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Per una civiltà di memorie.


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Per una civiltà di memorie.
Su “Visite inattese” di Stefano Cristante

La poesia filosofica, o la poesia del pensiero, è quella poesia che si interroga sulla flessione dell’io lirico, sul ripiegamento in se stesso dell’io poetante. Davanti a poesie di questo genere l’unica estroflessione notevole è il fatto stesso che la poesia sia in apparenza l’unica traccia accreditabile della presenza di questo io. La poesia è uno sperimentare allo stesso modo in cui l’esperimento, in fisica, viene condotto per certificare l’esistenza di un qualcosa che si presupponeva esistere e che sotto gli occhi dei più – non è. La prima impressione che ho avuto leggendo “Visite inattese” di Stefano Cristante è stata quella di una vicinanza alla poesia di cultura e meno al culto della poesia. La prima sezione, intitolata “Tipi di cose”, costituisce una sorta di tipigrafia degli affetti, luoghi distanti nel passato dove osservare quel che è stato senza rimpianto. Colpiscono le descrizioni del paesaggio, un assente noto nella media della nuova produzione lirica. È nei modi di articolare la poesia dinanzi al paesaggio che possiamo scoprire il rapporto del poeta con se stesso prima ancora che con il suo ambiente, un paradosso che è possibile soltanto in poesia. C’è il rapporto dell’autore con una terra d’adozione “Abitare è amare questa terra/per quante vie di fuga mi regala”. “Tipi di vento”, “La pioggia di tutti”, e la bella “2 stagioni +2” partecipano di un sentire nel quale la poesia di Stefano Cristante si astrae rapida dal poetese: “tutto è verde, brilla, risplende/la luce rimbalza esotica sui davanzali/si accresce col verde/si espande, sovrana,/regina-pupilla della tua verde mente”. Termini come il vento, la nebbia, la pioggia, i rami, le foglie, sono comparse rarefatte, segnali di oggetti tangibili, presenti. L’impressione è di un libro che è sunto della propria esperienza intellettuale e diviene il presente di una gnoseologia per frammenti, suggerimenti. Nella sezione intitolata “Anatomie” c’è una poesia “Storie senza tempo”, dove i versi danno forma, in un cantilenare ritmico, a una riflessione sul passato che si intreccia al presente. In questi versi sono ricchi i richiami al mito e alla fondazione della società civile, è come se le memorie di quest’ultima venissero chiamate in causa con l’intenzione di concedere alla lirica la possibilità di esprimere ciò che il tempo annienta, sotto forma di conflitto per la pura sopravvivenza. Vi può essere lotta per la sopravvivenza (struggle for life) nella vita di ogni giorno, dalla grecia antica a oggi, tuttavia nella poesia diviene consistente la voce del riscatto (ad esempio in Minotauro, e in Problemi di stirpe e etnia…). La poesia di Stefano Cristante desidera realizzare ciò che le fotografie non riescono a realizzare, perché testimoni di un posto giusto preso nel momento sbagliato. Non a caso “Il poemetto” occupa la parte centrale dell’opera, esso è infatti il componimento nel quale vengono impegnati tutti gli accordi presenti nelle altre sezioni. Il contrasto tra le civiltà e il desiderio di fuga, sono termini a quo della poesia di Cristante e non, come si potrebbe errare in letture improvvisate, termini ad quem; qui non c’è l’anelare di Rimbaud a chiudere i conti con l’occidente per finire i suoi giorni da esploratore in Africa. L’esplorazione razionale e in versi cui si dedica l’autore di “Visite inattese” è una rivisitazione delle “Amenità” del nostro tempo, continuamente in bilico tra ragione e rivoluzione “Oh, l’ipotenusa! L’ipotenusa è quel tratto che dall’ombra del pino attraversa paesi e contrade e si tuffa dentro le spighe gonfie di chicchi gialli e arancio e li oltrepassa giudiziosa, su e in poco tempo geme d’entusiasmo nel provare l’abbraccio del mare” (da Escursioni). La poesia si assume il rischio del ripensamento, “Fa’ come sai e come si deve./Riesuma la Musa. Il gatto si assuma/il rischio delle fusa.”. Sembra che la conclusione di questo libro conceda, così come la dedica “A chi non sa amare”, la critica al cuore dello stesso sistema che con versi si cerca di scardinare, la poesia dell’esteriorità commossa e dell’occasione di fronte alla riflessione del poema naturale. Una sorta di Lucrezio contemporaneo, autore di un poema umano della conoscenza così come poteva essere concepito in epoca pre-cristiana, periodo in cui non c’era uno iato così forte tra scienza e poesia. In “Visite inattese” c’è questo tipo di poesia, che recupera una dimensione di indagine conoscitiva del mondo e dell’uomo. La tradizione e il passato giocano un ruolo importante finché servono, appena prima di divenire pesantezza e impedire il volo.

Stefano Cristante, “Visite inattese”, Besa Editrice

Le 1000 – blog di Stefano Cristante

anticipazione da Musicaos.it – Anno IV, Numero 27
“Fermi immagine da un treno che attraversa la prateria”

Officine virtuose


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Ci si interroga spesso sul significato e sul senso che ancora possiede la collezione di testi e la produzione di antologie. Dell’antologia si considera spesso la sua funzione di punto di arrivo di un lavoro che c’è stato in precedenza, un po’ come accade con le riviste di letteratura. A me, delle antologie, piace considerare l’aspetto seguente, quello che c’è dopo, l’eventuale dibattito e, sulla lunga distanza, quel che resta di un lavoro, interrogarsi su che fine hanno fatto gli stili e gli autori che per un momento sono stati coincidenti nello stesso volume. Il Gruppo Opìfice è nato nel 2002 (coordinato da Simone Olla, Simone Belfiori, Giovanni Curreli, Carlo Corsale, Fabrizio Bolognesi, Joaquime), facendo suo un impegno nel coniugare ad un’azione metapolitica un pensiero e una scrittura plurale, unita quest’ultima a altre forme di espressione artistica. Di certo il Gruppo ha fatto da stimolo per diversi autori inaugurando e proseguendo la formula dell’invito mensile alla scrittura aperto a tutti, senza distinzione. Nel febbraio di quest’anno, la Giulio Perrone Editore, nella sua collana dedicata alle antologie, ha pubblicato “Tutti esplosi. Le trame di Opìfice” (Tutti esplosi. Le trame di Opìfice. A cura del Gruppo Opìfice prefazione di Massimo Carlotto, ISBN 978-88-6004-073-2, €12). La raccolta di racconti è omogenea (Maria Luisa Fascì Spurio, Piero Buscemi, Grazia Scardaci, Enrico Pietrangeli, Maurizio Pupi Bracali, Giovanna Mulas, Fabio Medda, Gennaro Livicuri, Maria Brunelli, Tommaso Chimenti, Mattia Piano, Fabrizio Ulivieri, Francesco Massinelli, Stefano Baccolini, Davide Riccio, Teresa Regna, Flavia Piccinni, Decimo Cirenaica, Fiorenza Licitra, Claudio Ughetto, Aventino Loi, Umberto Bertani, Matteo Pazzi) divisa per momenti, al contrario di quanto accade a certe antologie che corrono il rischio di raccogliere testi accomunati soltanto da coincidenze tipografiche. Ha ragione Massimo Carlotto, che nella prefazione al volume nota come questo costituisca un pretesto per tastare il polso dei temi e degli stili dell’attuale scrittura narrativa. È quello che si nota, racconto per racconto, si va dal pastiche “Un giorno una mosca per caso”, del versatile Enrico Pietrangeli, fino alla velocità e alla sperimentazione di “Il reflusso gastrico” di Davide Riccio, i suoi racconti all’interno dell’antologia sono tra i più divertenti e misurati dal punto di vista espressivo. In tutti il desiderio di raccontari, magari proiettandosi su una dimensione che non è quella consueta, forse per questo diversi racconti rappresentano un personaggio solitario fotografato in una dimensione iniziale grottesca, raggiungendo i toni parossistici, ad esempio in “Kilimangiavo” di Tommaso Chimenti, l’autore fantastica di un paese i cui abitanti ingrassano in ragione direttamente proporzionale a quanto e cosa leggono, oppure in “Devo stare più attento” di Decimo Cirenaica. Sprazzi di poesia racchiusi nelle due pagine scritte da Teresa Regna e intitolate “Il ponte”. Sarebbe davvero un peccato e un torto perdersi la freschezza e la leggerezza di alcuni di questi racconti. Belli anche il prologo e l’epilogo del volume, una storia nella storia disegnata da Luca Congia. Il filo rosso che unisce questi testi va rintracciato nella frenesia che impongono i ritmi moderni, nei quali trovare il tempo di fissare il proprio sguardo e le proprie riflessioni sulla pagina scritta richiedono un’attenzione non scontata. Il bilancio di quest’antologia secondo me è positivo. Come dice giustamente Simone Olla, nella sua nota al volume “Tutti esplosi utilizza il linguaggio letterario con il fine di demitizzare le certezze plastificate della tarda modernità. Tutti esplosi è una radiografia ironica e tragica della nostra epoca”, la pratica della scrittura si ricollega così agli intenti metapolitici dell’associazione di cui fanno parte i curatori del volume.

anticipazione da Musicaos.it – Anno IV, Numero 27
“Fermi immagine da un treno che attraversa la prateria”