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Esce in Italia “Poesie che la guerra ha dimenticato in tasca al poeta”, la raccolta del poeta siro-curdo Jan Dost.


Musicaos Editore pubblica “Poesie che la guerra ha dimenticato in tasca al poeta”, di Jan Dost (con testo a fronte). Il volume è uscito nella collana “Fogli di Via”, diretta da Simone Giorgino e Fabio Moliterni per il Centro PENS (Poesia Contemporanea e Nuove scritture) del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università del Salento. La collana, che giunge al suo terzo titolo dopo la pubblicazione dei volumi dedicati alle poesie di Claudia Ruggeri (a cura di Annalucia Cudazzo) e Salvatore Toma (a cura di Luciano Pagano, con interventi di Benedetta Maria Ala, Lorenzo Antonazzo, Annalucia Cudazzo, Simone Giorgio), si apre così agli autori stranieri. Il quarto titolo, di prossima uscita, sarà “Dendrarium”, del poeta bulgaro Alexander Shurbanov (a cura di Valentina Meloni).

“Poesie che la guerra ha dimenticato in tasca al poeta”, Jan Dost
(Musicaos Editore, Collana Fogli di Via, 3)

«Jan Dost compone in questo libro, compatto per temi e forme, un diario esistenziale di acuta valenza poetica, nel suo farsi ‘altro’ da sé, nel suo trasformarsi da privato – lamento e sfogo, slancio di passione – in denuncia e condanna: la voce del poeta forse non ha, malgrado la potenza delle sue parole che si incidono nell’animo di chi legge, altro scopo che quello – lamento e sfogo, slancio di passione. Ma quanto sollievo possono dare le semplici parole del poeta, che racconta e si racconta, che si guarda intorno (e dentro) smarrito e cerca ‘compagni al duolo’, uomini desiderosi come lui di pace e fratellanza… La lezione della poesia non può che essere quel che è: parola che comunica e si comunica, messaggio che cerca e trova, esperienza che si fa conoscenza partecipata. Anche gli oggetti in questa poesia parlano, si confessano nella loro fragilità di impotenza, che diventa paradossalmente vita nuova offerta a chi guardandoli sappia coglierne il riflesso, l’ombra di ciò che sono o almeno furono: un orologio, una bicicletta, una porta, una finestra, un tetto, elementi di un paesaggio/ambiente che vivono ormai soltanto in queste parole, conservate per parlare di un tempo in cui vivevano davvero poiché erano parte della vita umana di chi li viveva e ne aveva parte.» dall’Introduzione di Giuseppe Napolitano

Jan Dost nasce a Ayn-al-Arab (Kobani) in Siria il 12 Marzo 1965. È un giornalista e scrittore curdo. Scrive in curdo e in arabo. Dopo il diploma studia biologia dal 1985 al 1988 presso l’Università di Aleppo. Le sue opere sono state pubblicate in Libano, Siria, Iraq, Turchia e Germania. In quest’ultimo paese, dove vive dal 2000 e di cui dal 2008 ha la cittadinanza, si è affermato per la prima volta per l’opera Kela Dimdimê – la Roccaforte di Dimdim.

Ha pubblicato undici romanzi, in curdo e in arabo, Mijabad (2004), Sê gav û sê darek (2007), Mîrname (2008), Martînê Bextewer (2011), “Asheeq il traduttore” (2013), “Sangue sul minareto” (2013), Kobani (2017), “Le campane di Roma” (2017), Korridor (2019), e i recenti “Il manoscritto di Pietroburgo” (2020) e Cordyceps (2020), e quattro raccolte di versi, Dîwana Jan. Avesta (Istanbul, 2008), Kela Dimdimê. (Bonn 1991; Istanbul, 2008), A Song for Kurdistan’s Eyes (Syria, 1996), Poesie che la guerra ha dimenticato in tasca al poeta (Amman, 2019), pubblicato in Italia da Musicaos Editore (2020, a cura di Giuseppe Napolitano, traduzione di Agron Argentieri).
Ha vinto diversi premi internazionali, Premio “Racconti brevi” (Siria, 1993), Premio “Poesia curda” (Essen, 2012), Premio “Libri Orientali” (Londra, 2013), “Premio d’Oro Hussein Arif. Gelawêj Festival. Sulaymaniya” (Kurdistan, 2014).

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“Poesie che la guerra ha dimenticato in tasca al poeta”, Jan Dost
Collana Fogli di Via, 3, pagine 134, formato 12,7×20,3 cm, euro 15, isbn 9788894966862
introduzione di Giuseppe Napolitano
traduzione di Agron Argentieri

il volume può essere ordinato in tutte le librerie e nei principali store online, anche su:

https://amzn.to/3kwacyd

https://www.ibs.it/poesie-che-guerra-ha-dimenticato-libro-jan-dost/e/9788894966862

https://www.libraccio.it/libro/9788894966862/jan-dost/poesie-che-guerra-ha-dimenticato-in-tasca-al-poeta-biografia-poetica.html

https://www.mondadoristore.it/Poesie-che-guerra-ha-Jan-Dost/eai978889496686/

https://www.libreriauniversitaria.it/poesie-guerra-ha-dimenticato-tasca/libro/9788894966862

https://www.lafeltrinelli.it/libri/jan-dost/poesie-che-guerra-ha-dimenticato/9788894966862

Venerdì 19 giugno 2020 – Lecce – Officine Culturali Ergot – Dario Goffredo presenta “Alfabeto affettivo”


Venerdì 19 giugno 2020 dalle ore 19 alle ore 21

Officine ERGOT
(Lecce – Piazzetta Falconieri 1/b)

“Alfabeto affettivo” (Musicaos)
di Dario Goffredo

Incontro con l’autore

Venerdì 19 giugno 2020, a Lecce, presso le Officine ERGOT (Piazzetta Falconieri 1/b), dalle ore 19 alle ore 21, si terrà il primo “incontro con l’autore” dedicato alla poesia di Dario Goffredo e alla sua raccolta di poesie (edita da Musicaos Editore) dal titolo “Alfabeto affettivo”. Un dialogo personale tra l’autore e i propri lettori, presso le Officine Ergot, un firmacopie che è anche un’occasione di approfondire i temi della raccolta con l’autore, tra emozioni dal vivo e pensieri, colloquio e lettura, per promuovere la poesia e la ripresa della circolazione culturale, nel rispetto dell’altro.

«Metti in versi la vita, trascrivi / fedelmente, senza tacere / particolare alcuno, l’evidenza dei vivi.» i versi di Giovanni Giudici, autore posto in esergo a questa nuova raccolta di Dario Goffredo, costituiscono il dettato di questo «Alfabeto affettivo»: la persona, la linea che divide ciò che è pubblico da ciò che è privato, lo spazio poetico di ciò che riesce, ancora oggi, a smuovere un’umanità nell’incontro col reale, nelle esperienze e nelle inconsistenze di un mondo reso freddo, di un buio che non fa più paura.

Le assenze di mescolano ai rimandi della poesia recente, alle presenze di echi in una scrittura che mescola la materia dei cinque sensi al desiderio di fare ritorno in un luogo che era, un tempo, il luogo della serenità e della quiete. La vita non si impara vivendo, ciò che resta sembra essere un residuo poco soddisfacente rispetto all’azione intrapresa, senza morale, senza esito certo, nei segnali di un alfabeto che può essere interpretato e allo stesso tempo può allontanarci da ogni ricerca di significato possibile, dove simboli di questo spaesamento sono «Numeri, lettere. Parole segrete alfanumeriche. / Maiuscole a caso. / Infanzia sbiadita. / Idilli da poco.»

Dario Goffredo è nato nel 1974. Vive e lavora a Lecce. Sue poesie sono apparse su riviste e antologie. Nel 2016 ha pubblicato “Atti minimi di sopravvivenza” per Spagine.

(fotografia Francesco Sambati)

Informazioni
info@ergot.it | ✆ 0832.246074
Officine Ergot – Lecce – Piazzetta Falconieri 1/b

Musicaos Editore
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Via Arc. Roberto Napoli, 82 | Neviano (Le)

Salvatore Nuzzo. “Pigramente cigola il tempo. Poesie 1972 · 2017”, Poesia 05


“Pigramente cigola il tempo. Poesie 1972 · 2017”,
Salvatore Nuzzo, (Musicaos Editore, Poesia 5)

Questo volume raccoglie le poesie di Salvatore Nuzzo, scritte tra il 1972 e il 2017. Quarantacinque anni di scrittura e ricerca di una forma che delinea la realtà con mezzi essenziali. È il “tempo” il protagonista assoluto in questa storia, come delinea Nicola Russi nella prefazione al volume. Salvatore Nuzzo, è “l’archeologo dei suoi luoghi dell’anima, pronubo d’una poesia che si fa epifania del nostro esistere da giovani: si fa autunno, colore di ottobre; si fa carnevale che fa incetta di urla, per strada, di fanciulli; la poesia si fa sogno che raccoglie gli anni del poeta “in una favola triste”; di un poeta “presente ad ogni umana vicenda”, un giullare, “il più triste giullare/ che scrive versi d’amore/ a una ragazza segreta”; si fa estasi davanti a un mare che gli regala l’estro dei sogni e il ripetere delle ultime cose ancora sue; si fa orrore perché s’empie di morte la terra, con tutti i cieli in fuga, con “oceani e mari senz’acque”. La sua poesia si avvia a correre il rischio di mitizzare un sentimento che adombra un’immagine che volge ad un’istanza: quella di rimanere “felicità incorporea, pura ombra”, come si esprimerebbe Pedro Salinas, nella sua poesia “Possesso del tuo nome”.

“Un labirinto di fatiche
l’umana esistenza,
un filo tenue
che lega e sostiene sequenze e stagioni,
accadimenti imprevisti
snodando una storia,
costruendo un’identità;

manoscritto
compilato giorno per giorno
con errori e abrasioni,
slanci e timori;

biografia inquieta e nervosa
con frenate e silenzi,
tristezza e fierezza,
lotta e resa,
dubbio e certezza,
passione e delusione.

Ordine e disordine
il tempo della vita.”

“La poesia di Salvatore Nuzzo va incontro ad un Oscillamento d’amore, ad una Assenza struggente; ad un Impegno d’amore; e prorompe in un turbinio di parole che si mescolano al vento che entra nei capelli scarmigliati della donna amata; alla pioggia che bagna i due corpi cadendo sulla loro allegria.” (Nicola Russi)

Nei versi di Salvatore Nuzzo è caratterizzante la presenza della natura, nella quale si inscrive l’uomo come partecipe del paesaggio, comprimario, c’è l’alternarsi delle stagioni con i diversi stadi del tempo in relazione agli stati dell’animo. L’acqua che lava, la pioggia che cade, una “ragazza segreta”, il distacco di un amore che non è raggiunto. La collocazione geografica precisa, sulle coste dell’Adriatico, con gli scogli, la natura, il tempo che passa, il fragore delle onde, il frangersi dei flutti, insieme alle atmosfere brumose del Nord Italia, negli anni Settanta. La poesia, in “Pigramente cigola il tempo”, è intesa come luogo di soluzione dell’essere, dove trovano compimento i pensieri dinanzi alla forza della natura. Lo scorrere del tempo attraverso lo scorrere dei momenti fotografati nei versi, un altro autunno, una sequenza, ad esempio, tra quello del 1972 e quello del 1973, “Sono io l’ottobre più triste,/brandelli d’uomo/senza tinte,/argilla pagana.”

La vicinanza a Ungaretti è una vera e propria influenza, un percorso appartato, una volontà di ascolto, presente in componimenti come “Il sogno” (“il libello sfogliare/pupilla tremula/al fragile rimorso d’amore”). “S’empie di morte la terra” è una delle poesie da cui l’autore incomincia il percorso di liberazione da ulteriori influenze, per acquisire una voce autonoma. “Svelamento”, “Impegno d’amore”, “Il vincolo”, “Entrava il vento”, i testi del 1974 e seguenti portano a una riflessione ancora più intensa, nella quale gli elementi del paesaggio fanno ancora da contralto a quelli dell’umore.

Importante anche il richiamo religioso, il ruolo dell’arca, la citazione dell’Ararat e delle Scritture. Il tema della pioggia, ricorrente in questi versi, trova nel tema simbolo dell’Arca e quindi del Diluvio, un punto di contatto tra la storia personale e la storia universale. “Fuori il buio si perde/in un labirinto di pioggia”. L’Arca di Noè è ciò che si salva dopo il disastro, ciò che racchiude quel che resta dell’umanità, il residuo, del sentimento e dell’individuo, ciò che ha ricevuto da Dio il permesso di restare, continuare la specie.

Salvatore Nuzzo (Marittima di Diso – Lecce, 1954) è Psicologo Psicoterapeuta a indirizzo cognitivo comportamentale nel Consultorio Familiare di Poggiardo, ASL Lecce, titolare di incarico di Alta Professionalità “Adozioni, Abuso e Maltrattamento minori”. Inoltre è coordinatore del Servizio Integrato Affido e Adozione dell’Ambito Territoriale Sociale di Poggiardo. Già Consigliere dell’Ordine degli Psicologi della Regione Puglia, è stato coordinatore della Commissione per l’Etica e Deontologia professionale e Direttore di “Psicopuglia”, Rivista – Notiziario dell’Ordine.
È perito del Tribunale Ecclesiastico Regionale Pugliese di Bari e CTU del Tribunale Civile e del Tribunale per i Minorenni di Lecce. È autore di diversi contributi su temi di psicologia clinica, psicologia dell’educazione e delle relazioni familiari e affettive, deontologia professionale, organizzazione dei servizi socio-sanitari, etc.
Svolge attività di formatore e di consulente rivolta a genitori, insegnanti, educatori e operatori socio-sanitari presso scuole, parrocchie, comuni, associazioni e istituzioni.

“Pigramente cigola il tempo. Poesie 1972 · 2017”, Salvatore Nuzzo,
Musicaos Editore, Poesia 5, ISBN 9788899315763, Pagine 178, €14
Prefazione di Nicola Russi

Fernanda Filippo. “Brucia con gli occhi chiusi tutto il tuo mondo”


Fernanda-Filippo-Bruciacongliocchichiusituttoiltuomondo-MusicaosEditore“Brucia con gli occhi chiusi tutto il tuo mondo”
di Fernanda Filippo

§

“Per questo cuore immortale che io non detengo.
Tu credi di essere il dubbio e non sei che ragione.
Tu sei il grande sole che sale sulla mia testa
Quando io sono sicura di me.
Io ti amo per la tua saggezza che non è la mia.
Io ti amo contro tutto questo che non è illusione.
Io ti amo per tutti i tempi in cui non ho vissuto.
Io ti amo per amore.
Senza di te io non vedo altro
che una distesa deserta.”

§

Fernanda Filippo è una poetessa autentica, scevra da ogni meccanismo aulico, retorico, sintattico. Scrive di getto come un artista in preda ad un impulso irrefrenabile. Il suo è un lirismo lenitivo che guarisce da ogni malessere, non porta sollievo ma disillude dall’incanto che un verso ingannevole potrebbe suscitare. Libera dalle inibizioni di una vita attanagliata da dispiaceri e delusioni. Si interroga sul perché sia utile scrivere e con la sua innocente semplicità lo rivela: “Per urlare l’angoscia di un prigioniero […], per donare le emozioni sempre nuove […], per convincere che la vita la si può solo cambiare”. (Paola Bisconti)

Fernanda Filippo, cittadina salentina, appassionata di decorazione pittorica, esterna le sue emozioni scrivendo poesia da quando era adolescente

Fernanda Filippo, “Brucia con gli occhi chiusi tutto il tuo mondo”, prefazione di Paola Bisconti – Musicaos Editore, poesia, 03, isbn 9788899315443, €10, pagine 106

Informazioni
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Un romanzo inutile. Manlio Ranieri


Manlio-Ranieri-Un-romanzo-Inutile-Musicaos-Editore-cover-s“Un romanzo inutile”, Manlio Ranieri

Giacomo Lavermicocca, scrittore affermato in tutta Italia, tradotto in diversi paesi, vive e lavora nella sua città, Bari, dove attende alla stesura del suo nuovo, attesissimo, romanzo. Giacomo ha dato vita a “Fuori!”, un movimento trasversale di opinione che raccoglie i suoi sostenitori più accaniti e tutti coloro che aspettano da tempo una rivoluzione, sia sociale che intellettuale, che dia uno spiraglio di luce al nostro Paese.

È proprio grazie al peso che il gruppo va assumendo giorno per giorno col blog, nei circoli e nel tour di presentazioni, che Giacomo viene coinvolto in scandali mediatici, illazioni e accuse che prima colpiscono le persone a lui più care, e in seguito, come in un vortice, si chiudono attorno alla sua persona. Politici e affaristi sono pronti a tutto pur di rallentare un cambiamento inesorabile. Giacomo dovrà decidere se soccombere o trovare il coraggio di smontare la macchina del fango.

L’amicizia, l’impegno, l’amore e la scrittura diventeranno, a un certo punto, cruciali. “Un romanzo inutile” descrive la realtà dell’oggi e, allo stesso tempo, ne anticipa il cambiamento.

“Un romanzo inutile”, Manlio Ranieri
Musicaos Editore, Narrativa 5, pagine 270, isbn 9788899315399
disponibile in formato cartaceo e digitale, ordinabile in libreria e su tutti gli store digitali

 

Storia di Raidha e la chiesetta – Antonella Screti


“Storia di Raidha e la chiesetta”
Antonella Screti
(Musicaos Editore Narrativa, 2)

Antonella-Screti-Storia-di-Raidha-e-la-chiesetta-Musicaos-EditoreLa “Storia di Raidha e la chiesetta” ci ricorda che il mondo in cui viviamo non è fatto solo di materia e che esistono diversi mondi invisibili ai nostri occhi e agli altri nostri sensi, oggettivamente limitati. Sono mondi pregni di presenze, inclusa la nostra, in cui gli accadimenti e le tracce di ciò che resta hanno regole proprie, che è saggio conoscere per ricordarne l’esistenza e le relative manifestazioni.
Questo racconto invita il lettore a riscoprire lʼunità tra corpo e spirito, in quella zona di equilibrio in cui si manifestano le forze della natura. Danza, gesto, musica, pittura, sono linguaggi che ci aiutano ad avvicinare l’inavvicinabile, tentare di esprimere l’ineffabile e, nello stesso tempo, intraprendere un cammino di conoscenza. È così che in un percorso dallʼombra alla luce, riaffiora una vicenda del passato, la voce dellʼautrice diviene ʻMagaʼ, ʻMesciaʼ, e ci consegna un quadro di speranza, ambientato in un Salento che diventa luogo privilegiato per la riscoperta del sé.

Antonella Screti Psicopedagogista, Counselor transpersonale di biotransenergetica.
Dal 1993 opera nei settori della prevenzione sociale, della comunicazione, del benessere e cura della persona e delle comunità.
Si è formata in psicologia della scrittura; sociologia qualitativa; danza-musico terapia salentina.
È terapista Reiki sistema USUI.
Predilige l’utilizzo di tecniche per l’integrazione psicocorporea coniugando l’esperienza professionale di tipo socio-psico-pedagogico con l’attenzione delicata e profonda verso gli ancestrali e originari mondi naturale e spirituale.

In rete
www.alimeridiane.it

“Storia di Raidha e la chiesetta”, Antonella Screti
Musicaos Editore Narrativa, 2 – pagine. 100, ISBN 9788899315269, €10

26 Settembre 2014 – Bari – Anteprima nazionale di “Un romanzo inutile” – Manlio Ranieri


VENERDÌ 26 SETTEMBRE 2014 – ORE 21.00

presso il
“Joy’s shop Irish Pub”
(Bari, Corso Sonnino 118/D)

anteprima nazionale di
“Un romanzo inutile”, di Manlio Ranieri
(musicaos:ed)

l’autore verrà presentato da
Renato Nicassio

Venerdì 26 Settembre 2014, alle ore 21.00, presso il Joy’s shop Irish Pub (Corso Sonnino 118/D) a Bari, si terrà la prima presentazione nazionale di “Un romanzo inutile”, l’ultimo romanzo di Manlio Ranieri, autore finalista del Premio Letterario “La Giara”, indetto dalla Rai. L’autore verrà presentato da Renato Nicassio, scrittore e autore de “il blog struggente di un formidabile genio”.

Manlio-Ranieri-Un-romanzo-inutile-musicaos-ed-cover

Giacomo Lavermicocca, scrittore affermato in tutta Italia, tradotto in diversi paesi, vive e lavora nella sua città, Bari, dove attende alla stesura del suo nuovo, attesissimo, romanzo. Giacomo ha dato vita a “Fuori!”, un movimento trasversale di opinione che raccoglie i suoi sostenitori più accaniti e tutti coloro che aspettano da tempo una rivoluzione, sia sociale che intellettuale, che dia uno spiraglio di luce al nostro Paese.

È proprio grazie al peso che il gruppo va assumendo giorno per giorno col blog, nei circoli e nel tour di presentazioni, che Giacomo viene coinvolto in scandali mediatici, illazioni e accuse che prima colpiscono le persone a lui più care, e in seguito, come in un vortice, si chiudono attorno alla sua persona. Politici e affaristi sono pronti a tutto pur di rallentare un cambiamento inesorabile. Giacomo dovrà decidere se soccombere o trovare il coraggio di smontare la macchina del fango.

L’amicizia, l’impegno, l’amore e la scrittura diventeranno, a un certo punto, cruciali. “Un romanzo inutile” descrive la realtà dell’oggi e, allo stesso tempo, ne anticipa il cambiamento.

L’autore.
Manlio Ranieri è nato a Bari, dove vive e lavora nel campo delle energie rinnovabili. Laureato in ingegneria meccanica, si dedica da sempre alla scrittura, alla musica e alla fotografia, pubblicando diversi, tra racconti, storie, romanzi, in rete e fuori.

Ha pubblicato “Di Notte” (Palomar – 2000), “Correre per rimanere immobili” e “Fra santi e falsi dei” (Akkuaria – 2008 e 2010). Ha vinto i premi “Aci S. Antonio”, “I veli della luna”, “Creatività itinerante” e partecipato a diverse antologie di racconti, fra cui “Qualcosa da dire” (Kora – 2005) e “Haiti chiama Bari” (Levante – 2010). Si definisce uno “scrittore rock”.

Nel 2014 è risultato tra i finalisti della III Edizione del Premio Letterario “La Giara” della Rai, con il suo romanzo inedito dal titolo “Rosso”,

UN ROMANZO INUTILE, di Manlio Ranieri
smartlit 06, musicaos:ed

Libro - Ebook

Joy’s shop Irish Pub
http://www.joyspub.com/

musicaos:ed
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23 Settembre 2014 – Torino – Simone Cutri presenta “E nessuno viene a prendermi” allo Spazio Mouv.


Martedì 23 Settembre 2014 – alle ore 19.00 a Torino

presso Spazio Mouv  (Via Silvia Pellico 3, zona San Salvario)

si terrà la presentazione di:

“E nessuno viene a prendermi” di Simone Cutri
(musicaos:ed)

Martedì 23 Settembre 2014 alle ore 19.00, Simone Cutri, presenterà il suo romanzo “E nessuno viene a prendermi” (musicaos:ed, smartlit 05), presso gli esclusivi locali dello SPAZIO MOUV (Via Silvio Pellico, 3 – zona San Salvario), a TORINO.

23settembre2014-spaziomouv-torino-Pagina001Particolare e affascinante il rapporto con la città di Torino, che ha un ruolo centrale del nuovo romanzo di Simone Cutri, dal titolo “E nessuno viene a prendermi”. Matteo, il protagonista della storia, esce di casa in una sera di luglio, durante un temporale estivo, avviandosi a compiere un gesto che resterà nella sua storia personale, pur essendo così distante dal Grande Evento al quale stanno per assistere gli spettatori incollati ai teleschermi.

“Torino languiva in balia del suo cielo” – Sono dodici ore cruciali per la sua esistenza, quelle che trascorreranno per Matteo tra la notte del 21 luglio 2019 e il mattino successivo, a Torino. Il romanzo è ambientato interamente nel capoluogo piemontese, una città dall’incredibile fascino letterario che, allo stesso tempo, esercita sul protagonista un’influenza a dir poco magnetica. Via Po, Via Nizza, Via Umberto I, Piazza Vittorio Veneto, Piazza Statuto, Villa della Regina, sono solo alcuni dei luoghi nei quali il lettore potrà seguire le vicende di “E nessuno viene a prendermi”, un romanzo che è scritto come una ‘fuga’ musicale, sullo spartito di una città che non si finisce mai di scoprire.

Leggendo le pagine di “E nessuno viene a prendermi” di Simone Cutri, è possibile seguire passo dopo passo, ora dopo ora, gli spostamenti, le fughe, le rincorse di Matteo. Il lettore può proseguire questo percorso vertiginoso insieme al protagonista, all’interno di una mappa accessibile su Google Maps, qui:

https://mapsengine.google.com/map/viewer?hl=it&authuser=0&mid=zPitUgQhwknI.knv7vZWCXr44

§

Qual è il grande evento che, in una sera di luglio del 2019, a cinquanta anni esatti dallo sbarco dell’uomo sulla Luna, sconvolgerà la vita di Matteo Romano? La rete di stato inizia a trasmettere le immagini di un viaggio incredibile. Matteo, in una sola notte, passerà dall’inferno dell’abiezione morale a quello della violenza gratuita, sondando uno dopo l’altro tutti gli abissi di cui un uomo può rendersi complice, in una sorta di percorso al contrario che sembra trovare un punto di equilibrio delirante tra il Kubrick di “Eyes Wide Shut” e “Tutto in una notte” di John Landis.

Quella di Matteo è una corsa disperata attorno al perimetro di una verità circolare, che racchiude l’intimità del suo essere, scagliato contro un mondo dal quale, improvvisamente, miete un raccolto fatto di nulla.

Il romanzo di Simone Cutri è ambientato a Torino, potrete seguire tutti gli spostamenti del protagonista, nei luoghi e nei tragitti narrati nel romanzo, su questa mappa:

https://mapsengine.google.com/map/viewer?hl=it&authuser=0&mid=zPitUgQhwknI.knv7vZWCXr44

Simone Cutri è stato “il più noto tra gli artisti sconosciuti del ventunesimo secolo italiano”.

È nato a Moncalieri (TO) nel 1982 e si è laureato in Lettere Moderne e Contemporanee presso l’Università degli Studi di Torino. Appassionato della letteratura in prosa di fin de siècle e di inizio ‘900, soprattutto di D’Annunzio, Svevo, Wilde, Baudelaire, Huysmans, Kafka, Mann, Proust. Ha fondato La Repubblica Estetica ed è già autore de Gli anni da solo – romanzo di antiformazione e Agosto oltremare – poesia in prosa e in poesia, entrambi i romanzi sono stati presentati con successo nella biblioteca civica di Vinovo.

L’immagine fotografica della copertina di “E nessuno viene a prendermi”, di Simone Cutri, è di Lorenzo Papadia (http://www.lorenzopapadia.com).

Info:
http://www.musicaos.it

ufficiostampa@musicaos.it
info@musicaos.it

24 Luglio 2014, Torino – Simone Cutri presenta “E nessuno viene a prendermi” al Caffè Damiani


“Torino languiva in balia del suo cielo”

Giovedì 24 Luglio 2014 – Ore 21.00
Caffè Damiani – Torino (Via San Francesco d’Assisi, 19)

presentazione di:

“E nessuno viene a prendermi” di Simone Cutri (musicaos:ed)

Giovedì 24 Luglio 2014, alle ore 21.00, presso i locali del Caffè Damiani a Torino (Via San Francesco D’Assisi, 19) si terrà la presentazione di “E nessuno viene a prendermi” (musicaos:ed), il nuovo romanzo di Simone Cutri.

24luglio2014-caffèdamiani-torino-enessunovieneaprendermi-simonecutri

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Particolare e affascinante il rapporto con la città di Torino, che ha un ruolo centrale del nuovo romanzo di Simone Cutri, dal titolo “E nessuno viene a prendermi”. Matteo, il protagonista della storia, esce di casa in una sera di luglio, durante un temporale estivo, avviandosi a compiere un gesto che resterà nella sua storia personale, pur essendo così distante dal Grande Evento al quale stanno per assistere gli spettatori incollati ai teleschermi.

“Torino languiva in balia del suo cielo” – Sono dodici ore cruciali per la sua esistenza, quelle che trascorreranno per Matteo tra la notte del 21 luglio 2019 e il mattino successivo, a Torino. Il romanzo è ambientato interamente nel capoluogo piemontese, una città dall’incredibile fascino letterario che, allo stesso tempo, esercita sul protagonista un’influenza a dir poco magnetica. Via Po, Via Nizza, Via Umberto I, Piazza Vittorio Veneto, Piazza Statuto, Villa della Regina, sono solo alcuni dei luoghi nei quali il lettore potrà seguire le vicende di “E nessuno viene a prendermi”, un romanzo che è scritto come una ‘fuga’ musicale, sullo spartito di una città che non si finisce mai di scoprire.

Leggendo le pagine di “E nessuno viene a prendermi” di Simone Cutri, è possibile seguire passo dopo passo, ora dopo ora, gli spostamenti, le fughe, le rincorse di Matteo. Il lettore può proseguire questo percorso vertiginoso insieme al protagonista, all’interno di una mappa accessibile su Google Maps, qui:

https://mapsengine.google.com/map/viewer?hl=it&authuser=0&mid=zPitUgQhwknI.knv7vZWCXr44

IL LIBRO. Qual è il grande evento che, in una sera di luglio del 2019, a cinquanta anni esatti dallo sbarco dell’uomo sulla Luna, sconvolgerà la vita di Matteo Romano? La rete di stato inizia a trasmettere le immagini di un viaggio incredibile. Matteo, in una sola notte, passerà dall’inferno dell’abiezione morale a quello della violenza gratuita, sondando uno dopo l’altro tutti gli abissi di cui un uomo può rendersi complice, in una sorta di percorso al contrario che sembra trovare un punto di equilibrio delirante tra il Kubrick di “Eyes Wide Shut” e “Tutto in una notte” di John Landis.

Quella di Matteo è una corsa disperata attorno al perimetro di una verità circolare, che racchiude l’intimità del suo essere, scagliato contro un mondo dal quale, improvvisamente, miete un raccolto fatto di nulla.

Il romanzo di Simone Cutri è ambientato a Torino, potrete seguire tutti gli spostamenti del protagonista, nei luoghi e nei tragitti narrati nel romanzo, su questa mappa:

https://mapsengine.google.com/map/viewer?hl=it&authuser=0&mid=zPitUgQhwknI.knv7vZWCXr44

Simone Cutri è stato “il più noto tra gli artisti sconosciuti del ventunesimo secolo italiano”.  È nato a Moncalieri (TO) nel 1982 e si è laureato in Lettere Moderne e Contemporanee presso l’Università degli Studi di Torino. Appassionato della letteratura in prosa di fin de siècle e di inizio ‘900, soprattutto di D’Annunzio, Svevo, Wilde, Baudelaire, Huysmans, Kafka, Mann, Proust. Ha fondato La Repubblica Estetica ed è già autore de Gli anni da solo – romanzo di antiformazione e Agosto oltremare – poesia in prosa e in poesia, entrambi i romanzi sono stati presentati con successo nella biblioteca civica di Vinovo.

L’immagine fotografica della copertina di “E nessuno viene a prendermi”, di Simone Cutri, è di Lorenzo Papadia (http://www.lorenzopapadia.com).

Il libro:
http://www.amazon.it/gp/product/1499379889/ref=as_li_ss_tl?ie=UTF8&camp=3370&creative=24114&creativeASIN=1499379889&linkCode=as2&tag=musicaosit-21

L’ebook:
http://www.amazon.it/gp/product/B00KODXC3K/ref=as_li_ss_tl?ie=UTF8&camp=3370&creative=24114&creativeASIN=B00KODXC3K&linkCode=as2&tag=musicaosit-21

Booktrailer & Estratti su youtube:
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Musicaos:ed è un progetto editoriale indipendente nato dall’esperienza della rivista musicaos.it, fondata il primo gennaio del 2004 e diretta da Luciano Pagano. Nei primi dieci anni di attività, sulla rivista hanno scritto giornalisti, critici letterari, blogger, artisti, pittori, cineasti, e sul blog sono stati pubblicati oltre 1500 articoli, racconti, recensioni. Giuseppe Genna, nel 2008, ha definito Musicaos: “uno degli snodi fondamentali della blogosfera letteraria che ha retto al crollo della medesima”. La rivista nel 2007 è stata inserita nel Best Off “Voi siete qui”, curato da Mario Desiati e pubblicato da Minimum Fax, insieme alla riviste digitali italiane più interessanti nella rete. Il sito, Musicaos.it, nel 2005 è stato giudicati “eccellente” dalla giuria di Premio Web Italia.

La collana: SMARTLIT
La collana Smartlit di musicaos:ed, diretta da Luciano Pagano, nasce con il proposito di raccogliere scritture legate alla narrazione e al raccontare storie, senza preclusioni di forma o genere, né limiti all’espressione che provengano dalla semplicità del dividere il mondo della scrittura nelle due categorie di narrativa e poesia. Testi unici, eterogenei, ‘precedenti’ letterari, uniti però dalla consapevolezza delle intenzioni e da una attenta cura editoriale. Scritti da esordienti e non. Ci sono parole differenti che hanno un’idea di fondo comune nell’aspirazione a trasmettere, nella capacità di raggiungere l’altro senza frenesia, con attenzione. Slim (sottile), slow (adagio), slice (scorcio), slightly (lievemente). Queste parole hanno una radice comune, “sl-“. Abbiamo scelto queste due lettere per dare significato alla nostra prima collana.

Info:

Musicaos:ed
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7 luglio 2014 – Lecce – “I pornomadi”, reading con Davide Morgagni, Andrea Cariglia, Lucia Fabrizia Agricola, Beatrice Perrone, presso IL BARROCCIO


Lunedì 7 Luglio 2014, dalle ore 22.30, presso IL BARROCCIO di Lecce (Obelisco), il reading “I pornomadi”, tratto dall’omonimo romanzo scritto da Davide Morgagni. Con: Davide Morgagni, Andrea Cariglia, Lucia Fabrizia Agricola, Beatrice Perrone.

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“Il peggio passa e se ne fa una sintassi”

Che cosa sono, chi sono, cosa cercano “I pornomadi”?
Uno shock, una perversione?
Uno spreco, una lingua nuova, un vero viaggio iniziatico?

DAVIDE MORGAGNI si muove attorno al centro di una realtà terrificante, costruita sul delirio, una parola dopo l’altra, come una piega, una ferita e ancora: quale immagine di società ne verrà fuori, quale nuova generazione di pornoumani, derive, rizomi, resisterà a questo romanzo increato dove il mondo è immediatamente vita, subito, adesso?

I pornomadi” è il suo primo romanzo.

§

Davide Morgagni, nel suo romanzo di esordio compie un gesto liberatorio nei confronti della sintassi, di quella lingua che spesso viene abusata entro limiti di convenzienza, confondendo l’essere di ciò che si racconta con la gabbia ‘scolastica’ delle buone maniere, ammiccanti per il lettore. “I pornomadi” racconta le vicende del primo “pornomade”, in una realtà cittadina, metropolitana, che sarebbe assenza totale e gratuita, totale indifferenza, se non fosse per l’accensione atomica che il testo fornisce alla realtà stessa.

Qui si “è” nel momento stesso in cui ci si racconta, perfino l’oggetto inerte, quando viene ritratto, acquista una dimensione poetica e extrasensoriale, trascendente. Ecco perché ne “I pornomadi” di Davide Morgagni il testo e le immagini fotografiche di Lorenzo Papadia costituiscono particelle di un tutto, sostanza e materia di canto. Un viaggio onirico. È un testo questo che sospende il tempo, diluendo l’attesa di un finale che è fine, scopo vero e essenza di questa vera e propria “macchina sonora”.

Una lingua nuova, risorta come una fenice sulle macerie lasciate dal passaggio dello scritto del morto orale di Carmelo Bene, della petite musique di Louis-Ferdinand Céline, degli esperimenti lisergici di Burroughs, dei Millepiani rizomatici di Gilles Deleuze e Felix Guattari, e, infine, della scrittura musicale di James Joyce.

“Ci sono due modi per non amare l’arte, il primo consiste nel non amarla, il secondo nell’amarla razionalmente”, scriveva Oscar Wilde, lo sa bene Davide Morgagni che nella narrazione della sua storia realizza una macchina letteraria nuova che è allo stesso tempo una storia dissacrante, canzonatoria, eccessiva, godibile, al di là delle possibilità stesse di ogni formalismo. Solo chi ha paura di ammettere che le cose stanno così, può sfuggire al rutilante meccanismo de “I pornomadi”.

§

DAVIDE MORGAGNI
Nasce a Lecce nel 1977. Si laurea in Filosofia. Nel novembre del 2013 debutta alla scrittura e regia teatrale con “RICCARDINO III”, da William Shakespeare.

LORENZO PAPADIA
I pornomadi” di Davide Morgagni contiene 25 immagini fotografiche, in bianco e nero, realizzate da Lorenzo Papadia e selezionate per questa pubblicazione. Cioò che si realizza, tra testo e immagine, ne “I pornomadi” è un dialogo inedito, equilibrio tra poesia della visione e scrittura musicale del testo di Davide Morgagni.

Lorenzo Papadia vive e lavora in Italia, come fotografo, occupandosi principalmente dell’organizzazione di workshop fotografici, sviluppando percorsi a tema, a partire da un’attenta analisi della realtà, fotografando spesso oggetti di uso comune, interni o paesaggi urbani.

La ‘sua’ realtà viene rivista ed ordinata, rivisitata attraverso la fotocamera, per dare un senso compiuto al grande disordine creato dalla velocità di vita odierna, fatta spesso di immagini iper codificate. La fotografia, secondo Lorenzo Papadia, è ancora in grado di far riflettere, di costituire una pausa al bombardamento continuo di immagini cine-televisive tipico dell’era moderna. Una fotografia che ha il compito di permettere all’osservatore di soffermarsi sulle cose, anche comuni, che non si notano più per colpa di una certa velocità dello sguardo.

L’atteggiamento di Lorenzo Papadia richiama molto quello fanciullesco, lo stesso che porta alla scoperta del mondo. Fotografare per Lorenzo Papadia diventa dunque un modo ulteriore per percepire le cose e per andare oltre ad esse.

http://www.lorenzopapadia.com

DAVIDE MORGAGNI – I PORNOMADI
MUSICAOS:ED – SMARTLIT 03, pp. 300, €16, ISBN 978-1497372849

Libro:

http://www.amazon.it/gp/product/1497372844/ref=as_li_ss_tl?ie=UTF8&camp=3370&creative=24114&creativeASIN=1497372844&linkCode=as2&tag=musicaosit-21

Ebook:

http://www.amazon.it/gp/product/B00JOV97KK/ref=as_li_ss_tl?ie=UTF8&camp=3370&creative=24114&creativeASIN=B00JOV97KK&linkCode=as2&tag=musicaosit-21

§

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“E nessuno viene a prendermi” di Simone Cutri è il quinto titolo della collana Smartlit. Ecco cinque frammenti video


Dio


Amarcord


Marte


Donne


Abisso

§§§

“E NESSUNO VIENE A PRENDERMI”, Simone Cutri
(musicaos:ed, smartlit 05)

“Matteo avrebbe vissuto per sempre. Per sempre in quella forma umana, terrena, meravigliosa. Ma Dio non arrivò. Non arrivò nessuno.”

Qual è il grande evento che, nella Torino allucinata di una sera del luglio 2019, a cinquanta anni esatti dallo sbarco dell’uomo sulla Luna, sconvolgerà la vita di Matteo Romano?
La rete di Stato inizia a trasmettere le immagini di un viaggio incredibile. Matteo, in una sola notte, passerà dall’inferno dell’abiezione morale a quello della violenza gratuita, sondando uno dopo l’altro tutti gli abissi di cui un uomo può rendersi complice, in una sorta di percorso al contrario che sembra trovare un punto di equilibrio delirante tra il Kubrick di ‘Eyes Wide Shut’ e ‘Tutto in una notte’ di John Landis.

Quella di Matteo è una corsa disperata attorno al perimetro di una verità circolare, che racchiude l’intimità del suo essere, scagliato contro un mondo dal quale, improvvisamente, miete un raccolto fatto di nulla.

Simone Cutri è nato a Moncalieri (TO) nel 1982. Ha una Laurea specialistica in Letteratura, Linguistica e Filologia conseguita presso l’Università degli Studi di Torino. È appassionato della letteratura in prosa di fin de siècle e di inizio ‘900, in special modo di Gabriele D’Annunzio, Italo Svevo, Oscar Wilde, Charles Baudelaire, Joris Karl Huysmans, Franz Kafka, Thomas Mann e Marcel Proust. Ha fondato La Repubblica Estetica. È autore de ‘Gli anni da solo’ – romanzo di antiformazione, la sua opera prima, e di ‘Agosto Oltremare’, raccolta di poesia in prosa.

photo “Ad Aldo Rossi”, di Lorenzo Papadia
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“E nessuno viene a prendermi”, Simone Cutri
MUSICAOS:ED – SMARTLIT 05
ISBN – 978-1499379884, pagine 184

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23 Maggio 2014 – “I PORNOMADI” di/con Davide Morgagni al Club Gallery di Aradeo – Le


“I pornomadi” di Davide Morgagni
(musicaos:ed, smartlit 3)

VENERDÌ 23 MAGGIO 2014 – ore 22.00
CLUB GALLERY
Circolo Arci – Aradeo
(Piazza Indipendenza 28)

Maria Neve Arcuti e Luciano Pagano
dialogheranno con l’autore
Davide Morgagni

a seguire

“I pornomadi”,
reading in 3 momenti
di/con Davide Morgagni

i-pornomadi-davide-morgagni-aradeo-23-maggio-2014-Pagina001

Venerdì 23 Maggio 2014, a partire dalle ore 22.00, presso il Club Gallery di Aradeo (Piazza Indipendenza 28) si terrà la presentazione del romanzo d’esordio di Davide Morgagni, “I pornomadi” (musicaos:ed, smartlit 03). Maria Neve Arcuti e Luciano Pagano dialogheranno con Davide Morgagni, autore del libro. A seguire il reading in tre momenti “I pornomadi”, tratto dal romanzo.

Davide Morgagni si muove attorno al centro di una realtà terrificante, costruita sul delirio, una parola dopo l’altra, come una piega, una ferita. Quale immagine di società ne verrà fuori, quale nuova generazione di pornoumani, derive, resisterà a questo romanzo increato dove il mondo è immediatamente vita, subito, adesso? “Il peggio passa e se ne fa una sintassi”.

Davide Morgagni, nel suo romanzo di esordio compie un gesto liberatorio nei confronti della sintassi, di quella lingua che spesso viene abusata entro limiti di convenzienza, confondendo l’essere di ciò che si racconta con la gabbia ‘scolastica’ delle buone maniere, ammiccanti per il lettore. “I pornomadi” racconta le vicende del primo “pornomade”, in una realtà cittadina, metropolitana, che sarebbe assenza totale e gratuita, totale indifferenza, se non fosse per l’accensione atomica che il testo fornisce alla realtà stessa.

Si “è” nel momento stesso in cui ci si racconta, perfino l’oggetto inerte, quando viene ritratto, acquista una dimensione poetica e extrasensoriale, trascendente. È il motivo per cui “I pornomadi” di Davide Morgagni e le immagini di Lorenzo Papadia costituiscono particelle di un tutto, sostanza e materia di canto. È un testo questo che sospende il tempo, diluendo l’attesa di un finale che è fine, scopo vero e essenza di questa vera e propria “macchina sonora”. Una lingua nuova, risorta come una fenice sulle macerie di Carmelo Bene, Louis-Ferdinand Céline, William S. Burroughs, Gilles Deleuze, James Joyce.

“Ci sono due modi per non amare l’arte, il primo consiste nel non amarla, il secondo nell’amarla razionalmente”, scriveva Oscar Wilde, lo sa bene Davide Morgagni che nella narrazione della sua storia, in un’epoca dove la serietà e la complessità sono spesso incidentali, realizza una macchina letteraria nuova che è allo stesso tempo una storia dissacrante, canzonatoria, eccessiva, godibile, al di là delle possibilità stesse di ogni formalismo. Solo chi ha paura di ammettere che le cose stanno così, può sfuggire al rutilante meccanismo de “I pornomadi”.

§

DAVIDE MORGAGNI
Nasce a Lecce nel 1977. Si laurea in Filosofia. Nel novembre del 2013 debutta alla scrittura e regia teatrale con “RICCARDINO III”, da William Shakespeare.

LORENZO PAPADIA
“I pornomadi” di Davide Morgagni contiene 25 immagini fotografiche, in bianco e nero, realizzate da Lorenzo Papadia e selezionate per questa pubblicazione. Cioò che si realizza, tra testo e immagine, ne “I pornomadi” è un dialogo inedito, equilibrio tra poesia della visione e scrittura musicale del testo di Davide Morgagni.

Lorenzo Papadia vive e lavora in Italia, come fotografo, occupandosi principalmente dell’organizzazione di workshop fotografici, sviluppando percorsi a tema, a partire da un’attenta analisi della realtà, fotografando spesso oggetti di uso comune, interni o paesaggi urbani.

La ‘sua’ realtà viene rivista ed ordinata, rivisitata attraverso la fotocamera, per dare un senso compiuto al grande disordine creato dalla velocità di vita odierna, fatta spesso di immagini iper codificate. La fotografia, secondo Lorenzo Papadia, è ancora in grado di far riflettere, di costituire una pausa al bombardamento continuo di immagini cine-televisive tipico dell’era moderna. Una fotografia che ha il compito di permettere all’osservatore di soffermarsi sulle cose, anche comuni, che non si notano più per colpa di una certa velocità dello sguardo. L’atteggiamento di Lorenzo Papadia richiama molto quello fanciullesco, lo stesso che porta alla scoperta del mondo. (http://www.lorenzopapadia.com)

Info:
info@musicaos.it
http://www.musicaos.it

Il libro:
http://www.amazon.it/I-Pornomadi-Davide-Morgagni/dp/1497372844/ref=sr_1_1_bnp_1_pap?ie=UTF8&qid=1397772422&sr=8-1&keywords=i+pornomadi

L’ebook:
http://www.amazon.it/I-pornomadi-Davide-Morgagni-smartlit-ebook/dp/B00JOV97KK/ref=tmm_kin_title_0?ie=UTF8&qid=1397772422&sr=8-1

“Dalla parte della teppa” è il primo video tratto da “I pornomadi” di Davide Morgagni
guardalo qui:
http://www.youtube.com/watch?v=_G3EhC-Q49s

3 Maggio 2014 – “Carmelo Bene inorganico” di Gianluca Conte a Lecce, Spazio Sociale Zei


CarmeloBeneinorganico-GianlucaConte-smartlitq01-musicaos_ed“Carmelo Bene inorganico” di Gianluca Conte (musicaos:ed, smartlitQ 1)

Sabato 3 Maggio 2014 – Ore 19.30 – Spazio Sociale Zei (Corte dei Chiaramonte 2, Lecce)

Dialoga con l’autore:

Mimmo Pesare
(coordinatore del ‘Laboratorio di Studi Lacaniani’)

Nel mese di maggio, a cura di musicaos:ed, si terranno le prime presentazioni di “Carmelo Bene inorganico”, scritto da Gianluca Conte. “Carmelo Bene inorganico” è un saggio nel quale vengono affrontati i temi filosofici salienti della ‘riflessione’ dell’ultimo Carmelo Bene, con riferimento alla ‘macchina attoriale’ e al suo concetto di inorganico. Si tratta di una sintesi inedita e di una nuova, possibile interpretazione, del “pensiero” di Carmelo Bene, scritto da Gianluca Conte.

Il 3 Maggio 2014, alle ore 19.30, presso lo Spazio Sociale Zei, Mimmo Pesare (coordinatore del Laboratorio di Studi Lacaniani), dialogherà con Gianluca Conte nell’ambito del ciclo di incontri “Filosofia in 3¼” (liberi seminari di studenti per studenti).

Carmelo Bene inorganico” di Gianluca Conte, è il primo saggio filosofico in lingua italiana interamente dedicato alla disamina del concetto di “inorganico” così come è stato praticato, attuato, teorizzato, da Carmelo Bene. Il testo è stato pubblicato nella collana SmartlitQ di musicaos:ed, diretta da Luciano Pagano.

La tensione all’inorganico è da considerarsi come momento cruciale della filosofia, dell’arte teatrale e della de-strutturazione del linguaggio e della scrittura in Carmelo Bene, così come del suo abbandono della scena e della nascita della macchina attoriale.

Il saggio di Gianluca Conte affronta in modo sistematico e organizzato, il concetto di inorganico ‘annunciato’ da Carmelo Bene, proponendone una lettura, così come proviene dall’interpretazione delle affermazioni, della scrittura, della regia e della “macchina attoriale” realizzati da CB. Si tratta di un testo nel quale le fonti sono confrontate con il pensiero dei filosofi e pensatori, inclusi Nietzsche, Freud, Gilles Deleuze e Felix Guattari.

Sommario: Introduzione / I. Dalla morte del tragico al comico / II. Bene inorganico / III. La sospensione del tempo e dello spazio / IV. Il deserto / V. Il nulla / VI. Phoné: la parola della macchina / Conclusioni / Bibliografia.

GIANLUCA CONTE è nato a Galugnano, in Salento, nel 1972. Laureato in filosofia, è poeta, scrittore, operatore culturale. Con il Centro Studi Tindari Patti ha pubblicato la silloge “Il riflesso dei numeri” (2010), finalista al concorso nazionale “Andrea Vajola”. Con Il Filo Editore, ha pubblicato “Insidie” (2008). La sua terza raccolta, intitolata “Danza di nervi” (Lupo Editore, 2012), ha vinto il Premio PugliaLibre 2012 nella sezione ‘raccolta lirica’. Nel febbraio 2014 è uscito il suo primo romanzo, intitolato “Cani acerbi” (musicaos:ed). Cura un blog, “Linea Carsica”, all’indirizzo http://glucaconte.blogspot.it/, è uno dei collaboratori del blog “Cammini Filosofici” (http://camminifilosofici.wordpress.com).

Carmelo Bene inorganico“, Gianluca Conte
MUSICAOS:ED, SMARTLITQ 1

Libro:
http://www.amazon.it/gp/product/1497441277/ref=as_li_ss_tl?ie=UTF8&camp=3370&creative=24114&creativeASIN=1497441277&linkCode=as2&tag=musicaosit-21

Ebook:
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Info:
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http://www.musicaos.it

§

Filosofia in 3/4 è un’iniziativa oramai divenuta consuetudine per chi vive l’esigenza del pensiero come un’imprescindibile urgenza che tocca i corpi e le vite. Seminari di filosofia in uno stile volutamente non accademico dove è possibile confrontarsi al di fuori della stanchezza rituale che talvolta caratterizza le iniziative culturali. E soprattutto dove è possibile ascoltare la voce di docenti e ricercatori su tematiche ed autori che spesso non trovano adeguata ospitalità nelle aule universitarie. Si parla di desiderio, di piacere, di erotismo, di biopolitica e di potere seguendo con particolare attenzione le riflessioni filosofiche del pensiero francese novecentesco attraverso autori come Georges Bataille, Gilles Deleuze, Michel Foucault. Gli incontri si svolgono presso lo spazio sociale Arci Zei di Lecce e quest’anno è previsto un ricco calendario di appuntamenti.

§

Laboratorio di Studi Lacaniani

Il LSL (“Laboratorio di Studi Lacaniani“), del quale Mimmo Pesare è coordinatore, nasce ufficialmente il 4 ottobre 2012 all’interno del Dipartimento di Storia, Società e Studi sull’Uomo dell’Università del Salento. Il LSL si occupa di ricerca e formazione sui temi dello studio, l’interpretazione e il commento dell’opera scientifica di Jacques Lacan; la divulgazione del pensiero lacaniano e lo scambio con altri centri di ricerca lacaniani nazionali e internazionali; la tematizzazione di questioni psicoanalitiche della teoria lacaniana e freudiana all’interno del più ampio dibattito delle scienze umane e sociali.

L’attività del LSL è finalizzata alla costruzione di un Seminario permanente di studi su questioni lacaniane annualmente organizzato attorno a un tema monografico; allo svolgimento di ricerche nell’ambito del rapporto tra la psicoanalisi e le scienze umane; alla formazione specialistica degli studenti che intendono perfezionare i loro studi sulle questioni di cui si occupa il Laboratorio; a finalizzare la ricerca, nei tempi e nei modi di volta in volta decisi dagli organi del Laboratorio, alla pubblicazione scientifica su riviste nazionali e internazionali o all’interno di una collana editoriale autonoma del LSL.

Il Laboratorio di Studi Lacaniani, inoltre, organizza convegni e giornate di studi sui temi lacaniani; collabora con organizzazioni che si occupano di ricerca nell’ambito degli stessi temi scientifici; ha creato e coordina un gruppo di studio permanente per laureandi e laureati sulle tematiche lacaniane.

“James Koller, il poeta del mondo naturale” di Dianella Bardelli


“James Koller, il poeta del mondo naturale”
di Dianella Bardelli

Ci sono persone che condensano in se stesse epoche intere; con i loro scritti e le loro apparizioni pubbliche testimoniano e tramandano eventi diventati tradizioni, poesie diventate poetiche, storie diventate letteratura.
Una di queste persone è James Koller, (Oak Park, Illinois, 1936), poeta, esponente del Bioregionalismo, fotografo, editore.

James Koller

Da giovane partecipò alla Beat Generation e in seguito ai movimenti nati nella San Francisco degli anni ’60. Diventato amico di Franco Beltrametti con lui girò gli Stati Uniti e l’Europa. Nel 1964 fonda la rivista Coyote’s Journal e la casa editrice Coyote Books, attualmente attive. Oggi vive nel Maine e spesso viene in Italia per dei Readings. È spostato e ha sei figli.

Jame Koller è un uomo alto e allampanato, dalle spalle un po’ curve, una lunga coda di cavallo portata con affascinante disinvoltura, scarpe grosse antiche e una faccia piena di nostalgia degli anni finiti.

Jim è un poeta. Per il mondo è anche altre cose ( marito, padre, fondatore del movimento bioregionale e di riviste…). Ma per me è soprattutto un poeta. Anzi Jim è la poesia. La sua faccia, il suo parlare, il suo camminare, il suo guardarti, la sua malinconia sono poesia vivente. Jim non è diverso dalla sua scrittura, ecco il segreto del vero poeta. Le sue poesie parlano di coyotes, lupi, cervi, vecchi capi indiani, donne dalle ampie gonne, amori troppo presto finiti.
Jim quando viene in Italia a leggere le sue poesie e a salutare vecchi e nuovi amici si ferma nelle case, nelle osterie, nelle librerie, si alza e legge. Non mostra alcuna emozione particolare nel farlo. Jim è molto cool a vederlo. Non solo quando legge le sue poesie, ma anche quando parla, quando sta in mezzo alle ragazze piene di curiosità per questo vecchio ragazzo beat, che chissà quante storie ha da raccontare.

Molte delle poesie di Jim sono tradotte e pubblicate in “Terrapoesia”, collana poetica della rivista Lato Selvatico.
Le poesie di Koller si inseriscono nella tradizione naturalistica della poesia americana (di cui un altro importante rappresentante è Gary Snyder) che pone al centro della propria ispirazione dettagli, aspetti piccoli e grandi della vita animale e naturale, così come si presentano “ nel mondo reale”. Un mondo reale, concreto, di vita e di morte, ma spiritualizzato. In una intervista di qualche anno fa Koller ha infatti affermato “Credo che tutto ciò che esiste abbia uno spirito e che questi spiriti rimangano anche mentre noi cambiamo le nostre forme”. È un mondo reso sacro dall’attenzione quello di James, pratica mentale che ferma il tempo: “ Prendo tempo/ prendo tempo/esamino tutto/ la siepe, l’orlo del bosco/esamino tutto/ attentamente”.

james Koller2La possibilità di recuperare la nostra natura originaria James Koller l’affida quindi al suo sguardo poetico su falchi, cervi, boschi, fiumi, monti, volpi.. Nella raccolta “Canto del Falco della coda rossa e altre poesie” scrive:
“ Parla a tutti quelli che ne hanno bisogno/quelli venuti prima di te/quelli ancora con te adesso/quelli che passano, porta il messaggio/parla alle aquile, parla ai corvi/parla al vento, parla al fulmine/parla ai monti, parla agli alberi/parla ai fiumi, parla alla pioggia/sotto & sopra & attorno/Questo è dove tutto comincia…”

Ancora più legati alla tradizione popolare americana sono i testi raccolti in “Lo spettacolo delle ossa” ( The bone show).
Solo un esempio:

Coyote:

“Ritorno sempre -/rinasco, rinasco./Come il Cielo Azzurro./So quello che mi precede/quello che segue e quello che verrà./So tutto, chiedetemi./Tutto succederà./Tutto al momento giusto./Tutto come è previsto./Guardate come faccio io….”

Ma ci sono poesie anche di argomento personale, legate alla passione amorosa. Nella raccolta “Cenere e Brace”troviamo il tema dell’abbandono:

“ Quando ho visto l’abito bianco appeso/ho visto lei in quell’abito, l’ho visto aderire/alla sua vita lunga e snella, allargandosi sui fianchi./L’ho portato a casa e glielo ho dato./Non ha voluto provarselo mentre la guardavo./È rimasto sulla macchina da cucire per giorni,/per settimane piegato nella cesta dei rammendi./
Quando mi ha detto di prendere il largo/ha buttato l’abito in un sacco marrone/
per beneficenza”

Il motivo amoroso lo troviamo anche qui:

“ …Lei si è mossa sul letto/nella luce lunare./Le curve del suo corpo/erano lì, luce e ombra/sul lenzuolo scuro./Ho tracciato l’ombra/con la punta delle mie dita./
Lei descriveva le onde/che tornano indietro/più larghe e rimangono/anche quando sono andate…”

James Koller, dopo l’esaurirsi dell’energia creativa della beat generation, è approdato al movimento bioregionale, diffusosi a partire dagli anni ’70 negli Stati Uniti, e presente anche in Italia intorno alla rivista Lato Selvatico e al suo animatore Giuseppe Moretti.

In un’intervista Koller alla domanda Che cos’è il movimento bioregionale, risponde:

“Un’isola ha un perimetro chiaramente definito. Ciò che accade sull’isola, a proposito della struttura dell’ambiente e in termini di economia e dinamica della popolazione, fa parte di modelli biogeografici. I famosi ecosistemi, i cui perimetri sono meno chiaramente definiti su un più vasto gruppo di terreni contigui, sono analogamente regioni con modelli biogeografici. Si deve pensare a tali regioni come a delle bioregioni. Il movimento bioregionale iniziò negli U.S.A negli anni ’70 quando i componenti di gruppi ecologicamente consapevoli, specialmente coloro che sentivano di essere
parte di una “società alternativa”, si risistemarono nelle abitazioni o nelle aree nuove, cercando di ridefinire e di capire ex novo il concetto di “regione” in termini di ecologia e del “vivere in maniera giusta” in quelle aree prescelte. Uno studio della progressione culturale umana e delle usanze in questi luoghi aiutò a chiarire i modelli biogeografici e quei cambiamenti positivi o negativi che si erano effettuati o che erano stati resi possibili con ogni nuovo tentativo”.

Non so nulla della vita americana di Jim, non so come sia la sua casa, la sua cucina, il suo armadio. Ma so com’è il bosco dove lui cammina, i falchi che ha visto mille volte, la donna che ha molto amato e che non lo capiva. Me li posso immaginare perché lui nelle sue poesie ne parla. Rispecchiano quel mondo e per chi non ne sa nulla possono anche spiazzare. Questo perché da noi non siamo abituati alla spontaneità in poesia, al fatto che essa rappresenti ed esalti momenti di vita di una grande intensità pur nella loro semplicità e quotidianità. Da noi resiste ancora l’idea che più la poesia è oscura e meglio è.

L’ultima volta che Jim è venuto in Italia è stato l’anno scorso per il suo solito tour di readings. È venuto anche a leggere le sue poesie alla Locanda Pincelli di Selva Malvezzi vicino a Bologna. Abbiamo stampato dei volantini per pubblicizzare l’evento. È venuta gente da Bologna, ma più che altro c’era la gente del paese, quella che i venerdì si raduna in questo locale per ascoltare musica rock dal vivo, mangiare buon cibo della cucina bolognese e bere buoni vini. Jim è stato la star della serata. La star venuta dall’America. Quell’America da molti di noi sognata, immaginata mille volte sui libri di Ginsberg, Kerouac, Ferlinghetti e gli altri meravigliosi frutti di quella generazione.

Dianella Bardelli vive in provincia di Bologna. Nel 2008 ha pubblicato una raccolta di poesie, “Vado a caccia di sguardi” presso l’editore Raffaelli di Rimini. Nel 2009 è uscito il romanzo “Vicini ma da lontano”, presso la casa editrice Giraldi di Bologna; nel 2010 ha pubblicato un altro romanzo dal titolo “I I pesci altruisti rinascono bambini” sempre per l’editore Giraldi. Nel Gennaio 2011 ha pubblicato Il Bardo psichedelico di Neal presso le edizioni Vololibero ispirato alla vita e alla morte di Neal Cassady, l’eroe beat. Accanto alla sua attività di scrittrice guida corsi di Scrittura Creativa secondo il Metodo della poesia e prosa spontanea Da alcuni anni pratica la meditazione buddista secondo la tradizione tibetana.

Laura Mangialardo su “Il Fatto Quotidiano” recensisce “CANI ACERBI”di Gianluca Conte


Come una notte d’inverno in Salento
“CANI ACERBI”, UN INTRECCIO ALLA HITCHCOCK DI GIANLUCA CONTE, POETA AL ROMANZO D’ESORDIO
di Laura Mangialardo

COVER Gianluca Conte CANI ACERBI musicaos_ed - smartlit 2

Appaiono come spettri alla controra, nere come gomme d’automobile. (…) Le trovo sempre lì, sotto pittoreschi ombrelloni. Le puttane dei campi”. Cani acerbi comincia così, con uno sguardo sulle strade provinciali salentine, su quelle di campagna ormai affollate da donne per lo più di origini africane, in attesa dei loro clienti o dei loro papponi. Il romanzo di Gianluca Conte, noto più come poeta fino a oggi, usa un linguaggio a tratti carico e violento, privo di qualsiasi inibizione. Scandalizza di tanto in tanto e al tempo stesso con occhi di leggerezza, descrive una realtà crudele e cinica nascosta dalla quotidianità di tranquilli paesini. Tutto ciò che accade è raccontato con le parole di un giovane agricoltore, travolto suo malgrado in un giallo. Il romanzo di Conte è un volo su una realtà di paesaggi devastati da inutili strutture, di movimenti mafiosi, di donne anziane custodi di saggezza.

IL LINGUAGGIO apparentemente semplice del contadino, colorato da espressioni dialettali, lascia trapelare la capacità dello scrittore di mescolare le parole per creare un corpo fluido, di interpretare tanto la parte del giornalista, anch’egli figura di spicco del libro, quanto quella dell’agricoltore. Conte gioca con le parti, si immedesima nei suoi personaggi e tira fuori dalle loro bocche parole di disgusto di fronte alle ingiustizie, di coraggio e voglia di migliorare. Nelle pagine del libro, le due anime dei protagonisti, tra eroismo e paura vengono disegnate con tratti assurdi dai colori vivaci e forti di chi vive. Come in una visione hitchcockiana, il mondo di Conte viene travolto da un mistero, i cani attaccano inspiegabilmente, la terra soccombe per un momento sotto la potenza della natura, l’uomo è costretto a piangere i suoi morti. Un’apocalisse momentanea che si riflette nel temperamento del libro.

Forte, irruente, sprigiona quel carattere rude e burbero di chi ogni giorno è costretto a convivere con realtà che non approva e che vanno via via peggiorando. In tutto questo grigio, quel contadino dagli occhi buoni, conserva in un angolino quel poco di bello che ancora sopravvive, come le parole di una donna anziana, lo sguardo sincero e affettuoso di una compagna e la voce coraggiosa di chi si ribella. La bellezza trasparente dell’acqua. L’influenza poetica dello scrittore si manifesta nella scelta delle parole, nella leggerezza rotta dalla durezza, nella capacità di guardare e presentare gli elementi come in un film neorealista. Cani acerbi è il secondo libro pubblicato da Musicaos, una casa editrice salentina che comincia a muovere i suoi primi passi nella carta stampata, ed è il primo romanzo di Conte. Un nuovo inizio coraggioso in un campo in crisi più di altri e in una nazione dotata di pochi lettori.

“Il Fatto Quotidiano”, 22 Febbraio 2014

CANI ACERBI, Gianluca Conte, smartlit 02

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presentazioni:

https://lucianopagano.wordpress.com/presentazioni/

27 e 28 febbraio 2014: a Lecce e Copertino le prime due presentazioni di musicaos:ed


“Cani acerbi” di Gianluca Conte
e “Il romanzo osceno di Fabio” di Luciano Pagano
(musicaos:ed)

presentazioni:

giovedì 27 Febbraio 2014 – Ore 19.00
FondoVerri – Lecce
(Via Santa Maria del Paradiso, Lecce)
con Mauro Marino e Piero Rapanà
interverranno gli autori

venerdì 28 Febbraio 2014 – Ore 19.00
Sala Civica – Copertino
(Via Malta, Copertino)
interverranno gli autori

Musicaos:ed è un progetto editoriale indipendente nato dall’esperienza della rivista musicaos.it, fondata il primo gennaio del 2004 e diretta da Luciano Pagano. Il 27 e il 28 febbraio prossimo, verranno presentate le prime due produzioni di musicaos:ed, “Il romanzo osceno di Fabio” di Luciano Pagano e “Cani acerbi”, romanzo d’esordio di Gianluca Conte.

La prima presentazione di entrambi i volumi, il 27 febbraio 2014, si terrà presso il FondoVerri (Via Santa Maria del Paradiso, Lecce), alle ore 19.00. Insieme agli autori interverranno Mauro Marino e Piero Rapanà. La seconda presentazione si terrà il giorno dopo, 28 febbraio 2014, presso la Sala Civica di Copertino (Via Malta, Copertino), interverranno gli autori.

Nei primi dieci anni di attività, sulla rivista hanno scritto giornalisti, critici letterari, blogger, artisti, pittori, cineasti, e sul blog sono stati pubblicati oltre 1500 articoli, racconti, recensioni. Giuseppe Genna, nel 2008, ha definito Musicaos: “uno degli snodi fondamentali della blogosfera letteraria che ha retto al crollo della medesima”. La rivista nel 2007 è stata inserita nel Best Off “Voi siete qui”, curato da Mario Desiati e pubblicato da Minimum Fax, insieme alla riviste digitali italiane più interessanti nella rete. Il sito, Musicaos.it, nel 2005 è stato giudicati “eccellente” dalla giuria di Premio Web Italia.

La collana: SMARTLIT

La collana Smartlit di musicaos:ed, diretta da Luciano Pagano, nasce con il proposito di raccogliere scritture legate alla narrazione e al raccontare storie, senza preclusioni di forma o genere, né limiti all’espressione che provengano dalla semplicità del dividere il mondo della scrittura nelle due categorie di narrativa e poesia. Testi unici, eterogenei, ‘precedenti’ letterari, uniti però dalla consapevolezza delle intenzioni e da una attenta cura editoriale. Scritti da esordienti e non. Ci sono parole differenti che hanno un’idea di fondo comune nell’aspirazione a trasmettere, nella capacità di raggiungere l’altro senza frenesia, con attenzione. Slim (sottile), slow (adagio), slice (scorcio), slightly (lievemente). Queste parole hanno una radice comune, “sl-“. Abbiamo scelto queste due lettere per dare significato alla nostra prima collana.

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“IL ROMANZO OSCENO DI FABIO” (smartlit, 1)
di Luciano Pagano, è il primo romanzo italiano scritto interamente in tweet. Nel romanzo si racconta la torbida relazione amorosa tra Fabio, sedicente regista poco meno che quarantenne, e la Marchesa, donna bellissima della quale lui si innamora. Il terzo escluso è il marito della Marchesa, un ricco industriale che la donna ha già deciso di eliminare, servendosi dell’aiuto di Fabio. Il giovane regista, nei mesi che portano alla costruzione del delitto, lavora alla stesura del suo Film Capolavoro, incentrato sulla presenza occulta degli alieni nella storia dell’uomo, dai tempi dell’Esodo ai giorni nostri, passando per la Seconda Guerra Mondiale.

La storia de “IL ROMANZO OSCENO DI FABIO” inizia nel settembre del 2012, e prosegue per tre mesi, fino al dicembre dello stesso anno, con la pubblicazione del testo su twitter, frammento dopo frammento, 140 caratteri alla volta. In seguito il profilo twitter è oscurato dall’autore e il romanzo pubblicato in formato ebook. Qualche mese dopo viene pubblicata la versione in formato ‘bilingue’, in italiano e inglese. “IL ROMANZO OSCENO DI FABIO “è ora disponibile nella nuova edizione in formato cartaceo.

LUCIANO PAGANO è nato a Novara nel 1975. All’inizio degli anni ’90 si trasferisce in Salento con la sua famiglia, studia al liceo, si diploma, studia all’università di Fisica, lascia Fisica per Filosofia, frequenta un anno di università in Germania, si laurea con una tesi sul pensiero di Deleuze, Guattari, Foucault e la Società del Controllo, lavora cinque anni in un call-center, lo lascia, vive di scrittura. Pubblica recensioni e articoli, in rete e altrove. Dal primo gennaio del 2004 dirige il sito Musicaos.it, rivista online dedicata alla scrittura che, nel gennaio 2014, diviene musicaos:ed. I suoi profili su twitter sono followati da oltre ventimila persone. Nel 2008 con i suoi racconti vince due concorsi, il Creative Commons in Noir, indetto da Stampalternativa (con ‘Apocalisse di Giovanni’) e il Premio Subway Letteratura (con ‘Testimone Mancato’). Ha pubblicato due romanzi, “RE KAPPA” (2007, Besa Editrice) e “È TUTTO NORMALE” (2010, Lupo Editore).

LA COPERTINA de “Il romanzo osceno di Fabio”
La fotografia che compare nella copertina de “Il romanzo osceno di Fabio” è un’opera di Jay Simmons, di RGBSTOCK.COM e si intitola “Water Pistol”.

Altre informazioni su “Il romanzo osceno di Fabio” qui:
lucianopagano.wordpress.com/il-romanzo-osceno-di-fabio-di-luciano-pagano-smartlit-01/

COVER Gianluca Conte CANI ACERBI musicaos_ed - smartlit 2

“CANI ACERBI” (smartlit, 2)
primo romanzo scritto da Gianluca Conte, racconta le vicende di Riccardo, inviato precario di un giornale locale, e Alessio Delmale, contadino km0 e aiutante fidato dell’amico giornalista.
Nella noiosa routine di un Salento invernale, costellato di discariche abusive di eternit, dove il calore estivo è un ricordo sbiadito, basta poco perché si apra uno squarcio sopra un mondo che specula dove può, dal dissesto idrogeologico all’immondizia, dalla prostituzione alla corruzione politica.
Sembra filare tutto liscio, finché una sera, ai due, non viene riservata una sorpresa. Quale mistero si cela dietro i cerchi di fuoco che fanno la loro comparsa nelle campagne di Scorcia? Cosa si nasconde dietro l’improvvisa ferocia dei Cani?

GIANLUCA CONTE è nato a Galugnano, in Salento, nel 1972. Laureato in filosofia, è poeta, scrittore, operatore culturale. Con il Centro Studi Tindari Patti ha pubblicato la silloge “Il riflesso dei numeri” (2010), finalista al concorso nazionale “Andrea Vajola”. Con Il Filo Editore, ha pubblicato “Insidie” (2008). La sua terza raccolta, intitolata “Danza di nervi” (Lupo Editore, 2012), ha vinto il Premio PugliaLibre 2012 nella sezione ‘raccolta lirica’.
Il blog di Gianluca Conte, “Linea Carsica” è qui: http://glucaconte.blogspot.it/

LA COPERTINA di “CANI ACERBI”

Mirna Maric e Martina Maric, sorelle rispettivamente di 19 e 21 anni, sono due giovani fotografe croate. La loro pagina ufficiale è qui:
http://www.facebook.com/MaricSistersPhotography

Altre informazioni su “Cani acerbi” qui:
https://lucianopagano.wordpress.com/cani-acerbi-di-gianluca-conte-smartlit-02/

Info:
info@musicaos.it
http://www.musicaos.it

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“La bellezza delle cose fragili” di Taiye Selasi (Einaudi Editore)


“La bellezza delle cose fragili” di Taiye Selasi (Einaudi Editore)

Questa è la storia di una famiglia.

La storia dei modi semplici e devastanti in cui una famiglia può dividersi.
La storia dei modi, ogni volta unici e miracolosi, in cui una famiglia può riunirsi.
Tra il Ghana e gli Stati Uniti, tra Londra e la Nigeria, la famiglia Sai percorrerà ogni strada per tornare insieme. Anche i sentieri piú tortuosi: quelli interiori.

Kweku Sai è morto all’alba, davanti al mare della sua casa in Ghana. Quella casa l’aveva disegnata lui stesso su un tovagliolino di carta, tanti anni prima: un rapido schizzo, poco piú che un appunto, come quando si annota un sogno prima che svanisca. Il suo sogno era avere accanto a sé, ognuno in una stanza, i quattro figli e la moglie Fola. Una casa che fosse contenuta in una casa piú grande – il Ghana, da cui era fuggito giovanissimo – e che, a sua volta, contenesse una casa piú piccola, la sua famiglia.

Ma quella mattina Kweku è lontano dai suoi figli e da Fola. Tra loro, adesso, ci sono «chilometri, oceani, fusi orari (e altri tipi di distanze piú difficili da coprire, come il cuore spezzato, la rabbia, il dolore calcificato e domande che per troppo tempo nessuno ha fatto)». Perché il chirurgo piú geniale di Boston, il ragazzo prodigio che da un villaggio africano era riuscito a scalare le piú importanti università statunitensi, il padre premuroso e venerato, il marito fedele e innamorato, oggi muore lontano dalla sua famiglia? Lontano da Olu, il figlio maggiore, che ha seguito le orme del padre per vivere la vita che il genitore avrebbe dovuto vivere. Lontano dai gemelli, Taiwo e Kehinde, la cui miracolosa bellezza non riesce a nascondere le loro ferite. Lontano da Sadie, dalla sua inquietudine, dal suo sentimento di costante inadeguatezza. E lontano da Fola, la sua Fola.

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Ma le cose che sembrano piú fragili, come i sogni, come certe famiglie, a volte sono quelle che si rivelano piú resistenti, quelle che si scoprono piú forti della Storia (delle sue guerre, delle sue ingiustizie) e del Tempo.

L’esordio di Taiye Selasi è un romanzo su una famiglia contemporanea, un affresco potente e vertiginoso del mondo globalizzato (non a caso è stata proprio lei a coniare il termine, subito entrato nel linguaggio comune, di «afropolitan» per descrivere quei figli dell’immigrazione degli anni Sessanta e Settanta, brillanti, privi di complessi d’inferiorità, lontani da ogni stereotipo «etnico»), ma anche un’elegia, delicata, intima, sulla perdita e sulla bellezza.

«Selasi va oltre al rinnovamento della nostra idea di romanzo africano: reinventa la nostra idea di romanzo, punto».
Teju Cole, autore di Città aperta

«Fatevi scappare La bellezza delle cose fragili e vi perderete uno dei migliori nuovi romanzi della stagione».
«The Economist»

«Questo libro sembra contenere il mondo intero, non lo dimenticherò mai».
Elizabeth Gilbert, autrice di Mangia, prega, ama

“La bellezza delle cose fragili” di Taiye Selasi (Einaudi Editore)
2013, Supercoralli, pp. 344, € 19,00, ISBN 9788806208028
Traduzione di Federica Aceto
leggi un estratto in pdf
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Daniela Gerundo su “Rosso Istanbul” di Ferzan Ozpetek (Mondadori).


Daniela Gerundo su “Rosso Istanbul” di Ferzan Ozpetek (Mondadori).

Una sceneggiatura, non un semplice romanzo. Capitoli brevi, ognuno con una storia a sé che traggono linfa dai sentimenti e dalle fragilità umane per produrre , infine, l’armonia di un racconto autobiografico forte e dettagliato, autentico e spassionato nel quale ritroviamo le cifre stilistiche che già caratterizzano il linguaggio filmico di Ozpetek.

È un linguaggio tipico il suo quando parla di relazioni umane e sentimenti : attento, delicato, ironico, composto, dotato di una leggerezza tale da non offendere alcuna sensibilità. Ci aspettiamo di poter rivivere nelle sale cinematografiche le emozioni che Ferzan ci ha comunicato schiudendo ai nostri occhi le pagine di un diario di viaggio intimistico nel quale racconta il suo percorso di crescita come regista e come uomo.

È la storia di un bambino che, rincorrendo i sogni, raggiunge da adulto la felicità e la completezza nella personale realizzazione. E’ la narrazione di un percorso di vita che da Istanbul lo porta a Roma attraverso molti mari, oceani, spiagge per approdare, infine, verso Sud, in un “posto caldo che esiste solo dentro di noi”.

Sono pagine sussurrate, ammantate di sensualità e seduzione, perché la parola giusta che incide e colpisce non è quella urlata. I toni accesi sono riservati ai colori dei tulipani, al profumo dei tigli, alle tinte dei tramonti sul Bosforo, all’azzurro del cielo che ti fa venir voglia di essere aquilone, al rosso dei melograni, dei tram, dei carrettini dei venditori ambulanti di ciambelle al sesamo.

Sono pagine pervase dall’huzun, l’equivalente del portoghese saudade, quel sentimento a metà tra malinconia e nostalgia; quella sensazione di straniamento di fronte ai crimini del cuore; quella struggente nostalgia per le occasioni mancate: l’occasione di vivere appieno il rapporto col padre, con la sorella Filiz, con l’amico Yusuf, con l’amata Neval.

Occasioni mancate anche per Anna e Michele, personaggi della storia parallela che nel libro si sviluppa assieme alla vicenda personale del regista, protagonista della storia : due vicende iniziate assieme, destinate ad incrociarsi e convergere , alla fine, verso un’unica direzione.

Un incontro in aeroporto, luogo non propriamente indicato per abbracci e addii come lo sono le stazioni ferroviarie.

Il regista prende lo stesso aereo di Anna e Michele, sposati da vent’anni, che viaggiano con una coppia di giovani amici, Elena e Andrea. Un viaggio di lavoro stravolgerà le esistenze di tutti e si trasformerà per Anna in un’occasione per affrancarsi da abitudini sedimentate, per liberarsi dal continuo bisogno di controllo, per strapparsi di dosso la vita come un vestito ormai vecchio e recuperare la propria autenticità, per risvegliarsi da un lungo torpore. “Impara dai fiori perché loro lo sanno che dopo un gelido inverno arriva la primavera” diceva il nonno di Anna. “ Vorrei fare con te quello che la primavera fa con i ciliegi” recita il giovane Murat incontrato in strada mentre incide un graffito sul muro. “ Quando è stata l’ultima volta che hai fatto una cosa per la prima volta?” E’ l’inizio di una “rivoluzione” personale che coincide con la rivoluzione dei giovani e di tutta la popolazione contro una speculazione edilizia che il governo vuole realizzare demolendo un’antica sala cinematografica.

Nel corso della manifestazione viene arrestato il regista che riconosciuto, verrà subito rilasciato. Il rientro a casa sarà per l’uomo occasione di confidenze e confessioni con l’anziana madre; il momento delle verità a lungo nascoste, dei consigli e delle considerazioni. Sull’amore. L’amore che succede e basta. Perché non esiste un motivo per cui innamorarsi. Si è guidati da leggi misteriose e nel mistero bisogna cercare di rimanerci il più a lungo possibile. Perché niente è più importante dell’amore. L’amore non fa differenze di sesso : sceglie e basta. E non bisogna sorprendersi se si possono amare due persone contemporaneamente.

L’amore lega a noi in modo indissolubile anche le persone che abbiamo amato e non ci sono più. Solo l’amore può rafforzare le fragilità e contrastare il mal di vivere che a volte ti fa scegliere il buio invece della luce. Nella vita occorre comprendere le debolezze delle persone che amiamo, non fermarsi all’apparenza delle situazioni ma comprendere l’essenza dei sentimenti che le hanno determinate e saper perdonare. Perdonare anche la propria madre che ha taciuto un’importante verità sulla vita del padre. Lo si può fare attraverso i versi del poeta Nazim Hikmet che parlano di speranza e di fiducia nel futuro.”….i più belli dei nostri giorni non li abbiamo ancora vissuti. E quello che vorrei dirti di più bello non te l’ho ancora detto”. Il futuro è come il sorgere del sole. “Brindiamo a tutte le albe che verranno” sono le parole che Anna sente pronunciare da Andrea . L’ha vista anche lei l’alba, quella in cui il mondo si è capovolto e la sua esistenza non è stata più la stessa. Una luce di positività e speranza pervade le ultime pagine del diario di viaggio nella memoria nel quale ci ha condotti Ferzan Ozpetek il cui nome vuol dire “ l’ultima luce del tramonto”.

Daniela Gerundo

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Finalmente disponibile: “Il cuore in disparte” di Roberta Pilar Jarussi, ebook 10 – Musicaos.it


ilcuoreindisparte_robertapilarjarussi_musicaos_010“I racconti di Roberta Jarussi hanno forza di verità perché la sua scrittura ti trascina con impeto espressivo nella vitalità tormentata dell’animo dei personaggi. Le sue parole sono disarmanti, bruciano distanze sentimentali con rapide fiammate. Al tempo stesso, però, divampano con microscopico e geometrico rigore. […] Il cuore in disparte alterna passato e presente d’un incontro impossibile fino all’epilogo dell’abbandono subito dopo il vertice carnale della passione cosicché sarà per lei inevitabile «associare alla parola “sparizione”, lo strappo in corpo e il piacere assoluto, la ferita che è solo quando la carne si apre e pulsa. Il resto è niente» se non diventa scrittura.”

(Michele Trecca, La Gazzetta del Mezzogiorno)

Il cuore in disparte” ci racconta di due mondi e due modi differenti per affrontare non solo la scrittura, ma anche la vita. C’è una via meticolosa dell’essere scrittore, quella di Filippo, che non si è fatta minimamente scalfire dall’ingresso massiccio dell’informatica nel pianeta della scrittura. Filippo scrive ancora con la matita e riempie risme di fogli A4, se non fosse per l’utilizzo sporadico che fa del pc per postare qualche racconto su internet si potrebbe a tutti gli effetti definire un “tecnoleso”, termine che da questo racconto di Roberta Pilar Jarussi entra con prepotenza nel nostro lessico, traducendo l’anglosassone “keeg”, ottenuto come speculare di “geek” (appassionato di tecnologia), e qui sdoganato dal dizionario degli appassionati per diventare pura letteratura.
E poi, accanto a quella di Filippo, c’è una vita, altrettanto meticolosa, maniacale, che si è fatta attraversare completamente dall’innovazione: Anna esce di casa con il portatile, e, quando le viene in mente qualcosa che deve scrivere, magari quando sta facendo una coda presso qualche sportello, piuttosto che prendere un taccuino e una penna apre l’ostrica del suo MacBook bianco (Montblanc per lui, white Mac per lei) e annota il suo pensiero. Ciò non toglie che la sua scrittura, pur immersa nel virtuale, non sia altrettanto ‘incisiva’ e scalfente. I due si sono incontrati per caso a un festival di scrittori, uno dei tanti, anche abbastanza affollato, nel sud del sud, in Lucania.

La bravura di Roberta Pilar Jarussi, in questo come negli altri racconti pubblicati di recente (“Panni sacri”, “La verità” presenti entrambi nella collana di narrativa di Musicaos), sta nel ‘riportare’ al lettore una realtà narrativa suddivisa su livelli differenti, facendo coincidere le diverse vicende, intersecandole, spiazzando, e, in poche pagine, mettendoci a tu per tu con i pensieri dei personaggi, con quello che è il loro passato immediato, con tutte le aspettative che vengono rivolte nel presente, fino a immaginare cosa sta per accadere lì, davanti ai suoi occhi, prontamente disatteso. È davvero difficile non resistere a questo gioco di rimandi e immedesimazioni, senza ‘prendere le parti’ o affezionarsi ai tic e ai modi di fare e dire di Anna e Filippo, per non parlare di tutto ciò che li circonda. Quando uno dei personaggi di Roberta Pilar Jarussi entra in un ambiente, sia esso un bar, un aeroporto o un ufficio, basta una battuta per ‘ottenere’ il personaggio, e tu sei lì, stai vivendo nella stessa scena, catturato da un potere evocativo che ti sbalordisce, ed è uno dei primi ‘sintomi da rilettura’. A questo si aggiunge l’altalena del tempo, con i flash-back, anche questi in perfetto montaggio, eventi passati da cui fuoriescono quelli presenti, e viceversa. La 504. Un numero assurdo, assegnato da un destino bizzarro alla stanza di una pensioncina che di stanze ne ha davvero poche. Un numero che diventerà ‘luogo’ per due corpi che si inseguono.

C’è una grande vastità che si nasconde nel cuore, e che si traduce tutta nella descrizione degli amanti al termine della battaglia d’amore, nei gesti che seguono, in quelli che precedono l’addio o il saluto. Roberta Pilar Jarussi, ne “Il cuore in disparte”, riesce ancora una volta, con una forza e un espressionismo unici, a trasformare in poesia, sorpresa e stupore, tutti quei piccoli frammenti di cui si compone una storia, o una non-storia, d’amore.

(dalla postfazione di Luciano Pagano)

ROBERTA PILAR JARUSSI. Ha pubblicato il romanzo “Nella casa” (2003, Palomar – collana Cromosoma Y, diretta da Michele Trecca e Andrea Consoli) e “Dal vivo”, racconti (2002 , zerozerosud). Nell’ottobre 2003, è selezionata a ‘Ricercare’ convegno-laboratorio per nuove scritture (Reggio Emilia), con un brano dell’allora inedito romanzo “Nella casa”. Con Musicaos ha pubblicato “Panni sacri” (Ebook 06 Musicaos) e “La verità” (Ebook 07 Musicaos).

ENRICO LO STORTO fotografo professionista, autore dell’immagine di copertina de “Il cuore in disparte“, è nato a Cerignola nel 1963, risiede a Foggia. Inizia a fotografare nei primi anni ’80 con una Olympus, per passare subito dopo alla Nikon, di cui possiede vari corpi corredati da ottiche fisse e non. Nel 2004 la sua espressione fotografica ha un forte scossone grazie sopratutto all’avvento del digitale che Lo Storto approfondisce, in ogni direzione. Enrico Lo Storto vanta varie partecipazioni e ammissioni a concorsi Internazionali e ultimamente ha collaborato con l’azienda italiana produttrice di gioielli, Bulgari. Già da numerosi anni è parte attiva del Foto Cine Club di Foggia di cui è anche docente oltre che facente parte delle commissioni Artistica e Formazione.

“IL CUORE IN DISPARTE”, di Roberta Pilar Jarussi, ebook 10 – Musicaos.it

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Anteprima: Enrico Lo Storto, Mirna e Martina Marić, le foto dei nuovi ebook di Musicaos.it


Anteprima: Enrico Lo Storto, Mirna e Martina Marić, le foto dei nuovi ebook di Musicaos.it

Manca poco perché sia online “Se Hank avesso incontrato Anaïs”, il romanzo di Stefano Donno, nella sua nuova edizione ideata e edita per gli ebook di Musicaos.it. Approfitto di questo post per dare un’altra anteprima, quella sull’ebook numero 11, e per parlare dei fotografi che hanno collaborato con le prossime uscite degli ebook di Musicaos.it. L’ebook 11 si intitolerà “Cani acerbi”, scritto da Gianluca Conte. Questo post è dedicato ai fotografi che hanno illustrato le copertine, rispettivamente, degli ebook 10 e 11 di Musicaos.it.

ilcuoreindisparte_robertapilarjarussi_musicaos_010Enrico Lo Storto è l’autore della foto che illustrerà la copertina di “IL CUORE IN DISPARTE” di Roberta Pilar Jarussi.
Enrico Lo Storto è nato a Cerignola nel 1963 e risiede a Foggia.  Inizia a fotografare nei primi anni ’80 con una Olympus, per passare subito dopo alla Nikon, di cui possiede vari corpi corredati da ottiche fisse e non. Nel 2004 la sua espressione fotografica ha un forte scossone grazie sopratutto all’avvento del digitale che Lo Storto approfondisce, in ogni direzione.

Enrico Lo Storto vanta varie partecipazioni e ammissioni a concorsi Internazionali e ultimamente ha collaborato con l’azienda italiana produttrice di gioielli, Bulgari. Già da numerosi anni è parte attiva del Foto Cine Club di Foggia di cui è anche docente oltre che facente parte delle commissioni Artistica e Formazione.

gianlucaconte_caniacerbi_musicaos_ebook_11Mirna Marić è autrice della foto (“The underwater girl”) che illustrerà la copertina di “CANI ACERBI” di Gianluca Conte. Le sorelle Mirna e Martina Marić (Marić Sisters Photography) hanno rispettivamente 18 e 20 anni, vivono e lavorano in Croazia e fanno parte della nuova generazione di fotografi/artisti visuali europei (http://www.facebook.com/MaricSistersPhotography); i loro lavori sono caratterizzati da un’attenzione particolare alla natura, alla figura umana e alla presenza dei corpi nello spazio.

Chi fosse interessato a conoscere gli altri ebook di Musicaos.it può trovarli qui:
https://lucianopagano.wordpress.com/ebook-musicaos-it-catalogo/

Chi volesse leggere che cosa si dice in giro degli ebook di Musicaos.it può proseguire qui:
https://lucianopagano.wordpress.com/ebooks/scrivono-di-noi-gli-ebook-di-musicaos-it/

Anticipazioni febbraio/marzo 2013: ecco i prossimi 3 ebook di Musicaos.it


Ecco i prossimi tre ebook di Musicaos.it, in uscita tra febbraio e marzo. Tutti quelli pubblicati fino a oggi li potete trovare qui:

stefanodonno_sehankavesseincontratoanais_ebook_08_musicaos_cover

luigi_tarantino_confessionidiuneditoredimerda_ebook_09_musicaos__

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Presto online “La verità” di Roberta Pilar Jarussi, ebook 07 Musicaos.it


robertapilarjarussi_laverita_musicaos_ebook_07_cover?w=352

presto online:

Roberta Pilar Jarussi, “La verità”
postfazione Luciano Pagano
ebook 07 Musicaos.it

Non accontentarmi di piccole gioie quotidiane.


“Mignotta” graphic novel di Giovanni Matteo, da un soggetto di Pier Paolo Pasolini. Disponibile su Amazon


È disponibile per il download da Amazon “Mignotta“, di Giovanni Matteo, graphic novel ispirata a un soggetto scritto per il cinema da Pier Paolo Pasolini e pubblicato nel volume “Alì dagli occhi azzurri” che raccoglie racconti, scritti sparsi, soggetti, redatti da Pier Paolo Pasolini nel periodo 1950-1965.
La postfazione dell’ebook è a cura di Luciano Pagano. Tutte le informazioni per il download qui. Si tratta del terzo ebook di musicaos, dopo “Il romanzo osceno di Fabio” e la guida “È facile smettere di scrivere se sai come farlo!“. Altre informazioni sugli ebook di musicaos qui.
Per informazioni o altro potete scrivere direttamente a lucianopagano[at]gmail[punto]com

“Straniero sarai tu. Quando il semaforo non basta”. Un racconto


Straniero sarai tu.
Quando il semaforo non basta.
Un racconto

“Io sono il numero zero
facce diffidenti quando passa lo straniero”
Sangue Misto

Caro lettore, mi preme rassicurarti, prima ancora che tu prosegua nella lettura di questo racconto, che qui non si parlerà di viabilità, di domeniche in bicicletta, di filobus e/o eventuale procrastinazione del servizio di trasporto pubblico, e argomenti simili. Il semaforo, in questo caso, è inteso come luogo di concentrazione del ‘lavoro diffuso’, elemento reso stabile da una precarietà oramai storicizzata e soprattutto denigrata dalle stesse parole del Premier e dalle sue recenti affermazioni sul Decreto Sviluppo. Silvio Berlusconi, in più di un’intervista concessa alle sue reti personali, ovvero sia “Rete 4” e “Rai Uno”, ha ribadito i risultati ‘forti’ del suo governo, che poi sono quelli di facciata più visibili dal punto di vista mediatico ma smentiti nell’attimo stesso in cui ne viene data notizia. Il leit-motiv che ci ha accompagnato nel periodo delle elezioni nei Comuni sarà lo stesso tormentone che ci accompagnerà fino alle prossime Politiche, ovvero sia il trittico “Spazzatura” – “Terremoto” – “Come Siamo Usciti a Testa Alta dalla Crisi”.
È per questo motivo, caro Lettore, che mi sembrava giusto riportare una testimonianza, qualcosa di piccolo di fronte a tanto dispiegamento di mezzi informativi, e lo farò a partire dal semaforo. Il semaforo in questione è quello davanti al quale ho modo di passare ogni giorno, per più di una volta al giorno.

C’è un rumeno, sempre lo stesso da almeno cinque anni, che chiede i soldi in cambio di una lavata di vetro. Un giorno, passando vicino a una cabina del telefono, mi sento chiamare “Amico, amico!”, quando un rumeno ti chiama ‘amico’ è come se un uomo di colore, nell’Harlem degli anni sessanta, ti chiamasse ‘fratello’, stesso effetto semantico, “vieni, ci serve un favore”. Mi avvicino alla cabina rispondendomi nella testa alla domanda “ma chi può utilizzare, nel duemila, una cabina telefonica?”, uno che deve fare un numero verde in mezzo alla strada, ecco chi. Pietro (questo il nome tradotto in salentino) mi mostra la ricevuta di un bonifico estero effettuato con un corriere espresso. In pratica gli hanno invertito il nome con il cognome e quindi, la persona dall’altra parte del globo, in Romania, non può riscuotere la cifra. Pietro mi chiede di fare il numero verde, ascoltare, seguire le istruzioni e segnalare il problema all’Ufficio Clienti. La mia esperienza nei call-center mi fa subito capire che Pietro si trova alle prese con un problema degno dei tempi moderni, ovvero sia l’incomunicabilità tra uomo e operatore. Prendo il telefono, faccio tre tentativi (una buona media per essere un presupposto esperto), riesco finalmente a parlare con una signorina, risolvo il problema. Da qualche parte in Romania la sorella di Pietro, oggi, riceverà 100 euro. Caro Lettore, devi immaginare che quando stavo chiuso dentro la cabina, lì fuori, insieme a Pietro, c’erano altri due suoi amici; se fossi stato più suggestionabile avrei creduto che non mi avrebbero fatto uscire senza una soluzione, se tu stesso li avessi incontrati da soli magari avresti potuto credere che non erano tipi raccomandabili, ma questo è l’effetto che ti fa vedere alcuni telegiornali, quelli che dipingono l’altro come nemico; io non l’ho pensato, anche se uno dei due aveva la chiostra dei denti completamente d’oro. Da quel giorno sono amico di Pietro. Gli ho risolto un problema senza mandarlo a quel paese temendo chissà cosa, l’ho trattato come una persona e non come un lavavetri, quindi ha deciso che siamo amici. Quando arrivo con la macchina davanti al semaforo lui mi dice sempre ‘ciao amico, ti saluto e ti stringo la mano’, a Pasqua mi ha fatto gli auguri.

Caro lettore, dovevo farti questa premessa per raggiungere più semplicemente la conclusione, avvenuta stamattina, quando, fermo con l’auto al semaforo, scambio il mio solito saluto con Pietro. Lui si avvicina, mi stringe la mano, gli dico “Apposto?”, lui mi risponde “facciamo finta di dire apposto! è diventato più complicato, troppe tasse da pagare, il semaforo non basta più”.
Ecco, in quel momento mi sarebbe piaciuto tanto che, a quel semaforo, facesse la sua comparsa San Silvio B., patrono delle emergenze risolte in televisione e rimaste tali nel mondo reale, con le sue rassicurazioni di avere esteso la cassa integrazione anche a fasce dei lavoratori che precedentemente non ne usufruivano; lo stesso San Silvio B. che si prepara a benedire i risultati del recente turno elettorale come un vero e proprio ‘test di governo’, mentre la Confindustria e la Marcegaglia, appoggiata da tutti i precedenti presidenti della Confindustria, continua nell’affermare che l’Italia è un paese frenato, e che il Governo è uno dei freni più forti al rilancio dell’economia. Altro che Decreto Sviluppo. Cosa ne pensa del Ministro Tremonti il nostro Pietro, lavavetri che paga le tasse e nel frattempo deve anche sorbirsi le prediche di una quindicina di commercianti limitrofi che a turno gli sparlano alle spalle recitando la litania del “e perché non torni nel tuo paese, e come fai a camparti con l’elemosina chissà cosa fai di losco, e quanti siete, e se vi contassimo a tutti i semafori, tirate su un milione di euro al giorno”. Mi chiedo, ma c’è stato qualcuno che ha mai chiesto a Pietro se pagava le tasse, prima di dirsi – nel pregiudizio – che è venuto a fregarci i soldi nell’illegalità?

Ecco, caro Lettore, quello che mi premeva dirti con questo racconto è: mentre in questi dieci anni ‘davi addosso’ allo straniero, in tutte le salse e su tutti i canali e con tutte le proposte di leggi allucinanti, le persone che fomentavano il tuo odio erano le stesse che contribuivano a impoverirti al punto da raggiungere una soglia di sussistenza minima, in un paese dove il tasso di disoccupazione giovanile è del 28,2% e dove ci sono fasce della popolazione che non sono MAI state assunte e quindi non hanno MAI, tecnicamente e realmente, lavorato e quindi non sapranno MAI cosa vuol dire essere tutelati. Ma noi continuiamo a dare addosso allo straniero. C’è una canzone dei Sangue Misto, il gruppo cui apparteneva Neffa, che si intitolava “Lo straniero” (1994), ascoltarla oggi e vedere che così poco è cambiato fa venire la pelle d’oca, “Io quando andavo a scuola da bambino/la gente nella classe mi chiamava marocchino,/terrone “Muto! Torna un po’ da dove sei venuto!”

Questo racconto, caro Lettore, è dedicato a Pietro che paga le tasse su quella che tu chiami elemosina, nel paese del lavoro sommerso, ma anche a tutte le famiglie del Nord Italia che alla sera cenano con latte e biscotti perché non hanno più soldi per fare la spesa. Grazie di averci preso in considerazione, Lettore, le faremo sapere al più presto.

pubblicato su “Il Paese Nuovo”
di Domenica 15 Maggio 2011

http://twitter.com/lucianopagano

“Prosit”, un racconto di Evelyn De Simone.


“PROSIT” di Evelyn De Simone

Siamo seduti a questo tavolino da circa due ore e sono circa due ore che me ne sto curva sul mio quaderno, simulando trance creativa, solo per sottrarmi alla discussione in corso tra Luca e Alessandro, circa l’amicizia, i legami, la fiducia. Tutte quelle parole che, solo a pronunciarle, ti riempiono la bocca.

Se c’è una cosa che non sopporto è quando la gente continua a parlare per tanto tempo dello stesso argomento, pur essendo totalmente d’accordo su qualsiasi aspetto della questione. È come in quegli stupidi talk show del primo pomeriggio in cui tutti si contraddicono urlando, per dire la stessa cosa. Almeno Luca e Alessandro sanno usare i congiuntivi e, soprattutto, parlano a volume abbastanza moderato.
– Certe volte non puoi prevederlo. È inevitabile fare qualche errore di valutazione: ti fidi degli altri, dai loro ciò che puoi e…
– Tac! Ti fottono in men che non si dica. Il punto è che non bisognerebbe dare tanto. O forse pur di evitare le delusioni non bisognerebbe dare tanto aspettandosi di ricevere tanto..non so..
-Io lo so: per preservarsi non bisognerebbe dare tanto a chi vuole ricevere tanto. E comunque se ti faccio un favore, se condivido una cosa con te lo faccio visceralmente, senza una vera intenzionalità razionale. Non lo faccio perché tu lo faresti (anche se a posteriori so che è così), il moto del “farlo”, del “darsi” è una forma di prepensiero elicitata da…
-Solo da determinati tipi di rapporti. E se le viscere, qualche bella volta, si sbagliano?
-È proprio questo, ciò che cercavo di dirti. Le viscere possono sbagliarsi, eccome, e noi non possiamo farci niente: possiamo scegliere se fidarci o meno degli altri, ma non possiamo non fidarci del nostro stesso istinto. Non si può sfuggire a lungo all’istinto, sarebbe come vivere in una cella di isolamento.
-Prima o poi ci convinceranno che saranno giuste le amicizie “con i beni separati e con i mali in comunione”.
-Adoro quel pezzo, cazzo ha un sound…comunque ti dicevo…

E avanti così, ancora, smetto persino di stilare quello schema mentale in cui appunto le posizioni dell’uno e dell’altro. Mi alzo per andare in bagno e quando torno, Alessandro sta dicendo qualcosa circa i condizionamenti ambientali che subiscono le nostre viscere e Luca sembra dare i primi segni di cedimento: ha smesso di guardarlo in faccia, preferendo la vista di un gratta&vinci che sta grattando con la cura con cui si spogliano le mogli durante la prima notte di nozze.

Riprendo il quaderno tra le mani e inizio a disegnarli. Due bicchieri di birra a metà e due vuoti allontanati al bordo destro del tavolo. Abbozzo il modo gentile di toccarsi i capelli di Alessandro, le sue labbra carnose inclinate in un mezzo sorriso benevolo. Di fronte stendo due/tre righe per la sagoma di Luca, aggiungo le rughe di concentrazione sulla fronte, la testa piegata di lato per guardare meglio il biglietto, la bocca serrata, non sorride, non è triste, non è seria. Alzo la matita dal foglio solo quando sento Luca che, continuando a guardare tra i disegni idioti del biglietto, dice:

– Sai cosa ti dico? Che alla fine è tutto una presa per il culo. L’amicizia, la fiducia, la reciprocità. Sono parole prive di significato, sono solo aria che mette in subbuglio, inutilmente, neuroni e corde vocali.
– Cosa?
– Sì, è così. Qualsiasi forma di altruismo o di affiliazione nasconde solo il desiderio intrinseco di scampare alla solitudine o di trovare gratificazione attraverso le carenze degli altri o di ricevere ciò che vogliamo per pura avidità. Tu, per esempio, mi sei amico e mi dai ascolto in previsione di ciò che riceverai. Altro che prepensiero, caro mio. Non darmi niente perché non voglio niente, perché non ti darò niente.

Riabbasso la testa e riprendo a disegnare, con l’ostinazione degli autistici. Luca parla ad Alessandro con un tono di voce che gli ho sentito assai di rado, parla ad Alessandro, ma fissa il suo gratta&vinci e quando si blocca un attimo, per prendere fiato, un fugace impercettibile sorriso gli increspa le labbra. Forse Alessandro neanche se ne accorge. Eppure io l’ho visto: ha guardato quel biglietto e ha sorriso, per un attimo, d’istinto. Non si può sfuggire a lungo all’istinto.

Torno a scrivere e questa volta non lo faccio per sfuggire alla conversazione, torno a scrivere di quel sorriso, dei suoi occhi raggrinziti che cercano disperatamente di mettere a fuoco i numeretti sul biglietto, delle sue mani, ora evidentemente sudate, che lasciano impronte sulla plastica verde del tavolino. Scrivo, mentre loro continuano a parlare di amicizia, di fiducia e di legami. Tutte quelle parole che ti viene difficile pronunciare quando pensi di avere un segreto tra le mani che speri possa cambiarti la vita, ma un pezzo di carta non può cambiarti la vita e sto ancora scrivendo quando la voce di Luca torna quella di sempre, si apre una risata, e dice “Dai, scherzavo” col tono delle fiction buonalaprima. “Vado a prendere da bere, questo giro lo offro io!” dice, ancora con quel tono. Lo guardo alzarsi, prendere il gratta&vinci, accartocciarlo e gettarlo nel cestino all’entrata del bar e quando ritorna al tavolo con tre birre appena spillate brindiamo all’amicizia e alla lealtà, cercando di crederci davvero.

§

Questo è il secondo racconto di Evelyn De Simone , pubblicato su Musicaos.it, il primo, intitolato “The Spirit of Innovation” è qui.
Per invio materiali, suggerimenti, eccetera e altri eccetera a Musicaos.it, leggete le istruzioni qui: http://www.musicaos.it
C’è una pagina che ha poco più di cento fan su facebook, è la pagina di Musicaos.it, la trovate a questo indirizzo.  Se siete interessati a seguire giorno per giorno le riflessioni, i post, i link, e i pensieri del curatore di musicaos.it potete leggerlo su twitter, un assaggio è nella colonna a destra di questo blog. Alcuni dei libri in lettura attualmente sono “Afra” (Besa Editrice) di Luisa Ruggio, “Cadenza d’Inganno” (Lupo Editore) di Alfredo Annicchiarico, “In cielo come in terra” (Laterza) di Susan Neiman, “Invisibili” di Fulvio Colucci e Giuse Alemanno (Kurumuny), “La passione” (Untitl.ed) di Marco Montanaro, “451 Via della Letteratura della Scienza e dell’Arte” e – che non guasta mai – La Divina Commedia nel commento audio di Vittorio Sermonti.

“La compagna di classe”. Un racconto di Luigi Salerno


“La compagna di classe”
di Luigi Salerno


Rientrare di sabato nelle luci delle macchine e le mie gambe che affrettano, perché quando è di sabato non ho più il controllo del tempo e a volte me ne accorgo troppo tardi. Ma in ogni caso devo immergermi lo stesso nel caos del centro per poi ritornare subito. Rientrare con le strisce pedonali ingabbiate dalle ruote e la scaltrezza di un cattivo atleta, poco allenato nello scansare gli ostacoli fiammanti. Il fumo dei motori e le mie bottiglie che rischiano di sbattere e di infrangersi. Il mio passo accelera, e allora riesco a raggiungere il tratto meno illuminato e più tranquillo. Il solito marciapiede. Le pizzerie sfornano e infornano, come bocche di leoni accecanti. Le ragazze con i capelli sciolti. Qualcuna con la coda alta che mi sorride; e i profumi dei corpi con quelli delle sigarette. Allora affretto, ancora, anche se in fondo non ho nulla da fare. Ma è quella mia città che mi attira e mi respinge e anche quei visi che si organizzano la sera e che cominceranno a cenare quando starò già dormendo, adesso mi mettono un’ansia profonda e nel passo quest’ansia si scioglie e così raggiungo casa nella metà del tempo. Sfioro con le mani le chiavi dall’esterno del borsello grigio, ancora prima di impugnarle, -perché ricordo sempre di non anticipare mai le mosse prima del tempo. Devo abituarmi a estrarle quando il cancello mi attraversa appena le ginocchia, e non prima. Stasera sono fredde le mie ginocchia. Tintinnano chiavi, bottiglie e ginocchia, in una sola consonanza. Rintocca lo scatto della chiave, ma c’è una macchina che attira la mia attenzione, prima che io chiuda. Mi giro per accostare il cancelletto e per evitare il tuono del metallo, quando scorgo due figure magre e romantiche, in un’ auto bianca che non ho mai visto prima, proprio accanto al mio cancello, quello grande delle macchine. Il motore acceso. I loro visi sono lontani e sepolti nel fumo dell’abitacolo. Forse è la donna che sta fumando, ma non ne sono così sicuro, che mentre accosto per non sbattere, gli occhi della coppia si posano sulle mie mani e poi risalgono insieme sul mio viso, stupito e curioso, prima di andare. Ma tanto non li conosco. Forse ho un’aria troppo agitata, un’aria che desta spettacolo. Guardo le luci della mia finestra, che sono spente. È strano, perché mia madre a quell’ora dovrebbe essere già su, o forse avrà acceso dalla stanza che affaccia dall’altro lato. Intanto apro il portone interno e dimentico di colpo quel poco dei loro visi, così confusi. Il suono moderno del motore è ancora presente, romba come quelli dalle cilindrate importanti e non ho nemmeno visto il tipo di auto. Salgo e rientro in casa. I termosifoni sono spenti come le luci, e dentro non c’è nessuno. Nemmeno un messaggio, eppure quello è l’orario della cena per una madre così abitudinaria come la mia. Allora riscendo, e trovo ancora la stessa auto, e cerco di trovare una soluzione: andare da mia sorella, che è di fronte, e vedere se mia madre sia finita lì. Elvira non ha telefono, è isolata da due giorni, e allora mi tocca citofonare. La coppia che mi guarda ancora, mentre attraverso, poi non ci faccio più caso. Forse aspettano la ripresa di un bacio o di un litigio e io li avrò interrotti. Elvira mi risponde al citofono, con la bocca piena. Ormai è l’ora di cena o ancora oltre, e mi dice che mia madre non è proprio passata e che probabilmente avrà preso il pullman e starà sepolta nel traffico del sabato. Cerco di tranquillizzarmi, tirando il fiato a più riprese. Immagino il tragitto della linea che si avvicina alla nostra strada; le luci dei nostri lampioni, i fari dell’auto che si spengono. Alzando la testa noto che Elvira ha già abbassato tutte le tapparelle. Mi ha solo detto di farle sapere qualcosa e di non preoccuparmi. Intanto salgo sopra e manca la luce, proprio mentre sto apparecchiando la tavola per due. Mi affaccio per vedere quante case siano rimaste al buio e quanto sia serio il guasto. Guardo l’ora e noto che il tempo scivola e lei ancora non ritorna. Anche Elvira sarà senza luce, ma non voglio allarmarla. Con il buio ogni cosa si allarma, come in un furto d’auto. Il cancello è elettrico, se voglio prendere l’auto e andarla a cercare non posso più farlo. Scendo lo stesso, lasciando la tovaglia a metà sul tavolo di marmo ghiacciato e allarmato. Le scale allarmate a più gradini, riesco ad aprire il cancelletto pedonale con la chiave. I due sono ancora nella stessa auto, ancora immobili. Ormai non mi fanno quasi più effetto. Mi guardo intorno, tentato di avviarmi a piedi e da solo alla sua ricerca. Elvira non può avvertirmi di niente, è sopra con i bambini. Se fosse successo qualcosa dovrei sbrigarmela da solo e arrivarci sempre prima io. Come avviene con le buone notizie, anche con le cattive: c’è chi si espone sempre per primo, perché ha maggiore raggio di azione; forse maggiore resistenza, scaltrezza e autonomia in certe dinamiche o una certa maledizione nel cuore o nel destino. Così mi avvio, senza meta, senza telefono. Sperando che spunti un taxi con la sua mano che batte il vetro e mi saluta o forse la sua sagoma a piedi, sul primo tratto di curva, prima dei due pini. Con la sua solita andatura baluginante, le buste piene attorcigliate alle sue dita. Scorgo appena delle ombre, ma poi non c’è più nessuno, e sono passate già le nove e non ricordo nemmeno se mi abbia detto qualcosa prima di scendere. Cerco di ricordare e intanto oltrepasso la prima striscia di negozi già chiusi. Mi guardo bene da ambo i lati, prima di attraversare e ancora ricordando a vuoto, e poi rallento. Perché il traffico scema e allora quelli più violenti alla guida corrono come matti e finisce che poi ti falciano se non stai attento. Ci sono i lampioni muti, quando attendo ancora e il tempo passa e quasi non me ne accorgo. Quando mi si accosta al fianco destro, quella macchina bianca con i due romantici; quella che poco prima era parcheggiata davanti al mio cancello. Mi giro di scatto, e proprio in quel momento l’uomo che guida abbassa il finestrino e mi guarda. Tira piano di fumo, -è solo lui il fumatore- e poi mi parla. La donna seduta al suo fianco è tutta annebbiata dal fumo della sigaretta. Deve essere una di quelle sigarette forti, e intanto mentre l’uomo mi parla non riesco a sentire bene quello che mi dice. Scorgo appena il viso della sua forse compagna, che si abbassa e un poco si storzella per guardarmi meglio. Mi parla solo lui, ma in una lingua oscura e incomprensibile. Forse nemmeno italiana e nemmeno europea, troppo lontana. Sarà perché sono agitato ma non riesco a cogliere un senso definito da quello che l’uomo mi dice. Soltanto il suono. Il suono caldo e opaco della sua voce folta di vino, quello soltanto è chiaro, anche se le sillabe non mi ricordano nessuna sequenza logica. Quel suo suono invece mi incute una strana calma e poi, quando le spire del suo fumo si dipanano nelle strade, ormai sempre più libere, emerge il profumo speziato della sua compagna e parte del suo viso. Dall’abitacolo soffocante, la sua figura femminile che si ricompone nelle le luci della radio. La radio ha una frequenza disturbata. Scorgo un suo ginocchio scoperto, da una gonna scura. Cerco di sviare da quel contatto e guardo l’uomo. Lo guardo fisso come prima mi ha guardato lui, adesso che ha finito di parlare e aspetta solo una mia risposta. Che non ho. Cerco di sforzarmi, sia per trovare qualcosa da dire, che per comunicarglielo. Intanto mi accorgo di aver dimenticato l’assenza di mia madre, in cambio della loro inquietante presenza. L’uomo mi guarda, la sigaretta adesso l’ha già spenta. Io comincio a ripensare a tante cose, che mi allontanano ancora di più dalla possibilità di lanciargli un segnale di risposta, ma mi allontanano anche dal pensiero di mia madre e della sua assenza. Penso al fatto che forse quei due al cancello aspettavano me e che erano due malfattori che stavano cercando di rapinarmi con eleganza, senza violenza, forse per non rovinarsi la piazza. Siamo in silenzio, tutti e tre. La donna e i miei occhi che adesso tremano nei suoi, quando si allungano verso di me o su di una direzione di penombra parallela che non ricordo più, quando le sirene gonfiano i polmoni per il black-out, e intanto mi accorgo che la loro attesa mi inquieta ancora di più e che forse mi tocca lanciargli un saluto sfumato e ritornare indietro. Semmai da Elvira, mia sorella, con i suoi bambini che saranno crollati di sonno e di buio sul tappeto rosso del soggiorno. Ma senza luce non penso che possa aprirmi o forse sì. Potrei chiamarla a voce dalla strada e dirle che sono preoccupato. A quei due salutarli in inglese, o meglio alzando un braccio, sorridendo. Capiranno che non riesco a capirli, che di certo nemmeno loro capirebbero me se io gli parlassi, e intanto cerco di articolare un qualsiasi segno di saluto, che mi sganci dalla loro morsa, quando la donna mi chiama per nome. La macchina è ancora accesa, mi dice “Ottavio”, così ben scandito, da lasciarmi perplesso per il calore confidente e familiare della sua voce quando entra nel mio nome. Un nome detto da una che mi conosce e che forse mi ha già chiamato altre volte. Forse perché quando chiami un nome che hai già chiamato, la tua voce si trasforma, si fa più calda e l’altro che è chiamato riesce a sentire che esisti da prima, perché quel tipo di inflessione, nel breve spazio del nome, è la stessa delle persone che ti conoscono, che ti amano, che ti sopportano o che ti odiano di nascosto e senza dirtelo mai, ma che in qualche modo sono finite o dirette dentro la tua vita. Abbasso la testa, scavalco quella dell’uomo, che intanto ne accende un’altra, e poi la fisso. Le chiedo se mi conosce, perché quella sera non sono stato chiamato da nessuno nei pochi minuti della loro presenza e del mio rapido passaggio. La donna mi guarda, con una calma profonda nello sguardo. Aspetta anche lei qualche segnale, non rispondendo però alla mia domanda.
Forse nemmeno lei conosce la mia lingua. Conosce il mio nome ma non la mia lingua, -questo potrebbe essere ancora possibile. Insisto, mi faccio ancora più vicino. La stazione radio si assesta e suona una canzone americana, mi pare When i fall in love di Nat King Cole, e l’uomo chiude gli occhi e le posa un palmo sulla coscia e il vestito un po’ le sale e attendiamo ciascuno uno stacco di luce. “Sali, Ottavio”, mi dice la donna, “sali che parliamo in auto”. Fa freddo e non c’è luce, e a quel punto non mi rimane che approfittare per farmi accompagnare all’ospedale più vicino o al commissariato, che la mia macchina è bloccata nel garage con le porte automatiche. Ma forse è ancora troppo presto per il commissariato. Con l’ospedale avrei almeno escluso il peggio e allora faccio il gesto impacciato di entrare dentro. L’uomo mi accompagna appena lo sportello laterale posteriore verso l’esterno, senza guardarmi. Entro imbarazzato, ma sono sicuro di fare la cosa più logica. La donna mi guarda e avverto che può capirmi, anche se non so come sappia il nome l’importante è che adesso io ritrovi mia madre. Ci ritroviamo in tre in quell’auto. Il primo pensiero è quello di avvertire mia sorella; di avvertirla ma senza allarmarla e purtroppo non trovo il modo se non quello di raggiungere il suo palazzo. Così dico alla donna di chiedere all’uomo che guida di riportarmi al palazzo di mia sorella, quello così vicino al mio, quasi nel punto dove avevano parcheggiato. L’uomo tossisce, la donna gli parla in un’altra lingua. L’uomo fa subito inversione, senza esitare. La donna mi sorride, poi si gira ancora avanti, abbassa la radio e commenta qualcosa in una lingua ancora più oscura. Osservando alcuni palazzi, abbassando la testa per guardarli meglio, mentre glieli indica allo stesso tempo con un dito. L’altro guida e li guarda appena. Le dico dove farlo fermare. La macchina accosta, scendo e la luce ormai è tornata. Le sirene tacciono, mentre le citofono e la sento preoccupata, che si è fatto davvero tardi e che non è mai successo che la mamma abbia tardato così tanto e senza avvertirci. E intanto mi sento imbevuto anche io di una strana ansia, e non so ancora se dirle che in macchina ci sono due sconosciuti che mi aspettano; così cerco di temporeggiare ancora un poco, valutando in silenzio sul da farsi, fino a quando Elvira non mi chiede di salire sopra, e io le dico subito che è inutile, perché non ha il telefono e che c’è qualcuno che potrebbe accompagnarmi a cercarla e fare molto prima. Qualcuno che conosco bene, cercando di tranquillizzarla, senza fare nomi – che d’altra parte non so. Quando Elvira mi chiede i nomi, io vado sul vago, e le dico che in questi casi l’importante è ottenere un passaggio per il primo ospedale, senza entrare troppo nei dettagli. Ho cercato di balbettarglielo per non farla allarmare, ma lei mi fa notare che io ho una macchina nuova di due mesi e che vuole venire con me. Il tempo di lasciare i bambini alla signora Staffini, la sua vicina che molte mattine li accudisce. E che adesso sarebbe un’emergenza e che allora io la devo aspettare. Non ho scelta, così acconsento. Mi volto e li guardo. Sono rimasti fermi dove erano, guardandomi le spalle tutto il tempo della breve citofonata con Elvira. Adesso mi aspettano nell’auto, me lo dicono i loro occhi spenti, la loro forma dei visi vicini e spettrali. Alzo subito un braccio, in modo svogliato, e li ringrazio, sperando che adesso se ne vadano, e dicendo che adesso è tutto risolto, che la luce è tornata, che posso prendere la mia auto, che è nuova di due mesi, come mi ha appena ricordato mia sorella, e che sono stati molto gentili a riportarmi al palazzo. Tra poco sarebbe scesa Elvira e così saremmo scappati nel mio garage a prendere la mia auto e così l’avremmo cercata per bene, come soltanto due fratelli di sangue possono cercare una madre.
L’auto bianca rimane ferma: cerco di scandire le frasi verso la donna, che adesso ha il viso preoccupato, mentre cerca di tradurre al suo autista sinistro le mie ultime confuse parole, e forse il fatto che sono risaliti e che devono andare senza di me. Non riesco a capire quale sia il problema. Sento solo l’uomo alzare la voce, lo vedo strattonarla per un braccio, anche se nelle ombre dell’auto il polso della donna muove dei bracciali che suonano e rischiarano per qualche istante il buio dell’abitacolo. La donna che comincia ad infastidirsi, si scrolla il braccio avvinghiato dalla grossa mano dell’uomo, comincia a reagire con violenza. Alza la voce anche lei, un breve scambio di battute, ancora più secche e più tese. La donna apre di colpo lo sportello, l’uomo cerca di trattenerla, ma scende di furia e glielo sbatte in faccia. L’uomo rincagnito sputa una bestemmia nel vuoto. Si ricompone, mette subito in moto e scatta lontano, come un lampo secco di temporale.
La donna è rimasta da sola, a pochi metri da me. Non mi guarda, ma si osserva le scarpe e intanto con le mani si aggiusta la giacca scomposta. Adesso sembra appena più tranquilla, come se disintossicata, dalla sua ultima espressione nella macchina, quando mi ero appena girato dopo la difficile citofonata con Elvira. Si ricompone appena la gonna e la giacca, i capelli e poi mi si fa più vicina. La guardo con imbarazzo, attendo che mi dica qualcosa. Io non so davvero che cosa dirle, e mi chiama di nuovo con il mio nome, e mi chiede di portarla con noi, che adesso è rimasta a piedi, e io la trovo una cosa ancora normalissima, una cosa che comprenderebbe anche mia sorella Elvira, e senza troppe inutili giustificazioni. Così la donna senza nome mi rimane passo passo accanto, come un’ombra che segue ogni mio spostamento e senza parlarmi. Il tragitto verso il garage è brevissimo. Lo apro con uno scatto del telecomando, che porto sempre con me, insieme al mazzo di chiavi, la porta scorrevole di sinistra si prende il suo tempo automatico. Entriamo dentro il garage. Raggiungo in fretta la mia auto ancora nuova. La donna rallenta, perché i pilastri le sporcano la giacca, nell’ultimo tratto del corridoio delle auto. Entro in macchina e cerco di mettere un po’ d’ordine; accendo la luce nell’abitacolo, comincio ad aprirle lo sportello anteriore, dimenticandomi di mia sorella Elvira, e lei mi piomba dentro e da soli lo sguardo prende coraggio. La porta scorrevole prende a richiudersi, il mazzo di chiavi è ancora nella tasca posteriore. Non faccio in tempo a recuperarlo anche perché la donna mi ride addosso e si aggiusta la gonna con lentezza. Il tempo che la porta si chiuda del tutto e la luce vada via di nuovo, murandoci, senza speranze.
Le sue risate adesso si mozzano. Nel buio la sento farsi più vicina, ancora di più. Il suo odore, l’odore della sua paura del buio o di quello che rappresenti io dentro quel buio, in quel momento così strano, anche se conosce il mio nome, potrei essere un qualsiasi estraneo pericoloso come sono pericolosi tutti gli estranei o tutti quelli che si accostano a noi per la prima volta al mondo. E allora cerco di rimanerle vicino, e di farle coraggio e intanto mi si avvinghia addosso e sento che le sue mani cercano un approdo, forse hanno freddo e mi stringono e allora la guardo ancora meglio. Dico che vado a cercare la chiave per l’apertura manuale delle porte. Mi tocca accendere i fari, ma non so se raggiungono l’angolo opposto del pilastro dove è sistemato l’arnese di sblocco per l’emergenza. Tento con gli abbaglianti e cerco di capire se riescono a farmi strada ma sono dislocati in un raggio ancora insufficiente. Mi servirebbe anche un accendino, ma mi dice che lei non fuma e che adesso le manca l’aria, e che la luce degli abbaglianti non le basta più. Mi chiede di cercare al più presto quell’arnese, altrimenti si mette a gridare e poi ha la paura dei gatti oltre a quella del buio. Mi chiede se lì dentro si rifugiano i gatti, e che il troppo buio la prende alla gola come quella sua voce così stanca sta prendendo alla gola me. Ma io le rispondo di no: che di gatti lì dentro non ne ho mai visti, anche se non sono così sicuro, ma mi conviene tenerla calma e cercare al più presto di uscire dal bunker-garage. La sento che mi stringe più forte, perché ha paura di rimanere lì dentro, perché teme che i morti si vogliano vendicare di quello che ha fatto, mi dice, e allora comincia a singhiozzare e io non capisco che cosa significano quelle strane cose che comincia a sviscerarmi, con un tono sommesso ma profondo, che mi ferma e non riesce a farmi uscire più dalla gabbia delle sue parole convulse. Le chiedo di spiegarmi meglio, ma non riesce a parlare. Le sento solo il respiro che si fa più pesante o è forse lo sforzo per articolare e allora rimango impiantato vicino a quell’ansia e me ne rapprendo fino a dentro le viscere, cercando di sentire oltre e quanto altro potesse esserci oltre quell’angoscia palpabile e così nera.
Gatti non ce ne sono in quel garage, ma non mi crede come forse io non credo a nulla di lei, tranne al mistero del suo odore e del suo corpo elegante e un po’ francese e malinconico, uguale allo stile del suo viso. Forse avverte dei rumori impercettibili, che io non riesco neppure a cogliere,e vuole dirmi qualcosa, a fatica. Ma così al buio anche le parole perdono orientamento,anche se acquistano peso, che forse avrebbero bisogno di uno spiraglio anche minimo per partire; e intanto sento una sua gamba che mi sfiora e poi il silenzio, che la capsula dell’auto protegge e amplifica, ancora più grande di quello riverberante del garage. Le porte bloccate: saranno quelle la causa del suo affanno, forse la claustrofobia; ma non riesco a chiederle niente. Non farei altro che agitarla, e adesso quella donna mi inquieta ancora di più, perché mi spinge con la gamba e forse non se ne accorge, e intanto mi ritornano a raffica dentro la testa Elvira e mia madre, che sembrano così lontane e sconosciute alla mia vita sospesa di quel momento; soprattutto mia madre, che dimenticavo a intermittenze così rapide. Adesso avverto l’odore di quella donna ancora senza nome, ma era colpa mia che non glielo avevo ancora chiesto, e poi conosceva il mio nome. Ottavio, lo ricordo bene, così mi aveva chiamato, con il tono riposato e cordiale di una che mi conosce bene, forse una compagna di classe, una che ricordava ancora il mio nome lontano, sfigurata o trasformata dal tempo. Eppure stare al buio con quel contatto così silente e invasivo, quanto elegante, mi fa sentire al mio posto, in un posto così misterioso e mai occupato, che avrei quasi preferito che non si modificasse niente di quella strana variante serale, e che il tempo continuasse sospeso e indisturbato a scorrerci addosso e che le sue ginocchia mi parlassero, semmai di dove fosse finita mia madre o la mia vita e in quell’ora così strana del sabato, o della voglia improvvisa di un bacio, da scivolarle sui capelli che le nascondono il viso mischiati al buio del garage, che me la ricordavo piuttosto ordinata, da come la ricordavo alla luce intendo. Come una che forse stavo cercando da sempre, ma che adesso riprende a parlarmi, a fatica; forse perché ha ripreso il fiato giusto e allora i miei pensieri ritornano al loro posto come cadetti, nel forziere oscuro della mia coscienza, quando un richiamo mi risveglia dal sogno di quel reale.
Mi dice che sta un po’ meglio e che adesso vuole parlarmi di qualcosa di importante e che devo ascoltarla senza interromperla, altrimenti non ci riesce. A quel punto mi concentro, le chiedo se ha bisogno di luce, ma lei preferisce così, come a volte alcune donne con l’amore…, e allora la sento più vicina ancora. Più della sua gamba sul ginocchio di poco prima, mentre mi parla di una situazione oscura che all’inizio non riesco a comprendere. Le sue parole sembrano sfuggirmi, dovrei chiederle di ripetere ancora, ma sono troppo preso dallo sviluppo, è come se il punto importante debba ancora arrivare e non devo a tutti i costi distrarmi, quando mi parla di quella stessa sera, in effetti di poco prima che io li avessi visti nella macchina, e mi dice forse di qualche ora prima, forse meno di due ore, – altrimenti sarebbe stato pomeriggio – e mi parla di una donna che si spogliava, in una traversa di via Cervantes. Una donna che si toglieva gli abiti di dosso, davanti a tutti, senza ritegno e pudore. Si alzava la gonna e si toglieva le mutande nere, le aveva viste bene e scopriva anche la pancia e poi si metteva a sedere sul marciapiede e nella stessa inquietudine continuava a togliersi tutto quello che poteva, con uno sguardo smarrito nel vuoto. Se avesse potuto, mi diceva, quella strana signora si sarebbe strappata anche la carne, perché in quei gesti c’era come un’insofferenza profonda, come di oppressione per qualsiasi cosa di proprio costituisse una sensazione viva di contatto. E allora ogni tessuto andava allontanato d’urgenza, quasi a strapparlo, sembrava una donna perduta nelle sue stesse fiamme. Rimango raggelato, me la vedo davanti, come me l’ha descritta, e penso a via Cervantes, alle diramazioni e ai percorsi possibili di quell’ora. Se potesse essere passata proprio mia madre di lì, dentro un sabato qualsiasi di autunno come era quello e poi impazzire, così all’improvviso; e poi ricollegare il fatto che quella donna conoscesse il mio nome, forse l’attinenza con un indizio e lo svelarsi di un segreto terribile, quanto quella sua bellezza purissima e opprimente, che continuava a insidiarmi nelle ombre. Le sue parole mi frenano di nuovo il flusso e allora cerco di capire e lei continuando mi dice che si trovavano di passaggio, con lo stesso uomo di prima, quello che era alla guida di quella stessa macchina, quello stesso uomo sinistro che io non capivo e che non capiva nemmeno lui me, molto probabilmente. Con la loro stessa auto, che avevo visto anche io e nella quale anche io ero entrato per qualche minuto, rallentavano e accostavano. C’era spazio in quella piccola traversa che imbucavano, e rimasero a guardarla, quella donna che apriva le gambe e scivolava le sue mutande oltre le ginocchia e si alzava i capelli, che erano curati. Insisteva col dirmi che sembravano freschi di parrucchiere, di una persona distinta, che adesso faceva allontanare tutti i passanti e creava solo il vuoto e lo spavento intorno a sé, e non il desiderio di un corpo. Quel tipo di svestimento disturbante, era afflitto solo dallo spavento, non c’era altro. Mi diceva che vestiva davvero bene, e anche il cappotto che era spalancato sul marciapiede era un cappotto molto buono, di una signora importante o per bene, che certe cose forse non le avrà mai fatte prima nella sua vita; e anche le scarpe erano alte e io volevo chiederle di che colore fossero quelle scarpe alte, perché anche mia madre portava delle scarpe alte quando usciva ed era una persona molto elegante; e anche il suo cappotto, ma non trovavo il modo di interromperla né la forza di parlarle. Si ferma. La sento fredda nel buio, spaventata. Forse deve ricaricarsi o si è già pentita o ha sentito un rumore. Mi chiede la mano, e la sento tremare forte, come non ho mai sentito tremare nessuno così in tutta la mia vita. Allora gliela stringo più forte, cercando di calmarla; ma è molto difficile essere più forti di un tremore così preciso e ghiacciato, da far tremare e indebolire anche la mia mano, e allora il suo racconto continuava, riprendendo quota, e io cercavo di stare calmo ma non ci riuscivo, e poi pensavo anche a Elvira: chissà se stava ancora ad aspettarmi, ma senza luce avrebbe capito che ero rimasto chiuso lì dentro, e forse era già risalita, a chiedere aiuto o a controllare i bambini dalla vicina, in attesa che la luce ritornasse. Ma in quel momento io non avrei mai voluto che la luce ritornasse. Mi intrappolava l’odore amaro di quel racconto e quello del suo corpo, che prendeva sempre più calore dal mio e me lo toglieva, e che adesso mi era ancora più vicino. Le sento la tempia scivolarmi addosso, e coricarsi verso il mio fianco. Stiamo scomodi, ma riesce a continuare meglio da distesa e adesso le sue orecchie sono vicine alla mia pancia e avvertono meglio il mio respiro, che cambiava a tempo con l’affilarsi delle sue piccole frasi spezzate, come coltelli, quando mi diceva dell’idea che era venuta al suo strano autista, quando la guardò negli occhi e le disse di controllare che non ci fosse nessuno a guardare, mentre se la sarebbe caricata dietro, prendendosela in braccio. “Non sapevo cosa fare, di solito decideva sempre tutto lui e allora, in un momento che non passava nessuno, ero scesa a fare da palo, come mi aveva detto di fare, mentre quello se la prendeva di peso, quella povera matta, e se la caricava in macchina, quasi nuda, sui sediolini posteriori. E io allora, le avevo preso il cappotto che era rimasto disteso e anche una scarpa e piombavo spaventata in avanti, e cominciava a correre forte, e quello stupido che rideva e spingeva sull’acceleratore, e io che non capivo cosa ci fosse di così divertente e dove diavolo stesse mai andando; e poi mi giravo a guardarla, quando quella donna sembrava rapita dal passaggio rapido delle prime luci cittadine dai finestrini e allora sembrava più calma. Aveva la pancia e la schiena ancora scoperte e messa tutta di fianco le si vedeva mezza natica con dei lividi e tutta sporca. La borsa gliela aveva presa lui, forse era convinto che una fuori di testa non è detto che fosse necessariamente una poveraccia e allora cominciavo a capire che voleva ricavarci qualcosa in qualche modo da quell’accidente così triste e io non potevo crederci che potesse arrivare a tanto e mi aveva già scagliato la borsa con l’altra mano sulle ginocchia” adesso riprendendo ad affannare, “e poi mi diceva di controllare che cosa ci fosse e se avesse i documenti, e intanto imbucava una strada secondaria e meno trafficata e molto isolata, una strada che mi metteva paura, come il suo viso, quello perduto della donna che aveva portato in auto, come tutta la situazione. Forse voleva raggiungere qualche luogo nascosto, che non conoscevo nemmeno io e intanto, mentre frugavo nella borsa, la tenevo di profilo. Era ancora scompigliata, ma aveva un gran bel viso e così umano, e allora davvero mi dispiaceva, perché sembrava una persona così per bene e speravo che non avesse mai ricordato il male che le stavamo facendo a portarla via; e in quel momento che sembrava non finire mai io non riuscivo più a frenarlo, e non capivo più le sue intenzioni e nemmeno quello che mi diceva. Intenzioni che forse nemmeno aveva, non riuscivo nemmeno a capire che cosa gli fosse scattato, se era solo per la borsa o per qualcosa di più oscuro e inscrutabile, qualcosa che non avrei mai saputo. Adesso avevo le mani affondate nella borsa e gli occhi sui suoi capelli e poi sul suo naso: un naso così nobile e gli occhi ancora così sperduti e serali, e con quell’unica scarpa ancora al piede la sentivo una donna disperatamente sola, forse sola quanto me. Ma forse non povera, diceva lui, e sorrideva forte e mi guardava, gustandosi in pieno la chiazza lorda del mio spavento. Le avevo preso il documento, era in una piccola custodia arancione di plastica, sfuso nella borsa, insieme alle chiavi. Ma fu in quel momento esatto che l’auto sbandava, per fortuna quel brutto diavolo riuscì a recuperare con una sterzata. Io avevo la cintura, come l’aveva lui, ma quella poveraccia dietro stava tutta storta, senza nessuna cintura, e così sbatté la testa nel vetro, senza romperlo ma così forte da perdere il sangue dal naso e da farsi come nera nera sotto gli occhi e fino alla bocca. Aveva cambiato viso. Ci guardammo spaventati, in quel punto non potevamo nemmeno accostare per vedere che cosa le fosse successo dopo il colpo, e allora lui continuava a correre, ancora di più, forse in cerca di una zona più isolata. Quell’orario era già trafficato, sarebbe stato meglio abbandonarla, morta o viva, mi gridava; io intanto la chiamavo, per capire se mi sentiva, ma aveva gli occhi aperti e più tranquilli, come quelli di una cerva. Ma era fredda, ancora così fredda, quasi come me e il documento mi scivolò nell’auto. In quel momento non pensai più a nulla, alla borsa, a quanti soldi avesse avuto dentro, ma mi girai tutta per sentirle il respiro da qualche parte del corpo, perché si respira un po’ dovunque, uno vivo anche se svenuto dovrebbe in qualche modo pompare, ma invece quella signora non pompava se non quel nero di morte sotto gli occhi, che le dislagava come il trucco sciolto e lui mi diceva che era una matta, e che quella è la fine che fanno tutti i matti prima o poi, e che non era colpa di nessuno, e che aveva trovato una radura nei pressi della strada senza uscita delle tre croci, dove accostò.
Scese, tirò una boccata folta di fiato stirandosi al massimo le due braccia verso la schiena. Poi aprì con calma lo sportello, dopo essersi guardato intorno per accertarsi che non vi fosse nessuno in giro. Così la controllò, con una certa competenza, la stessa che avrebbe potuto riservare a qualsiasi estraneo o creatura animale in difficoltà incontrata durante un qualsiasi tratto di strada. Lo vedevo molto sicuro, e come se avesse avuto già a che fare con quelle situazioni, e allora io guardavo a tratti alternati il suo viso e quello della donna, che si faceva scuro come se abitato da un ragno. Speravo di essermi sbagliata, che fosse solo una mia impressione e un gioco della luce, e invece quell’uomo mi fece segno con la testa che era andata. Il colpo era stato molto forte, molto più forte e preciso dei colpi forti e possibilmente volontari che si possono infierire a qualcuno con intenzioni sinistre. Così forte che ancora me lo sento dentro e io non avevo il coraggio nemmeno di muovermi, che era già buio, quando l’uomo se la prese di peso e la scaraventò in un dirupo profondo e oscuro, forse una mezza discarica abusiva, lasciandola ingoiare dalle ortiche e dai rovi, dove non l’avrebbero trovata per giorni, forse per mesi, perché lì era davvero molto profondo e non ci sarebbe arrivato mai nessuno. La borsa rovesciata, vicino a una sua scarpa e allora lui prese quello che c’era da prendere, una quarantina di euro in tutto, e buttò via il resto delle poche cose, comprese le chiavi. Risalì in auto e scattò via, una molla di fuoco, ritornando verso il centro, appena più sereno. Mi chiese di passargli l’accendino e si mise a fumare con una mano sola e soffiava molto forte il fumo dalla bocca, lo spingeva con un brutto suono di drago. L’altra scarpa della donna, quella che era rimasta in auto, mi disse di buttarla in un cassonetto, che nessuno avrebbe ricollegato. Poi accese la radio”.
Riprende fiato e si allontana da me con la testa. “Perché, perché eravate tornati proprio davanti al mio cancello?”, e mi disse che di solito il sabato si appartavano dove capitava e che avevano deciso di prendere fiato e di rilassarsi e cercare di farsene una ragione parlando, “ma io ero agitata e non volevo restare a parlare; poi sei passato tu e ti ho sentito chiamare dal balcone, forse tua sorella, io ho capito che cercava te, ma tu eri un po’ stordito e allora non capivi, ecco, e poi il resto tu lo sai”.
Rimaniamo in silenzio, raggelati e sfiniti. Il garage immerso nell’oscurità. “Il documento, per favore. Devo vedere il documento”. La donna non si muove, rimane ferma, impassibile. “Non ce l’ho più, il documento. Mi è caduto a terra nella macchina quando quel pazzo ha sbandato, e poi non l’ho nemmeno aperto”.
Non riesco più a muovermi. Intanto la curiosità si fa così grande, o forse avremmo potuto lasciare tutto nel vuoto, nel vuoto di quel momento, e lasciare nella nebbia anche quell’identità, come in fondo era la nostra. In attesa che avessero ritrovato mia madre o che fosse ritornata lei da sola, che in quel caso lì sarebbe stato tutto molto più semplice. Ma i miei dubbi erano sempre più laceranti. In quel momento avrei dovuto sbloccare soltanto la porta e raggiungere Elvira, e chiederle se avesse avuto qualche notizia e allora la lascio nell’auto. Scosta ancora la testa e una volta che io esco, riprende a fatica la stessa posizione. Vagando tra i pilastri, senza riuscire ad orientarmi. Chiedo alla donna di accendermi i fari, che avevo spento quando mi parlava, almeno per orientarmi. Ma lei non mi risponde e allora mi avvicino all’auto. Mi corico verso i comandi e la sfioro, e solo in quel momento ritorna la luce…
In un colpo la donna si ricompone. Io afferro il telecomando e apro la porta automatica. Metto in moto e scatto fuori, e in quel momento vedo Elvira e mia madre che mi vengono incontro, con lo stesso sorriso stampato nel volto. Mia madre che sembra rimproverarci, ma che pare così felice di tutta quell’ansia così grassa e imbastita solo per lei, e che le lascia un gran calco sulla bocca che ride. E poi ci dice che quella era la serata del suo poker e che noi avremmo dovuto ricordarlo, il terzo sabato del mese. E che per fortuna quel gentiluomo dell’avvocato Tassoni, sempre così gentile e premuroso, l’aveva appena riaccompagnata, che era tutto buio anche lì da loro al corso Nelson. Gli occhi di mia madre si posano sul viso sperduto di quella donna, che mi sta ancora vicino e che si sente esclusa e smarrita dalla nostra gioia domestica, e che in un baleno mi saluta, con un bacio sfuggente e si precipita fuori dal cortile, verso la strada. Le grido qualcosa, mi dice che avrebbe preso un taxi, ormai è più lontana e si muove così in fretta, senza voltarsi, quando gli occhi di Elvira e di mia madre mi guardano perplessi, quando ormai la donna è svanita. Mia madre decide di andare a salutare i nipoti, e allora si allontana piano con Elvira. Prima di avviarsi sopra mi chiedono chi fosse quella persona che non avevano mai visto. Io dico una compagna di classe, perché non so che dire e una compagna di classe è una cosa ancora molto tenera e rassicurante da dire, e di una certa nostalgia ancora così ben riuscita e funzionante a quell’ora; e specialmente in una sera come quella e a quell’ora di quel sabato così spiritico, quando ci eravamo ritrovati tutti a dispetto di tutto il resto, e subito dopo il maglio irreale di quell’inferno vivo e così privato, che non avrebbero mai saputo. Intanto chiamo un attimo Elvira e le chiedo se dal balcone quella sera mi avesse chiamato davvero per nome, ma lei nega: quella sera non si era affacciata. Ci siamo parlati solo al citofono, mi dice con sicurezza, che stava cenando e che aveva già abbassato le tapparelle da un pezzo. Le lascio andare vicine e spengo il motore. Poi lo riaccendo e chiudo gli occhi. Nell’auto ancora il suo odore speziato, bellissimo a quell’ora già troppo notturna, quando sono mosso dal desiderio di raggiungerla e di svelarci quell’identità oscura per entrambi, che nonostante il sollievo adesso mi logorava ancora di più.

* * *

Vagai per diverse ore, e non solo quella sera, ma non la rincontrai mai più e nemmeno seppi mai se fosse stata ritrovata una donna in qualche macchia di erbacce selvatiche e di rovi, e nemmeno se qualche scarpa da donna alta e di una per bene fosse sbucata appena sformata da un cassonetto. Non seppi più nulla, perché forse era davvero fatto di nulla quello che quella sera mi era accaduto. Come tutto quello che avviene solo agli altri e che non ci tocca mai direttamente, che non ha a che fare con le nostre relazioni, con i nostri affari di cuore o di morte e con i nomi di persona; con la sfera eletta dei nostri consanguinei o con quella dei nostri piccoli clan solitari e borghesi, e con tutti i piccoli tasselli ordinati della nostra vita e forse con l’ apagoge di quel sabato sera e notturno. Eppure quella donna doveva avere una grande fantasia, o una grande indimenticabile maledizione nell’animo che un po’ mi contagiò e che mi è rimasta ancora dentro anche se mi rassegnai in qualche modo a dimenticarla, come una compagna di classe in controluce, dopo tanto tempo, e pensando così che non fosse avvenuto nulla di tutto quel racconto al buio, e che ne era rimasto solo il suo debole fantasma, soltanto dentro di noi. Quando un giorno di non molto tempo dopo, mi trovavo al solito autolavaggio, e un ragazzo biondo e quasi straniero del personale, scrollandomi il tappetino dal lato passeggero, mi fa cenno con la voce e muove il braccio con un gesto ampio nella mia direzione. Mi giro, e intanto noto che ha qualcosa in mano, un qualcosa di un arancione acceso.
“Che fa, viene lei o glielo porto io?”.
“Ma che cos’è?”

fine

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Luigi Salerno è nato a Napoli nel ’67, e lì risiede attualmente. Specializzato in alta formazione musicale, con tesi per il secondo livello specialistico, sulla musica classica nel cinema (La musica colta nel fotogramma) conseguita con il massimo dei voti al Conservatorio di Napoli S. Pietro a Majella. Ha ottenuto diverse segnalazioni e premi (Premio W. Ciapetti 2007, 15 TH International Gypsy Friend Arts Competition 2008. Categoria Short Story Racconto Il sole negli occhi.)
Con la Scuola Holden è stato tra i finalisti del Concorso nazionale autori italiani e stranieri “Terre di Mezzo”, 2008. Il suo racconto “il telegramma”, è stato pubblicato da “Terre di Mezzo”. Ha ottenuto il Diploma d’onore al “16 TH International Gypsy Friend Arts Competition 2008”, nella categoria “Short Story” con il racconto “La sassata”.

Con il racconto che abbiamo pubblicato qui su Musicaos.it Luigi Salerno è stato finalista al Concorso OXP 2009, organizzato dalla Casa Editrice legata all’Istituto Universitario l’Orientale di Napoli (2009).

Di recente si è classificato al secondo posto alla II Edizione del Concorso “Festival Libriamo 2009” a Vicenza (continuazione ideale “Sillabari” di G. Parise) con il racconto “La canzone” pubblicato con “La Serenissima”; è stato finalista alla III Edizione di “Libriamo 2010 Vicenza”, dedicata allo scrittore Giovanni Comisso, con il racconto “Fuga dal Medrano”, di prossima pubblicazione.

Ha collaborato con Terra Nullius: “Bottoni”; “On the phone”. Il suo romanzo dal titolo “Il disabitato” è di prossima pubblicazione. Per il teatro ha scritto “Meerschaum” (Atto unico); “L’interruzione di viaggio” ;“La stanza di Fritz”.

Luigi Salerno si occupa di un blog letterario: http://bookandshade.blogspot.com/.
Contatti: luisgroove@libero.it

(clicca qui il racconto in formato pdf “La compagna di classe” di Luigi Salerno)

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Racconti, recensioni, proposte, interventi, collaborazioni con Musicaos.it, le istruzioni sono qui http://www.musicaos.it

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Marco Montanaro. L’ultima Cola.


Marco Montanaro
L’ultima Cola

Abusai di un fondo di cola chiedendo infinitamente perdono alla Madonna del Mar Baltico e ai pescatori celtici del Cielo Unito.

Ofelia mi guardò con aria inspiegabile, poi le chiesi: ‘Vuoi leggere le mie poesie?’

‘No’

‘Come sarebbe a dire no? Perchè?’

‘Non mi interessa il gioco dell’Altro, le sue motivazioni, le tue arance rosse’.

Così capii: ognuno è re nella propria solitudine. Tutti diversi, per tornare ad essere uguali, in un viottolo campano.

Avanzai allora a grandi passi verso la Grande Milonga, ma le tribù del Cielo Unito mi furono ancora una volta avverse, e ancora una volta fecero la danza del Bancomat per invocare Atahualpa (ancora lui!), affinchè mi sconfiggesse per sempre.

Sarò sincero, mentre finisco questa maledetta cola: anch’io sono stato Atahualpa, anzi no, non sono stato capace di esserlo fino in fondo. Atahualpa è colui che interviene dopo che hai fatto un bel lavoro, che c’hai messo tutta l’anima, lui arriva e ti porta via il fiore più bello, l’alba più profumata, il cielo più musicale che tu abbia mai visto.

A volte ho rubato, ma l’ho fatto per fame, e il vero Atahualpa non si sarebbe fatto derubare a sua volta come un pollo, come invece è accaduto a me.

Sulla strada le linee bianche si inseguivano come fossero vere. Una canzone nera dalle chiare allusioni sessuali mi smuoveva verso la prateria, e il sole verso il mare. Atuhalpa provava già a mordermi, lurido scorpione senza passato.

Mi fermai sul ciglio della strada, dove c’era una bella anziana donna grassa senza muscoli, un tabacchino alle sue spalle; ero in una provincia del Nord-Sud, dove il telefonino faceva corto circuito con le lumache alla panna. Mi feci coccolare senza accorgermi di essere ancora fertile, fumai due sigarette contemporaneamente e passai intere giornate a caricare pile e batterie d’ogni sorta. Ormai Atahualpa era nell’aria.

In fondo, sapevo benissimo che di aria, prima ancora che di carne e microchip, era fatto il demone: chiesi aiuto a Dio, ma mi inviò il Diavolo, e chiarii subito che non si combatte un demone con un altro demone.

Atuahualpa mi fece suo con estrema cautela. Dalle gambe di Ofelia pendeva qualcosa. Alcune trombe suonavano una marcia funebre, il locale della bella anziana donna grassa senza muscoli invecchiò in un attimo, c’era vento di duello, e cominciò a piovere e a piangere, e a tintinnare e a morire, qualcosa nel mio cuore di povero cane senza ipofisi, e qualcos’altro di tragico mi riempiva lo stomaco di fiori spagnoli e sangue musulmano.

‘La fine è quella che avevi programmato’, disse lui.

‘Sei banale come un oroscopo, Atuahalpa’, gli risposi.

‘E’ colpa della solennità, sei tu che mi hai sognato così. La solennità è solo…banale’.

‘Vuoi togliermi anche il gusto della solennità? Mi hai tolto già tutto…’.

‘Forse no… Guarda…’.

Indicò tra le canne e il campo di grano adiacenti al locale della bella anziana donna grassa senza muscoli. Il cielo era celeste chiaro, quasi a non volermi dare la soddisfazione cromatica di diventar grigio.

In mezzo c’era Ofelia, coi vestiti quasi del tutto strappati, sporca, ferita, era mora e bionda, e mi amava per l’ultima volta, lo capivo dalle lacrime di sangue. L’amore più intenso cui il mondo potesse assistere. I miei amici nel Paese delle Onoranze, nel Posto delle Vongole e nel Vecchio Borgo delle Banche, si erano tutti fermati per un istante, come se avessero sentito che stava per accadere qualcosa. Poi ripresero a lavorare.

‘Prendila, se ne hai le forze, ancora…’, urlò Atahualpa.

Alla bella anziana donna grassa senza muscoli, quell’urlo fece prendere un colpo, si accasciò ed esalò l’ultimo respiro di sale e miele. Piansi, ma non potevo fermarmi.

‘Se la prendo, ci bruceremo… Vero? Moriremo entrambi…’

Atahualpa rimase in silenzio. Poi aprì le braccia, e disse: ‘Puoi vivere, se vuoi… Devi scegliere…’

‘Cosa ci guadagni se io e Ofelia bruciamo?’

‘Un’altra risata, mio piccolo eroe…’

Rimasi fermo per alcuni istanti. Solo il mio cervello decise di ghiacciarsi, e lo stomaco di tremare come una foglia orfana, e una mano decise di sporcarsi. Per sempre.

Strappai il cuore di Atahualpa con le mie mani: pesava tonnellate, perchè era pieno di tutto l’amore degli esseri umani, e dovetti imprecare parecchie divinità interstellari prima di riuscire nel mio intento.

Ofelia urlò, perchè in fondo conosceva bene la storia, come tutte le donne. Avevo espresso la mia condanna a morte, per me e per Atahualpa. Questo è il prezzo quando si uccide una divinità.

Il cuore era pieno di fiori, spine, trombe, bombe, melodie cangianti, e accordi minori e maggiori si alternavano senza senso, provocando orgasmi per le mie orecchie, così incomprensibili che la mia carne cominciava a strapparsi, fondendosi con la pelle di Atahualpa, che era fatta di zucchero e inchiostro nero.

Ofelia gridava ancora e correva verso di me, piangendo come una bambina, mentre il sangue e le ferite svanivano dal suo corpo. I suoi capelli tornavano ad essere splendenti, gialli come il sole all’estremo opposto del mondo in cui eravamo, la sua pelle liscia e candida come quando l’avevo conosciuta, le sue mani e i suoi piedi delicati come quelli di una bimba.

Io e Atahualpa giacevamo in un guano immenso e marrone, che bolliva sotto i raggi del sole, che intanto stavano a poco a poco sconfiggendo il cielo celeste chiaro. Il vento si stava fermando, la bella anziana donna grassa senza muscoli veniva seppellita da alcune scimmie festanti in frac e tuba, e il suo locale fu affittato da una troupe di Hollywood per realizzare un film sulla mia storia.

Io e Atahualpa eravamo ormai un’unica melma, anche il mio volto si scioglieva completamente tra le mani di Ofelia, mentre lei urlava qualcosa al cielo, frasi che gli sceneggiatori del film avrebbero poi sicuramente cambiato.

Intorno, intanto, era tornato il buonumore, gelsomini fiorivano ovunque, e le scimmie improvvisavano un Habanera con le donne del luogo.

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Marco Montanaro, autore dell’esordio “Sono un ragazzo fortunato” (Lupo Editore/Coolibrì) è presente nell’antologia di racconti a tema intitolata Clandestina (Effequ Editore). Clandestina, curata da Federico Di Vita ed Enrico Piscitelli raccoglie il “meglio dell’underground italiano”, quindi, il fatto che un racconto di Montanaro sia compreso in suddetta antologia fa di lui un autore dell’underground italiano tra i più interessanti. Malesangue è il suo blog.

“L’ultima Cola”, di Marco Montanaro, è stato pubblicato su Musicaos.it – Anno 3 – Numero 23 – Ottobre/Novembre 2006

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Luciano Pagano. Aurora.


Luciano Pagano
Aurora
quella merdosa estate del duemila5

La prima scena è cruda, altrimenti il lettore crede di avere a che fare con uno di quei soliti romanzi o racconti ambientati ai giorni nostri, dove un giovane riesce a trovare lavoro tra mille peripezie, sollevandosi da una situazione di stallo nella quale si è avvitato dopo mesi insopportabili di inerzia. Quindi l’inizio della storia presenta un certo impatto difficile da sostenere per chi non abbia mai vissuto quel senso di scoramento impossibile che prende nei paraggi del compimento dei trentanni esatti, ovvero l’estate del duemila5. Il ragazzo e la ragazza sono in macchina, una sera come le altre. D’estate lei si trasferisce nella casa dei suoi, lui fa avanti e indietro in macchina da solo per andarla a trovare, circa ottanta chilometri al giorno, lei fa la segretaria mentre lui, invece, è disoccupato dalla metà di maggio, dopo circa un mese e mezzo ha dato fondo al suo libretto postale e adesso, lui e lei, sono alle soglie del lumicino con il conto di lei. Una situazione abbastanza tesa che nonostante le vacanze li vede sempre sul chi va là, su come spendere oppure “non” spendere, andare oppure “non” andare a cenare da qualche parte perché magari con quei soldi mettono benzina per altri due o tre giorni, così tu fai avanti e indietro con la macchina e tiriamo fino a settembre che magari qualcosa nel frattempo si trova. Ma adesso non lo sanno. Ne hanno un sentore, forse qualcosa può accadere di lì ad una settimana, forse qualche genio sta apparecchiando una soluzione a questa piccola disperazione meridiana, se così sarà non sono certo lui e lei a saperlo, adesso.
Nel pomeriggio, mentre lei si faceva la doccia e si preparava, lui era rimasto in giardino a leggere e prendere appunti su la “Versione di barney”, questo episodio è prologo a quanto accadrà la sera, quindi, per quanto possa sembrare stupido, va raccontato in ogni particolare, il lettore dovrà essere bravo a capire che cosa può accadere nella mente di un ragazzo che adora leggere, quando dopo essere uscito da una doccia ritemprante trova svago momentaneo nella lettura di Richler, una delle poche cose buone accadute quest’estate. A casa di lei viene un’amica di sua madre per prendersi un caffè e fare una visita di quelle che si fanno quando non c’è niente da fare, parlano del più e del meno, parlano di lei davanti a lui che legge Richler e beve un caffè, dicono ma com’è che lei non porta la macchina, lui dice che lei ha la patente e può guidare quando vuole. Quando le racconterà quest’episodio per descrivere quell’amica della madre farà il possibile per riassumere in un’immagine la bassezza non solo morale della persona, utilizzerà un aggettivo, pigmea, non lo avesse mai fatto, il protagonista non può associare le fattezze fisiche di una persona a quelle morali, per quanto antipatica essa sia, non è corretto.
Adesso sono a cena, tutti insieme, sono quasi alla fine del pasto, berranno un amaro, lui e lei usciranno come ogni sera. Lei racconta del pomeriggio, del fatto che sarebbe giusto l’amica di sua madre si pigliasse i cazzi suoi, quella pigmea. Lui diventa rosso. S’incazza e tiene il muso. In macchina, e qui torniamo al punto di partenza, le fa una scenata, non hai ancora capito cosa dire e che cosa non dire delle cose che ci diciamo quando siamo da soli per i cazzi nostri, cazzo. Lei non vuole dirgli scusa, la rabbia di lui monta, tira un pugno contro il parabrezza, lo frantuma in una miriade di pezzi che restano incollati senza scomporsi in frantumi, come se qualcuno avesse esploso un proiettile dall’interno dell’abitacolo. Questo momento è il più difficile, è la goccia che potrebbe far traboccare il vaso, si tratta di un nanosecondo in cui si decidono le sorti del loro rapporto, litigano un giorno si un giorno no da due mesi, per via della loro situazione economica instabile, s’intende, e nonostante il precariato sono rimasti insieme, è facile abbandonarsi e lasciarsi andare a pessimismi quando tutto va male, loro sono riusciti a farcela, nel bene e nel male.
Devi concentrare in questo momento la tua bravura nel far capire a chi leggerà questa storia che sì, lei appena veduto il parabrezza incrinato è scoppiata in un pianto a dirotto, va bene, non è una questione di vita o di morte, domani stesso a quest’ora il parabrezza sarà aggiustato, ne monteremo uno nuovo, lo troverò da qualche parte, ma dove cazzo lo trooooovi, non vedi che sei un fallito, un fallito che distrugge ogni cosa che tocca? Hai rovinato tutto, mi hai rovinato la vita, io ti lascio. Devi mantenere la calma, lasciare che questa sera passi come tutte le altre sere. Non è successo nulla di grave. Devi riuscire a restartene zitto zitto. Tornate in voi. Lei smette di piangere, ti viene il pensiero che non puoi tornare a Lecce a dormire perché hai paura che qualcuno, vedendo il parabrezza già incrinato, possa pensare di finire il lavoro da te iniziato e con un pugno sfondare in via definitiva il vetro, dopodiché sarebbe un gioco da ragazzi entrare in macchina e andarsene, sei triste, non pensi a niente ad eccezione della tristezza. Ti avevano commissionato un sito per una ditta, poi non se n’è fatto nulla, dopo il briefing iniziale non se n’è fatto nulla e nessuno ti ha detto perché, hai finito i tuoi soldi e non sai quando e quanti ne avrai. Tornerai a dormire in paese, da tua madre. Tuo padre è fuori per qualche giorno, è andato al camposcuola estivo della parrocchia, ci va ogni anno. Quando ero piccolo ci andavi anche tu. Ad uno di quei campiscuola ti sei innamorato per la prima volta di quella che sarebbe diventata la tua prima ragazza. Non metti piede in chiesa dal millenovecento93, il presente sta velando i tuoi pensieri di piccole paranoie trascendentali, il tuo kantismo della percezione invece di ridurti in ateo irredento, piano piano, sta scavando un rivolo tra i tuoi neuroni. Va bene, quando entri in chiesa non ti fai il segno della croce e Questo Dovrebbe Essere Prova Sufficiente perché ti si possa classificare come sostenitore dei luoghi di culto alla stregua di musei. Hai smesso di andare in chiesa quando hai smesso di giocare a pallone, hai smesso di andare in chiesa quando hai cominciato a fumare, ti è venuta voglia di entrare in una chiesa, qualche mese fa, da quando hai cominciato a sentirti solo, forse ti è venuto in mente di cercare segni di appartenenza, ecco perché, ti interessa il senso di comunità, cominci a capire che cosa si nasconde dietro alla ripetizione estenuata degli stessi gesti, delle stesse parole, nel tempo. Un tuo amico è così aggiornato in materia…compra i libri di Ratzinger da prima che lo facessero Pontefice, tu invece leggi il Corano, una volta all’anno deve ogni credente. Ti vengono in mente le pagine svolazzanti del vangelo sulla bara di legno di Woityla. Quel mattino di aprila una buona parte di mondo era incollata al televisore, tu stavi bevendo un caffè durante una pausa dal lavoro. Avevano già deciso di “segarti” e tu prendevi più pause del solito, così pensavi, la versione definitiva che fornirà il giudice sarà invece questa: l’ammontare di lavoro di cui disponeva l’agenzia, per via del discredito nel quale era incorso il suo proprietario, era diminuita in modo drastico. I tuoi datori di lavoro (consiglieri di amministrazione, soci, amministratore delegato), ti hanno fatto firmare buste paga di stipendi che non hai ricevuto per cercare di fare la cresta al governo da chissà quale pertugio, ti hanno addirittura detto che ti avrebbero licenziato da un’azienda per assumerti in un’altra, una decina di giorni dopo la morte del Papa saresti andato con il commercialista all’ufficio di collocamento, per farti iscrivere nelle liste di mobilità. Una presa per il culo inaudita, non le liste, lettore, non saltare a conclusioni affrettate, la presa per il culo era rappresentata dal fatto che l’azienda godeva di ottima salute, questo era un periodo di semplice riposizionamento verso il basso, per pagare gli stipendi a tutti gli assunti bisognava fare in modo che il numero dei dipendenti diminuisse sempre di più nel tempo, tanto è vero, così sottolinea ancora oggi il tuo avvocato, che l’agenzia, malgrado non sia fallita, si regge su gli sforzi tenui di due impiegati, meglio per te, li hai lasciati un attimo prima di quanto loro avrebbero atteso per scaricarti. Sulla perfetta natura del mio tempismo non ho mai avuto dubbi.
“Fin qui tutto bene”. Non passi una notte nella tua vecchia casa da tre anni, anche qui devi essere bravo a mostrare come questo sia un momento altrettanto topico della tua caduta ad imbuto infinito (tendente a 8) verso il fallimento. Tua madre ti ha apparecchiato il letto richiudibile nel quale dormiva tua sorella quando vi eravate appena trasferiti qui, è un letto così vecchio che sulla testata in cartone pressato a mo’ di legno, colorato di bianco, sono disegnati “Rocky e Bullwinkle”, due personaggi di un cartone animato che soltanto i nati nei primi anni settanta possono ricordare, e con un certo sforzo. Non hai nemmeno i soldi per il giorno dopo, non sai come fare, tua madre non può farci nulla, sei disperato di una disperazione che può essere compresa soltanto a sud dell’emisfero boreale, in quella particolare zona del continente europeo chiamata penisola italica, nel dettaglio tra giovani che hanno una trentina d’anni d’età, con un range di quattro anni giù e al massimo quattro anni su. Lasci perdere il vecchio letto, troppo corto, sei abituato a prendere sonno con la televisione e con il condizionatore dell’aria accesi, dormirai nel letto matrimoniale dei tuoi, ti coricherai in mutande sul copriletto, un odore di tessuto sintetico intriso di polvere nell’aria, quando tuo padre non c’è tua madre non sale al piano di sopra. Fa tutto da sola al piano di sotto, dorme, cucina, va in bagno.
Il giorno dopo ti alzi e chiedi subito un piccolo prestito a tua madre che non può darti un soldo e che non è disposta a muovere un dito per aiutarti, non oggi, non adesso, è un guaio in cui hai deciso di ficcarti, forse ha capito che sei stato tu a mandare in frantumi il parabrezza e quindi devi sbrigartela da solo. La disoccupazione ti porta a vivere scene melodrammatiche, non hai mai chiesto i soldi per una dose, semplice, non ti sei mai fatto, al massimo hai chiesto i soldi per la benzina e per le sigarette, fino al millenovecento97, quando avevi ventidue anni, bastavano diecimilalire per tirare due giorni avanti, la cosa interessante è che tu nella tua breve vita non hai fatto “davvero” utilizzo di droghe pesanti, hai addirittura smesso di fumare tre mesi fa, fumavi dal primo anno di università, da più di dieci anni, e tre mesi fa hai smesso di fumare. Ma come hai smesso? Questa digressione può essere utile, prima di mostrare al lettore come sarai bravo a risolvere il problema del parabrezza fai vedere come hai smesso di fumare, è un po’ come dare dimostrazione della tua forza di volontà residua, nonostante la disoccupazione.

Digressione “smettere di fumare”

Un giorno stavi accompagnando lei a lavoro, facevate sempre la stessa strada, arrivati all’incrocio lei proseguiva a destra, verso il palazzo che ospita lo studio dove fa la segretaria, e tu a sinistra, diretto all’internet-point dove lasciavi i tuoi cinque euro quotidiani, scaricavi la tua posta elettronica, aggiornavi il sito, era luglio e ancora non avevi messo l’adsl. Tu sei un osservatore, ti piace fare la stessa strada ogni volta perché così impari a memoria i negozi, le facce dei commessi che alzano d’improvviso lo sguardo dal banco quando passi lì davanti, non ti salutano perché non sei mai entrato ad acquistare una bomboniera, oppure una cravatta, un paio di scarpe da tennis color verde fluorescente. Loro ti conoscono e tu li riconosci, senza nessuno scambio ulteriore. L’ultimo negozio all’angolo della strada è un negozio che vende cucine, il penultimo è un’erboristeria. Quando passi lì davanti sei colpito dal manifesto di una marca di sigarette alle erbe, non ne hai mai fumate, ad eccezione delle sigarette indiane, strette come una cinquanta euro arrotolata e tenuta insieme da un filo, si fumano di norma quando non ci sono più sigarette in giro per casa e allora ne peschi una da chissà quale cassetto, oramai puzza più di cassetto che di foglia indiana, la fumi perché non ti va di scendere e comperare un pacco di sigarette, non a quest’ora. Così ti è capitato, un giorno, di svegliarti presto per andare all’internet point, saranno state le otto, ti sei svegliato, hai bevuto il caffè, hai fatto la doccia, hai fatto mente locale su quel che dovevi fare, con una certa fretta perché non avevi sigarette e quindi volevi uscire e fumarti la prima sigaretta dopo il caffè, la prima sigaretta di un nuovo giorno. Ti eri licenziato da poco più di un mese quindi non sentivi ancora premere sui tuoi polmoni la cappa opprimente della mancanza di lavoro, alla quale sarebbe succeduta la cappa ancora più opprimente della mancanza di denaro, occorsa in un pomeriggio afoso di luglio, quando andasti al bancomat per prendere cinquanta euro e sullo schermo, implacabile, comparve questa scritta “disponibilità 38€”. Quel mattino uscisti di casa da solo, lei rimase in casa a studiare. Passasti davanti all’erborista. Vedesti per l’ennesima volta il manifesto pubblicitario delle sigarette alle erbe. Entrasti. Facesti una breve intervista all’erborista. Costo di un pacchetto? Cinque euro e cinquanta centesimi. Quantità delle sigarette contenute? Venti, come nei normali pacchetti di sigarette. Contenuto di ogni sigarette? Timo, salvia, maggiorana. Contenuto di tabacco nella sigaretta? Zero. Contenuto di nicotina nella sigaretta? Zero. Condensato? Zero virgola zero zero zero qualcosa. Funziona? Alcuni ci riescono, bisogna adottare un trattamento a scalare, facciamo finta che lei fumi un pacco di sigarette al giorno, allora lei comincia così, seguendo il programma giorno per giorno, su quest’opuscolo c’è il calendario, il primo giorno inizia con quindici sigarette di quelle che fuma di solito e cinque di queste (che da qui in poi chiamerò sigarette vegetali), e così dovrà proseguire per una settimana, mi raccomando, alla seconda settimana in ogni pacchetto ci metterà dieci sigarette vegetali, alla terza settimana il rapporto è invertito, quindici sigarette vegetali per pacchetto e cinque di quelle che fuma, la quantità di nicotina nel suo sangue comincerà a diminuire, il suo portafoglio non accuserà scossoni perché malgrado ogni pacchetto di queste sigarette costi più di cinque euro, lei comincerà a fumarne meno delle altre, se fa un calcolo rapido vede che le conviene, arriviamo infine all’ultima settimana dove lei arriverà a fumare solo sigarette vegetali. Ma ce chi riesce a smettere? In effetti ci sono alcuni che smettono di fumare sia le sigarette normali che quelle vegetali, oppure ci sono altri che arrivano a fumarne una ogni tanto, soltanto di quelle vegetali si intende. Sul banco dell’erborista c’è un pacco di Chesterfield, lui non è riuscito a smettere ed io non ho tempo per trattamenti a scalare, compro due pacchetti e lascio undici euro sul banco, da oggi e per dieci giorni l’erboristeria diverrà il mio pusher di timo e maggiorana. Il gusto di queste sigarette è pessimo, a guardarle sembrano sigarette come tutte le altre, magari bruciano più in fretta, l’odore che sprigionano è simile a quello di un cassonetto dell’immondizia dove sia stato gettato un sacchetto pieno di merda abbrustolita.

fine della digressione “smettere di fumare”

Nell’ultimo anno hai provato a smettere, senza farcela, per due volte. La prima è stata in gennaio duemila5, dopo l’entrata in vigore della legge che vieta di fumare sul posto di lavoro; dove lavoravi era permesso a chiunque di fumare qualunque cosa. Ci avete provato soltanto una volta a smettere, in modo sincronico, tutti quanti. L’ufficio era frequentato da troppe persone, tutte occupanti quello strato sociale indefinito e collocabile tra l’essere ricchissimo ed essere semplice arricchito, in città ce ne sono tanti, costituiscono la clientela ideale della nostra agenzia, sono quelli che, rispetto ai miei datori, ce l’hanno fatta. Lui ce l’ha fatta nell’ordine dei quattro/cinque zeri, loro nell’ordine dei sei zeri, questa piccola differenza di zeri, anche nei rapporti personali, si nota col fatto che quando questi entrano nell’agenzia tutti si calano le braghe, i datori per primi, accendono le sigarette una dopo l’altra, scambiando energiche strette di mano a chi entra e a chi esce, improvvisando pranzi di lavoro a base di tramezzini e negroni. Il secondo giorno dopo l’entrata in vigore della legge c’era questo comando, al massimo una sigaretta alla volta in ogni stanza. Dopo due giorni si era tornati al ritmo incessante di una sigaretta dopo l’altra moltiplicata per dieci persone alla volta. Nell’ultimo periodo le tre stanzette dell’ufficio erano occupate in media da sette nove persone, compresi gli stagisti dell’università, che credevano di essere venuti per crescere nel mondo delle agenzie di comunicazione ed in realtà espletavano il lavoro sporco, ci riuscivano così bene che dovevamo sempre controllare che non facessero errori, il problema era semplice, capivano poco. Meno male che sei scappato, meno male che hai smesso di fumare, meno male perché è la cosa che adesso ti fa stare meglio, anche di umore.
Senti che questa è la volta buona. Scrivere una storia dove uno dei protagonisti vuole smettere di fumare e ci riesce è galvanizzante, ti senti in sintonia con te stesso, e poi queste sigarette vegetali fanno davvero vomitare, sei come quelli che per smettere provano a fumare MS, poi si accorgono che c’è gente che fuma MS da una vita e sta benissimo. Il tuo dentista ti ha dato un ultimatum, non ti curerà più, la sua aiutante si rifiuterà di fissarti appuntamenti, sarai bandito “ad interim” dallo studio, sua figlia, che adesso si occupa delle tue cure periodiche, ha detto che se tu non fumassi la tua vita sarebbe meravigliosa, ci credi? Ma si, crediamoci. Il primo giorno di sigarette vegetali passa in fretta, ne fumi un pacchetto e mezzo, ti sembra di dare fuoco ad un ramo di sempreverde. Ad esempio. Entrate tu e lei in un negozio per acquistare un paio d’occhiali da sole, ti piacciono così tanto che getti la sigaretta a terra, date un’occhiata rapida in giro, la commessa si volta ad una sua amica lì dentro, mentre batte sulla tastiera “numero un paio d’occhiali con le lenti gialle” che poi frantumerai quest’estate sedendotici sopra perché non li hai visti appoggiati sul telo mare mentre esci dall’acqua e ti vai a sdraiare e “numero un paio d’infradito” destinati a diventare la tua calzatura estiva outdoor e la tua calzatura indoor per l’inverno, ecco che mentre ciò accade…la commessa si volta…c’è una puzza che viene da lì fuori…qualcuno deve “aver gettato qualcosa di bruciato nel cassonetto”. A Lecce quella dei cassonetti incendiati è una sindrome. Abbiamo paura che la nostra periferia venga scossa da una forma qualsiasi di anomalia, metti ad esempio un attentato; fa parte della nostra presunzione, la presunzione di una periferia che si crede così centrale da arrivare a presumere che qualcuno voglia destabilizzarne il sistema virtuoso. “O forse è soltanto che in televisione se ne vedono di tutti i colori.” Guardi la tua ragazza negli occhi, non ti va di dire alla commessa che l’odore è quello del fumo, crederebbero che prima di entrare stavi semplicemente fumando una canna.
Quando fumi una sigaretta vegetale e dopo, quando l’hai finita e la spegni o la lasci cadere, ti viene voglia di accenderne un’altra, all’istante. Dopo una settimana smetti di fumare anche quelle. Le occasioni della tua ghettizzazione si moltiplicano. Un sabato sera uscite per mangiare una pizza con una coppia di amici. C’è una pizzeria, una delle vostre preferite, dove in un ambiente a parte si può addirittura fumare, vi sedete lì perché i vostri amici fumano e a te non da fastidio, non vuoi diventare un integralista dell’antifumo, uno di quelli che rompono i coglioni per far smettere di fumare chi lo circonda, sarai un antifumatore moderato, uno di quelli che cerca comunque di convincere gli altri a smettere di fumare mediante l’accrescimento esasperato dei benefici che si traggono da una vita senza fumo, con un’ottima dose di esondante narcisismo, se l’unico uomo del pianeta che è riuscito a smettere di fumare, cazzo. Siete seduti, state per ordinare da mangiare, ti senti così carico che invece di ordinare la pizza suggerisci a tutti di provare le specialità brasiliane, e, tuo malgrado, convinci i tuoi amici e la tua ragazza. Sono passati nove giorni da quando hai smesso di avere nicotina in circolo nel tuo sangue. Ciò dovrebbe fare intendere anche al lettore più sprovveduto che la pazienza e la calma, quando uno smette di fumare, sono cose che se mancano si può anche soprassedere. Siete arrivati al termine della cena. Sarebbe il momento giusto per accendersi una sigaretta vegetale. La tua ragazza non ne può più, prima di andare a cena avete assistito ad uno spettacolo teatrale, un’opera messa in piedi da un tuo amico dopo anni e anni di duro lavoro, ripensamenti, creazioni e disfacimenti di gruppi dove i collanti sono l’arte, le canne, il vino cinque litri due euro e la promiscuità sessuale di corpi semimoribondi, semisdraiati, semidesideranti. Un’opera era degna del migliore teatro off-off-off, come direbbe il tuo amico Giovanni. Vorresti accenderti una sigaretta, soltanto che per fumare vuoi uscire fuori, sai che accenderti una sigaretta vegetale dentro un ristorante alle undici del sabato sera desterebbe preoccupazioni in tutti gli astanti, diventeresti rosso, dovresti giustificarti con quelli più vicini al tuo tavolo dicendo che no, non si tratta di una canna, è solo una sigaretta che aiuta a smettere di fumare in modo graduale i fumatori incalliti come me, se vuole le consiglio la marca. Magari seduta al tavolo di fianco c’è una coppia, marito e moglie, si stanno passando un “cigarillo”, magari quello intossicato sei tu. La tua ragazza sbotta, ha capito che è il momento buono, per farti scenate di questo genere aspetta sempre un momento in cui non siete soli, ne approfitta perché sa che a lei non riesci a giurare nulla, mentre quando dici qualcosa davanti ad altre persone mantieni sempre le promesse, non fosse altro che per il timore di essere ritenuto un debole. Ti dice che no, non esci e non ti accendi più nessuna di quelle sigarette, anzi, dammele, lo tengo io il pacchetto. Hai smesso anche con queste.
Passato quel dopo cena, cioè dopo dieci giorni esatti di sigarette vegetali, sei passato dalla fase nella quale “stavi smettendo di fumare” e sei entrato nel limbo di chi “ha appena smesso di fumare”. Non puoi crederci.
Nel frattempo i tuoi soldi sono finiti, sei povero e in apparente stato di salute. La tua salute deve continuare a migliorare, ti aspetta un futuro prossimo nel quale ingrasserai di una decina di chili, soltanto dopo un anno e mezzo ritornerai a dimagrire, avrai un lavoro decente che ti soddisferà ogni giorno, ma questo lo sa il lettore, lo sa adesso, lo apprende da ciò che scrivi, tu non lo sai, il tuo ottimismo deve fare sforzi incredibili, tutte le tue vitamine e tutto il dna contadino di tuo padre devono venirti in soccorso, devi tornare all’abitudine antica di vedere qualcosa che cresce piano piano finchè non sboccia in fiore profumato e poi in frutto. Ti sei tolto un vizio. Questo episodio è utile per darci ad intendere che tu sei una persona determinata, o meglio, leggendo come hai smesso di fumare dovremmo intendere che uno dei personaggi principali di questa narrazione è una persona determinata, confondere uno dei personaggi con te è uno degli indizi che vuoi dare al lettore, tramite quest’allusione fai trapelare che questa narrazione è autobiografica, o quanto meno peschi in abbondanza nei mari della tua quotidiana contemporaneità perché non disponi di argomenti migliori e scorrevoli per arrivare da un inizio incerto ad una fine in sospeso.

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È con questo spirito che hai affrontato questi mesi di crisi, fino a questo momento. Hai frantumato con un pugno il parabrezza della tua auto senza procurarti ferite o escoriazioni, l’anello che indossi al dito medio della mano destra, come uno spaccagrugno rudimentale ti ha salvato dal dover elucubrare una versione dei fatti congruente con il vetro del parabrezza incrinato e le nocche della tua mano destra tagliuzzate e sanguinolente. Ti alzi. Dici a tua madre di prestarti i soldi per il parabrezza, se vuole e se non vuole fanculo. Non ci sono soldi. Nessun aiuto. Devi fare da solo, se vuoi. Sali in macchina, ti ricordi che c’è uno sfasciacarrozzeeuroduemila sulla provinciale che esce dal tuo paese, lo conosci perché i tuoi gli hanno venduto il pezzo di terra che utilizza come deposito e parcheggio di auto e in attesa di essere accartocciate in cubi di cinquantacentimetri per lato.
Ti sembra di essere finito nel mezzo di una rappresentazione teatrale dove non recitano attori ma sfrigolii di scintille e lamiere segate, cataste di automobili, morti di varia ferraglia mentre attendo il tuo turno e rimani affascinato da due operai che stanno smontando una Fiat Uno, pezzo dopo pezzo, hai sempre saputo che per mettere assieme un’automobile si impiegano una miriade di componenti, ma quanti? Sono appena le otto di mattina e fa già un caldo insopportabile. Quanti? Quanti? Quanti ne vuole? Cadi. Quanti cosa? “‘Nnu ‘ssi ‘ttie c’ha chiestu lu cazzu de parabbrezza denanzi te la Panda? ‘Nde basta unu?” (Ma non è lei il cliente che richiesto la sostituzione di un parabrezza per il vetro anteriore di una Panda? Ne è sufficiente uno”. Va bene, eccolo qua, fanno venticinque euro, adesso viene il ragazzo e te lo da. A mezzogiorno ero da lei, la mia lei, a casa sua, con il parabrezza usato garantito, a mezzogiorno e un quarto ero con suo padre da un meccanico in paese, un carrozziere, all’una in punto la panda era parcheggiata sotto il sole cocente ed io ero a tavola insieme a lei, pranzavamo con il sorriso sulle labbra. In momenti come questi è più facile essere felici per la risoluzione di un problema che ci ha fatto dannare fino al secondo precedente piuttosto che essere felici del semplice fatto di esistere, ma chissenefrega di esistere, l’importante è che arrivi presto domani, che passi quest’estate merdosa e che torni l’autunno. Sono rose, fioriranno.

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“Aurora” è stato pubblicato su Musicaos.it – Anno 3 – Numero 23 – Ottobre/Novembre 2006

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In libreria. “Vizio di forma” di Thomas Pynchon. Primi giudizi e recensione express.


Cari Lettori di Musicaos.it,
come promesso qualche giorno fa ecco il booktrailer con i sottotitoli in italiano di “Vizio di forma” di Thomas Pynchon, appena approdato in libreria e accompagnato dai primi giudizi critici di merito. Approfittiamo per lanciare un article contest express, inviateci la vostra recensione di “Vizio di forma”, di Thomas Pynchon, per l’occasione pubblicheremo pynchonianamente la migliore, la peggiore e anche la più così così. Buona visione!

Thomas Pynchon a settantadue anni si è rotto le scatole della sua esoterica reclusione ed è sceso tra noi mortali per ricordarci quant’erano divertenti gli anni dei fricchettoni, dei surfer e dei detective strafatti. Grazie, maestro [Niccolò Ammaniti]

Una lezione di mimetismo letterario sorprendente, acrobatica e a tratti spassosa [Gianrico Carofiglio]

Divertente, schizzato, politicamente aggressivo. Con questo noir Pynchon manda al diavolo il galateo letterario e rievocando con nostalgico trasporto l’America di ieri mette al muro quella di oggi. [Giancarlo De Cataldo]

Eccovi le peripezie dell’investigatore privato Doc Sportello durante la sua missione quotidiana tra hippy e surfisti, diretta all’assunzione di sostanze proibite, all’abbordaggio di appetitose forme di vita in bikini, fino ad arrivare là, nel più colorato dei noir, dove nessun romanzo è mai giunto prima. [Tommaso Pincio]

La sua è una rabbia politica, tagliente. In un modo meraviglioso che ricorda quello degli adolescenti, lui continua a voler combattere gli uomini che detengono il potere: il governo, la polizia e Ronald Reagan. [Aravind Adiga]

Vizio di forma, Thomas Pynchon, Einaudi, Stile Libero Big, 2011, p. 470, 20€, ISBN: 9788806202828