dannazione del potere, sul fascino e l’oscurità dell’antico Egitto.
L’autrice ha deciso di dare una voce credibile a questa donna di un’altra epoca, tentando di immaginare la sua vita dal vero, indagando anche nella sfera interiore della protagonista. In ciò consistono la modernità del personaggio di Nefertiti e la novità dell’opera di Jasmina Tesanovic.

L’antico Egitto non è poi così remoto.

§

Jasmina Tesanovic, NEFERTITI, L’amore di una regina eretica nell’antico Egitto, traduzione di Jasmina Tesanovic e Luigi Milani, Stampa Alternativa
Collana Fiabesca, ISBN 978-88-6222-084-2

SURF ovvero “Sono un ragazzo fortunato” di Marco Montanaro


Da domani in libreria potrete finalmente acquistare il bellissimo esordio di Marco Montanaro, per Lupo Editore, dal titolo “Sono un ragazzo fortunato” [continua…]