Lino Angiuli – “L’appello della mano” (Nino Aragno Editore)
di Vito Russo
Leggere un libro di Lino Angiuli significa farsi delle domande, ma significa anche trovare delle risposte alte, che centrano le questioni poetiche ed esistenziali dritte al cuore, senza comode scorciatoie.
L’appello della mano, il suo ultimo lavoro letterario, è un manifesto poetico, ma insieme morale e religioso.
Angiuli elabora il suo messaggio senza la minima concessione alla retorica letteraria tradizionale, senza assecondare nessun cliché, usando sempre l’ironia come fil rouge e strumento comunicativo privilegiato. Se questi elementi sono una costante nell’opera del poeta di Valenzano, sorprende, nell’ultima silloge, una tensione etica insperata per qualsiasi lettore che si cimenti e confronti con la poesia degli ultimi anni. Lontano da localismi, autoreferenzialismi, lirismi, relativismi, insomma, come lui stesso ama dire, da tutti gli -ismi mai concepiti, con L’appello della mano Angiuli fa un ulteriore salto di qualità sul piano dei contenuti, ma il racconto resta fresco, grazie alla vis ironica che ne è il tramite.
La poesia di Angiuli, lungi dal soffermarsi sulle miserie della contemporaneità con piagnistei altrove troppo presenti, e senza alcun indugio nel privato, tiene fermo il baricentro su una concezione collettiva dell’esistenza tutta. Lino Angiuli è un poeta che ha qualcosa da dire, e lo dice senza artifici, elaborando un umanesimo moderno, scevro da atteggiamenti nostalgici, nel quale tutto è al centro dell’attenzione del poeta.
Ne risulta un’unione carnale e insieme spirituale tra gli uomini, le stagioni, il mare, il Creato intero, in cui l’autenticità è ”intravedere il firmamento / buttarsi addosso a un lenzuolo di terra / per il forte desiderio d’accasarsi con l’argilla”. Anche la morte smette di essere uno spartiacque (“vivi o morti che differenza fa?”). Nel panteismo angiuliano (“è una vita che mi giro di qui e di lì senza accorgermi / che tu stai dentro una boccata d’aria come a casa tua”), la materia si personalizza fino a spiritualizzarsi: “si alleggerisce il rimorchio delle ossa e / niente più siepe caro giacomoleopardi”.
Ancora una volta, e con maggiore evidenza rispetto alle raccolte precedenti, la silloge è incastonata in una struttura metrico-stilistica che rende omogeneo il discorso letterario, colonna portante di quello linguistico ed etico.
La tensione morale tocca il suo apice nelle orazioni settimanali della seconda sezione, di sette prose composte da sette mini-prose di sette versi ciascuna. Angiuli compone la sua dichiarazione programmatico-poetica: “Intanto io mi darò da fare per rispolverare una ad una / quelle invisibili parole da voi depositate nei saecula / saeculorum dentro l’umido cavo dell’orecchio buono / parole scasate dal vocabolario dove abitiamo adesso”. Angiuli prosegue il suo percorso letterario teso a ridare dignità alle lingue non ufficiali. Stavolta però non usa il suo dialetto, ma sviluppa una lingua altra e universale, frutto di mille contaminazioni lessicali e sintattiche: notevoli sono latinismi, inglesismi, francesismi, ispanismi, germanismi, e persino slavismi e arabismi, ma, soprattutto, emerge l’utilizzo frequente di espressioni ricavate da un parlato basso di derivazione dialettale: verbi come screscere, acquacquagliare, scarvottare, scassare, trapanare, sdivacare, abbottare, scimunire, stipare, arricreare, o aggettivi e sostantivi come tiraturo, guantiera, arruzzinito, abituro, zoche, lastro, solo per citarne alcuni.
Il poeta è un giullare che registra le contraddizioni della contemporaneità, ma non si limita ad osservare e denunciare con sdegno, ad esprimere il suo j’accuse all’Occidente, né ad arroccarsi su posizioni teocentriche, poiché “mi chiedo ognittanto perché poi dovrebbe farlo lui / quando volendo potrei imparare benissimo da solo / ad assaggiare uno stozzo di fame da spartire con voi”.
Per Angiuli la poesia è quindi strumento comunicativo e morale insieme, utile ad unire ciò che appare (o si vuol far apparire) diviso dai mille fondamentalismi, valorizzando le specificità: “Tutto quello che volete ma non venitemi / a dire che giuseppe vale più di yussef / solo perché è spuntato qui anziché lì”.
Mai come ne L’appello della mano il senso diviene esplicito, manifestato senza esitazioni, e si capisce come ci sia una corrispondenza stretta tra significante e significato: così come il poeta abbatte qualsiasi barriera linguistica, lasciando intendere un superamento delle divisioni culturali (“mi pento e mi dolgo nella tua lingua se necessario”), allo stesso modo la sua poesia si fa testamento esistenziale e sociologico della memoria, degli affetti, fondato su una pietas non cristiana, ma squisitamente umana e universale, perché “adesso che il nespolo d’inverno non si usa più / dobbiamo rappezzarlo noi e ripiantarlo insieme”.
Lino Angiuli, L’appello della mano, Aragno Editore, 2010 €9,00