“È TUTTO NORMALE” (Lupo Editore). La parola ai (miei) lettori!


Chi lo ha detto che i social network, facebook e twitter non sono mezzi idonei a rinnovare la passione per la letteratura e lo scambio di essa in rete? Credo non lo abbia detto nessuno anche perché di questi tempi chi dicesse qualcosa di simile sarebbe una voce che chiama dal deserto. In questi mesi, dall’uscita di “È TUTTO NORMALE” (Lupo Editore) a oggi, mi è capitato di ricevere diverse e non poche attestazioni di stima da parte di critici, lettori, appassionati, amici, nemici, etc. etc. Voglio dedicare questo post ai secondi, ovvero sia ai lettori che in questi mesi mi hanno sorretto con la loro stima e con i loro circostanziatissimi giudizi. Qui di seguito troverete alcuni dei messaggi che mi sono arrivati. Dove sono riportati i nomi è perché ho chiesto e ricevuto l’autorizzazione a metterli, e dove non li trovate è perché anche potendo chiedere il permesso non l’ho chiesto perché mi sembrava una cosa cretina. Questo post è un modo per ringraziarVi. A voi, lettori, miei simili, miei fratelli!

 

UNA LETTRICE (dm su twitter)

Il fatto che una madre possa dire a su* figli* “questo libro l’ho letto quando aspettavo te” ti fa venire voglia di scrivere, grazie! :-)

FEDERICO LIGOTTI (facebook)

“Un romanzo formidabile che vi consiglio; oltretutto meriterebbe un enorme successo”

Caro Luciano,

sono finalmente riuscito a leggere il tuo “E’ tutto normale”. Me lo sono felicemente divorato in un giorno e mezzo. Che dire? Sfiora il capolavoro. Un intreccio perfetto, fra paure ancestrali, alte tematiche civili e rapporti sentimentali sempre sull’orlo della crisi, ma trattata con leggerezza. Complimenti per essere riuscito a rendere il tema dell’omosessualità senza concedere nulla a volute di maniera (oggi purtroppo l’argomento è inflazionato), anzi, come scrivevo, inserendolo perfettamente in un congegno di millimetrica esattezza e infarcito di colpi di scena. Bello il light end, finalmente: basta con queste tragedie coatte, che già dall’inizio si sa come va a finire.
Grande la caratterizzazione della “donna stronza e combattuta, dimidiata nell’animo”: mi riferisco a Kris, il personaggio psicologicamente più effervescente.

[…]

Un abbraccio, ti auguro le migliori fortune con questo romanzo: merita davvero qualcosa di importante, che spero possa concretizzarsi a breve per te.

Fede

MARCELLA NEGRO (facebook)

Come potevo non leggerlo? Quando son venuta alla presentazione del libro conoscevo già la trama ed ero curiosa di ascoltarti perché penso che è sempre molto interessante sentire cosa ha da dire uno scrittore della propria opera.
Ecco le mie riflessioni.
Leggere questo romanzo è un po’ come ricomporre un puzzle. La tessera che hai in mano svela qualcosa, ma solo ricongiungendola alle altre, ponendola nella giusta collocazione, si riesce a giungere alla visione d’insieme che evidenzia tutti i livelli e i significati di
questa storia.
Non è un argomento facile, conciliante. Più ci si addentra nel racconto più cresce un senso di malessere strisciante; consapevoli che, fatti i dovuti raffronti, ci si è imbattuti in una storia tristemente ricorrente nella realtà.
È tutto normale: garantisce il titolo, ma è una rassicurazione ambigua e beffarda che sembra prendersi gioco dei personaggi che arrancano annaspano nel perbenismo in cui rischiano da sempre di annegare e di perdersi.
Si parla d’amore? Sicuramente sì.
Coniugato con l’egoismo egocentrico di Ludovico che si dimostra un perfetto manipolatore di persone e di sentimenti. Un uomo incurante degli altri pronto a cogliere l’occasione al volo pur di appagare il suo desiderio di possesso.
Si parla di un amore indolente, schiavo delle convenzioni e dell’autorità, come quello di Andromaca.
Di un amore inaridito e pressoché assente come quello di Ettore.
Di un amore pavido fino alla codardia come quello di Marco che preferisce omettere la realtà costruendone di nuove di volta in volta sempre più improbabili e transitorie. Che spera di scaricare ad altri l’ingrato compito di ricondurre tutto nella giusta dimensione del vero ineluttabile.
E ci sono Eleonora e Carlo con il loro amore ancora acerbo e incerto a cui è stata negata ogni possibilità.
Amore che poi trascolora in quello tra Carlo e Ludovico; in quel legame che, nella mancanza di approvazione, semplicemente esiste, va avanti tenace infischiandosene.
Nel procedere della storia i personaggi assumono tridimensionalità facendoci cogliere quelle piccole sfumature che li caratterizzano.
In una continua corrispondenza di suoni, immagini e ricordi il tempo si dilata componendosi nelle distinte verità dei protagonisti per
cristallizzarsi poi in un presente angoscioso in cui si addensano, si aggrovigliano sentimenti repressi, incomunicabili, ingovernabili
destinati ad esplodere, a trovare un qualunque sfogo possibile.
Ne vien fuori una storia intensa, mai banale, con un ritmo narrativo scorrevole che ti accompagna fino all’ultima pagina.

Grazie per averla scritta. :D

Nel libro poi ci sono diverse citazioni: da quella della pubblicità del forno elettrico DeLonghi ” o fa solo tost pizzette?” alla bibbia a Shakespeare per arrivare ad Andromaca e Ettore, i cui nomi non credo siano stati scelti a caso.
Fa un certo effetto leggere e riconoscere i posti di Lecce che sono descritti nel romanzo. In particolar modo quando parli del “Parlangeli” di cui conservo sempre il ricordo di quelle benedette scale a chiocciola e dell’ascensore che ogni volta che mi serviva era sempre guasto. XD

Altra sensazione: mentre leggevo il tuo romanzo me ne sono venuti in mente due che ho letto tempo fa. Non ti muovere e la solitudine dei numeri primi. Forse perché entrambi narrano realtà scomode.

UNA LETTRICE 2 (facebook)

Ciao Luciano, ho finito di leggere il tuo romanzo… in 3 giorni! Ti faccio davvero i complimenti, l’ho letto con piacere e velocità. Tieni conto che il mio giudizio non è da esperta, visto che trovo il tempo (…o lo stato d’animo giusto!) per letture non matematiche solo d’estate, in vacanza! Il tuo libro è avvincente come un giallo, non vedi l’ora di arrivare a scoprire se Kris è uomo o donna, poi non vedi l’ora di “assistere” alla reazione all’arrivo a casa, poi non vedi l’ora di sapere se Ludovico riesce a starsi zitto e tenere il segreto… insomma c’è sempre qualcosa che ti fa scorpacciare le pagine una dopo l’altra. E poi ho apprezzato tantissimo le “chicche” sul nostro Salento… anche se penso che possano essere apprezzate solo dai lettori che conoscono questi luoghi, certo non da chi non si è mai fatto un giro sul litorale mozzafiato fino a Leuca, da chi non ha mai visto il Ciolo o da chi non ha mai passeggiato su via Tinchese…

[…]

Un saluto forte forte e… continua a scrivere con l’augurio che le tue pagine possano trovare tantissimo successo e che possano essere veicolo per far incuriosire ed appassionare alla nostra terra! (firma)

UNA LETTRICE 3 (email)

Ciao Luciano,
ti scrivo perché avevo comprato E’ tutto normale da un bel po’, ma non avevo mai trovato il tempo per leggerlo con calma. Ebbene, ho approfittato di una lunga traversata […] per immergermi completamente nella lettura.
Con questa mail, praticamente, sto dando sfogo al desiderio, già declamato da Salinger ne Il giovane Holden, di contattare telefonicamente l’autore del libro che abbiamo appena finito di leggere e, anche se immagino che te l’avranno detto in tanti, al coro di complimenti voglio aggiungere la mia voce: il tuo libro è bellissimo! Ha una leggerezza che ho trovato raramente, negli ultimi libri che ho letto, è delicato come le carezze del vento basso di luglio.

[continua…]

Antonio Verri. La cultura dei tao


Antonio Verri
La cultura dei tao

a Damiano Stefano

<<Era ancora luna chiara di gennaio, giovane luna. Il freddo di quell’inverno tagliava le gambe. A casa c’era poco. Voi figli uscivate coi pantaloni gonfi di fichi secchi, le domeniche le passavamo con della pasta d’orzo, con bocconi che m’ingegnavo d’insaporire per voi signorini seduti su sedie altissime. Qualche volta cuocevo sciscèri di pollo, qualche altra volta si ammazzava una pecora che stava male, poi c’era il pane cotto e il lardo che tutto condiva…
Era questa la vita e voi avevate grandi occhi da birbanti…solo tu, ecco, imbronciavi un po’ più spesso sui carrettini che da me ti costruivo…
L’inverno fu tristissimo quell’anno. Non era ancora febbraio ed era già bella e finita la scorta della monda.>>

La madre. La mar. La scorta della monda. Cioè, grossi rami inutili ma soprattutto le giovani cime, a colpi di forbice e serracchio, per impedire la crescita, per impedire quell’avanzo in armonia di un albero bello sì, temerario sì, ma senza frutto.
<<Se no dà in furia>>, dice la mar. Col tremore di chi di quella furia è madre.

Caprarica di Lecce, 30 Aprile 1986

* * *

Tanto ho appreso, altrettanto mi è stato insegnato. Mi è stato insegnato, per esempio, che per molti fiori di giardino esiste un corrispondente selvatico: e allora ho scoperto che mi era caro il profumo del secondo dei due tipi di ciclamino, rose, mimose, margherite…
Mi è stato insegnato – ma poi l’ho sperimentato da me – che vivendo, stando quanto più possibile lontano dal nulla, non si può fare a meno della saggezza e del piacere curioso dei proverbi, dei mille proverbi che dalla terra nascono; che i proverbi aprono al mondo, a variegate realtà, che niente c’è di tanto misterioso, di tanto affascinante, di tanto poetico, quanto un proverbio che si dipana al punto giusto, al posto giusto; che attraverso i proverbi è tanto magica, tanto plastica l’interpretazione del mondo che niente, nessuna cosa sulla terra, mi è parsa, mi pare così naturale, così saggia, così strapiena di candore…
Mi è stato anche insegnato, con ardore, ad apprezzare – ed io continuo a guardare e amare con tale ardore… – poveri oggetti (stilizzati, essenziali, ma solidi), situazioni le più umili, ma portate con tale dignità, che serenità, buon senso, innamoramenti al limite del pianto, sono cose che oggi io, figlio di questa cultura, posso opporre a volte con tale incauta destrezza da rischiare di bruciare, con legna d’ulivo, il sibilo lungo di una cultura millenaria…
Cambia, cambierà, di molto il volto della campagna, degli aggregati umani, di interi paesi: è cambiato dal dopoguerra ad oggi, cambierà ancora tra due, tre generazioni. E cambieranno naturalmente anche abitudini, modi di lavoro, rapporti…, ecco, quello che non cambierà mai sarà l’idea del dialogo con la terra che l’uomo ha stabilito dal tempo dei tempi, il grosso respiro, il sibilo lungo che si può udire solo di mattina, mirando nella vastità dei campi, con accanto sentinelle silenziose gli alberi d’argento…
Ma torniamo al racconto, nostra sede, ad uno dei mille rivoli del racconto…al padre che nella canna ricurva della pipa di pietra infila una di quelle chiavi di cinquant’anni fa, la fa partire, ecco, adesso gira nell’aria, la canna percorre il tondo della chiave, adesso basta un impercettibile armonioso movimento della mano per far andare il tutto. Il padre, nell’eterna sua magrezza, a capo chino, severo, somiglia un pìstico sognatore di lucchi, un tenero rabdomante di chissà quali sotterranei giacimenti, di chissà quali gore di distanza. Di rado bofonchia, è come assorto nel suo gioco, con la nequizia, la permalosità di sempre. Dal giro della chiave nasce un suono, un leggero crepitìo…
Le figlie sposate in altri paesi (quanto sono cambiate!) rientrano, fuori è il venticinque aprile, San Marco, giorno della fiera, con i venditori “napoletani” di Martina, di Ceglie, di Corato, che dal barese, dal foggiano si riversano in questa come nelle altre fiere che in tutto il meridione hanno scadenze regolate da cicli agricoli, attese con genuina allegria, infinita baldanza, con intensità pari solo alle “straordinarie” mercatanzie che verranno acquistate: lunghe teorie di attrezzi da lavoro, finimenti, “quernamenti”, solidi utensili modellati sul vecchio tipo, piatti per l’occasione vengono dichiarati “infrangibili”, rosette per uno spruzzo a largo raggio, lo spargisale da campagna ultima novità, e poi creta rozza, creta smaltata, cippi, vasi, campanelli, chicche sonore dei buoni tempi andati, la dignità solita di una baracca di cappelli, ogni anno al solito posto, sotto il castello (anche i cappelli hanno un loro posto importante nella vita di un paese… a cominciare da uno sfanciato, di piché, per finire a quello che mettono nella cassa da morto: serve al congiunto per presentarsi a Dio!), e ancora, cupeta e mostaccioli, tovaglie, corredo, polveri e sementi per la campagna, Lattuga gigante, Spronelle di Corigliano, Cicorie rizze; e poi, è un affarone il nuovissimo pupazzo gigante per far bolle di sapone?
Bisogni, necessità per tutto l’anno, futilità le più ingenue, cose da conservare sul comò, la scapece da consumare a mezzogiorno, la faenza (bicchieri, tazze, chincaglierie) da mettere in mostra nell’elegante credenza, grida, fatti, parole che dei fatti trasmettono il suono… è questo il paese, è questa la cultura del sibilo lungo!
Sta per arrivare la banda… C’è armonia, c’è avventura, c’è completezza in tutto in quei posti. E quando anche quest’armonia dovesse esse rosa in qualche punto, ecco, c’è la madre riparatrice, ispiratrice, che aizza all’ardore, al furore di parole… è lei la depositaria, è lei rappresentante di questo mondo. E la stagione è l’inverno !

L’inverno era di quelli allegri, mai mesti, del pirichilli. Di quelli che poi se vengono qualcosa dovrà succedere, qualche nato importante, ribeglione, o qualche grande morto che tiene fino al freddo. L’inverno del pirichilli. Freddo cioè, dal mangiarsi sul serio anche cardilli. Stranamente freddo però, ecco, tanto da panegorisare contrade, crocicchi, pianori, interi paesi che solo per l’occasione bruciano bitume, resti di olive, trucioli, lievi napte di legno trinciato. Tutto. Tutto.
Inverni del genere arrivano ogni due, tre generazioni, quando ormai i ragazzi natanei non servono che loro stessi, esplodono di solito con l’accensione dei fuochi di metà gennaio ma sono nell’aria fin dall’ultima fiera di dicembre: li annuncia con testardo, sonante furore di parole, l’òrico venditore dal pelo rosso, l’incomparabile mestatore, molitore di segni e di linguaggi.
Arrivano così in questi strani posti questi strani inverni, come falsi castighi, come cose nibate, indicibili, con lo stupore gelato che sosta su case basse, che dà vita rotante ai vicoli, che cala nel fondo dei frantoi, risale, mulinella nei secchi del pozzo, agli usci delle porte; si perde poi sui terrazzi, su schegge di pietra che tengono, uno sull’altro, solidi massi fuori squadro. Uno sull’altro. Più su, più su…
-‘Na lusione, ‘na lusione, dice la mar che, con sciroppo di lauro e di mortella, in inverni come questo, separava, puliva e preservava i sonni, le parole, le iose di un figlio che segue l’abuso, che vive per l’eccesso… La mar, la mar, che vede del figlio quel che con lei è nato, che non sa di quell’altro che brucia sperso negli inverni, di quell’altro dagli occhi spalancati dal sogno, dalla voglia di farcela, per il padre, per lei…
Ecco, la mar dice del tempo cambiato, di quando la navetta correva legata a bande di colore, ci ripete che vededi noi pilladori quel che con lei è nato. Durano conti… Durerà quel nitore di carta, o mammaniva, quel narrare brandea di teneri suasori?
Ecco, la mar m’abboffa come se dovesse nicare. Ma nicare non nicherà, passerà come lento fiume il tempo – l’idea del tempo che passa, del tempo cambiato, della navetta che corre a bande bianche a bande di colore, la dette lei, lei l’ideò quando, intristita dall’umido del cucinino, disse: “ Un tempo mettevano zorfo in questi uncini! ”.
Ecco, la mar m’abboffa come se dovesse nicare…parole e suoni avviticchiati alle cose che mi racconta, alle cose che mi avvicina col solito decoro, parole che copre nei canestri – le parole del figlio a zacchinetta – per farle maturare, per far colar quel croco che al figlio assicuri la narrazione del santo pancro, l’oromìa, l’olòfora, l’incanto; xhe questo che cuce sia palisma, òrico, sonoro, dolce impanto.
Mar, o mar, nicare non nicherà, nicare proprio non nicherà!
Oh nive, oh nive bianca, oh tantanton de barba bianca!
– Figlio, sempre qualcosa mette ciglio. La mar. Mi dice ancora del tempo cambiato – passano quadri piscatori – del tempo che oggi corre dietro al fiscolo del niente… Lei, intanto, quando non balla tabacco secca palate, ha mani sapienti, bianche cedono coperchi pressati nove volte… e invece di boccoli di pane, frigge piccoli tesori del tempo dei suoi tramonti rossi!
– La prima volta che vidi un treno gridai “ passa la tuzzuìa, passa la tuzzuìa ”, e la campagna bianca rispose “ passa la tuzzuìa, passa la tuzzuìa ”, e la contrada col nero dei camini “ passa la tuzzuìa, passa la tuzzuìa ”,e i miei morti e la mia casa, i miei viaggi e il mio biroccio, e il mio vestito e il mio terrazzo, tutti insieme gridarono “ passa la tuzzuìa, passa la tuzzuìa ”, e ancora  “ passa la tuzzuìa, passa la tuzzuìa…! ”.
Ecco, dissi, ancora una volta prima di spegnere, con un suono grave che ancora ho nelle orecchie: “ Sarà quel che sarà, ma tu cerca… al mondo stiamo per cercare!”.
È vero, o mar, non sono ancora passato al libro vecchio, non riesco a seguire il tuo “ quanto conta il saper fare ”, le parole, soprattutto per me, sono un po’ come cirase (una tira l’altra), febbraio è sempre un mese corto e amaro, le serpi sono ancora nascoste e le rane non “cantano” ancora… ma sono il figlio della storia del miglio e del mortaio, della camomilla dorata della sera, quello che perdeva gli occhi su quel vecchio comò a casa della nonna, con la campana del santo, due candelieri argentati (quelle cose che in una casa arrivano non si sa come, da tutti considerate pregiate, si conservano con orgoglio smisurato, diventano simbolo della famiglia, a volte; quelle cose che restano negli occhi dei piccoli di casa anche quando la casa non c’è più…), un centrino sul marmo, qualche fiore la cui continua freschezza è l’effetto di un incanto… Tutto fermo là, pissocerato, quasi un altare al dio del buon consiglio che vive, con altri folletti, nel rosso fumante della terra appena “scapolata”… Ma cercate dovunque, nelle foto qui dietro, altrove, ci deve essere quel vecchio comò, ci deve essere quella vecchia credenza (il figlio, nella nicchia accanto, rubava liquore giallo), una cassapanca essenziale e capiente, il cassone dei fichi secchi, il saccone di fronze, la monaca scaldaletto, la cucina sempre bianca, lo stipo di legno che conservava ruote di creta che chiamavano piatti, la paglia nella pagliera, l’“acchiattura” nella stanza accanto…
Ma è ancora inverno. Non è cambiato molto, o mar. Oggi girano squadre per la monda come allora. Il paese intero è diviso in squadre, come allora. Mi dicono che hanno le loro leggi, regole loro, ogni squadra ha una sua carta di comportamento, di tenuta. A volte, o mar, sono così necessarie alla vita del paese che mondare mondano un po’ tutto (ogni squadra ha un suo declaro, ecco, e sfronzare gli eccessi… non è soltanto un vezzo!).  Comune a tutte, però, è la proibizione del vino, del vino prima di salire: svettare l’olivo, far sì che cresca in chioppa, non è cosa da niente!.
Solo qualche capomonda permissivo, distratto, nembrotico, istigatore, a volte permette il vino, permette di danzare, il tsiritirò… e allora l’albero è libertà, piacere e tentazione, riso, sghignazzo, intolleranza… ecco, riprende con foga la navetta, torna a rotar la tuzzuìa, ricresce, bòffolo, il sogno…
– Un tempo avevo occhi che tutto miravano. Tuo padre giovane…
Ma è sempre inverno: si attenua il dolore al ginocchio, tutte le storie sono cariche di lusione che in altri posti un nonno favolista vendeva a costo di decoro, storie intorno al tavolo, col fuoco, col padre appeso al miracolo della radio, con la foto del figlio lontano bene in vista, gli scampoli di una figlia sarta, uno specchio senza cornice, ad angolo, interrogato chissà quante volte, chissà quante volte odiato…
Durano conti…! Parole nugose, cantilenanti, sogni, costruzioni le più audaci (da far impallidire scrittori di professione), artifici, fisime di smalto, possibili solo a terreno cherso, nella stagione morta, o di sera quando il ragazzo figlio ascolta, risponde, sorride, anche se il suo pensiero, lui stesso, è sulla ciminiera accanto, dove un galletto, nella sua muta nettezza a mezz’aria, compie giri quasi completi…
La letteratura di questa gente magra, dalle mani callose, è fatta di fole e di angiolesse, di orchi benevoli, di tao che girano a mezz’aria, di spiritelli biricchini, di donne di pasta cresciuta, di fibule, glimpe, pènule, di purissimi cavalieri che di notte riposano sui tetti bassi delle case bianche, o nelle corti, sotto la prèula, accanto al gelsomino, o in stàbule di campagna sopra lettiere di sarmenti, nella paglia (sono loro, i cavalieri, che di mattina prestissimo, innaffiano d’argento gli olivi, intonano il colore delle margherite, spargono a caso fiori di lampone…), succhiando liquirizia a pesciolini, sciogliendo in bocca un tripizzo dolcissimo, facendo capriole inaudite, lasciando biglietti a ragazze dai lunghi capelli, sacchetti di talleri d’oro, colore per le guance, crinoline e merletti per gli anni a venire…
La letteratura della mar era il narrare dei sogni il mattino dopo, degli idoli suoi, i morti , che venivano a trovarla – fresca, mai turbata, come fosse un altro sorriso, un altro abbraccio alla sua gente…
Ecco, durano i conti… e ci sarà sempre un povero favolista a narrarvi di un cuecolo di neve che molto tempo fa dei ragazzi festosi, goliardi, furenti, cominciarono ad appallottolare nella piazza bianca per farlo poi rotolare, alimentandolo, per una discesa in paese: tre mesi restò giù senza squagliarsi… Tutti tornarono. Tutti. Meno Stefan. Stefan, cominciò a dire la mar, fu rapito dai tao!

– Credeva fosse uno dei soliti pupazzi di neve, uno dei soliti pupi bianchi che da ragazzi si fanno, e uscì di casa col passello per fornarne gli occhi… Non l’ho più visto. Chissà… Il portamento, l’allegria, tutto in lui poteva far innamorare un tao, un lieve tao, un tao del freddo, uno di quei tao insolenti che saltellano a mezz’aria mangiando girandole di neve, col corpo in piena luce…
– Tuo padre fece poi una guarnice ai suoi grossi occhi chiari, e da allora aspetto…Oh, aspetto la tornata dei tao, il mio ribaldo!
La mar. La solita storia. La sentivo cento volte al giorno, ne sapevo pieghe e accenti, ogni particolare, tutto quello che accadde, tutto quello che un tempo rese possibile. Era ormai diventato tutto così assurdo, così strano, così ingannevole, che sia io che lei, all’improvviso, eravamo entrati come in un vortice nugoso, in una grande ruota bianca, avvolti, per nostra stessa volontà, per tacito patto, nel manto perlaceo di parole sonanti, favolose, antiche, cantilenanti…
– Come! Lasciarsi prendere dai tao!?!
La mar.
Parlava di un figlio che a vent’anni s’era allontanato da casa gridando come un matto, correndo festoso verso il cueculo di neve che stava per nascere, che già cominciava a rotolare… Molte madri non videro i figli per tre giorni, quanto durò l’inusuale appallottolamento. Poi tutti tornarono, meno lui. Meno Stefan. Stefan non tornò.
– Il mio magnuccio! La mar.
I tao. Da quel momento la mar cominciò a parlare dei tao, s’inventò i tao, questa specie di folletti predoni, di elfi colorati, che vivono a mezz’aria, che così maleficamente sono entrati nella sua vita… Poi s’inventò dell’altro. Del figlio in stàbula, un casolare lontanissimo – ne vedeva il lumicino -, perso a giocare a zacchinetta. Perso perdente.
Altro, tanto altro. Tante sorti del figlio s’inventò, tante vite, tante possibili buone soluzioni, pensate per piacere di spasimo, per quel follicolo di voluttà che ricopre – li argenta – i percorsi di vane illusioni. La mar.
Era stato proprio un inverno tristissimo quello. L’inverno della calata dei tao. Un inverno come pochi altri inverni. Così amaro!!!
Ecco. La cultura dei tao. La mar. La sua costante autorizzazione al furore, il suo costante invito a fabulare, ad abusare della lingua… E tutto ciò che entra tra le nostre righe è quel croco che non ha vissuto, che ha sempre inseguito, di cui ci ha sempre parlato, e che ora per noi è suono, armonia nascosta, nive, nive farinosa…
I tao ci sono sempre in un paese. I nostri paesi ne sono strapieni. Esistono anche per questo i campanili nei paesi.
L’idea del campanile arriva quando la gente è esasperata, quando non ce la fa più a sopportare i tao. Formelle su formelle, cotto su cotto – in un silenzio operoso – la gente alza il campanile per sorprendere i tao, per piombare di sorpresa sui tao come sempre intenti a biffarsi dall’alto le zone in cui predare.
Bisogna dire, però, che i tao sono dei predoni fascinosi, a volte quasi necessari… guardate la mar, per esempio, lei è ormai al punto che coi tao ci gioca, azzarda, retrocede, favoleggia, lei ormai è di quel mondo a mezz’aria, non esiste altro mondo per la mar – dapprima, un po’ come tutti qua in paese, covò il campanile, con furia, con disperazione, poi tutto cambiò, cominciò ad usare, a viverci nel campanile, ad un certo punto cominciò, con gessi neri, a scrivere sui muri del campanile, dapprima strofette al figlio, poi le canzoni della giovinezza, le contra che lei cantava così bene, i cori d’inverno tra gli ulivi, ma anche scioglilingua sui tao, descrizione dei loro giochi, bagatelle…
Andavano in aria i tao, alle angiolesse obìte, ai transiti dei loro padri elfi, in oblivione completa, con lo stupore dell’ebbro, galoppando ossessi sul vapore, sui tetti color pigna, sulle madri di Robinia, sulle madri dell’oro di coppella…
– Un tempo avevo occhi che tutto miravano. Tuo padre giovane… La mar. Quelle che lei mirava sono poi cose che hanno fatto la mia vita.
Quando stavo con lei, figlio com’ero di una dea dell’aria, quando camminavo con lei, non c’era necessità di sprecar parole, erano gli occhi a raccontare, era negli occhi che riuscivamo a fermare, in un attimo di mille parole, gli eccessi, gli scoppi, lo smorire, la meraviglia… Non esisteva niente allora, niente dei travagli di tanti giorni neri: lei era all’improvviso una lieve festuca dorata, era in quella fibula d’oro giallo al petto, nel regno sempre bianco della tuzzuìa, nel lumicino lontano delle fortune che ogni sera tremolavano in una stàbula d’uomini persi a zacchinetta, nel tripizzo che in bocca squagliava, nelle margheritine di camomilla, nelle fresie in alto sul portone…
Chissà se poi la mar avrebbe, in realtà, voluto una vita diversa!
– ‘Na lusione, ‘na lusione, mi pare di sentirla ancora adesso.

– Sotto la neve il pane, mi ripeteva. A me piaceva sentire quelle cinque parole una dietro l’altra, e domandavo, domandavo continuamente. Come?, il pane sotto la neve? Certo, diceva lei, con voce di velluto, il pane sotto la neve, proprio così, il pane sotto la neve: quando c’è neve – tanto meglio se è farinosa – che copre un campo seminato, il seme è costretto a lavorare sotto, il raccolto è rassicurato.
Il ragazzo continuava a chiedere con avidità, la mar cominciava con le sue storie, i suoi “segreti”. Per niente altro c’era posto. Tutto intorno la vita lievitava.
La sera prima di Sant’Antonio andavo dal fornaio – la mar -, ordinavo un canestro di buon pane, poi la mattina di buon’ora lo portavo in chiesa, lo distribuivo… Non mettere mai il pane sottosopra, porta lutti, porta disgrazie… Potevi vincere, con una cotta di pane fresco, persino la Madonna all’asta… Prima di un matrimonio si faceva doppia cotta di pane, allora i matrimoni avevano il pranzo in casa…
Anche i tao erano come storditi quando in paese si faceva il pane. Sostavano a gruppi sul tetto del forno, volavano così in basso che a volte urtavano i galletti sui camini; qualcuno con improvvisa spavalderia, approfittando della rapida apertura del forno, vi si infilava dentro, nelle fiamme, attirato dal pane che cuoceva: se ne usciva u po’ frastornato, stravolto, rosso, ma…quattro passi ed era in volo!
Parlava, la mar, di freddo, di neve, mi raccontava la storia dei tre giorni della merla… io ci legavo il pane (non sapevo pensare ad altro, ormai), il panetto di lievito acido che il fornaio conservava per la famiglia del giorno dopo, la màttira di legno chiaro, le tàule con costati, senza costati, il miracolo, la meraviglia della pasta che cresceva…
I racconti continuavano. Una grande fame ma una grandissima dignità. Le generazioni di gatti tutti somiglianti. Il teatro che cinquant’anni fa approdò in paese, la fabbrica di tabacchi ne fu il palco, con le attrici piene di trini e pizzi, colli lunghi… “e noi non riuscivamo a tenere in casa i nostri ragazzi”! Le storie di gelosia, la gente magra, le case basse, la vita essenziale; anche le morti erano importanti, se il morto era un ragazzo o una ragazza, era preso dai tao, diventava un tao perfetto, uno di quei tao di meraviglia… Era questa la vita di un paese!
Ma il favolista, di casa in casa, comincia a narrare di un essere legendario, selvaggio, uno spirito silvano dei campi, dei paesi, che è un tutt’uno con alberi, foglie, boschi, un orco benevolo, uno spiritello biricchino, bizzarro, lieto e allegro anche quando dovrebbe essere triste; mangiaparole, mangiasuoni, un po’ buffone, mai sazio, mai saggio. Questo essere è il Bel Tempo. Arriva allora la Primavera. Le rane cantano la fine dell’inverno; son fuori, inoffensive, le natrici d’acqua; le mulacchione, le ragazze inesplose, rosse, continuando raffinate e lievi trame di ricamo, aspettano il loro ambasciatore (“arriva l’ambasciatore, oilì oilà, a cercare la più bella”), il loro principe azzurro. Se lo immaginano in divisa… Ed eccolo che arriva, per le più fortunate: è un musicante del Gran Concerto di Gioia, è un postino aitante che lavora al nord, è un carabiniere che tornando a casa lucida scarpe e divisa…
È in arrivo anche la banda, i tao saltellano come impazziti sulle berrette dei musicanti che continuano a sbandare, il cielo è più basso, le stelle lucenti (tendono ad offuscarsi solo quando in paese arriva la cassarmonica e gli occhi brillano e si corre verso il centro illuminato…), i ragazzi come intontiti. Arriva l venditore di stoffa inglese, di lino, di percalla, arriva l’incantato venditore di grattate di neve, ma quello che più si corteggia, che più incuriosisce è il venditore ce in un carro a vari ripiani, a cassetti, vende di tutto, le cose più varie, le più belle…
I tao continuano allegramente a saltellare, la mar è con gli occhi alla cima della sua lenta torre, cotto su cotto, formella su formella; il padre porta su, con la solita caparbietà, altre cime, quelle della vita d’orto: ci lavora fin dall’alba, dispone in certo modo le canne, realizza, sempre più assorto, sue geometrie, costruzioni misteriose, oscure. Il cueculo è… ormai sciolto. Ha tenuto tre mesi, però. A squagliarlo non è stato il tepore di uno sbadiglio, né lo scotimento leggero dei seni della madre terra, è stato l’avvolgente e caldo agitatore delle ali dei tao bianchi che prima di tutti avevano captato il magico potere della palla bianca, perfetta, immensa, come una sfida babelica, l’enorme sfida (saldare nel cueculo le spezzature di una lingua, le variegate imperfezioni terrene…) portata da cinque irrisolti mestatori d’incanti che anche stavolta avevano sospettato un cueculo tondo, grosso, immutabile…: la mar – ispiratrice di cotte, di furore – che in inverni come questo aveva tutto previsto, tutto con cenere ideato, aspetta a casa col pan cotto, col boldone!
Girano, vorticano, continuamente i tao in questa cultura, in queste contrade. A mezz’aria. Sono loro i regolatori di questa cultura. Sono loro che, con piroette profumate, sovrintendono agli oggetti, agli attrezzi  da lavoro, ai pianti per la figlia che si sposa, alle nenie, alle ballate, alle contra dei trovieri di paese, sono loro che regolano i discorsi, che pizzicano nel sonno, che istigano alle cose insensate, al ridere sfrenato, loro che vivono, si rotolano nella marza preparata per l’innesto, loro che hanno inventato il cane dello Scialla che fece cento chilometri per un bicchiere di vino, la Peppa Landa che compra galline cadenti, il magico lumicino della Lucerna di Iacca, il Morso che ti fa ballare, i giorni della Vecchia, le acchiature in ogni angolo…
Sono i tao regolatori che presiedono agli oggetti, alle situazioni, i momenti di vita che troverete illustrati nel volume. Oggetti, situazioni, momenti che nella loro armonia, nella loro dimensione, nella loro completezza assoluta, vivono anche dell’inaudito che continuamente generano…: e per noi è sempre più chiaro che se le cose hanno tutte un nome, una loro ironia, loro virtù, paradossi, bufferie da tao, è con una lingua che comprenda tutte le lingue che parleremo del sogno, che scriveremo del sogno. Meglio dei sogni, visto che altri balzeranno, altri rotoleranno, piscatori, tra le righe.

(scelta di termini dal) DIZIONARIETTO
dei termini magici, nuovi o non comuni allegato da A. Verri al testo sui Tao

[il] CANE DELLO SCIALLA, LA PEPPA LANDA, LA LUCERNA DI LACCA…: non sono soltanto storie, assolutamente!: sono dimensioni fantastiche, suoni antichi, voci antiche e magiche di un paese e della sua gente.

CONTI: sta per racconti.

CONTRA, [le]: canzoni da contrasto amoroso. Le sentiamo cantare ancora a Borgagne (Le), da due vecchie contadine; il profumo è medievale, di campagna…

COTTA [di pane]: più o meno determinata dalla quantità, di grano o di orzo, impiegata. Una cotta, di solito, è sugli ottanta chili.

CUECULO: per palla, cosa tonda; qui palla magica, bianca…

DECLARO: per dizionario, riandando a fra’ Senisio.

GRATTATE [di neve]: un blocco di ghiaccio in una cassetta piena di paglia, un aggeggio che, grattando leggermente il ghiaccio, si riempie di neve farinosa, un bicchiere pronto a ricevere i cristalli di neve, sono queste le grattate. Ce’ra poi un venditore…

LIBRO VECCHIO [passare al]: espressione popolare [salentina?] per dire che hai concepito e realizzato qualcosa, che da te è nato qualcosa: la nuova nascita, allora, di passare al libro vecchio, l’attenzione, è per euql qualcosa.

LUCCO: anche s eun qualsiasi dizionario vi darà significato diverso, qui è usato, ha significato di cosa magica, lucente, impenetrabile.

MARZA: quello strato umido, sottilissimo, tra la corteccia e il legno. La marza è indispensabile per l’innesto <<a pezza>>.

MATTIRA: grossa madia a forma di barca, nel cui fondo si lavora la farinia.

MERLA, [i tre giorni della]: gli ultimi tre giorni di gennaio, freddissimi, tre giorni che gennaio prese in prestito da febbraio per punire il merlo troppo sicuro di sé.

MULACCHIONA: (non ci stancheremo mai di dire che per noi il plurale è mulacchione), ragazza tonda, passionale, strapiena di carica inesplosa. C’entra la luna…

NATRICI: serpi d’acqua; in questi posti girano, d’estate, intorno a pozzi e cisterne.

NEMBROTICO: d Nembroth, istigatore all’impresa della torre di Babele.

NIBATO: splendido nevoso, da nubo-is o da nix-nivis.

NICARE: nevicare.

NUGOSO: di scherzo, di celia.

PALATA: massa di fichi che si seccherà tra <<pale>>.

PANE COTTO: è pane che si fa bollire insieme a foglie di alloro, prezzemolo e ad un pizzico di peperoncino. Era il piatto rapido saporitissimo, dei contadini. Si mangiava soprattutto d’inverno,a metà mattina, tre, quattro ore prima del pranzo vero e proprio.

PANEGORISARE: sostentare con solo pane.

PESCIOLINI, (liquirizia a): forme dorate di un tempo; non la chiamavano più liquirizia ma pesciolini!

PIRICHILLI – è un termine di un detto, <<pirichilli ca mangia li cardilli>>, ascoltato in Martano (Le), qui usato come folletto di neve.

PREULA: è la vite da orto fatta allungare su delle canne incrociate.

SCISCERI: ventriglio dei polli e degli uccelli.

TANTANTON DE BARBA BIANCA: il proverbio è questo <<Sant’Antonio dalla barba bianca / se non piove la neve norì manca>>; è il cuore dell’inverno, il 17 gennaio.

TAO: folletti dell’aria, della mezz’aria anzi; c’è dentro il salentino mao, il veneto bao, tanto altro…

TRIPIZZO: dolce che si scioglie in bocca rapidamente.

TSIRITRO’: termine dal ritornello di una ballata popolare greca, legatop all’uva, al vino, alla vita allegra.

TUZZUIA: grande cavalletta verde; i danni non si contavano, la gente se la ricorda con terrore.

ZORFO: sta per zolfo, e uncini sta per fiammiferi.

(da “La cultura contadina”, catalogo di una mostra fotografica, Distretto scolastico 42, Assessorato alla Pubblica Istruzione della Regione Puglia,maggio 1986, versione pubblicata su Quaderni del Fondo Alberto Moravia, Numero 1, Anno 2002, con scelta dai termini del Dizionarietto)

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Antonio Verri, “La cultura dei tao”, da Musicaos.it – Anno 2, Numero 18, Giugno 2005

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“La compagna di classe”. Un racconto di Luigi Salerno


“La compagna di classe”
di Luigi Salerno


Rientrare di sabato nelle luci delle macchine e le mie gambe che affrettano, perché quando è di sabato non ho più il controllo del tempo e a volte me ne accorgo troppo tardi. Ma in ogni caso devo immergermi lo stesso nel caos del centro per poi ritornare subito. Rientrare con le strisce pedonali ingabbiate dalle ruote e la scaltrezza di un cattivo atleta, poco allenato nello scansare gli ostacoli fiammanti. Il fumo dei motori e le mie bottiglie che rischiano di sbattere e di infrangersi. Il mio passo accelera, e allora riesco a raggiungere il tratto meno illuminato e più tranquillo. Il solito marciapiede. Le pizzerie sfornano e infornano, come bocche di leoni accecanti. Le ragazze con i capelli sciolti. Qualcuna con la coda alta che mi sorride; e i profumi dei corpi con quelli delle sigarette. Allora affretto, ancora, anche se in fondo non ho nulla da fare. Ma è quella mia città che mi attira e mi respinge e anche quei visi che si organizzano la sera e che cominceranno a cenare quando starò già dormendo, adesso mi mettono un’ansia profonda e nel passo quest’ansia si scioglie e così raggiungo casa nella metà del tempo. Sfioro con le mani le chiavi dall’esterno del borsello grigio, ancora prima di impugnarle, -perché ricordo sempre di non anticipare mai le mosse prima del tempo. Devo abituarmi a estrarle quando il cancello mi attraversa appena le ginocchia, e non prima. Stasera sono fredde le mie ginocchia. Tintinnano chiavi, bottiglie e ginocchia, in una sola consonanza. Rintocca lo scatto della chiave, ma c’è una macchina che attira la mia attenzione, prima che io chiuda. Mi giro per accostare il cancelletto e per evitare il tuono del metallo, quando scorgo due figure magre e romantiche, in un’ auto bianca che non ho mai visto prima, proprio accanto al mio cancello, quello grande delle macchine. Il motore acceso. I loro visi sono lontani e sepolti nel fumo dell’abitacolo. Forse è la donna che sta fumando, ma non ne sono così sicuro, che mentre accosto per non sbattere, gli occhi della coppia si posano sulle mie mani e poi risalgono insieme sul mio viso, stupito e curioso, prima di andare. Ma tanto non li conosco. Forse ho un’aria troppo agitata, un’aria che desta spettacolo. Guardo le luci della mia finestra, che sono spente. È strano, perché mia madre a quell’ora dovrebbe essere già su, o forse avrà acceso dalla stanza che affaccia dall’altro lato. Intanto apro il portone interno e dimentico di colpo quel poco dei loro visi, così confusi. Il suono moderno del motore è ancora presente, romba come quelli dalle cilindrate importanti e non ho nemmeno visto il tipo di auto. Salgo e rientro in casa. I termosifoni sono spenti come le luci, e dentro non c’è nessuno. Nemmeno un messaggio, eppure quello è l’orario della cena per una madre così abitudinaria come la mia. Allora riscendo, e trovo ancora la stessa auto, e cerco di trovare una soluzione: andare da mia sorella, che è di fronte, e vedere se mia madre sia finita lì. Elvira non ha telefono, è isolata da due giorni, e allora mi tocca citofonare. La coppia che mi guarda ancora, mentre attraverso, poi non ci faccio più caso. Forse aspettano la ripresa di un bacio o di un litigio e io li avrò interrotti. Elvira mi risponde al citofono, con la bocca piena. Ormai è l’ora di cena o ancora oltre, e mi dice che mia madre non è proprio passata e che probabilmente avrà preso il pullman e starà sepolta nel traffico del sabato. Cerco di tranquillizzarmi, tirando il fiato a più riprese. Immagino il tragitto della linea che si avvicina alla nostra strada; le luci dei nostri lampioni, i fari dell’auto che si spengono. Alzando la testa noto che Elvira ha già abbassato tutte le tapparelle. Mi ha solo detto di farle sapere qualcosa e di non preoccuparmi. Intanto salgo sopra e manca la luce, proprio mentre sto apparecchiando la tavola per due. Mi affaccio per vedere quante case siano rimaste al buio e quanto sia serio il guasto. Guardo l’ora e noto che il tempo scivola e lei ancora non ritorna. Anche Elvira sarà senza luce, ma non voglio allarmarla. Con il buio ogni cosa si allarma, come in un furto d’auto. Il cancello è elettrico, se voglio prendere l’auto e andarla a cercare non posso più farlo. Scendo lo stesso, lasciando la tovaglia a metà sul tavolo di marmo ghiacciato e allarmato. Le scale allarmate a più gradini, riesco ad aprire il cancelletto pedonale con la chiave. I due sono ancora nella stessa auto, ancora immobili. Ormai non mi fanno quasi più effetto. Mi guardo intorno, tentato di avviarmi a piedi e da solo alla sua ricerca. Elvira non può avvertirmi di niente, è sopra con i bambini. Se fosse successo qualcosa dovrei sbrigarmela da solo e arrivarci sempre prima io. Come avviene con le buone notizie, anche con le cattive: c’è chi si espone sempre per primo, perché ha maggiore raggio di azione; forse maggiore resistenza, scaltrezza e autonomia in certe dinamiche o una certa maledizione nel cuore o nel destino. Così mi avvio, senza meta, senza telefono. Sperando che spunti un taxi con la sua mano che batte il vetro e mi saluta o forse la sua sagoma a piedi, sul primo tratto di curva, prima dei due pini. Con la sua solita andatura baluginante, le buste piene attorcigliate alle sue dita. Scorgo appena delle ombre, ma poi non c’è più nessuno, e sono passate già le nove e non ricordo nemmeno se mi abbia detto qualcosa prima di scendere. Cerco di ricordare e intanto oltrepasso la prima striscia di negozi già chiusi. Mi guardo bene da ambo i lati, prima di attraversare e ancora ricordando a vuoto, e poi rallento. Perché il traffico scema e allora quelli più violenti alla guida corrono come matti e finisce che poi ti falciano se non stai attento. Ci sono i lampioni muti, quando attendo ancora e il tempo passa e quasi non me ne accorgo. Quando mi si accosta al fianco destro, quella macchina bianca con i due romantici; quella che poco prima era parcheggiata davanti al mio cancello. Mi giro di scatto, e proprio in quel momento l’uomo che guida abbassa il finestrino e mi guarda. Tira piano di fumo, -è solo lui il fumatore- e poi mi parla. La donna seduta al suo fianco è tutta annebbiata dal fumo della sigaretta. Deve essere una di quelle sigarette forti, e intanto mentre l’uomo mi parla non riesco a sentire bene quello che mi dice. Scorgo appena il viso della sua forse compagna, che si abbassa e un poco si storzella per guardarmi meglio. Mi parla solo lui, ma in una lingua oscura e incomprensibile. Forse nemmeno italiana e nemmeno europea, troppo lontana. Sarà perché sono agitato ma non riesco a cogliere un senso definito da quello che l’uomo mi dice. Soltanto il suono. Il suono caldo e opaco della sua voce folta di vino, quello soltanto è chiaro, anche se le sillabe non mi ricordano nessuna sequenza logica. Quel suo suono invece mi incute una strana calma e poi, quando le spire del suo fumo si dipanano nelle strade, ormai sempre più libere, emerge il profumo speziato della sua compagna e parte del suo viso. Dall’abitacolo soffocante, la sua figura femminile che si ricompone nelle le luci della radio. La radio ha una frequenza disturbata. Scorgo un suo ginocchio scoperto, da una gonna scura. Cerco di sviare da quel contatto e guardo l’uomo. Lo guardo fisso come prima mi ha guardato lui, adesso che ha finito di parlare e aspetta solo una mia risposta. Che non ho. Cerco di sforzarmi, sia per trovare qualcosa da dire, che per comunicarglielo. Intanto mi accorgo di aver dimenticato l’assenza di mia madre, in cambio della loro inquietante presenza. L’uomo mi guarda, la sigaretta adesso l’ha già spenta. Io comincio a ripensare a tante cose, che mi allontanano ancora di più dalla possibilità di lanciargli un segnale di risposta, ma mi allontanano anche dal pensiero di mia madre e della sua assenza. Penso al fatto che forse quei due al cancello aspettavano me e che erano due malfattori che stavano cercando di rapinarmi con eleganza, senza violenza, forse per non rovinarsi la piazza. Siamo in silenzio, tutti e tre. La donna e i miei occhi che adesso tremano nei suoi, quando si allungano verso di me o su di una direzione di penombra parallela che non ricordo più, quando le sirene gonfiano i polmoni per il black-out, e intanto mi accorgo che la loro attesa mi inquieta ancora di più e che forse mi tocca lanciargli un saluto sfumato e ritornare indietro. Semmai da Elvira, mia sorella, con i suoi bambini che saranno crollati di sonno e di buio sul tappeto rosso del soggiorno. Ma senza luce non penso che possa aprirmi o forse sì. Potrei chiamarla a voce dalla strada e dirle che sono preoccupato. A quei due salutarli in inglese, o meglio alzando un braccio, sorridendo. Capiranno che non riesco a capirli, che di certo nemmeno loro capirebbero me se io gli parlassi, e intanto cerco di articolare un qualsiasi segno di saluto, che mi sganci dalla loro morsa, quando la donna mi chiama per nome. La macchina è ancora accesa, mi dice “Ottavio”, così ben scandito, da lasciarmi perplesso per il calore confidente e familiare della sua voce quando entra nel mio nome. Un nome detto da una che mi conosce e che forse mi ha già chiamato altre volte. Forse perché quando chiami un nome che hai già chiamato, la tua voce si trasforma, si fa più calda e l’altro che è chiamato riesce a sentire che esisti da prima, perché quel tipo di inflessione, nel breve spazio del nome, è la stessa delle persone che ti conoscono, che ti amano, che ti sopportano o che ti odiano di nascosto e senza dirtelo mai, ma che in qualche modo sono finite o dirette dentro la tua vita. Abbasso la testa, scavalco quella dell’uomo, che intanto ne accende un’altra, e poi la fisso. Le chiedo se mi conosce, perché quella sera non sono stato chiamato da nessuno nei pochi minuti della loro presenza e del mio rapido passaggio. La donna mi guarda, con una calma profonda nello sguardo. Aspetta anche lei qualche segnale, non rispondendo però alla mia domanda.
Forse nemmeno lei conosce la mia lingua. Conosce il mio nome ma non la mia lingua, -questo potrebbe essere ancora possibile. Insisto, mi faccio ancora più vicino. La stazione radio si assesta e suona una canzone americana, mi pare When i fall in love di Nat King Cole, e l’uomo chiude gli occhi e le posa un palmo sulla coscia e il vestito un po’ le sale e attendiamo ciascuno uno stacco di luce. “Sali, Ottavio”, mi dice la donna, “sali che parliamo in auto”. Fa freddo e non c’è luce, e a quel punto non mi rimane che approfittare per farmi accompagnare all’ospedale più vicino o al commissariato, che la mia macchina è bloccata nel garage con le porte automatiche. Ma forse è ancora troppo presto per il commissariato. Con l’ospedale avrei almeno escluso il peggio e allora faccio il gesto impacciato di entrare dentro. L’uomo mi accompagna appena lo sportello laterale posteriore verso l’esterno, senza guardarmi. Entro imbarazzato, ma sono sicuro di fare la cosa più logica. La donna mi guarda e avverto che può capirmi, anche se non so come sappia il nome l’importante è che adesso io ritrovi mia madre. Ci ritroviamo in tre in quell’auto. Il primo pensiero è quello di avvertire mia sorella; di avvertirla ma senza allarmarla e purtroppo non trovo il modo se non quello di raggiungere il suo palazzo. Così dico alla donna di chiedere all’uomo che guida di riportarmi al palazzo di mia sorella, quello così vicino al mio, quasi nel punto dove avevano parcheggiato. L’uomo tossisce, la donna gli parla in un’altra lingua. L’uomo fa subito inversione, senza esitare. La donna mi sorride, poi si gira ancora avanti, abbassa la radio e commenta qualcosa in una lingua ancora più oscura. Osservando alcuni palazzi, abbassando la testa per guardarli meglio, mentre glieli indica allo stesso tempo con un dito. L’altro guida e li guarda appena. Le dico dove farlo fermare. La macchina accosta, scendo e la luce ormai è tornata. Le sirene tacciono, mentre le citofono e la sento preoccupata, che si è fatto davvero tardi e che non è mai successo che la mamma abbia tardato così tanto e senza avvertirci. E intanto mi sento imbevuto anche io di una strana ansia, e non so ancora se dirle che in macchina ci sono due sconosciuti che mi aspettano; così cerco di temporeggiare ancora un poco, valutando in silenzio sul da farsi, fino a quando Elvira non mi chiede di salire sopra, e io le dico subito che è inutile, perché non ha il telefono e che c’è qualcuno che potrebbe accompagnarmi a cercarla e fare molto prima. Qualcuno che conosco bene, cercando di tranquillizzarla, senza fare nomi – che d’altra parte non so. Quando Elvira mi chiede i nomi, io vado sul vago, e le dico che in questi casi l’importante è ottenere un passaggio per il primo ospedale, senza entrare troppo nei dettagli. Ho cercato di balbettarglielo per non farla allarmare, ma lei mi fa notare che io ho una macchina nuova di due mesi e che vuole venire con me. Il tempo di lasciare i bambini alla signora Staffini, la sua vicina che molte mattine li accudisce. E che adesso sarebbe un’emergenza e che allora io la devo aspettare. Non ho scelta, così acconsento. Mi volto e li guardo. Sono rimasti fermi dove erano, guardandomi le spalle tutto il tempo della breve citofonata con Elvira. Adesso mi aspettano nell’auto, me lo dicono i loro occhi spenti, la loro forma dei visi vicini e spettrali. Alzo subito un braccio, in modo svogliato, e li ringrazio, sperando che adesso se ne vadano, e dicendo che adesso è tutto risolto, che la luce è tornata, che posso prendere la mia auto, che è nuova di due mesi, come mi ha appena ricordato mia sorella, e che sono stati molto gentili a riportarmi al palazzo. Tra poco sarebbe scesa Elvira e così saremmo scappati nel mio garage a prendere la mia auto e così l’avremmo cercata per bene, come soltanto due fratelli di sangue possono cercare una madre.
L’auto bianca rimane ferma: cerco di scandire le frasi verso la donna, che adesso ha il viso preoccupato, mentre cerca di tradurre al suo autista sinistro le mie ultime confuse parole, e forse il fatto che sono risaliti e che devono andare senza di me. Non riesco a capire quale sia il problema. Sento solo l’uomo alzare la voce, lo vedo strattonarla per un braccio, anche se nelle ombre dell’auto il polso della donna muove dei bracciali che suonano e rischiarano per qualche istante il buio dell’abitacolo. La donna che comincia ad infastidirsi, si scrolla il braccio avvinghiato dalla grossa mano dell’uomo, comincia a reagire con violenza. Alza la voce anche lei, un breve scambio di battute, ancora più secche e più tese. La donna apre di colpo lo sportello, l’uomo cerca di trattenerla, ma scende di furia e glielo sbatte in faccia. L’uomo rincagnito sputa una bestemmia nel vuoto. Si ricompone, mette subito in moto e scatta lontano, come un lampo secco di temporale.
La donna è rimasta da sola, a pochi metri da me. Non mi guarda, ma si osserva le scarpe e intanto con le mani si aggiusta la giacca scomposta. Adesso sembra appena più tranquilla, come se disintossicata, dalla sua ultima espressione nella macchina, quando mi ero appena girato dopo la difficile citofonata con Elvira. Si ricompone appena la gonna e la giacca, i capelli e poi mi si fa più vicina. La guardo con imbarazzo, attendo che mi dica qualcosa. Io non so davvero che cosa dirle, e mi chiama di nuovo con il mio nome, e mi chiede di portarla con noi, che adesso è rimasta a piedi, e io la trovo una cosa ancora normalissima, una cosa che comprenderebbe anche mia sorella Elvira, e senza troppe inutili giustificazioni. Così la donna senza nome mi rimane passo passo accanto, come un’ombra che segue ogni mio spostamento e senza parlarmi. Il tragitto verso il garage è brevissimo. Lo apro con uno scatto del telecomando, che porto sempre con me, insieme al mazzo di chiavi, la porta scorrevole di sinistra si prende il suo tempo automatico. Entriamo dentro il garage. Raggiungo in fretta la mia auto ancora nuova. La donna rallenta, perché i pilastri le sporcano la giacca, nell’ultimo tratto del corridoio delle auto. Entro in macchina e cerco di mettere un po’ d’ordine; accendo la luce nell’abitacolo, comincio ad aprirle lo sportello anteriore, dimenticandomi di mia sorella Elvira, e lei mi piomba dentro e da soli lo sguardo prende coraggio. La porta scorrevole prende a richiudersi, il mazzo di chiavi è ancora nella tasca posteriore. Non faccio in tempo a recuperarlo anche perché la donna mi ride addosso e si aggiusta la gonna con lentezza. Il tempo che la porta si chiuda del tutto e la luce vada via di nuovo, murandoci, senza speranze.
Le sue risate adesso si mozzano. Nel buio la sento farsi più vicina, ancora di più. Il suo odore, l’odore della sua paura del buio o di quello che rappresenti io dentro quel buio, in quel momento così strano, anche se conosce il mio nome, potrei essere un qualsiasi estraneo pericoloso come sono pericolosi tutti gli estranei o tutti quelli che si accostano a noi per la prima volta al mondo. E allora cerco di rimanerle vicino, e di farle coraggio e intanto mi si avvinghia addosso e sento che le sue mani cercano un approdo, forse hanno freddo e mi stringono e allora la guardo ancora meglio. Dico che vado a cercare la chiave per l’apertura manuale delle porte. Mi tocca accendere i fari, ma non so se raggiungono l’angolo opposto del pilastro dove è sistemato l’arnese di sblocco per l’emergenza. Tento con gli abbaglianti e cerco di capire se riescono a farmi strada ma sono dislocati in un raggio ancora insufficiente. Mi servirebbe anche un accendino, ma mi dice che lei non fuma e che adesso le manca l’aria, e che la luce degli abbaglianti non le basta più. Mi chiede di cercare al più presto quell’arnese, altrimenti si mette a gridare e poi ha la paura dei gatti oltre a quella del buio. Mi chiede se lì dentro si rifugiano i gatti, e che il troppo buio la prende alla gola come quella sua voce così stanca sta prendendo alla gola me. Ma io le rispondo di no: che di gatti lì dentro non ne ho mai visti, anche se non sono così sicuro, ma mi conviene tenerla calma e cercare al più presto di uscire dal bunker-garage. La sento che mi stringe più forte, perché ha paura di rimanere lì dentro, perché teme che i morti si vogliano vendicare di quello che ha fatto, mi dice, e allora comincia a singhiozzare e io non capisco che cosa significano quelle strane cose che comincia a sviscerarmi, con un tono sommesso ma profondo, che mi ferma e non riesce a farmi uscire più dalla gabbia delle sue parole convulse. Le chiedo di spiegarmi meglio, ma non riesce a parlare. Le sento solo il respiro che si fa più pesante o è forse lo sforzo per articolare e allora rimango impiantato vicino a quell’ansia e me ne rapprendo fino a dentro le viscere, cercando di sentire oltre e quanto altro potesse esserci oltre quell’angoscia palpabile e così nera.
Gatti non ce ne sono in quel garage, ma non mi crede come forse io non credo a nulla di lei, tranne al mistero del suo odore e del suo corpo elegante e un po’ francese e malinconico, uguale allo stile del suo viso. Forse avverte dei rumori impercettibili, che io non riesco neppure a cogliere,e vuole dirmi qualcosa, a fatica. Ma così al buio anche le parole perdono orientamento,anche se acquistano peso, che forse avrebbero bisogno di uno spiraglio anche minimo per partire; e intanto sento una sua gamba che mi sfiora e poi il silenzio, che la capsula dell’auto protegge e amplifica, ancora più grande di quello riverberante del garage. Le porte bloccate: saranno quelle la causa del suo affanno, forse la claustrofobia; ma non riesco a chiederle niente. Non farei altro che agitarla, e adesso quella donna mi inquieta ancora di più, perché mi spinge con la gamba e forse non se ne accorge, e intanto mi ritornano a raffica dentro la testa Elvira e mia madre, che sembrano così lontane e sconosciute alla mia vita sospesa di quel momento; soprattutto mia madre, che dimenticavo a intermittenze così rapide. Adesso avverto l’odore di quella donna ancora senza nome, ma era colpa mia che non glielo avevo ancora chiesto, e poi conosceva il mio nome. Ottavio, lo ricordo bene, così mi aveva chiamato, con il tono riposato e cordiale di una che mi conosce bene, forse una compagna di classe, una che ricordava ancora il mio nome lontano, sfigurata o trasformata dal tempo. Eppure stare al buio con quel contatto così silente e invasivo, quanto elegante, mi fa sentire al mio posto, in un posto così misterioso e mai occupato, che avrei quasi preferito che non si modificasse niente di quella strana variante serale, e che il tempo continuasse sospeso e indisturbato a scorrerci addosso e che le sue ginocchia mi parlassero, semmai di dove fosse finita mia madre o la mia vita e in quell’ora così strana del sabato, o della voglia improvvisa di un bacio, da scivolarle sui capelli che le nascondono il viso mischiati al buio del garage, che me la ricordavo piuttosto ordinata, da come la ricordavo alla luce intendo. Come una che forse stavo cercando da sempre, ma che adesso riprende a parlarmi, a fatica; forse perché ha ripreso il fiato giusto e allora i miei pensieri ritornano al loro posto come cadetti, nel forziere oscuro della mia coscienza, quando un richiamo mi risveglia dal sogno di quel reale.
Mi dice che sta un po’ meglio e che adesso vuole parlarmi di qualcosa di importante e che devo ascoltarla senza interromperla, altrimenti non ci riesce. A quel punto mi concentro, le chiedo se ha bisogno di luce, ma lei preferisce così, come a volte alcune donne con l’amore…, e allora la sento più vicina ancora. Più della sua gamba sul ginocchio di poco prima, mentre mi parla di una situazione oscura che all’inizio non riesco a comprendere. Le sue parole sembrano sfuggirmi, dovrei chiederle di ripetere ancora, ma sono troppo preso dallo sviluppo, è come se il punto importante debba ancora arrivare e non devo a tutti i costi distrarmi, quando mi parla di quella stessa sera, in effetti di poco prima che io li avessi visti nella macchina, e mi dice forse di qualche ora prima, forse meno di due ore, – altrimenti sarebbe stato pomeriggio – e mi parla di una donna che si spogliava, in una traversa di via Cervantes. Una donna che si toglieva gli abiti di dosso, davanti a tutti, senza ritegno e pudore. Si alzava la gonna e si toglieva le mutande nere, le aveva viste bene e scopriva anche la pancia e poi si metteva a sedere sul marciapiede e nella stessa inquietudine continuava a togliersi tutto quello che poteva, con uno sguardo smarrito nel vuoto. Se avesse potuto, mi diceva, quella strana signora si sarebbe strappata anche la carne, perché in quei gesti c’era come un’insofferenza profonda, come di oppressione per qualsiasi cosa di proprio costituisse una sensazione viva di contatto. E allora ogni tessuto andava allontanato d’urgenza, quasi a strapparlo, sembrava una donna perduta nelle sue stesse fiamme. Rimango raggelato, me la vedo davanti, come me l’ha descritta, e penso a via Cervantes, alle diramazioni e ai percorsi possibili di quell’ora. Se potesse essere passata proprio mia madre di lì, dentro un sabato qualsiasi di autunno come era quello e poi impazzire, così all’improvviso; e poi ricollegare il fatto che quella donna conoscesse il mio nome, forse l’attinenza con un indizio e lo svelarsi di un segreto terribile, quanto quella sua bellezza purissima e opprimente, che continuava a insidiarmi nelle ombre. Le sue parole mi frenano di nuovo il flusso e allora cerco di capire e lei continuando mi dice che si trovavano di passaggio, con lo stesso uomo di prima, quello che era alla guida di quella stessa macchina, quello stesso uomo sinistro che io non capivo e che non capiva nemmeno lui me, molto probabilmente. Con la loro stessa auto, che avevo visto anche io e nella quale anche io ero entrato per qualche minuto, rallentavano e accostavano. C’era spazio in quella piccola traversa che imbucavano, e rimasero a guardarla, quella donna che apriva le gambe e scivolava le sue mutande oltre le ginocchia e si alzava i capelli, che erano curati. Insisteva col dirmi che sembravano freschi di parrucchiere, di una persona distinta, che adesso faceva allontanare tutti i passanti e creava solo il vuoto e lo spavento intorno a sé, e non il desiderio di un corpo. Quel tipo di svestimento disturbante, era afflitto solo dallo spavento, non c’era altro. Mi diceva che vestiva davvero bene, e anche il cappotto che era spalancato sul marciapiede era un cappotto molto buono, di una signora importante o per bene, che certe cose forse non le avrà mai fatte prima nella sua vita; e anche le scarpe erano alte e io volevo chiederle di che colore fossero quelle scarpe alte, perché anche mia madre portava delle scarpe alte quando usciva ed era una persona molto elegante; e anche il suo cappotto, ma non trovavo il modo di interromperla né la forza di parlarle. Si ferma. La sento fredda nel buio, spaventata. Forse deve ricaricarsi o si è già pentita o ha sentito un rumore. Mi chiede la mano, e la sento tremare forte, come non ho mai sentito tremare nessuno così in tutta la mia vita. Allora gliela stringo più forte, cercando di calmarla; ma è molto difficile essere più forti di un tremore così preciso e ghiacciato, da far tremare e indebolire anche la mia mano, e allora il suo racconto continuava, riprendendo quota, e io cercavo di stare calmo ma non ci riuscivo, e poi pensavo anche a Elvira: chissà se stava ancora ad aspettarmi, ma senza luce avrebbe capito che ero rimasto chiuso lì dentro, e forse era già risalita, a chiedere aiuto o a controllare i bambini dalla vicina, in attesa che la luce ritornasse. Ma in quel momento io non avrei mai voluto che la luce ritornasse. Mi intrappolava l’odore amaro di quel racconto e quello del suo corpo, che prendeva sempre più calore dal mio e me lo toglieva, e che adesso mi era ancora più vicino. Le sento la tempia scivolarmi addosso, e coricarsi verso il mio fianco. Stiamo scomodi, ma riesce a continuare meglio da distesa e adesso le sue orecchie sono vicine alla mia pancia e avvertono meglio il mio respiro, che cambiava a tempo con l’affilarsi delle sue piccole frasi spezzate, come coltelli, quando mi diceva dell’idea che era venuta al suo strano autista, quando la guardò negli occhi e le disse di controllare che non ci fosse nessuno a guardare, mentre se la sarebbe caricata dietro, prendendosela in braccio. “Non sapevo cosa fare, di solito decideva sempre tutto lui e allora, in un momento che non passava nessuno, ero scesa a fare da palo, come mi aveva detto di fare, mentre quello se la prendeva di peso, quella povera matta, e se la caricava in macchina, quasi nuda, sui sediolini posteriori. E io allora, le avevo preso il cappotto che era rimasto disteso e anche una scarpa e piombavo spaventata in avanti, e cominciava a correre forte, e quello stupido che rideva e spingeva sull’acceleratore, e io che non capivo cosa ci fosse di così divertente e dove diavolo stesse mai andando; e poi mi giravo a guardarla, quando quella donna sembrava rapita dal passaggio rapido delle prime luci cittadine dai finestrini e allora sembrava più calma. Aveva la pancia e la schiena ancora scoperte e messa tutta di fianco le si vedeva mezza natica con dei lividi e tutta sporca. La borsa gliela aveva presa lui, forse era convinto che una fuori di testa non è detto che fosse necessariamente una poveraccia e allora cominciavo a capire che voleva ricavarci qualcosa in qualche modo da quell’accidente così triste e io non potevo crederci che potesse arrivare a tanto e mi aveva già scagliato la borsa con l’altra mano sulle ginocchia” adesso riprendendo ad affannare, “e poi mi diceva di controllare che cosa ci fosse e se avesse i documenti, e intanto imbucava una strada secondaria e meno trafficata e molto isolata, una strada che mi metteva paura, come il suo viso, quello perduto della donna che aveva portato in auto, come tutta la situazione. Forse voleva raggiungere qualche luogo nascosto, che non conoscevo nemmeno io e intanto, mentre frugavo nella borsa, la tenevo di profilo. Era ancora scompigliata, ma aveva un gran bel viso e così umano, e allora davvero mi dispiaceva, perché sembrava una persona così per bene e speravo che non avesse mai ricordato il male che le stavamo facendo a portarla via; e in quel momento che sembrava non finire mai io non riuscivo più a frenarlo, e non capivo più le sue intenzioni e nemmeno quello che mi diceva. Intenzioni che forse nemmeno aveva, non riuscivo nemmeno a capire che cosa gli fosse scattato, se era solo per la borsa o per qualcosa di più oscuro e inscrutabile, qualcosa che non avrei mai saputo. Adesso avevo le mani affondate nella borsa e gli occhi sui suoi capelli e poi sul suo naso: un naso così nobile e gli occhi ancora così sperduti e serali, e con quell’unica scarpa ancora al piede la sentivo una donna disperatamente sola, forse sola quanto me. Ma forse non povera, diceva lui, e sorrideva forte e mi guardava, gustandosi in pieno la chiazza lorda del mio spavento. Le avevo preso il documento, era in una piccola custodia arancione di plastica, sfuso nella borsa, insieme alle chiavi. Ma fu in quel momento esatto che l’auto sbandava, per fortuna quel brutto diavolo riuscì a recuperare con una sterzata. Io avevo la cintura, come l’aveva lui, ma quella poveraccia dietro stava tutta storta, senza nessuna cintura, e così sbatté la testa nel vetro, senza romperlo ma così forte da perdere il sangue dal naso e da farsi come nera nera sotto gli occhi e fino alla bocca. Aveva cambiato viso. Ci guardammo spaventati, in quel punto non potevamo nemmeno accostare per vedere che cosa le fosse successo dopo il colpo, e allora lui continuava a correre, ancora di più, forse in cerca di una zona più isolata. Quell’orario era già trafficato, sarebbe stato meglio abbandonarla, morta o viva, mi gridava; io intanto la chiamavo, per capire se mi sentiva, ma aveva gli occhi aperti e più tranquilli, come quelli di una cerva. Ma era fredda, ancora così fredda, quasi come me e il documento mi scivolò nell’auto. In quel momento non pensai più a nulla, alla borsa, a quanti soldi avesse avuto dentro, ma mi girai tutta per sentirle il respiro da qualche parte del corpo, perché si respira un po’ dovunque, uno vivo anche se svenuto dovrebbe in qualche modo pompare, ma invece quella signora non pompava se non quel nero di morte sotto gli occhi, che le dislagava come il trucco sciolto e lui mi diceva che era una matta, e che quella è la fine che fanno tutti i matti prima o poi, e che non era colpa di nessuno, e che aveva trovato una radura nei pressi della strada senza uscita delle tre croci, dove accostò.
Scese, tirò una boccata folta di fiato stirandosi al massimo le due braccia verso la schiena. Poi aprì con calma lo sportello, dopo essersi guardato intorno per accertarsi che non vi fosse nessuno in giro. Così la controllò, con una certa competenza, la stessa che avrebbe potuto riservare a qualsiasi estraneo o creatura animale in difficoltà incontrata durante un qualsiasi tratto di strada. Lo vedevo molto sicuro, e come se avesse avuto già a che fare con quelle situazioni, e allora io guardavo a tratti alternati il suo viso e quello della donna, che si faceva scuro come se abitato da un ragno. Speravo di essermi sbagliata, che fosse solo una mia impressione e un gioco della luce, e invece quell’uomo mi fece segno con la testa che era andata. Il colpo era stato molto forte, molto più forte e preciso dei colpi forti e possibilmente volontari che si possono infierire a qualcuno con intenzioni sinistre. Così forte che ancora me lo sento dentro e io non avevo il coraggio nemmeno di muovermi, che era già buio, quando l’uomo se la prese di peso e la scaraventò in un dirupo profondo e oscuro, forse una mezza discarica abusiva, lasciandola ingoiare dalle ortiche e dai rovi, dove non l’avrebbero trovata per giorni, forse per mesi, perché lì era davvero molto profondo e non ci sarebbe arrivato mai nessuno. La borsa rovesciata, vicino a una sua scarpa e allora lui prese quello che c’era da prendere, una quarantina di euro in tutto, e buttò via il resto delle poche cose, comprese le chiavi. Risalì in auto e scattò via, una molla di fuoco, ritornando verso il centro, appena più sereno. Mi chiese di passargli l’accendino e si mise a fumare con una mano sola e soffiava molto forte il fumo dalla bocca, lo spingeva con un brutto suono di drago. L’altra scarpa della donna, quella che era rimasta in auto, mi disse di buttarla in un cassonetto, che nessuno avrebbe ricollegato. Poi accese la radio”.
Riprende fiato e si allontana da me con la testa. “Perché, perché eravate tornati proprio davanti al mio cancello?”, e mi disse che di solito il sabato si appartavano dove capitava e che avevano deciso di prendere fiato e di rilassarsi e cercare di farsene una ragione parlando, “ma io ero agitata e non volevo restare a parlare; poi sei passato tu e ti ho sentito chiamare dal balcone, forse tua sorella, io ho capito che cercava te, ma tu eri un po’ stordito e allora non capivi, ecco, e poi il resto tu lo sai”.
Rimaniamo in silenzio, raggelati e sfiniti. Il garage immerso nell’oscurità. “Il documento, per favore. Devo vedere il documento”. La donna non si muove, rimane ferma, impassibile. “Non ce l’ho più, il documento. Mi è caduto a terra nella macchina quando quel pazzo ha sbandato, e poi non l’ho nemmeno aperto”.
Non riesco più a muovermi. Intanto la curiosità si fa così grande, o forse avremmo potuto lasciare tutto nel vuoto, nel vuoto di quel momento, e lasciare nella nebbia anche quell’identità, come in fondo era la nostra. In attesa che avessero ritrovato mia madre o che fosse ritornata lei da sola, che in quel caso lì sarebbe stato tutto molto più semplice. Ma i miei dubbi erano sempre più laceranti. In quel momento avrei dovuto sbloccare soltanto la porta e raggiungere Elvira, e chiederle se avesse avuto qualche notizia e allora la lascio nell’auto. Scosta ancora la testa e una volta che io esco, riprende a fatica la stessa posizione. Vagando tra i pilastri, senza riuscire ad orientarmi. Chiedo alla donna di accendermi i fari, che avevo spento quando mi parlava, almeno per orientarmi. Ma lei non mi risponde e allora mi avvicino all’auto. Mi corico verso i comandi e la sfioro, e solo in quel momento ritorna la luce…
In un colpo la donna si ricompone. Io afferro il telecomando e apro la porta automatica. Metto in moto e scatto fuori, e in quel momento vedo Elvira e mia madre che mi vengono incontro, con lo stesso sorriso stampato nel volto. Mia madre che sembra rimproverarci, ma che pare così felice di tutta quell’ansia così grassa e imbastita solo per lei, e che le lascia un gran calco sulla bocca che ride. E poi ci dice che quella era la serata del suo poker e che noi avremmo dovuto ricordarlo, il terzo sabato del mese. E che per fortuna quel gentiluomo dell’avvocato Tassoni, sempre così gentile e premuroso, l’aveva appena riaccompagnata, che era tutto buio anche lì da loro al corso Nelson. Gli occhi di mia madre si posano sul viso sperduto di quella donna, che mi sta ancora vicino e che si sente esclusa e smarrita dalla nostra gioia domestica, e che in un baleno mi saluta, con un bacio sfuggente e si precipita fuori dal cortile, verso la strada. Le grido qualcosa, mi dice che avrebbe preso un taxi, ormai è più lontana e si muove così in fretta, senza voltarsi, quando gli occhi di Elvira e di mia madre mi guardano perplessi, quando ormai la donna è svanita. Mia madre decide di andare a salutare i nipoti, e allora si allontana piano con Elvira. Prima di avviarsi sopra mi chiedono chi fosse quella persona che non avevano mai visto. Io dico una compagna di classe, perché non so che dire e una compagna di classe è una cosa ancora molto tenera e rassicurante da dire, e di una certa nostalgia ancora così ben riuscita e funzionante a quell’ora; e specialmente in una sera come quella e a quell’ora di quel sabato così spiritico, quando ci eravamo ritrovati tutti a dispetto di tutto il resto, e subito dopo il maglio irreale di quell’inferno vivo e così privato, che non avrebbero mai saputo. Intanto chiamo un attimo Elvira e le chiedo se dal balcone quella sera mi avesse chiamato davvero per nome, ma lei nega: quella sera non si era affacciata. Ci siamo parlati solo al citofono, mi dice con sicurezza, che stava cenando e che aveva già abbassato le tapparelle da un pezzo. Le lascio andare vicine e spengo il motore. Poi lo riaccendo e chiudo gli occhi. Nell’auto ancora il suo odore speziato, bellissimo a quell’ora già troppo notturna, quando sono mosso dal desiderio di raggiungerla e di svelarci quell’identità oscura per entrambi, che nonostante il sollievo adesso mi logorava ancora di più.

* * *

Vagai per diverse ore, e non solo quella sera, ma non la rincontrai mai più e nemmeno seppi mai se fosse stata ritrovata una donna in qualche macchia di erbacce selvatiche e di rovi, e nemmeno se qualche scarpa da donna alta e di una per bene fosse sbucata appena sformata da un cassonetto. Non seppi più nulla, perché forse era davvero fatto di nulla quello che quella sera mi era accaduto. Come tutto quello che avviene solo agli altri e che non ci tocca mai direttamente, che non ha a che fare con le nostre relazioni, con i nostri affari di cuore o di morte e con i nomi di persona; con la sfera eletta dei nostri consanguinei o con quella dei nostri piccoli clan solitari e borghesi, e con tutti i piccoli tasselli ordinati della nostra vita e forse con l’ apagoge di quel sabato sera e notturno. Eppure quella donna doveva avere una grande fantasia, o una grande indimenticabile maledizione nell’animo che un po’ mi contagiò e che mi è rimasta ancora dentro anche se mi rassegnai in qualche modo a dimenticarla, come una compagna di classe in controluce, dopo tanto tempo, e pensando così che non fosse avvenuto nulla di tutto quel racconto al buio, e che ne era rimasto solo il suo debole fantasma, soltanto dentro di noi. Quando un giorno di non molto tempo dopo, mi trovavo al solito autolavaggio, e un ragazzo biondo e quasi straniero del personale, scrollandomi il tappetino dal lato passeggero, mi fa cenno con la voce e muove il braccio con un gesto ampio nella mia direzione. Mi giro, e intanto noto che ha qualcosa in mano, un qualcosa di un arancione acceso.
“Che fa, viene lei o glielo porto io?”.
“Ma che cos’è?”

fine

§

Luigi Salerno è nato a Napoli nel ’67, e lì risiede attualmente. Specializzato in alta formazione musicale, con tesi per il secondo livello specialistico, sulla musica classica nel cinema (La musica colta nel fotogramma) conseguita con il massimo dei voti al Conservatorio di Napoli S. Pietro a Majella. Ha ottenuto diverse segnalazioni e premi (Premio W. Ciapetti 2007, 15 TH International Gypsy Friend Arts Competition 2008. Categoria Short Story Racconto Il sole negli occhi.)
Con la Scuola Holden è stato tra i finalisti del Concorso nazionale autori italiani e stranieri “Terre di Mezzo”, 2008. Il suo racconto “il telegramma”, è stato pubblicato da “Terre di Mezzo”. Ha ottenuto il Diploma d’onore al “16 TH International Gypsy Friend Arts Competition 2008”, nella categoria “Short Story” con il racconto “La sassata”.

Con il racconto che abbiamo pubblicato qui su Musicaos.it Luigi Salerno è stato finalista al Concorso OXP 2009, organizzato dalla Casa Editrice legata all’Istituto Universitario l’Orientale di Napoli (2009).

Di recente si è classificato al secondo posto alla II Edizione del Concorso “Festival Libriamo 2009” a Vicenza (continuazione ideale “Sillabari” di G. Parise) con il racconto “La canzone” pubblicato con “La Serenissima”; è stato finalista alla III Edizione di “Libriamo 2010 Vicenza”, dedicata allo scrittore Giovanni Comisso, con il racconto “Fuga dal Medrano”, di prossima pubblicazione.

Ha collaborato con Terra Nullius: “Bottoni”; “On the phone”. Il suo romanzo dal titolo “Il disabitato” è di prossima pubblicazione. Per il teatro ha scritto “Meerschaum” (Atto unico); “L’interruzione di viaggio” ;“La stanza di Fritz”.

Luigi Salerno si occupa di un blog letterario: http://bookandshade.blogspot.com/.
Contatti: luisgroove@libero.it

(clicca qui il racconto in formato pdf “La compagna di classe” di Luigi Salerno)

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“Col mitra scarico di sogni” di Francesco Aprile e Teresa Lutri


Francesco Aprile – Teresa Lutri
2011/01/12

Col mitra scarico dei sogni

Uno. Due. Tre. Dieci. E ancora Uno. Due. Tre. Cento. Mille. Pensavano alla frase. All’uscita. Poi. Oggi il mare è diverso. Oggi ha il colore di niente. Si avvolge come onda.
Per strada_ dai finestrini dell’auto_ scorrevano il paesaggio come riflessi, ciglia macchiate della storia. Ancora. Oggi il mare è diverso.
– Io non vedo mare – disse uno di loro.
Era il figlio prediletto della storia. Cacciato allontanato. Dimenticato. Il figlio prediletto della storia. Eletto al rango di storia dimenticata.
– Io non vedo mare – disse ancora.
– Io non vedo che urla_ muoversi. Ho pestato ancora le mie mani.

“Io non vedo che urla_ non sento che mare. Non vedo mare/sento mare. Diverso mare. Diviso mare. Separato dal fievole anelito del mio ego. Quasi battuto. Con questo corpo quasi dissolto. Che possa straripare tutto questo mare. Che possano liberarsi queste_ intime onde di me. Di dentro. Questo sbattere all’impazzata_ aspetto_ saponificazione sacra_ di tutto ciò che non serve. Gli occhi continuavano_ a fissare urla nella testa”.

Ore 13. Aperitivo. Colazione distillata.
Ore 14. Nient’altro da urlare.
Ore 15. Approssimazioni.
Ore 16. _ _ _ _ _ _ _ _____ _ _ _ .
Trasmissioni interrotte. Bip.

Lo trovarono dismesso sotto il nero incancrenito di una carta d’identità. Il figlio prediletto della storia. Assunto morto. Contabile_Cristo_Cazzo_Cristo. Di nuvole.

– A fare i conti con la storia_ ci tocca il passo più lungo della gamba. – Apostrofò uno.
– È che siamo così.
– Non dire stronzate.
– Aleph ha solo bisogno di morire. Lasciatelo fare.

Ma stavano ancora dicendo stronzate_ mentre il treno che passava se lo portò via. E le colline, prossime al sole. E le colline_ rosse spremute di papavero_ rosse spille negli occhi. Rosse colline di schizzi di sangue_ rosse colline rosse_ di sole al tramonto_ di vita_ di fiore_ di cuore_ di colline. Rosse spremute di papavero|
sullo sfondo degli istanti – acerbi – del passare del treno. Che. Appena nati. Appena morti.

Corsero verso i binari. Corsero due. Corsero tre. Corsero ancora. Di Aleph. Niente. Tracce zero. Di vita annusata al km 120.470. Corsero via. Direzione opposta. Bar. In uno al bar. In due al bar. In tre al bar. Sulla sedia elettrica delle coscienze.

D i s a t t i v a t a .

“E proprio Aleph si rivelò_ in forma di sedia elettrica disattivata. Tacita ferraglia di coscienze_ tutte ancora da accogliere. In seduta/trauma. In frenata_ di corsa cieca. Silenzio di ferraglia/terrore_ intimidatrice di ritmi. Sostenitrice di pause. Obbligatorio fermarsi. Ci vuole responsabilità. Nel camminare e nel fermarsi. Nel portare proprio questa faccia. Nel fare la puttana o l’imbianchino. Nel dissolversi_ in una fabbrica. Nella fiamma rossa_ d’una qualunque rivoluzione. Responsabilità ci vuole_ a non vedere il mare_ a disattivarsi. Attesa di culi responsabili_ su seduta silenziosa consapevole di responsabilità. In uno a tentennare. In due a tentennare. In tre a tentennare. Fermata obbligatoria. Aleph non parla. Aleph/frenata”.

Sullo spettro delle inquietudini. Scesero in tre. Spazio. Spazio. Lasciate loro spazio. Si gridava attorno la folla del bar. Presto. Fate presto. Ne giunsero altri con loro. Attorno. Tutto attorno. Spazio. Fate spazio. Ne giunsero altri con loro.
Mentre urla. Contornavano il viso.
Mentre attorno. Lacrime e desiderio.
Mentre attorno. Il re ha perso la regina.
Mentre attorno. Ospiti si autoinvitavano al banchetto.
Mente attorno. Mentre urla mentre. Attorno. Crepe sui muri lasciavano spazio al vento.
Mentre attorno. Gridava il vento_ sono libero di fischiare.
Mentre attorno. Non grida l’uomo che ha morso il serpente.
Mentre attorno. Non grida l’uomo che lascia cadere la mela.
Mentre attorno. Grida l’asfalto forato ché s’è fatto tempo.
Mentre attorno. Non dorme l’occasione. E si svuotano bianche lastre di case. Di tufo. Di pane. Di bianca cera_ crema di luna.

“Crema di luna. Ora bianca di calce_ di case di sogni. Proiettati in alto_ stagliati in cielo. In cerca di_ un quarto di luna da colonizzare. Che le distanze partoriscono funi. Che le distanze partoriscono_ liane di desiderio. E giù_ in picchiata. Urla. Stonate di vuoti. Urla stonate di pieni. Luci e ombre disegnano. Dei tre_ silhouette di pensieri_ danzanti come fiammelle acide. Alla luna giunge. Un bavaglio d’urlo distratto. E rotola_ in crateri. Di non/tempo. Non avverte_ alcuna forza. Di gravità. Fisica”.

E rotola giù dalla fune il desiderio.
E rotola_ via dagli anni il tempo.
Hanno addossato tutto alle pareti. Spazio fate spazio. Dategli spazio. Gravide urla di terrore al bar. Gridavano gli uomini. Spazio. Sia fatto spazio. E intanto_ addossavano tutto alle pareti. Loro. Che erano nel tempo. Nel tempo restavano. My guitar wants to kill your mama. Gridava uno che nel tempo c’era morto. My. My. My my my my…loop…giro di loop loop disco incantato. My my my. My guitar wa…wa…wants.
E grida il nesso che ne toglie la vita.
E moriva il grido che al nesso dava vita.

E lui. Il figlio prediletto della storia. Ritornò uomo. Ma il tempo gli si sfaldò fra la testa e la schiena. Ruppe l’ultimo scafandro temporale. Se ne liberò_ con appena una scrollata di sensi_ tutti intonati_ ad evacuare. Il corpo evacuato. La testa calibrata. L’essenza in volo. Celebrò ciascuna morte fisica. Ciascuna accensione interna. Dal collo ai piedi tutto rotolò. Come urlo imbavagliato. E con lui. Ogni desiderio. Che a vivere. Basta
liberarsi.
Ciascuna liberazione/librarsi. Questo videro. Al chiaro di luna. Volare l’essenza A/Temporale. L’orologio a impazzire.

La condizione preliminare.
L’assenza. La cercavano. Nel passo di danza. Tra la folla stranita del bar. Spazio fate spazio. Hanno bisogno di spazio. Siano fatti loro spazio e tempo. Addossavano ancora tutto alle pareti. La condizione preliminare dell’assenza. Ritrovata mentre frugavano fra le carte, le astruse mezze misure di mezzucci farabutti. Mentre giravano, frugavano, inondavano ogni cosa di urla di fate spazio spazio spazio. Uno dei tre, in uno, si allontanò. Due dei tre, in due, si allontanò. Il terzo non seguì che il terzo. E continuò liscio il suo spazio. Frugava frugava frugava.
Mentre ancora. Moriva il colosso di carta nel cervello.
Mentre ancora. Spendeva la giornata il vuoto scarto della storia.
Mentre ancora. Splendeva d’oro grido di dimenticanza.
Mentre ancora. Si moriva della distanza.
Mentre ancora. Sollecitava l’eco la rimembranza.
Ch’era scettro perso. La costola fratturata. La selva stella d’argento.
Ch’era strumento idolatrato. Il fusto vuoto già consumato.
Ch’era cosetta cantata. La virgola. Parola rimuginata.
Ch’era orgia. Lo spumante di natale_ il cristo morto infame.
Ch’era schiavitù morale. La chiesa_ la notte di natale.
Ch’era maggio i prati in fiore. Mentre oggi. Fumo e dolore.

Mentre scendeva ancora la sera. Mentre le labbra. Inumidite dalla nebbia. Serravano spezie. Rimarcate dal nero pesto della sera. Di un nero asfalto di sete. Di un nuovo dolore serrato fra le gambe. Qualcuno si avvicinava al bar. Altri ne uscivano intimoriti. Altri. Correvano a chiamare altri per continuare a fare spazio. E urla. E botti. E fottìo di gente. E la sera_ mascherava un neo stilizzato di rosso colorato. E la sera_ che scendeva come sale la nebbia fra i capelli. Fra ciocche sfibrate d’amianto. Le tue lastre. Distaccate immagini del cuore. Dell’anima. Del dolore. Sulle foto appese alle pareti. E scendeva la sera. Cara. Avevi la testa poggiata sulla mia spalla. Avevi gli occhi grandi chiusi di sonno. Avevi dolci. Linee di luce e perle e guance sferzanti. Avevi dolci. I capelli sui miei avanzi.
E scendeva la sera. Cara. Colorava la nebbia i nostri teneri sbagli.
E scendeva la sera. Cara. Ammaestrava in ultimo. Tutti i nostri ritardi.
E scendeva la sera. Cara. Filtrava la luce dei tuoi sguardi, la nebbia il gesto il suo sfiorarti.
E scendeva la sera. Cara. Dimenticava l’ora tarda il sussulto del cuore.
E scendeva la sera. Cara. Distillava gli appetiti. Consumati troppo in fretta.
E scendeva la sera. Cara. A rincuorare. Oggi. Quel che abbiamo dimenticato. Ieri. Tutto il peso. Il prezzo. Il senso. Il gusto disgusto. L’odore imbavagliato fra le gambe. Dell’ultima umida sera. Dell’umile schiena divelta, peraltro scoperta, amarezza sterile. E scendeva ancora la sera. Cara. A coprire coi suoi nei spicchi gialli sul nero. A coprire coi suoi nei. Cara. L’odore tiepido di ieri fra le gambe e poi. Waiting for. La chitarra in mano. Sigaretta fra le dita. Penguine serenade. E Amprhey. Sassiyl. Franky. Henry. L’odore del palco. La sensazione greve del suono cupo. La lontananza del mare. Il verso scarno della chitarra. Sarebbe andata così. Mentre il suono rivoltava la stanza.
Mentre il suono rivoltava il tormento cupo dei buchi sulle braccia.
Mentre il suono accendeva i fumi della pace.
Mentre il suono. Condensava l’aspro di ogni sera. In un caldo ricordo da far male.
Mentre l’attesa sbuffava sul conciliare rumore sordo del suono che tardava.
Sarebbe andata così. Sarebbe salito sul palco. Mentre il respiro gonfiava.
E rubava tempo alle immagini. Alle parole. Alle canzoni. Alle note. Alle emozioni in riverbero. Mentre il silenzio sgonfiava. I suoni dell’attesa.
Poi. Avrebbe gridato. Che è tutta colpa della poesia. Che a noi non ce ne frega niente. Che a noi non importa un cazzo. E avrebbe violentato la chitarra. Le assi del palco. Strappandole dai chiodi. Strappando i chiodi dalle assi. Le corde dalla chitarra. Sputando sull’amplificatore. Ché non amplificava se stesso. Lanciando al muro un urlo. Che nemmeno il microfono. Avrebbe immaginato. E saremmo andati via. Dopo ancora ancora ancora una sigaretta. Poche parole stonate dal suono. Rivolte agli amici. Poche parole crepe di emozioni versate. Sulle feritoie esistenziali, sulle nostre barricate emozionali, sulle nostre strenue difese da macellai. Da contabili disoccupati in calore. Da ragazzi in fila per un posto al callcenter delle speranze. Col mitra scarico dei sogni. E la pazienza_ barriera ultima da varcare. Tra fremiti intorpiditi. Di balene bianche lungo le strade. E nuvole. Nuvole nuvole. Nuvole che deragliano_ sempre_ ancora ora_ la luce del giorno. Fra le immagini smunte dei nostri palazzi in rovina. Dal finestrino dell’auto. Guardavano|
– Ma io non vedo mare.
– Ma io non vedo sole ad accarezzare cullare abbracciare gli insicuri toccati attimi di tempo sul viso.
– Ma io non vedo mare.
Di Aleph più nessuna traccia.
Stavano ancora dicendo di malinconie, di sussurri sbagliati. Lanciati senza il vento di un sospiro alle spalle. Scongelati dai peggiori incubi. Stavano ancora dicendo di un giorno che. Appena nato. Appena morto.
Che scesero. Dall’auto ad inseguire persone.
Che scesero. Dall’auto e non trovarono persone.
Che scesero dall’auto_ nel bianco stanco di uomini monocromi.
Che scesero in strada. Fra saluti seriali di genti uguali.
Che scesero. Fra la puzza di piscio. Vagabondo dietro cassonetti incendiati.
Che scesero. Fra la puzza del delirio. Di politici ladri non curanti. Iniziarono a correre. Senza meta lontano lontano lontano. Strapparono via sacchi dell’immondizia. Cacciarono via un paio di lattine. Per dei palloni improvvisati dietro le perdite_ sconfitte affisse dei loro diritti. Bruciati. Stuprati. Incatenati.
Scalcinati. Umidi tetri sospiri appassiti. Che un’auto che passava. Portò via uno di loro. Tre dico tre. Ne rimasero due. Fra il rosso sangue sulla strada. Fra il rosso sangue di auto impagliate. Fra il rosso smacco della vita. Fra il rosso sangue come di rose. E avevi ragione a dire di no. Alle nostre ferite. Lasciate sulle schegge di bicchieri vuoti, rotti.
E avevi ragione a dire di no. Al destituire dei nostri sogni_ ormai randagi, come gatti soli nello sporco delle strade.
Un’ultima sonata di violino sfiorava. Nuvole di rose_ appassite nel cielo. Da annaffiare nei vasi.
Sui nostri balconi decrepiti.
Sui nostri cieli offuscati.
Sui nostri sui nostri.
Sui nostri ormoni dilatati.
Mentre s’annuvola_ di rose, la nostra anima. Stuprata di tenebra. Scendeva la tensione del giorno. Di un sole distorto. Di un sole nascosto. Di un sole adombrato da carceri di cemento.
Sui nostri ciechi momenti non brilla che la miseria.
Sui nostri istanti mancanti_ non nasce primavera.
Dove non sorge che pianto.
Dove non sorge desiderio d’amore.
Mentre grida il verso s’è fatto spento.
Mentre smuove, l’ora, la piazza in rivolta.
Mentre neve. Sfiniva ancora la sera. Di una notte. Che idruntina volgeva al termine, imbiancava l’incavo stomaco di luna, una sagoma appesa di neve, poca luce di stelle nel cielo. Una grondaia di nuvole spessa come il fondo del mare.

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scarica il racconto in formato PDF per una lettura agevole in luoghi differenti o addirittura come materiale per un reading estemporaneo

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Il Foglio Letterario al MODENA BOOK FESTIVAL – 19 e 20 febbraio 2011


IL FOGLIO LETTERARIO EDIZIONI
Associazione Culturale
Editoria di qualità dal 1999
Sito internet: www.ilfoglioletterario.it

IL FOGLIO LETTERARIO AL MODENA BOOK FESTIVAL [STAND N. 29 – sala
verde]

Modena, 19 – 20 Febbraio 2011
Foro Boario – Via Bono da Nonantola, 2
Ore 9 – 20

Domenica 20 febbraio 2001
SALA SELLERIO
Presentazione di KARMA INVOLONTARIO
di Andrea Gratton
a cura di Andrea Gratton e, Enos Rota

e della CASA EDITRICE IL FOGLIO LETTERARIO
a cura di Gordiano Lupi e degli autori presenti

NEL FILE ALLEGATO LE NOSTRE NOVITA’ CHE POTRETE SFOGLIARE E ACQUISTARE AL NOSTRO STAND INSIEME AGLI ALTRI LIBRI IN CATALOGO
www.ilfoglioletterario.it

SITO DEL MODENA BOOK FESTIVAL: www.progettarte.org
Sabato 19 Febbraio – Sala Sellerio ore 17.30

HISTORICA presenta

VELINA O CALCIATORE, ALTRO CHE SCRITTORE! on Gordiano Lupi e Francesco Giubilei. Un libro che vorrebbe scuotere il lettore verso una lettura consapevole e non dettata da mere operazioni commerciali come i tanti “libri di comici, di veline, di calciatori, di squallidi mezzibusti televisivi, di commentatori in doppiopetto, di tuttologi…”. Ed ecco l’editor, che taglia, cuce, inventa, sa cosa chiede il pubblico, lo stile che va di moda: “Gli scrittori mica servono, complicano solo la vita, meno sono bravi meglio è”.

Gloria e il suo “viaggio nell’inconscio”: l’arte a Lecce si fa da guerrieri (SalentoWebTv)


È chi guarda i suoi dipinti a tirar fuori il messaggio che più sente dentro. Un percorso intenso, complicato, ma alla fine entusiasmante, eccitante. È il “Viaggio nell’inconscio” di Gloria De Vitis, pittrice e artista poliedrica, scrittrice e poetessa. Le sue opere sono esposte a Lecce, presso SALENTO SHOWROOM, nel centro storico, vicino la Chiesa di Sant’Irene. In attesa di presentare, il 25 marzo, “Lucignola” , l’ultimo libro edito da Lupo Editore, insieme al giudice Salvatore Cosentino, Gloria De Vitis ci racconta la sua passione, la sua arte, la sua vita. Vive e lavora a Lecce. Ha collaborato con Bogdan Bajalica, perfezionando le tecniche pittoriche già respirate nella tradizione artistica familiare, con il nonno scultore e il noto cugino di lui Temistocle De Vitis. Nel 1986 partecipa al concorso Speciale Premio Italia indetto a Firenze, ricevendo una menzione speciale. Le sue opere sono pubblicate sulla rivista nazionale “Eco d’Arte moderna”. Nel 2000 partecipa a Roma ad Artitalia2000. Realizza diverse mostre collettive e personali in Italia e all’estero. [Lara Napoli, fonte www.salentoweb.tv]

Marco Montanaro. L’ultima Cola.


Marco Montanaro
L’ultima Cola

Abusai di un fondo di cola chiedendo infinitamente perdono alla Madonna del Mar Baltico e ai pescatori celtici del Cielo Unito.

Ofelia mi guardò con aria inspiegabile, poi le chiesi: ‘Vuoi leggere le mie poesie?’

‘No’

‘Come sarebbe a dire no? Perchè?’

‘Non mi interessa il gioco dell’Altro, le sue motivazioni, le tue arance rosse’.

Così capii: ognuno è re nella propria solitudine. Tutti diversi, per tornare ad essere uguali, in un viottolo campano.

Avanzai allora a grandi passi verso la Grande Milonga, ma le tribù del Cielo Unito mi furono ancora una volta avverse, e ancora una volta fecero la danza del Bancomat per invocare Atahualpa (ancora lui!), affinchè mi sconfiggesse per sempre.

Sarò sincero, mentre finisco questa maledetta cola: anch’io sono stato Atahualpa, anzi no, non sono stato capace di esserlo fino in fondo. Atahualpa è colui che interviene dopo che hai fatto un bel lavoro, che c’hai messo tutta l’anima, lui arriva e ti porta via il fiore più bello, l’alba più profumata, il cielo più musicale che tu abbia mai visto.

A volte ho rubato, ma l’ho fatto per fame, e il vero Atahualpa non si sarebbe fatto derubare a sua volta come un pollo, come invece è accaduto a me.

Sulla strada le linee bianche si inseguivano come fossero vere. Una canzone nera dalle chiare allusioni sessuali mi smuoveva verso la prateria, e il sole verso il mare. Atuhalpa provava già a mordermi, lurido scorpione senza passato.

Mi fermai sul ciglio della strada, dove c’era una bella anziana donna grassa senza muscoli, un tabacchino alle sue spalle; ero in una provincia del Nord-Sud, dove il telefonino faceva corto circuito con le lumache alla panna. Mi feci coccolare senza accorgermi di essere ancora fertile, fumai due sigarette contemporaneamente e passai intere giornate a caricare pile e batterie d’ogni sorta. Ormai Atahualpa era nell’aria.

In fondo, sapevo benissimo che di aria, prima ancora che di carne e microchip, era fatto il demone: chiesi aiuto a Dio, ma mi inviò il Diavolo, e chiarii subito che non si combatte un demone con un altro demone.

Atuahualpa mi fece suo con estrema cautela. Dalle gambe di Ofelia pendeva qualcosa. Alcune trombe suonavano una marcia funebre, il locale della bella anziana donna grassa senza muscoli invecchiò in un attimo, c’era vento di duello, e cominciò a piovere e a piangere, e a tintinnare e a morire, qualcosa nel mio cuore di povero cane senza ipofisi, e qualcos’altro di tragico mi riempiva lo stomaco di fiori spagnoli e sangue musulmano.

‘La fine è quella che avevi programmato’, disse lui.

‘Sei banale come un oroscopo, Atuahalpa’, gli risposi.

‘E’ colpa della solennità, sei tu che mi hai sognato così. La solennità è solo…banale’.

‘Vuoi togliermi anche il gusto della solennità? Mi hai tolto già tutto…’.

‘Forse no… Guarda…’.

Indicò tra le canne e il campo di grano adiacenti al locale della bella anziana donna grassa senza muscoli. Il cielo era celeste chiaro, quasi a non volermi dare la soddisfazione cromatica di diventar grigio.

In mezzo c’era Ofelia, coi vestiti quasi del tutto strappati, sporca, ferita, era mora e bionda, e mi amava per l’ultima volta, lo capivo dalle lacrime di sangue. L’amore più intenso cui il mondo potesse assistere. I miei amici nel Paese delle Onoranze, nel Posto delle Vongole e nel Vecchio Borgo delle Banche, si erano tutti fermati per un istante, come se avessero sentito che stava per accadere qualcosa. Poi ripresero a lavorare.

‘Prendila, se ne hai le forze, ancora…’, urlò Atahualpa.

Alla bella anziana donna grassa senza muscoli, quell’urlo fece prendere un colpo, si accasciò ed esalò l’ultimo respiro di sale e miele. Piansi, ma non potevo fermarmi.

‘Se la prendo, ci bruceremo… Vero? Moriremo entrambi…’

Atahualpa rimase in silenzio. Poi aprì le braccia, e disse: ‘Puoi vivere, se vuoi… Devi scegliere…’

‘Cosa ci guadagni se io e Ofelia bruciamo?’

‘Un’altra risata, mio piccolo eroe…’

Rimasi fermo per alcuni istanti. Solo il mio cervello decise di ghiacciarsi, e lo stomaco di tremare come una foglia orfana, e una mano decise di sporcarsi. Per sempre.

Strappai il cuore di Atahualpa con le mie mani: pesava tonnellate, perchè era pieno di tutto l’amore degli esseri umani, e dovetti imprecare parecchie divinità interstellari prima di riuscire nel mio intento.

Ofelia urlò, perchè in fondo conosceva bene la storia, come tutte le donne. Avevo espresso la mia condanna a morte, per me e per Atahualpa. Questo è il prezzo quando si uccide una divinità.

Il cuore era pieno di fiori, spine, trombe, bombe, melodie cangianti, e accordi minori e maggiori si alternavano senza senso, provocando orgasmi per le mie orecchie, così incomprensibili che la mia carne cominciava a strapparsi, fondendosi con la pelle di Atahualpa, che era fatta di zucchero e inchiostro nero.

Ofelia gridava ancora e correva verso di me, piangendo come una bambina, mentre il sangue e le ferite svanivano dal suo corpo. I suoi capelli tornavano ad essere splendenti, gialli come il sole all’estremo opposto del mondo in cui eravamo, la sua pelle liscia e candida come quando l’avevo conosciuta, le sue mani e i suoi piedi delicati come quelli di una bimba.

Io e Atahualpa giacevamo in un guano immenso e marrone, che bolliva sotto i raggi del sole, che intanto stavano a poco a poco sconfiggendo il cielo celeste chiaro. Il vento si stava fermando, la bella anziana donna grassa senza muscoli veniva seppellita da alcune scimmie festanti in frac e tuba, e il suo locale fu affittato da una troupe di Hollywood per realizzare un film sulla mia storia.

Io e Atahualpa eravamo ormai un’unica melma, anche il mio volto si scioglieva completamente tra le mani di Ofelia, mentre lei urlava qualcosa al cielo, frasi che gli sceneggiatori del film avrebbero poi sicuramente cambiato.

Intorno, intanto, era tornato il buonumore, gelsomini fiorivano ovunque, e le scimmie improvvisavano un Habanera con le donne del luogo.

§

Marco Montanaro, autore dell’esordio “Sono un ragazzo fortunato” (Lupo Editore/Coolibrì) è presente nell’antologia di racconti a tema intitolata Clandestina (Effequ Editore). Clandestina, curata da Federico Di Vita ed Enrico Piscitelli raccoglie il “meglio dell’underground italiano”, quindi, il fatto che un racconto di Montanaro sia compreso in suddetta antologia fa di lui un autore dell’underground italiano tra i più interessanti. Malesangue è il suo blog.

“L’ultima Cola”, di Marco Montanaro, è stato pubblicato su Musicaos.it – Anno 3 – Numero 23 – Ottobre/Novembre 2006

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MILANO ICTUS | PoesiaPresente 2011 – 24 febbraio Teatro Binario 7 MONZA


POESIAPRESENTE 2011
Quinta stagione di poesia contemporanea
MILANO ICTUS
Spettacolo di teatro poesia e musica

Dopo il successo del debutto al Teatro Filodrammatici dello scorso ottobre, Milano Ictus è in scena a Monza per PoesiaPresente

giovedì 24 febbraio 2011 h. 21.00 > Teatro Binario 7 – MONZA

Uno choc che colpisce mente e corpo, una forza espressiva corale concretizzata in uno spettacolo che unisce teatro, poesia e musica.

Crolla il Duomo di Milano e con lui ogni certezza. La tragicità dell’evento è raccontata dalla voce di due protagonisti: Ambrogio Colombo, Primario d’Ospedale travolto dal crollo (Dome Bulfaro), e un cantastorie della vecchia Milano (Francesco Marelli), testimone da Piazza dei Mercanti dell’accaduto. La voce del poeta – indirizzata dalla regia (Enrico Roveris) verso una drammaturgia per la scena, accompagnata dalla musicalità del cantastorie, dalla forza dirompente delle percussioni (Massimiliano Varotto & Danno Compound) e dal suono trascendente del canto armonico (Lorenzo Pierobon) – porta il pubblico a scoprire come ogni disastro inneschi un nuovo inizio; Milano, come un uomo colpito da ictus, riparte dalle sue origini, fonde dialetto e lingua italiana, razionalità, sentimento popolare e canto interculturale. Milano, città riabilitata che pulsa di vita universale.

Guarda il promo
:

In questa occasione verrà presentata per la prima volta anche la pubblicazione MILANO ICTUS (libro + DVD) che raccoglie il testo poetico e il video dello spettacolo messo in scena per la prima volta al Teatro Filodrammatici di Milano.

Venerdì 18 Febbraio alle 19.00 LAURA PUGNO presenta il suo nuovo libro di poesie "LA MENTE PAESAGGIO" a Roma, i nsieme a Giulio Mozzi e Giancarlo Alfano


A Roma, venerdì 18 febbraio, alle ore 19:00

presso la Libreria Rinascita di Via Savoia 30

Laura Pugno leggerà dal suo nuovo libro di poesie :

La mente paesaggio

(Perrone 2010)

LO STILE DISTINTIVO, PUNTUALE DI LAURA PUGNO TERMINA IN UNA SEQUENZA DI SEGNALI CHE STRISCIANO NEL CAMPO ELETTRICO DELLA MENTE: MENTE PAESAGGIO, INFATTI, È UN’ALTRA COSA RISPETTO A UN MINDSCAPE, UN PAESAGGIO DELLA MENTE.

Dal soggetto pietrificato nell’uno alla pienezza del corpo che si scancella nello spazio circostante: questo è il percorso disegnato in La mente paesaggio. Le cinque sezioni di cui è composto il libro presentano un’interrogazione intorno alla relazione che intercorre tra sé e lo spazio del mondo. Come la perla che si produce nella sua ostrica è minerale compiuto in organismo vivo, così il soggetto si rinserra in uno spazio, si circon-chiude, «e si coincide, è uno spazio vuoto». Se venire a essere è distinguersi dalla scatola che ci contiene, ciò significa che «non è pace, non è pace / questa è taglio / soltanto / fino alla perla nuova nel cervello / e tu guscio di calcio». Il taglio, dunque, la separazione; la glaciazione minerale rappresentata nella prima parte del libro è il momento della singolarizzazione, del venire a essere uno: processo che si compie attraverso la lingua, forma di espressione del pensiero (che è ciò che distingue – Ur-Teil). In dialettica con questo primo movimento si collocano le sezioni successive, dove si aspira a un “nuovo mondo” e a uno sconfinamento del soggetto dentro il «bosco». In questa «smisuratezza», si va «avanti coi kayak», procedendo «con spalle nude / nella neve» per giungere a uno specchio concavo, che ci mostra nel riflesso come “altro”. Qui, varcato il confine del sé come «isola», si accede a quel giardino che è «dovunque»: fatto il passo oltre ciò che separa, si entra in uno spazio di beatitudine, di «perfezione» – così leggiamo –, dove il pane è cotto dal sole, e il corpo si completa. Si realizza, così, il viaggio regressivo verso l’Eden, verso quel luogo dove Adamo (o Eva) si confonde con quanto gli rampolla intorno: un Adamo (una Eva) che, altro che volersi signore delle parole (come racconta Genesi), si congeda infine dal linguaggio, o dalla separazione (Urteil): «e tu lingua puoi perderti». Lo stile distintivo, puntuale di Laura Pugno termina in una sequenza di segnali che strisciano nel campo elettrico della mente: mente paesaggio, infatti, è un’altra cosa rispetto a un mindscape, un paesaggio della mente.

Interverranno

Giulio Mozzi

e

Giancarlo Alfano,
curatore della collana InNumeri

Laura Pugno ha pubblicato i romanzi Quando verrai (Minimum Fax 2009) e Sirene (Einaudi 2007), premio Libro del Mare 2008 e premio Dedalus 2009; la raccolta di racconti Sleepwalking (Sironi 2002); due libri di poesie, Il colore oro (Le Lettere 2007) e Tennis (NEM 2002); la plaquette gilgames’ (Transeuropa 2009) e i testi teatrali di DNAct (Zona 2008).

"Sturm und Abfluss" di Marco Palladini. Scaricabile in formato elettronico.


OPERAZIONE T.

Abbiamo il piacere di presentare per la collana di narrativa Taccuini, pensata per proporre testi brevi, "Sturm und Abfluss" di Marco Palladini.

Questa collana, dedicata al ‘genere nobile’ del racconto, è proposta in una prima fase esclusivamente in formato elettronico. Offriamo dunque una misura che riteniamo particolarmente adatta alla fruizione elettronica, unitamente alla nota qualità degli autori. Questo testo è proposto dopo Spifferi di vuoto di Mario Lunetta, che può essere liberamente scaricato dal sito www.cittaelestelle.it. A questi seguiranno i lavori di Mario Quattrucci e Lidia Gargiulo.

Sono graditi commenti e osservazioni a redazione.

Marco Palladini – Sturm und Abfluss

In uno scenario plumbeo e futuribile in cui vige la ‘Globar art’, in cui aleggia la minaccia di pericolosi sovversivi, descritto in un futurtechnolinguaggio, i difensori dell’ortodossia sono sulle tracce di poeterroristi e altri nemici dell’ortodossia. Un autorevole personaggio della Casta dei Letteratchiki lavora per il mantenimento dell’unità e della salvezza ideocratica dell’Impero dell’Arte, indagando, preparando ed effettuando una severa repressione. Fino a una conclusione sconvolgilluminante al ‘Parco del Ritorno del Rimosso’.

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"Burbanzosi esperti, sedicenti opinion-maker nostrani, misoneisti anzichéno, si rallegrano (chissa perché) del fatto che in Italia la percentuale degli ebook è sotto lo 0,5% del mercato editoriale. E anche in Europa non è granché: tra il 2 e il 3%. Mi pare sottostimino che negli Usa, paese leader volens-nolens dell’occidente, sempre 10-15 anni avanti questa deprimente periferia subimperiale che è il Belpaese, gli ebook coprano già una frazione intorno al 10-12% delle vendite librarie. Pur affezionato, per ragioni storico-generazionali al libro cartaceo, da autore contemporaneo non ho però alcun dubbio che il futuro appartenga al libro elettronico. Perciò ho iniziato da tempo a sostenerne convintamente la diffusione e a contribuirvi creativamente. Sturm und Abfluss grazie a ‘La città e le stelle’ è già il mio terzo ebook ed è un gioco narrativo metafantastico e ironico sulla futura era letteratronica. Spero sia gradito ai… filoneisti".

marco palladini

PIGRO CANTAUTORI IN VIGNA 2011 – Iscrizione gratuita per la partecipazione al concorso


PIGRO CANTAUTORI IN VIGNA 2011

Iscrizione gratuita per la partecipazione al concorso

Il Pigro Cantautori in Vigna riapre il bando di concorso per la 14° edizione. Organizzato dall’Associazione Culturale Pigro presieduta da Anna Bischi Graziani, vanta la regia di Pepi Morgia. Come lo scorso anno, la manifestazione sarà ospitata dall’Azienda Agricola Ciccio Zaccagnini di Bolognano (PE).

Pigro Cantautori in Vigna si propone di individuare nuovi talenti, tra i più creativi ed originali del panorama musicale italiano. Ed inoltre, ha la finalità di divulgare e sostenere l’opera ed il ricordo di Ivan Graziani.

La partecipazione a titolo gratuito è aperta a cantautori/cantautrici e band che abbiano compiuto il 18° anno d’età al momento dell’iscrizione. I candidati dovranno inviare una mail entro e non oltre il 23 aprile p.v. all’indirizzo pigrocantautoriinvignacon in allegato due brani in formato mp3: una cover di Ivan Graziani a scelta ed un brano inedito. Quest’ultimo dovrà essere iscritto alla SIAE e potrà essere in lingua italiana, straniera o dialetto. Il candidato (o uno dei membri in caso di band), dovranno comparire in qualità di autore di testo o musica o di entrambi. Il regolamento completo e la domanda di iscrizione sono disponibili sul sito www.pigroshow.org.

Il concorso si articolerà in tre fasi: eliminatorie, semifinali e finale. La fase eliminatoria avverrà sull’ascolto del materiale inviato dai candidati. Avranno accesso alla semifinale 20 brani originali corrispondenti a 20 artisti (singoli o band). La semifinale prevedrà il coinvolgimento e la selezione da parte del Comitato di Garanzia, formato da giornalisti ed esperti del settore musicale, che selezionerà i candidati che accederanno alla fase finale sempre tramite l’ascolto del materiale audio. Alla fase finale che si svolgerà nell’ultimo week-end di maggio, verranno ammessi 10 artisti che si dovranno esibire rigorosamente live, come nella tradizione del Premio, sia per l’esecuzione vocale sia strumentale (non sono ammesse basi).

Nelle passate edizioni, sul palco del Premio Pigro, si sono alternati tra gli altri artisti del calibro di Carmen Consoli, Gianluca Grignani, Avion Travel, Capone & BungtBangt, Pacifico, Ron, Dario Ballantini, Roy Paci, Teresa De Sio, Tosca, Vittorio De Scalzi, Irio De Paula, Jimmi Villotti, Simone Cristicchi, Sergio Cammariere, Mauro Pagani, Petra Magoni e Ferruccio Spinetti, Andrea Mingardi, Edoardo Bennato, Alberto Patrucco, Carnera Band, Ellade Bandini ed Agostino Marangolo e Povia. Mentre alla conduzione si sono susseguiti Paola Maugeri, Pupo, Fabrizio Frizzi, Gianni De Berardinis, Mario Luzzato Fegiz, Antonio Silva, Matilde Brandi e Paolo Notari.

Eventuali modifiche potranno essere apportate al regolamento in corso d’opera e verranno pubblicate sul sito internet ufficialewww.pigroshow.org.

Ufficio stampa del Premio Pigro Cantautori in Vigna 2011:

Top1 Communication

e-mail: segreteria

web: www.top1communication.eu e su Facebook

Modalità di partecipazione:

La richiesta di partecipazione alla preselezione dovrà pervenire via mail all’indirizzo: pigrocantautoriinvigna entro e non oltre il 23 APRILE 2011.

Il materiale necessario per l’iscrizione alla selezione è il seguente:

  • domanda di partecipazione compilata in ogni sua parte;
  • un solo brano inedito registrato in formato mp3 (e regolarmente iscritto alla SIAE);
  • una cover di Ivan Graziani in formato mp3;
  • una scheda tecnica (strumenti della band, disposizione sul palco ed esigenze tecniche);
  • una biografia del cantante o del gruppo contenente nome, cognome, indirizzo, posizione Enpals, codice fiscale, iscrizione alla SIAE;
  • numero di telefono e indirizzo e-mail di riferimento;
  • due fotografie del cantante o del gruppo (jpg, 300 dpi, formato max 15×10);
  • copia documento di identità di tutti i componenti il gruppo;
  • una copia del testo della canzone e la traduzione in caso di testo in lingua straniera o dialetto.

Le canzoni dovranno avere le seguenti caratteristiche:

  • essere iscritto alla SIAE;
  • non essere mai state pubblicate;
  • non contenere messaggi anche indirettamente pubblicitari o promozionali;
  • non contenere elementi che si pongano in violazione della legge o lesivi di diritti anche di terzi.

Luciano Pagano. Aurora.


Luciano Pagano
Aurora
quella merdosa estate del duemila5

La prima scena è cruda, altrimenti il lettore crede di avere a che fare con uno di quei soliti romanzi o racconti ambientati ai giorni nostri, dove un giovane riesce a trovare lavoro tra mille peripezie, sollevandosi da una situazione di stallo nella quale si è avvitato dopo mesi insopportabili di inerzia. Quindi l’inizio della storia presenta un certo impatto difficile da sostenere per chi non abbia mai vissuto quel senso di scoramento impossibile che prende nei paraggi del compimento dei trentanni esatti, ovvero l’estate del duemila5. Il ragazzo e la ragazza sono in macchina, una sera come le altre. D’estate lei si trasferisce nella casa dei suoi, lui fa avanti e indietro in macchina da solo per andarla a trovare, circa ottanta chilometri al giorno, lei fa la segretaria mentre lui, invece, è disoccupato dalla metà di maggio, dopo circa un mese e mezzo ha dato fondo al suo libretto postale e adesso, lui e lei, sono alle soglie del lumicino con il conto di lei. Una situazione abbastanza tesa che nonostante le vacanze li vede sempre sul chi va là, su come spendere oppure “non” spendere, andare oppure “non” andare a cenare da qualche parte perché magari con quei soldi mettono benzina per altri due o tre giorni, così tu fai avanti e indietro con la macchina e tiriamo fino a settembre che magari qualcosa nel frattempo si trova. Ma adesso non lo sanno. Ne hanno un sentore, forse qualcosa può accadere di lì ad una settimana, forse qualche genio sta apparecchiando una soluzione a questa piccola disperazione meridiana, se così sarà non sono certo lui e lei a saperlo, adesso.
Nel pomeriggio, mentre lei si faceva la doccia e si preparava, lui era rimasto in giardino a leggere e prendere appunti su la “Versione di barney”, questo episodio è prologo a quanto accadrà la sera, quindi, per quanto possa sembrare stupido, va raccontato in ogni particolare, il lettore dovrà essere bravo a capire che cosa può accadere nella mente di un ragazzo che adora leggere, quando dopo essere uscito da una doccia ritemprante trova svago momentaneo nella lettura di Richler, una delle poche cose buone accadute quest’estate. A casa di lei viene un’amica di sua madre per prendersi un caffè e fare una visita di quelle che si fanno quando non c’è niente da fare, parlano del più e del meno, parlano di lei davanti a lui che legge Richler e beve un caffè, dicono ma com’è che lei non porta la macchina, lui dice che lei ha la patente e può guidare quando vuole. Quando le racconterà quest’episodio per descrivere quell’amica della madre farà il possibile per riassumere in un’immagine la bassezza non solo morale della persona, utilizzerà un aggettivo, pigmea, non lo avesse mai fatto, il protagonista non può associare le fattezze fisiche di una persona a quelle morali, per quanto antipatica essa sia, non è corretto.
Adesso sono a cena, tutti insieme, sono quasi alla fine del pasto, berranno un amaro, lui e lei usciranno come ogni sera. Lei racconta del pomeriggio, del fatto che sarebbe giusto l’amica di sua madre si pigliasse i cazzi suoi, quella pigmea. Lui diventa rosso. S’incazza e tiene il muso. In macchina, e qui torniamo al punto di partenza, le fa una scenata, non hai ancora capito cosa dire e che cosa non dire delle cose che ci diciamo quando siamo da soli per i cazzi nostri, cazzo. Lei non vuole dirgli scusa, la rabbia di lui monta, tira un pugno contro il parabrezza, lo frantuma in una miriade di pezzi che restano incollati senza scomporsi in frantumi, come se qualcuno avesse esploso un proiettile dall’interno dell’abitacolo. Questo momento è il più difficile, è la goccia che potrebbe far traboccare il vaso, si tratta di un nanosecondo in cui si decidono le sorti del loro rapporto, litigano un giorno si un giorno no da due mesi, per via della loro situazione economica instabile, s’intende, e nonostante il precariato sono rimasti insieme, è facile abbandonarsi e lasciarsi andare a pessimismi quando tutto va male, loro sono riusciti a farcela, nel bene e nel male.
Devi concentrare in questo momento la tua bravura nel far capire a chi leggerà questa storia che sì, lei appena veduto il parabrezza incrinato è scoppiata in un pianto a dirotto, va bene, non è una questione di vita o di morte, domani stesso a quest’ora il parabrezza sarà aggiustato, ne monteremo uno nuovo, lo troverò da qualche parte, ma dove cazzo lo trooooovi, non vedi che sei un fallito, un fallito che distrugge ogni cosa che tocca? Hai rovinato tutto, mi hai rovinato la vita, io ti lascio. Devi mantenere la calma, lasciare che questa sera passi come tutte le altre sere. Non è successo nulla di grave. Devi riuscire a restartene zitto zitto. Tornate in voi. Lei smette di piangere, ti viene il pensiero che non puoi tornare a Lecce a dormire perché hai paura che qualcuno, vedendo il parabrezza già incrinato, possa pensare di finire il lavoro da te iniziato e con un pugno sfondare in via definitiva il vetro, dopodiché sarebbe un gioco da ragazzi entrare in macchina e andarsene, sei triste, non pensi a niente ad eccezione della tristezza. Ti avevano commissionato un sito per una ditta, poi non se n’è fatto nulla, dopo il briefing iniziale non se n’è fatto nulla e nessuno ti ha detto perché, hai finito i tuoi soldi e non sai quando e quanti ne avrai. Tornerai a dormire in paese, da tua madre. Tuo padre è fuori per qualche giorno, è andato al camposcuola estivo della parrocchia, ci va ogni anno. Quando ero piccolo ci andavi anche tu. Ad uno di quei campiscuola ti sei innamorato per la prima volta di quella che sarebbe diventata la tua prima ragazza. Non metti piede in chiesa dal millenovecento93, il presente sta velando i tuoi pensieri di piccole paranoie trascendentali, il tuo kantismo della percezione invece di ridurti in ateo irredento, piano piano, sta scavando un rivolo tra i tuoi neuroni. Va bene, quando entri in chiesa non ti fai il segno della croce e Questo Dovrebbe Essere Prova Sufficiente perché ti si possa classificare come sostenitore dei luoghi di culto alla stregua di musei. Hai smesso di andare in chiesa quando hai smesso di giocare a pallone, hai smesso di andare in chiesa quando hai cominciato a fumare, ti è venuta voglia di entrare in una chiesa, qualche mese fa, da quando hai cominciato a sentirti solo, forse ti è venuto in mente di cercare segni di appartenenza, ecco perché, ti interessa il senso di comunità, cominci a capire che cosa si nasconde dietro alla ripetizione estenuata degli stessi gesti, delle stesse parole, nel tempo. Un tuo amico è così aggiornato in materia…compra i libri di Ratzinger da prima che lo facessero Pontefice, tu invece leggi il Corano, una volta all’anno deve ogni credente. Ti vengono in mente le pagine svolazzanti del vangelo sulla bara di legno di Woityla. Quel mattino di aprila una buona parte di mondo era incollata al televisore, tu stavi bevendo un caffè durante una pausa dal lavoro. Avevano già deciso di “segarti” e tu prendevi più pause del solito, così pensavi, la versione definitiva che fornirà il giudice sarà invece questa: l’ammontare di lavoro di cui disponeva l’agenzia, per via del discredito nel quale era incorso il suo proprietario, era diminuita in modo drastico. I tuoi datori di lavoro (consiglieri di amministrazione, soci, amministratore delegato), ti hanno fatto firmare buste paga di stipendi che non hai ricevuto per cercare di fare la cresta al governo da chissà quale pertugio, ti hanno addirittura detto che ti avrebbero licenziato da un’azienda per assumerti in un’altra, una decina di giorni dopo la morte del Papa saresti andato con il commercialista all’ufficio di collocamento, per farti iscrivere nelle liste di mobilità. Una presa per il culo inaudita, non le liste, lettore, non saltare a conclusioni affrettate, la presa per il culo era rappresentata dal fatto che l’azienda godeva di ottima salute, questo era un periodo di semplice riposizionamento verso il basso, per pagare gli stipendi a tutti gli assunti bisognava fare in modo che il numero dei dipendenti diminuisse sempre di più nel tempo, tanto è vero, così sottolinea ancora oggi il tuo avvocato, che l’agenzia, malgrado non sia fallita, si regge su gli sforzi tenui di due impiegati, meglio per te, li hai lasciati un attimo prima di quanto loro avrebbero atteso per scaricarti. Sulla perfetta natura del mio tempismo non ho mai avuto dubbi.
“Fin qui tutto bene”. Non passi una notte nella tua vecchia casa da tre anni, anche qui devi essere bravo a mostrare come questo sia un momento altrettanto topico della tua caduta ad imbuto infinito (tendente a 8) verso il fallimento. Tua madre ti ha apparecchiato il letto richiudibile nel quale dormiva tua sorella quando vi eravate appena trasferiti qui, è un letto così vecchio che sulla testata in cartone pressato a mo’ di legno, colorato di bianco, sono disegnati “Rocky e Bullwinkle”, due personaggi di un cartone animato che soltanto i nati nei primi anni settanta possono ricordare, e con un certo sforzo. Non hai nemmeno i soldi per il giorno dopo, non sai come fare, tua madre non può farci nulla, sei disperato di una disperazione che può essere compresa soltanto a sud dell’emisfero boreale, in quella particolare zona del continente europeo chiamata penisola italica, nel dettaglio tra giovani che hanno una trentina d’anni d’età, con un range di quattro anni giù e al massimo quattro anni su. Lasci perdere il vecchio letto, troppo corto, sei abituato a prendere sonno con la televisione e con il condizionatore dell’aria accesi, dormirai nel letto matrimoniale dei tuoi, ti coricherai in mutande sul copriletto, un odore di tessuto sintetico intriso di polvere nell’aria, quando tuo padre non c’è tua madre non sale al piano di sopra. Fa tutto da sola al piano di sotto, dorme, cucina, va in bagno.
Il giorno dopo ti alzi e chiedi subito un piccolo prestito a tua madre che non può darti un soldo e che non è disposta a muovere un dito per aiutarti, non oggi, non adesso, è un guaio in cui hai deciso di ficcarti, forse ha capito che sei stato tu a mandare in frantumi il parabrezza e quindi devi sbrigartela da solo. La disoccupazione ti porta a vivere scene melodrammatiche, non hai mai chiesto i soldi per una dose, semplice, non ti sei mai fatto, al massimo hai chiesto i soldi per la benzina e per le sigarette, fino al millenovecento97, quando avevi ventidue anni, bastavano diecimilalire per tirare due giorni avanti, la cosa interessante è che tu nella tua breve vita non hai fatto “davvero” utilizzo di droghe pesanti, hai addirittura smesso di fumare tre mesi fa, fumavi dal primo anno di università, da più di dieci anni, e tre mesi fa hai smesso di fumare. Ma come hai smesso? Questa digressione può essere utile, prima di mostrare al lettore come sarai bravo a risolvere il problema del parabrezza fai vedere come hai smesso di fumare, è un po’ come dare dimostrazione della tua forza di volontà residua, nonostante la disoccupazione.

Digressione “smettere di fumare”

Un giorno stavi accompagnando lei a lavoro, facevate sempre la stessa strada, arrivati all’incrocio lei proseguiva a destra, verso il palazzo che ospita lo studio dove fa la segretaria, e tu a sinistra, diretto all’internet-point dove lasciavi i tuoi cinque euro quotidiani, scaricavi la tua posta elettronica, aggiornavi il sito, era luglio e ancora non avevi messo l’adsl. Tu sei un osservatore, ti piace fare la stessa strada ogni volta perché così impari a memoria i negozi, le facce dei commessi che alzano d’improvviso lo sguardo dal banco quando passi lì davanti, non ti salutano perché non sei mai entrato ad acquistare una bomboniera, oppure una cravatta, un paio di scarpe da tennis color verde fluorescente. Loro ti conoscono e tu li riconosci, senza nessuno scambio ulteriore. L’ultimo negozio all’angolo della strada è un negozio che vende cucine, il penultimo è un’erboristeria. Quando passi lì davanti sei colpito dal manifesto di una marca di sigarette alle erbe, non ne hai mai fumate, ad eccezione delle sigarette indiane, strette come una cinquanta euro arrotolata e tenuta insieme da un filo, si fumano di norma quando non ci sono più sigarette in giro per casa e allora ne peschi una da chissà quale cassetto, oramai puzza più di cassetto che di foglia indiana, la fumi perché non ti va di scendere e comperare un pacco di sigarette, non a quest’ora. Così ti è capitato, un giorno, di svegliarti presto per andare all’internet point, saranno state le otto, ti sei svegliato, hai bevuto il caffè, hai fatto la doccia, hai fatto mente locale su quel che dovevi fare, con una certa fretta perché non avevi sigarette e quindi volevi uscire e fumarti la prima sigaretta dopo il caffè, la prima sigaretta di un nuovo giorno. Ti eri licenziato da poco più di un mese quindi non sentivi ancora premere sui tuoi polmoni la cappa opprimente della mancanza di lavoro, alla quale sarebbe succeduta la cappa ancora più opprimente della mancanza di denaro, occorsa in un pomeriggio afoso di luglio, quando andasti al bancomat per prendere cinquanta euro e sullo schermo, implacabile, comparve questa scritta “disponibilità 38€”. Quel mattino uscisti di casa da solo, lei rimase in casa a studiare. Passasti davanti all’erborista. Vedesti per l’ennesima volta il manifesto pubblicitario delle sigarette alle erbe. Entrasti. Facesti una breve intervista all’erborista. Costo di un pacchetto? Cinque euro e cinquanta centesimi. Quantità delle sigarette contenute? Venti, come nei normali pacchetti di sigarette. Contenuto di ogni sigarette? Timo, salvia, maggiorana. Contenuto di tabacco nella sigaretta? Zero. Contenuto di nicotina nella sigaretta? Zero. Condensato? Zero virgola zero zero zero qualcosa. Funziona? Alcuni ci riescono, bisogna adottare un trattamento a scalare, facciamo finta che lei fumi un pacco di sigarette al giorno, allora lei comincia così, seguendo il programma giorno per giorno, su quest’opuscolo c’è il calendario, il primo giorno inizia con quindici sigarette di quelle che fuma di solito e cinque di queste (che da qui in poi chiamerò sigarette vegetali), e così dovrà proseguire per una settimana, mi raccomando, alla seconda settimana in ogni pacchetto ci metterà dieci sigarette vegetali, alla terza settimana il rapporto è invertito, quindici sigarette vegetali per pacchetto e cinque di quelle che fuma, la quantità di nicotina nel suo sangue comincerà a diminuire, il suo portafoglio non accuserà scossoni perché malgrado ogni pacchetto di queste sigarette costi più di cinque euro, lei comincerà a fumarne meno delle altre, se fa un calcolo rapido vede che le conviene, arriviamo infine all’ultima settimana dove lei arriverà a fumare solo sigarette vegetali. Ma ce chi riesce a smettere? In effetti ci sono alcuni che smettono di fumare sia le sigarette normali che quelle vegetali, oppure ci sono altri che arrivano a fumarne una ogni tanto, soltanto di quelle vegetali si intende. Sul banco dell’erborista c’è un pacco di Chesterfield, lui non è riuscito a smettere ed io non ho tempo per trattamenti a scalare, compro due pacchetti e lascio undici euro sul banco, da oggi e per dieci giorni l’erboristeria diverrà il mio pusher di timo e maggiorana. Il gusto di queste sigarette è pessimo, a guardarle sembrano sigarette come tutte le altre, magari bruciano più in fretta, l’odore che sprigionano è simile a quello di un cassonetto dell’immondizia dove sia stato gettato un sacchetto pieno di merda abbrustolita.

fine della digressione “smettere di fumare”

Nell’ultimo anno hai provato a smettere, senza farcela, per due volte. La prima è stata in gennaio duemila5, dopo l’entrata in vigore della legge che vieta di fumare sul posto di lavoro; dove lavoravi era permesso a chiunque di fumare qualunque cosa. Ci avete provato soltanto una volta a smettere, in modo sincronico, tutti quanti. L’ufficio era frequentato da troppe persone, tutte occupanti quello strato sociale indefinito e collocabile tra l’essere ricchissimo ed essere semplice arricchito, in città ce ne sono tanti, costituiscono la clientela ideale della nostra agenzia, sono quelli che, rispetto ai miei datori, ce l’hanno fatta. Lui ce l’ha fatta nell’ordine dei quattro/cinque zeri, loro nell’ordine dei sei zeri, questa piccola differenza di zeri, anche nei rapporti personali, si nota col fatto che quando questi entrano nell’agenzia tutti si calano le braghe, i datori per primi, accendono le sigarette una dopo l’altra, scambiando energiche strette di mano a chi entra e a chi esce, improvvisando pranzi di lavoro a base di tramezzini e negroni. Il secondo giorno dopo l’entrata in vigore della legge c’era questo comando, al massimo una sigaretta alla volta in ogni stanza. Dopo due giorni si era tornati al ritmo incessante di una sigaretta dopo l’altra moltiplicata per dieci persone alla volta. Nell’ultimo periodo le tre stanzette dell’ufficio erano occupate in media da sette nove persone, compresi gli stagisti dell’università, che credevano di essere venuti per crescere nel mondo delle agenzie di comunicazione ed in realtà espletavano il lavoro sporco, ci riuscivano così bene che dovevamo sempre controllare che non facessero errori, il problema era semplice, capivano poco. Meno male che sei scappato, meno male che hai smesso di fumare, meno male perché è la cosa che adesso ti fa stare meglio, anche di umore.
Senti che questa è la volta buona. Scrivere una storia dove uno dei protagonisti vuole smettere di fumare e ci riesce è galvanizzante, ti senti in sintonia con te stesso, e poi queste sigarette vegetali fanno davvero vomitare, sei come quelli che per smettere provano a fumare MS, poi si accorgono che c’è gente che fuma MS da una vita e sta benissimo. Il tuo dentista ti ha dato un ultimatum, non ti curerà più, la sua aiutante si rifiuterà di fissarti appuntamenti, sarai bandito “ad interim” dallo studio, sua figlia, che adesso si occupa delle tue cure periodiche, ha detto che se tu non fumassi la tua vita sarebbe meravigliosa, ci credi? Ma si, crediamoci. Il primo giorno di sigarette vegetali passa in fretta, ne fumi un pacchetto e mezzo, ti sembra di dare fuoco ad un ramo di sempreverde. Ad esempio. Entrate tu e lei in un negozio per acquistare un paio d’occhiali da sole, ti piacciono così tanto che getti la sigaretta a terra, date un’occhiata rapida in giro, la commessa si volta ad una sua amica lì dentro, mentre batte sulla tastiera “numero un paio d’occhiali con le lenti gialle” che poi frantumerai quest’estate sedendotici sopra perché non li hai visti appoggiati sul telo mare mentre esci dall’acqua e ti vai a sdraiare e “numero un paio d’infradito” destinati a diventare la tua calzatura estiva outdoor e la tua calzatura indoor per l’inverno, ecco che mentre ciò accade…la commessa si volta…c’è una puzza che viene da lì fuori…qualcuno deve “aver gettato qualcosa di bruciato nel cassonetto”. A Lecce quella dei cassonetti incendiati è una sindrome. Abbiamo paura che la nostra periferia venga scossa da una forma qualsiasi di anomalia, metti ad esempio un attentato; fa parte della nostra presunzione, la presunzione di una periferia che si crede così centrale da arrivare a presumere che qualcuno voglia destabilizzarne il sistema virtuoso. “O forse è soltanto che in televisione se ne vedono di tutti i colori.” Guardi la tua ragazza negli occhi, non ti va di dire alla commessa che l’odore è quello del fumo, crederebbero che prima di entrare stavi semplicemente fumando una canna.
Quando fumi una sigaretta vegetale e dopo, quando l’hai finita e la spegni o la lasci cadere, ti viene voglia di accenderne un’altra, all’istante. Dopo una settimana smetti di fumare anche quelle. Le occasioni della tua ghettizzazione si moltiplicano. Un sabato sera uscite per mangiare una pizza con una coppia di amici. C’è una pizzeria, una delle vostre preferite, dove in un ambiente a parte si può addirittura fumare, vi sedete lì perché i vostri amici fumano e a te non da fastidio, non vuoi diventare un integralista dell’antifumo, uno di quelli che rompono i coglioni per far smettere di fumare chi lo circonda, sarai un antifumatore moderato, uno di quelli che cerca comunque di convincere gli altri a smettere di fumare mediante l’accrescimento esasperato dei benefici che si traggono da una vita senza fumo, con un’ottima dose di esondante narcisismo, se l’unico uomo del pianeta che è riuscito a smettere di fumare, cazzo. Siete seduti, state per ordinare da mangiare, ti senti così carico che invece di ordinare la pizza suggerisci a tutti di provare le specialità brasiliane, e, tuo malgrado, convinci i tuoi amici e la tua ragazza. Sono passati nove giorni da quando hai smesso di avere nicotina in circolo nel tuo sangue. Ciò dovrebbe fare intendere anche al lettore più sprovveduto che la pazienza e la calma, quando uno smette di fumare, sono cose che se mancano si può anche soprassedere. Siete arrivati al termine della cena. Sarebbe il momento giusto per accendersi una sigaretta vegetale. La tua ragazza non ne può più, prima di andare a cena avete assistito ad uno spettacolo teatrale, un’opera messa in piedi da un tuo amico dopo anni e anni di duro lavoro, ripensamenti, creazioni e disfacimenti di gruppi dove i collanti sono l’arte, le canne, il vino cinque litri due euro e la promiscuità sessuale di corpi semimoribondi, semisdraiati, semidesideranti. Un’opera era degna del migliore teatro off-off-off, come direbbe il tuo amico Giovanni. Vorresti accenderti una sigaretta, soltanto che per fumare vuoi uscire fuori, sai che accenderti una sigaretta vegetale dentro un ristorante alle undici del sabato sera desterebbe preoccupazioni in tutti gli astanti, diventeresti rosso, dovresti giustificarti con quelli più vicini al tuo tavolo dicendo che no, non si tratta di una canna, è solo una sigaretta che aiuta a smettere di fumare in modo graduale i fumatori incalliti come me, se vuole le consiglio la marca. Magari seduta al tavolo di fianco c’è una coppia, marito e moglie, si stanno passando un “cigarillo”, magari quello intossicato sei tu. La tua ragazza sbotta, ha capito che è il momento buono, per farti scenate di questo genere aspetta sempre un momento in cui non siete soli, ne approfitta perché sa che a lei non riesci a giurare nulla, mentre quando dici qualcosa davanti ad altre persone mantieni sempre le promesse, non fosse altro che per il timore di essere ritenuto un debole. Ti dice che no, non esci e non ti accendi più nessuna di quelle sigarette, anzi, dammele, lo tengo io il pacchetto. Hai smesso anche con queste.
Passato quel dopo cena, cioè dopo dieci giorni esatti di sigarette vegetali, sei passato dalla fase nella quale “stavi smettendo di fumare” e sei entrato nel limbo di chi “ha appena smesso di fumare”. Non puoi crederci.
Nel frattempo i tuoi soldi sono finiti, sei povero e in apparente stato di salute. La tua salute deve continuare a migliorare, ti aspetta un futuro prossimo nel quale ingrasserai di una decina di chili, soltanto dopo un anno e mezzo ritornerai a dimagrire, avrai un lavoro decente che ti soddisferà ogni giorno, ma questo lo sa il lettore, lo sa adesso, lo apprende da ciò che scrivi, tu non lo sai, il tuo ottimismo deve fare sforzi incredibili, tutte le tue vitamine e tutto il dna contadino di tuo padre devono venirti in soccorso, devi tornare all’abitudine antica di vedere qualcosa che cresce piano piano finchè non sboccia in fiore profumato e poi in frutto. Ti sei tolto un vizio. Questo episodio è utile per darci ad intendere che tu sei una persona determinata, o meglio, leggendo come hai smesso di fumare dovremmo intendere che uno dei personaggi principali di questa narrazione è una persona determinata, confondere uno dei personaggi con te è uno degli indizi che vuoi dare al lettore, tramite quest’allusione fai trapelare che questa narrazione è autobiografica, o quanto meno peschi in abbondanza nei mari della tua quotidiana contemporaneità perché non disponi di argomenti migliori e scorrevoli per arrivare da un inizio incerto ad una fine in sospeso.

§

È con questo spirito che hai affrontato questi mesi di crisi, fino a questo momento. Hai frantumato con un pugno il parabrezza della tua auto senza procurarti ferite o escoriazioni, l’anello che indossi al dito medio della mano destra, come uno spaccagrugno rudimentale ti ha salvato dal dover elucubrare una versione dei fatti congruente con il vetro del parabrezza incrinato e le nocche della tua mano destra tagliuzzate e sanguinolente. Ti alzi. Dici a tua madre di prestarti i soldi per il parabrezza, se vuole e se non vuole fanculo. Non ci sono soldi. Nessun aiuto. Devi fare da solo, se vuoi. Sali in macchina, ti ricordi che c’è uno sfasciacarrozzeeuroduemila sulla provinciale che esce dal tuo paese, lo conosci perché i tuoi gli hanno venduto il pezzo di terra che utilizza come deposito e parcheggio di auto e in attesa di essere accartocciate in cubi di cinquantacentimetri per lato.
Ti sembra di essere finito nel mezzo di una rappresentazione teatrale dove non recitano attori ma sfrigolii di scintille e lamiere segate, cataste di automobili, morti di varia ferraglia mentre attendo il tuo turno e rimani affascinato da due operai che stanno smontando una Fiat Uno, pezzo dopo pezzo, hai sempre saputo che per mettere assieme un’automobile si impiegano una miriade di componenti, ma quanti? Sono appena le otto di mattina e fa già un caldo insopportabile. Quanti? Quanti? Quanti ne vuole? Cadi. Quanti cosa? “‘Nnu ‘ssi ‘ttie c’ha chiestu lu cazzu de parabbrezza denanzi te la Panda? ‘Nde basta unu?” (Ma non è lei il cliente che richiesto la sostituzione di un parabrezza per il vetro anteriore di una Panda? Ne è sufficiente uno”. Va bene, eccolo qua, fanno venticinque euro, adesso viene il ragazzo e te lo da. A mezzogiorno ero da lei, la mia lei, a casa sua, con il parabrezza usato garantito, a mezzogiorno e un quarto ero con suo padre da un meccanico in paese, un carrozziere, all’una in punto la panda era parcheggiata sotto il sole cocente ed io ero a tavola insieme a lei, pranzavamo con il sorriso sulle labbra. In momenti come questi è più facile essere felici per la risoluzione di un problema che ci ha fatto dannare fino al secondo precedente piuttosto che essere felici del semplice fatto di esistere, ma chissenefrega di esistere, l’importante è che arrivi presto domani, che passi quest’estate merdosa e che torni l’autunno. Sono rose, fioriranno.

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“Aurora” è stato pubblicato su Musicaos.it – Anno 3 – Numero 23 – Ottobre/Novembre 2006

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Luciano Pagano. Aurora.


Luciano Pagano. Aurora. Un racconto

"Un marziano a Lecce" ovvero Massimiliano Manieri. Plink (…L'uomo caduto in cattive acque)


“Un marziano a Lecce” ovvero Massimiliano Manieri. Plink (…L’uomo caduto in cattive acque).

In libreria. "Vizio di forma" di Thomas Pynchon. Primi giudizi e recensione express.


In libreria. “Vizio di forma” di Thomas Pynchon. Primi giudizi e recensione express..

ANTEPRIMA "Il bisogno dei segreti" (Las Vegas Edizioni) di Marco Candida. In libreria dal 12 Febbraio


ANTEPRIMA “Il bisogno dei segreti” (Las Vegas Edizioni) di Marco Candida. In libreria dal 12 Febbraio.

ANTEPRIMA “Il bisogno dei segreti” (Las Vegas Edizioni) di Marco Candida. In libreria dal 16 Febbraio


Su “Il bisogno dei segreti” (Las Vegas Edizioni) di Marco Candida.
Luciano Pagano

“Nella mano destra tiene il romanzo di Dostoevskij Delitto e Castigo. Pensa di considerarlo un libro abbastanza stupido. In fondo è la storia di un uomo che per passare alla storia come Giulio Cesare o Napoleone decide di uccidere la sua vicina di casa. Connie lo considera un libro demenziale. Sarebbero questi quelli che consideriamo i grandi uomini della storia di questo mondo? Connie pensa che in fondo se nei libri di storia non si fossero mai menzionati i nomi dei grandi carnefici un libro come quello di Dostoevskij non avrebbe mai avuto  ragione di esistere. In fondo essere menzionati nei libri di storia forse non è esattamente la stessa cosa che passare alla storia. Connie pensa che non è esattamente sempre per merito che si passa alla storia, ma anzi per grande demerito […]

da “Il bisogno dei segreti” di Marco Candida

L’universo di Marco Candida è la diretta emanazione di una mente narrante che non si accontenta di descrivere, ma che proprio in virtù dell’essenza creatrice della scrittura, ‘crea’ il mondo attorno ai suoi protagonisti e lettori.
L’universo delle parole entra fin da subito in quest’opera, così come ne “La mania per l’alfabeto” (Sironi) e ne “Il diario dei sogni” (Las Vegas Edizioni) Marco Candida ci aveva stupito con la presentazione delle sue ossessioni portatili, quotidiane.
Uno dei modi con cui Marco Candida approccia la realtà narrata è quello dell’ironia; un’ironia sincera, reale, nulla a che vedere con quella pallida forma di umorismo a orologeria cui ci hanno abituati alcuni comici che di comico hanno soltanto la pretesa di sembrare comici. L’ironia, il sarcasmo, sono le armi più complesse con le quali si possa raccontare una storia in modo disincantato, affetti da un forte realismo, dimostrando nei risultati l’esatto contrario, ovvero sia rimanendo sospesi in una dimensione di sogno, che poi è il secondo elemento, dopo l’ironia, che si infiltra senza soluzione di continuità nelle narrazioni di Candida.
Se un capolavoro come l'”Ulisse” di James Joyce non ha bisogno di una trama e di un conflitto, si chiede a un certo punto Connie nel romanzo, è perché basta la presentazione della realtà, con le sue vicende e le cose che accadono, a creare una storia. Questo è un trabocchetto che Candida semina ne “Il bisogno dei segreti”, uno dei tanti. L’autore è consapevole di quanta perizia ci voglia per rendere naturale ciò che non lo è, per rendere ‘storia’ ciò che allo sguardo del lettore può sembrare semplice narrazione consecutiva dei fatti. L’approfondimento dei personaggi è compiuto, e sembra a questo punto che la prova de “Il diario dei sogni”, finito nel 2007, trovasse sostanza proprio nell’approfondire la psiche dei personaggi, ancora più che nel primo romanzo, anche a costo di prendere ‘sentieri interrotti’ e dovere ricominciare daccapo.

C’è un’altra componente interessante nel romanzo, quella relativa alla quotidianità del rapporto con la rete e i social network, oramai facenti parti della nostra vita a tal punto che “Il bisogno dei segreti” è proprio quel bisogno a tenere viva la nostra privacy, il nostro personale recinto entro il quale non fare entrare nulla e potere liberamente esprimere noi stessi. Connie ha a che fare da una vita con i segreti di tutti coloro che la circondano e saranno proprio questi segreti e il suo bisogno metodico di registrarli a dare una svolta e imprimere un senso a questa storia. I diari si trasformano in registrazioni, le registrazioni in intercettazioni rubate, frammenti di vita, video su internet. Nessuno può immaginare cosa può nascondersi dietro questa ventinovenne, rimasta minuta e intelligente.
Marco Candida è un autore che ha le visioni, come scriverebbe D’Orrico di un personaggio del suo primo romanzo, i suoi ‘mezzi’ questa volta sono diretti a scandagliare la realtà della famiglia italiana, di quella fetta particolare così numerosa eppure così sfuggente, dei ragazzi tra i venti e i trenta anni di età. Mai come in questo scorcio di epoca questa generazione è quella che ha subito più scossoni e cambiamenti. È un po’ quello che è successo nelle narrazioni di Candida, che sono passate da una maggiore introspezione a una considerazione piena del ruolo dell’individuo all’interno del suo habitat sociale.

Tra leggere gli americani e andare in America c’è una bella differenza, potremmo dire. In questo romanzo entra tutta l’esperienza recente di Marco Candida, scrittore al di sopra e al di fuori di ogni steccato che va in America per noi e ci restituisce una narrazione dell’Italia che si lascia influenzare pur restando salda nella nostra lingua, un minimalismo che non si traduce in pochezza, una nettezza di sguardo sul mondo dove non sono rari i ‘lampi’ dell’inaspettato e dove il terrore quotidiano si insinua nelle cose più semplici. Nel romanzo i diversi personaggi, Connie, Manuel, Katrina, Ginevra, Murgia, si alternano con le loro esperienze personali, come in un film di quadri dove tutto si riannoda. Il finale è degno di un sapiente costruttore di thriller, consapevolezza che Marco Candida saprà sfruttare in questo genere, quando sarà il momento. “Il bisogno dei segreti” si situa in quel cono d’ombra speciale, “quando il nostro cervello non riconosce più il confine tra la fantasia e il disumano”.

Si potrebbero parafrasare le parole di Connie, la protagonista, dicendo che “ogni parola ogni espressione” per Marco Candida sono “una conquista”, un gesto di riappropriazione debita, frutto di uno scavo del quale, come è giusto che sia, il lettore non intravede se non la leggerezza e la fluidità della forma finale. È come se ogni pagina de “Il bisogno dei segreti” mettesse il lettore di fronte a domande terribili sulla sincerità e sull’opportunità di annullarsi per riuscire a vivere nel mondo contemporaneo oppure, se proprio non possiamo rinunciare a noi stessi, riuscire a convivere con l’ipocrisia. Il lettore percepisce la rottura di quella barriera tra il sé e l’opera, non si sente al sicuro, la prima cosa che Connie mette in pericolo e proprio quella nostra certezza che richiusa la pagina nessuno si metterà a spiare come nascondiamo i nostri segreti e mettiamo a tacere la nostra ipocrisia. La cosa più interessante è che Marco Candida realizza tutto questo in un romanzo che non annoia in nessuna delle sue duecento pagine, cosa che accade spesso percorrendo le pagine di alcuni coetanei di Marco, e non solo.

Luciano Pagano

§

Marco CandidaIl bisogno dei segreti
Las Vegas Edizioni, i jackpot, 16, pp. 200

In libreria. “Vizio di forma” di Thomas Pynchon. Primi giudizi e recensione express.


Cari Lettori di Musicaos.it,
come promesso qualche giorno fa ecco il booktrailer con i sottotitoli in italiano di “Vizio di forma” di Thomas Pynchon, appena approdato in libreria e accompagnato dai primi giudizi critici di merito. Approfittiamo per lanciare un article contest express, inviateci la vostra recensione di “Vizio di forma”, di Thomas Pynchon, per l’occasione pubblicheremo pynchonianamente la migliore, la peggiore e anche la più così così. Buona visione!

Thomas Pynchon a settantadue anni si è rotto le scatole della sua esoterica reclusione ed è sceso tra noi mortali per ricordarci quant’erano divertenti gli anni dei fricchettoni, dei surfer e dei detective strafatti. Grazie, maestro [Niccolò Ammaniti]

Una lezione di mimetismo letterario sorprendente, acrobatica e a tratti spassosa [Gianrico Carofiglio]

Divertente, schizzato, politicamente aggressivo. Con questo noir Pynchon manda al diavolo il galateo letterario e rievocando con nostalgico trasporto l’America di ieri mette al muro quella di oggi. [Giancarlo De Cataldo]

Eccovi le peripezie dell’investigatore privato Doc Sportello durante la sua missione quotidiana tra hippy e surfisti, diretta all’assunzione di sostanze proibite, all’abbordaggio di appetitose forme di vita in bikini, fino ad arrivare là, nel più colorato dei noir, dove nessun romanzo è mai giunto prima. [Tommaso Pincio]

La sua è una rabbia politica, tagliente. In un modo meraviglioso che ricorda quello degli adolescenti, lui continua a voler combattere gli uomini che detengono il potere: il governo, la polizia e Ronald Reagan. [Aravind Adiga]

Vizio di forma, Thomas Pynchon, Einaudi, Stile Libero Big, 2011, p. 470, 20€, ISBN: 9788806202828

“I DIALOGHI DEL RISVEGLIO Lentobus n.°2” di Elisabetta Liguori


Elisabetta Liguori
I DIALOGHI DEL RISVEGLIO
Lentobus n.°2

– Reality, sempre reality. Insomma, mi stai dicendo: nessuna commedia, neppure per una sera, niente. In questo letto, soprattutto. E ti pareva? Ma dico io: se è vero come è vero, che tu hai una passione bruciante; oh, se brucia adesso, brucia, brucia; ok brucia, ma perché mai questa passione deve entrare in cucina come un tornado, in frigorifero svuotandolo, e pure in camera da letto deve entrare? –
– In che senso scusa? Che, per caso, devo fingere, per farti vivere più serenamente questo passaggio? Se non mi sento, non mi sento e stop. –
– Maaaagaaaari, e perché non lo fai? Fingi un po’, che ne dici di un po’ di fine recitazione per me, please. Un teatrino tradizionale, canti popolari e profumo d’arrosto.–
– La smetti? –
– Mi chiedo perché proprio tu; con tutta la gente che si intende di lettere, perché tu. Ti sei chiesta perché proprio tu? –
– No, non mi faccio di queste domande. Smettila.-
– La smetto. Allora leggi e zitta. Non ne parliamo più. –
– Toccami, non restare così lontano, però; se mi tocchi, poco, va bene. Altrimenti non riesco ad addormentarmi. –
– Guarda, non è il fatto di toccarsi o meno. Non è affatto questo.–
– Piano quando ti giri, però, che mi tiri i capelli. …ehi, piano. Non ti agitare tanto!–
– Sì, sto fermo, sto fermo; era per farti capire. Non è che non ci si sopporta; se pure uno magari ci pensa…, ma comunque no, non credo, non è quello il punto; è che ci si adegua sempre con un certo imbarazzo a queste cose. Mi permetti di essere, se non incazzato come un toro, quantomeno imbarazzato; almeno questo? E’ la solita storia dei rifiuti, dell’abbandono. Se dici di no, mi devi consentire un po’ di imbarazzo. Devo gestirlo questo rifiuto periodico. Non sono mica noccioline, bimba. Se io torno dopo una settimana, dico: dopo una settimana, non un giorno, ma una settimana intera, avrei voglia. Se tu mi dici di no, io lo noto, dopo una settimana lo noto. Scusami, ma lo noto. La tua passione bruciante non sono io. Bene, ne prendo atto. Ma non pensare che non mi faccia effetto.–
– Perché tu ti confronti continuamente o con altri o con te stesso. –
– Normale. –
– No, perché normale? Uno può anche accettare il corso delle cose, e basta, senza dirsi prima era diverso, o per altri è diverso. –
– Lo fanno tutti. Di confrontarsi, intendo. E i ricordi allora? –
– Che ne sai tu di cosa fanno gli altri? –
– Lo so, lo so. Fidati che lo so. –
– Non servirti dei nostri ricordi per dire che stiamo male adesso. –
– A che servono allora i ricordi? Dimmi a che servono; forza dai, dimmi. Perché ricordiamo? A che serve la memoria? Per scriverci delle storie, solo per quello? Scusa: i tuoi libri; e questa tua ultimissima passione ipnotica, a che servono? –
– Ah, vorrei tanto vedere te! Mi piacerebbe essere al tuo posto e fare da spettatore. –
– Bugiarda. –
– Perché? –
– Non puoi fare a meno del tuo palcoscenico. Bugiarda. –
– Come sarebbe a dire? –
– Fai una riflessione. Donna bugiardissima!-
– Filosofia a mezzanotte? Ti prego. Io avevo voglia di leggere.-
– E perché? –
– Come perché? –
– Io parlo e tu ascolti: non è lo stesso? Invece di leggere, dico, mi ascolti. –
– E che dici? –
– E tu, invece, che cosa leggi? Leggi quelli che parlano di noi, e allora che differenza c’è? –
– Io non leggo solo quella letteratura. Leggo di tutto.–
– A me così pare, per la verità; leggi solo di realtà in cui ti specchi e autori nuovissimi, profeti della narrativa moderna, minimalisti ma splendidamente illuminati, anzi ispirati direttamente da Dio, che curiosamente sembrano vivere proprio nell’appartamento accanto al nostro e sapere tutto di noi, manco avessimo le pareti di carta velina. Il romanzo del 2000. –
– E’ la narrativa dei giorni nostri. C’è poco da ridere. Ci sono autori contemporanei semplicemente magnifici. –
– E non hanno altro di cui scrivere, se non di noi? E le ideologie? Invece no, solo scrittura soggettiva. E poi, i trentacinquenni per forza. E allora i cinquantenni, e i novantenni? Hai visto quanti nonni arzilli ci sono in giro, alla faccia vostra? E quelli di dieci anni poi, chi parla di quelli? Ma va! Allora invece di leggere, viviamo. Tanto qualcuno, prima o poi, ci salverà dall’oblio. Diamogli il pane a sti quattro scribacchini. Vieni qui. –
– Che palle le ideologie! Guarda che non è facile. Se non leggiamo noi, chi legge? Gli scrittori e le ideologie. Oh, sorte! Non credere: è un mondo ostile. –
– Quale mondo? –
– Quello della letteratura, della scrittura in generale. –
– Che ti frega, tanto non è il tuo mondo. –
– Quale è il mio mondo allora? –
– Questo! –
– Questo quale, scusa, queste lenzuola, questi due cuscini? –
– Anche, cara mia. Anche. Però mi sa tanto che sta diventando ostile pure questo, di mondo. Dipende da come si mettono le cose. Ehi, cara mia: stai attenta. Ma tu guarda di quali cose deve parlare un povero cristo la sera a letto. Di Mondi Alieni. Da soli ve la cantate, da soli ve la suonate, voi intellettuali. Fate, disfate, rifate. L’intellettuale si ripiega su sé stesso, comunica solo sé stesso ed il suo corpo. Dai capelli all’ano. Quello che vuoi, ma intanto la realtà da vivere, per gli altri, per tutti, resta quella che è. –
– Tu dici? –
– Dico, dico. Tendenze, guarda, tendenze. –
– Sai come mi sento io? –
– Eccola. Sento che sta partendo la similitudine e quando parte niente la può fermare. Se proprio ti scappa…vai. –
– Mi sento come la mia borsa sfatta: quando ci metto le mani dentro, tocco di tutto, ma non ne viene fuori mai niente di utile. –
– Bellissima! –
– Non mi convince mica questa cosa qui. Soprattutto stasera che sono nera. Sembra tutto inutile. Artificiale. Ma mi ha preso lo stesso. E perché mi ha preso? Sono sempre stata sicura di essere giusto un avvocato e adesso? Lo sai anche tu, no? Era facile: un avvocato; d’accordo: il problema dei soldi, ma comunque lo studio, i fascicoli, i diritti di cancelleria, le cose solite e concrete. E adesso? C’è sta fissa nuova dello scrivere. All’improvviso diventa tutto possibile e immenso. Ma alla fine poi, di che parliamo, veramente? –
– Cercate di non farvi cancellare. –
– Un’agonia! –
– Appunto; lasciamolo lì fuori questo net work agonizzante di libri ancora da scrivere o già scritti e dei loro autori; lasciamoli fuori nella notte buia e fredda e vieni qui. –
– La nuova narrativa va sostenuta; bisogna crederci. Non sarai tu con quell’arnese lì, a salvare il mondo dall’oblio; gli scrittori possono farlo, invece. Da sempre, di generazione in generazione, sono gli scrittori a cantare il tempo e renderlo vicino, uguale, accessibile, immortale, mitologico. Anche parlando di se stessi. Quando è necessario, è necessario. –
– E chi lo dice? –
– Io. –
– Beh, allora…non si discute. Quindi sai già come salvare il mondo; non hai alcun problema tu! –
– Non è serata. E’ chiaro. Buonanotte. –
– Capissi poi perché. Per via di questo libro che vuoi scrivere? E’ per quello, lo so. Allora scrivi, siediti e scrivi il libro e poi si vedrà. –
– Ma come si diventa scrittori veramente? –
– Che razza di domanda è; sei tu l’esperta. Che fai: consumi solo carta? Stai sempre a rimuginare, a rielaborare, pure il flusso del mio muco nasale. Che guerra è? –
– No, non basta; devo crescere, lavorarci. Non basta il tempo, mai; non basta quello che vedo. –
– La commedia umana, quelle cose lì; ricreare quello che c’è già? E’ questo quello che fate? –
– Eh, sì, più o meno. Ci vuole tempo per capire. Mi serve il tempo. Anche quello utilizzato da altri uomini. Io non ho mai tempo per me, veramente. Siamo sempre al servizio di qualcos’altro. Invece. –
– Ma se non fai altro? Non si può stare seduti in pizzeria con te. Neppure a comprare il pane si può andare. Sembri autistica! Ti blocchi sulla vita altrui. Rubi, non fai che rubare. Insieme facciamo una figuraccia dopo l’altra: due vecchi guardoni siamo diventati. Stai sempre a guardare: muta, fissi le persone che ti sono sedute accanto. Un film. Sempre a lavoro. Stai sempre a catalogare tutto il narrabile, come se dipendesse da te la conoscenza collettiva. Poi la vita, quella vera, se ne va a puttane. –
– Sono paralizzata? –
– Non vivi più nel pantano. Ecco: resti fuori. E, nello stesso tempo, sei ossessionata dal pantano stesso. –
– No. Sono paralizzata da troppe idee, invece. Oddiomio, è finita: la paralisi. Non scriverò mai più un rigo che abbia senso, che serva a qualcosa. Né per me, né per nessuno. Niente. Pure una famiglia ho distrutto; e adesso che faccio? Ho disperso il tempo che avevo. Quel poco che c’era, è già perso. Senza risultato, senza nessuno che ascolti. –
– Sarà. A me, la storia del tempo, mi sembra una scusa buona per tutte le occasioni. –
– Pensi questo? Pensi che non sono più in grado di scegliere tra Cappuccetto Rosso e La Piccola Fiammiferaia, da raccontare a Giulia. La paralisi. Ecco come comincia. I libri non mi cambiano più, i personaggi si confondono, non mi parlano. Tanto desiderio d’arte ed alla fine descrivo solo personaggi che sembrano Sandra e Raimondo. Ci sono troppe cose già dette nell’aria, troppa euforia o troppa delusione. Troppe favole, troppe; troppe le possibilità. Inafferrabili. –
– Sai quel è il tuo problema? Il problema è che tu credi di avere talento. –
– Come talento? –
– Sì, è così, ammettilo: qualcuno ti ha convinta di avere talento. –
– Chi? –
– Come si chiama quello? –
– Chi? Rino? –
– Rino è il primo; dopo viene tutto il gruppo di scrittori, poeti, affabulatori; gli antipatici per forza, sciamani della narrativa, guru, saltimbanchi, suorine, confidenti, gestori di librerie, giornalai. Il tuo Network dell’ultimo semestre. Sono stati loro. Ma dico io: prima scrivi qualcosa e dopo, se è il caso, si pensa al network. Semmai. –
– Ma di quale talento?-
– Avevano un progetto diabolico, quelli. Beh, senti una cosa, secondo me il talento non esiste. –
– Lo so anch’io, non sono così cretina. E’ per questo che cerco il tempo. –
– No, non lo sai. –
– Lo so, ti dico. –
– Dici così, ma non ne sei convinta. Secondo me questo benedetto talento è una specie di ornamento estetico. Sì, un cappellino con un fiore sulla testa. Una cosa così. Forse. –
– Non esiste? Bene, quindi? Che si fa? Si rinuncia? –
– Fai quello che sai fare, ma non mettermi in mezzo, per favore; né me, né Giulia, che è carne della tua carne, ma carne appunto; non uno dei tuoi personaggi di carta. Non divorarci così. –
– No, aspetta; ho capito adesso; ecco il punto. Dunque? Adesso, caro, ti fermi perché dobbiamo approfondire. –
– Ho sonno. Io adesso dormo. Niente sesso, quindi dormo. –
– Dai, per favore! Fai la persona seria una volta. –
– Cosa? –
– Dimmi bene. Dell’oggetto della mia scrittura; dimmi di quello. –
– Ma che vuoi? –
– Avvicinati e dimmi. Se vuoi spengo la luce, ma poi continuiamo a parlare però.-
– Se spegni, mi viene il sonno. –
– Non spengo. Allora? –
– Io volevo dire soltanto che forse stai esagerando. Non ti eccitare troppo. Tutto qui. Un fatto di misura. Pensaci, se vuoi. –
– Che la passione si misura? E da quando? E’ ben strano detto da te. Ti devo ricordare qualcosa? –
– Ma quale passione, qui si tratta di un progetto; creare richiede sempre un progetto. Mica sono un fesso. Un mega progetto, anzi. –
– Vabbe, dai! –
– E cosa c’entrano le mie scelte del passato, tutte le cretinerie che ho fatto anch’io? Mica sei l’unica tu, lo so bene. Si parla di scrittura, non di vita. –
– Quale è la differenza? Se c’è differenza. –
– Se permetti, sì; se permetti c’è una grande, un’enorme differenza. Che fai la finta tonta. Non puoi rinchiuderti in una tana, con una sedia ed un tavolo, diciotto ore su ventiquattro, a sbirciare quello che fanno gli altri. Ché sudano come porci, si dimenano, gli altri. Facile per te. Stai lì, ore con gli occhi larghi, senza neppure sbattere le ciglia, per poi mettere tutto sulla carta a modo tuo, secondo i tuoi gusti, la tua intellettualizzazione. Questo non è vivere, la tua è pigra manipolazione. Troppo facile! –
– Ma la letteratura si nutre di vita. La verosimiglianza, per esempio. Non è colpa mia, se le cose stanno così. –
– No, non puoi farlo. –
– Ho bisogno degli altri. –
– Sei diventata insaziabile però. Ci hai infilato in tutti i tuoi raccontarelli. A noi. Alla tua famiglia. Eh! Carne da cannone. E dai! –
– E che avrò rivelato mai! Alla fine è una forma d’immortalità anche quella. –
– Se fosse buona letteratura almeno…-
– Quindi fa schifo. Dimmelo, se lo pensi. Fa schifo? –
– Guarda: io non lo so, non sono un tecnico. Chiedilo al branco. –
– Quale branco? –
– Gli intellettuali sono cani che vivono in branco. E’ sempre stato così. Poche femmine però. Oggi, davvero poche donne. –
– Che peccato… vero? –
– Sì, infatti. –
– E chissà perché, eh? –
– Presentami una scrittrice, se la trovi in zona! –
– Ma ti piace o no quello che scrivo? Leggi ogni parola di quello che scrivo. Che significa? E’ leggibile? Sì o no? –
– Controllo. –
– Ma ti piglia quello che leggi? Sì o no? –
– Diciamo che lo riconosco. Quello che scrivi mi appartiene. E per forza! –
– Uhm. Che razza di uomo inutile sei! –
– Ma che ne so. Talento o no; vivere o scrivere, fai quello che ti pare. Di certo c’è solo che esiste una buona letteratura ed una cattiva letteratura. E dei criteri per distinguere l’una dall’altra. Per forza ci devono essere dei criteri cui appellarsi. Che non è mica tutto un caso. O forse tu credi piuttosto che sia una lotteria? –
– Bella scoperta. Geniale sei. Ah, se non fosse così tardi. Ma invece è tardi. Credi tu. Fai semplice a dire buona, tu. Passami un fazzolettino; lì sul tuo comodino. –
– Tieni. Sì. Una letteratura buona, vuoi un esempio: quella che restituisce la molteplicità. –
– Cioè? –
– Cioè, cioè: dateci sta benedetta vita, va bene, se si deve, mi sacrifico, va bene, ma non marionette. Vite vere. Dateci il senso. Non solo i cazzi miei, a me già ben noti. Non per forza, sempre, soltanto, gli stessi cazzi miei! Siete artisti? Allora create! E che cazzo! –
– Alla fine si torna…-
– Non sempre il vicino di casa, e che palle, dai! Molteplicità, dico io. Poi non ci lamentiamo che nessuno legge libri. Per favore, siamo seri. –
– Adesso è colpa di chi scrive? –
– Hai visto come sono rassegnati? Tutti. Aldo ieri sera diceva, senza tremito nella voce, che non c’è differenza alcuna tra Berlusconi e D’Alema, tra potere e potere. Ti rendi conto? E io a dire, ma non è possibile, riflettete, vi sbagliate, siete vittime dello sconforto. Convinto invece l’Aldone nostro! E tutti gli altri con lui, con i tranci di pizza fredda in mano, a dire sì, è vero, non c’è differenza. Come pecore tristi. Che siete voi: scrittori? Beh, dategli la differenza, almeno; lo stupore, che gli si rivolti lo stomaco mentre mangiano la loro pizza. Dategli la scossa. –
– Aldo, diceva così? Non è possibile. –
– Giuro. Lui che ha mandato i figli alla Montessori. Aldone l’abbiamo perduto, ce lo siamo giocati. Non può, né vuole cambiare più nulla, lui. E non era neppure così triste, a pensarci meglio!-
– Dunque, sintesi: anche senza alcun talento, anche senza cappellini in testa, posso fare buona letteratura impegnandomi a raccontare vita vera e molteplice, possibilmente non la tua, per stupire lettori a iosa, comatosi e disillusi. Tu sì che sai come farmi stare serena. La scossa? E non devo pure scoprire il farmaco che sconfigga definitivamente il cancro??? Ma che boiate, facilissime boiate da barbiere. –
– Mica tanto. Magari viene fuori a sorpresa un’interconnessione tra letteratura e medicina; magari, che ne puoi sapere tu. Magari si scopre che c’è sempre stato un collegamento diretto tra l’elevarsi del livello di colesterolo nel sangue e la produzione di narrativa. Tra il leggere e lo scrivere buoni libri e la salute nazionale. Come fai ad escluderlo. –
– E se facessi tutto solo per me stessa, invece? Io scrivo per me e basta. E’ chiaro, non me ne frega niente. Per me e basta. Chi legge, legge. Conto solo io. Solo io. –
– Solo la tua salute? –
– Sì. –
– Come vuoi. Si diceva per dire, comunque. Stai calma. Allora: parti domani? –
– Domani? –
– Vai a visitare il mondo che devi raccontare; almeno spingiti fino al condominio giallo, quello alla fine della strada. Non dico altro. Fallo per te stessa, ma fallo altrove. –
– Ti ricordi quello che mi voleva pubblicare due anni fa? –
– Chi se lo scorda. Quello che curava una strana rivista tutta rossa; orca l’oca, rossa rossissima, con stampate in copertina quelle figure inquietanti con la testa mozzata? Quello? Ma come si chiamava? L’uomo che voleva pubblicare quel tuo lungo monologo su un tizio che aveva i baffi come me, la mia stessa auto, che faceva il mio stesso mestiere, che aveva sette anni meno di me ed era senza figli, proprio come me sette anni fa circa, e che, alla fine, si suicidava. Storia mozzafiato. Avvincente. Ah, sì! Veramente. Chinozzi si chiamava. Non aspettava altro da decenni quell’uomo. Immagino.–
– Sì, Chinozzi. –
– Chinozzi. –
– Era un monologo sul senso del ricordo. Sulla comprensione del tempo. Non era così male. Forse non te lo ricordi bene. Era una cosa seria. E’ stato importante incontrare Chinozzi. –
– Che culo pazzesco! –
– Certo! Gli incontri, in un mestiere come questo, sono importanti; stimolanti di certo. Non negare. È così pure nelle università, mi pare. Anzi peggio. Mica è sufficiente scrivere una cosa. Non ci si ferma mai a quello. Ci vuole il gruppo. Hai ragione tu. In passato erano i gruppi di intellettuali a fare la differenza. Anche il singolo adesso, però, forse…non so. –
– Mi stavi dissanguando. Tu e pure Chinozzi. –
– Era una ricerca. In qualche modo. Collettiva. –
– Allora partiamo. Pure noi, ricerchiamo. –
– Ma non ti piace l’uomo che descrivo? E’ questo? Non ti piace affatto. Ti fa paura la verità? Ho capito. Vabbè, basta dormiamo. Tanto. L’universo è pieno di bellezza e orrore. Alla fin fine, mi sembra troppo per me, che sono agli inizi. La ripetizione di un uomo solo è più facile, per ora. –
– Non credo affatto che sia più facile. Un uomo solo non è più facile. –
– Non so. –
– Racconta, per esempio, il tassista di Napoli che una settimana fa ci portava in giro con la nipotina di tre anni sul sedile davanti. Il nonno, i nipoti, i figli, il lavoro. Anche la colonia di marocchini che abitano di fronte. Si può raccontare. Quanti saranno: venti, trenta, quaranta persone in tutto. Tu sei in grado di quantificare? –
– Tanti in quella casa. Sembra un formicaio. –
– No. Appunto. Non è più facile il tassista, secondo me. –
– E ti piglia il tassista? –
– Mi piace; giuro che mi piace; pure troppo mi piace, l’uomo che descrivi tu. –
– Non sei tu, comunque, quell’uomo. –
– Come vuoi, non sono io. Menomale. E chi è allora? –
– Chi è? Un tipo. Uno come un altro. Uno dei tanti. –
– Scusa, sei tu l’autrice. Ohi, è tardissimo. Domani si lavora. –
– Sì. Però è un guaio. Si fa sempre tardi. Sul più bello. Hai visto? Il tempo per trasformare le cose non è mai abbastanza. –
– Studia i classici. Quello in tv lo consigliava ieri. Infatti. Sembrava sensato. Così guadagni tempo, secondo me. –
– E se non ne sarò mai capace? –
– Fa niente. –
– Niente? –
– Potrebbe essere al più un’insperata fortuna. Ti prometto: non dico nulla di tutte queste idee, né a tuo padre, né alla tua insegnate di lettere del liceo. Stai sicura. Non ti tradisco! –
– Ci conto. –
– Almeno questo! –
– Basta. Hai ragione: se voglio il tempo, ho bisogno di Proust. –
– Non l’avevi già letto? –
– Non ha fermentato, evidentemente. –
– Sei ossessionata, lo dicevo. –
– No, ho trentasette anni. L’età del mezzo. La più pericolosa, forse. –
– Anch’io. Embè? Non mi pare più pericolosa di altre, ad onor del vero. –
– Tu dici? –
– E poi non capisco, sono onesto, non capisco perché devi proprio ricorrere a me, per far carriera. –
– Perché la coppia è un mezzo di trasporto. –
– Trasporto? Tesi alquanto ardita. –
– Trasporto, trasporto. –
– Sì. –
– E poi non mi dispiacerebbe neppure far ridere. Un’altra strada possibile. Mi sentirei necessaria se facessi ridere. Tu, per esempio, sei ironico nelle tue cose, così, se parlo di te, divento inevitabilmente ironica anch’io. La mia ispirazione è simbiotica, parassitaria, che ci posso fare? Pesco in quello che amo, che mi è familiare. Faccio così male?–
– Io, Giulia, Anna Paola pure, la tua amica, quella che ti conosce da una vita, e pure suo marito, che ti conosce per narrazione, ridiamo tutti come pazzi. Fatto caso? No? guarda, senza dubbio: tu fai ridere. –
– Quindi non faccio così male? –
– Fatti un bel viaggio, senti a me. Non ti impigrire. –
– Dove? –
– Dove vuoi, purché non in uno specchio. –
– Se bastasse…dico io. –
– A te non basta mai nulla, se è per questo. –
– Spegni. E vieni qui. Qui,…no, qui. Se vuoi.–
– Che ti serva un’idea nuova? –
– O magari un personaggio. –
– Ah, non ti ho detto. Ho comprato un video gioco per playstation nuovo nuovo: trentanove euro. –
– Dio santo! Sei pazzo. Uhm… Hai messo la sveglia per domani? Ehi, l’hai messa? –
– Originale. –
– Mazzate? –
– Solo mazzate. Tecniche precise per sgozzare un uomo da dietro o mentre dorme. Tenebre. Assoluto, assoluto e bellissimo. Hai presente lo strazio di Rambo? Molto interessante secondo me. –
– Per uomini solitari. –
– Dormi serena. Dirigo altrove l’istinto, come posso. Verso altre ipotesi di letteratura postmoderna. –
– Giulia lo sa? –
– No. Nanna ora. Non glielo dire tu. Vedremo fra qualche anno. –
– No. Non dico niente. –
– Raccontare, raccontare… –
– Abbiamo bisogno del racconto, non si discute. –
– Meglio, non si discute. –
– Sonno? –
– Come siamo finiti a parlare di letteratura? Anche stasera? –
– Non mi ricordo più. –
– Boh! –
– …notte. –
– Comunque no. Proust, no, mia cara, non lo si può sottovalutare. –
– Notte. –

“I DIALOGHI DEL RISVEGLIO. Lentobus n.°2” è stato pubblicato su Musicaos.it, Anno 2, Numero 15, Marzo 2005

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“Giorni” di Pasquale Iannucci


“Giorni”
di Pasquale Iannucci

Sadìk era il mio spacciatore di fiducia. Lo chiamai e mi disse che ci saremmo visti nel tardo pomeriggio. Al solito posto. Guardai l’orologio. Le undici.
Non stavo bene per un cazzo. L’ultima pera me l’ero fatta la sera prima e iniziavo ad accusare i primi sintomi della scoppia.
Di solito starnutivo e gli occhi mi lacrimavano come due fontane.
Anche questa volta non andò diversamente.
Mi prese il panico e mi attaccai alla bottiglia del vino. Feci un sorso.
Una vaga sensazione di benessere mi si diffuse in tutto il corpo.
Svanì in fretta.
Continuai a bere camminando avanti e indietro per la stanza. Più bevevo e più la voglia di farmi aumentava. Presi i soldi dal cassetto e li contai. Venticinque euro.Per iniziare erano più che sufficienti. Li riposi e feci partire il lettore cd. «Violence Now», brutalizzata da GG Allin.
Mi accesi una sigaretta e mi affacciai alla finestra.
Abitavo al terzo piano di un palazzo in un vicolo del centro.
Di fronte a me case ammassate una sull’altra e antenne tv svettanti verso il cielo.
Un cielo terso. Di primavera.
Nel palazzo di fronte, attraverso una finestra aperta, vidi un uomo seduto nella sua cucina. Fumava e guardava il muro di fronte a sé. Sul tavolo, un posacenere pieno.
Lo vedevo tutti i giorni e tutti i giorni era la stessa immutata scena. In altre occasioni lo avrei ignorato. Ma ero ubriaco e in astinenza.
Provai una pena lancinante. Per lui e per me. Pensai alla vita e alla solitudine. La solitudine mi sembrava ingiusta. Non voglio restare solo, pensai. Poi smisi di pensare e mi venne il magone, avevo paura. Rientrai e ricominciai a bere. Volevo scacciare l’ansia. Alla fine, tutto, sarebbe svanito nel nulla. Come d’incanto.
Andai in camera, presi i soldi e li rincontai. Non erano aumentati.
L’orologio sosteneva che mancava un quarto alle dodici. Il vino era finito e il tardopomeriggio era ancora molto lontano.
L’ipotesi di andare a procurarmi la roba da un’altra parte era fuori discussione. Con la metro ci avrei messo troppo tempo e il mio stato era pessimo.
Non avevo nessuna voglia di sbattermi.
La vita del tossico era troppo frenetica. Fissai i soldi per qualche minuto. Poi decisi che avrei fatto un piccolo investimento. Birra o qualcosa di più forte. Dovevo ammazzare la giornata.
Misi le scarpe ed uscii. Fatta la prima rampa di scale mi venne un conato e la bocca mi si riempì di vino. Lo rimandai giù e continuai a scendere.
Cercai di combattere contro il vomito fino a quando mi resi conto che era impossibile. Dovevo sboccare. Be’, mi dissi, se proprio dev’essere, facciamo almeno che non sia qui.
Mi girai e ricominciai a salire. Ero a pezzi. Sentivo le gambe pesantissime e lo stomaco bruciarmi.
Dopo alcuni gradini inciampai e caddi carponi.
Un litro e mezzo di Barbera del Piemonte si riversò a fontana su me e i gradini. I singulti si susseguivano uno dietro l’altro senza sosta. Faticavo a respirare. Quand’ebbi finito non avevo più nemmeno la forza di rialzarmi. Mi aggrappai alla ringhiera e, dopo un po’ di vani tentativi, riuscii a rimettermi in piedi. Ripresi a salire. Ogni tanto qualche crampo mi costringeva a tappe forzate nelle quali cercavo di respirare a fondo e di trattenere lo sbocco.
Raggiunsi la porta. Entrai in casa e mi fiondai in bagno. Mi tolsi i vestiti e m’inginocchiai davanti al water.
Con l’ausilio delle dita della mano destra sondai il mio esofago fino a quando non mi svuotai del tutto.
Andai al lavandino e mi sciacquai la faccia. Allo specchio c’ero io. Mi guardai un po’. Facevo schifo. Le guance mi ricadevano mollemente e gli occhi erano ridotti a due fessurine arrossate. Non mi radevo da settimane e, a giudicare dall’odore che emanavo, non mi lavavo da altrettanti giorni. Provai a fare un conto e mi persi subito. Avevo toccato il fondo ma ero troppo esausto per pensarci.
Dovevo farmi.
Riprovai a chiamare Sadìk. Dall’altra parte, la signorina Telecom italia mobile mi pregava di richiamare più tardi. L’utente desiderato non era, al momento, raggiungibile.
Aveva spento il telefono, il bastardo.
Mi feci prendere dallo sconforto. Volevo morire. Volevo farmi. Volevo smettere di farmi. Volevo stare bene. Subito.
Mi ricordai che sotto il letto avevo imboscato una boccetta di Darkene. Andai a prenderla. Non era molto e non era la stessa cosa. Ma era meglio di niente.
Nel bidone dell’immondizia avevo buttato la mia unica insulina. La recuperai, la sciacquai velocemente e la riempii con il farmaco.
Trovai la vena e mi feci.
Una voragine di calore mi si aprì nello stomaco.
Il Darkene era un ipnotico. Non alleviava il dolore fisico. Semplicemente non mi ci faceva pensare. Mi sdraiai e cercai di rilassarmi. Inutilmente. Gli spasmi muscolari alle gambe non mi davano tregua. Mi alzai e cominciai a camminare su e giù. Riaccesi lo stereo. Andai in bagno, presi gli abiti sporchi di vino e li buttai in lavatrice.
Poi mi rivestii e considerai l’idea di andare a pulire le scale.
No, troppo faticoso.
Squillò il telefono.
-Pronto?
-Rà, sono io. Che fai?
Era Morgana.
-Sto di merda. Devo farmi.
-Ce l’hai il cash?
-Si.
-Chi c’è con te?
-Nessuno.
-Arrivo.
-Ok.
Riagganciai e mi accesi una sigaretta.
L’orologio segnava la una e mezza e il sole invadeva violentemente tutta la casa. Solo allora mi resi conto di quanto mi desse fastidio tutta quella luce.
Abbassai le tapparelle fino ad una penombra accettabile. Spensi lo stereo e mi misi davanti alla televisione.
Morgana arrivò mentre Lassie correva tutto felice e scodinzolante da Liz Taylor bambina.
Andai ad aprirle.
Quand’ero scoppiato ero sempre felice di vederla. Non c’era un motivo particolare. L’astinenza mi faceva perdere il controllo delle mie emozioni. Ero capace di passare dalla tristezza più nera alla gioia più assoluta nel giro di pochi minuti e poi di ricominciare daccapo. E di solito, in quei momenti di squilibrio, ero felice di vedere chiunque.
Lei entrò in casa senza dire una parola e si diresse in salone. Io la seguii.
Si mise una mano in tasca, ne cavò un involucro enorme e lo depose sul tavolo. Poi si girò e mi guardò sorridendo.
Le indicai il pacchetto.
-Non vorrai dirmi che…
-Sì- m’interruppe trionfante- è Roba!
-Porca Puttana!- esclamai.
Stentavo a crederci. Sul tavolo del mio salotto c’erano circa qualcosa come un paio d’etti d’eroina.
Ero salvo.
-E dove cazzo l’hai presa?- le chiesi.
-Tu- rispose- non preoccuparti. Ti vuoi fare o no?
-Si, si. Era così. Tanto per chiedere.
Allungò la mano destra, con il palmo rivolto verso l’alto e, sfregandosi il pollice e l’indice, mi fece capire che voleva i soldi.
La cosa mi diede fastidio. La conoscevo da una vita e non esisteva che le dovessi pagare la roba. Ma lei l’aveva e io n’avevo un disperato bisogno. Misi da parte l’orgoglio e andai a prenderglieli.
Nel cassetto avevo venti, in tasca un pezzo da cinque. Dieci li presi e dieci li nascosi tra le mutande. Almeno lo sconto, pensai, me lo deve fare.
Tornai in salotto. Morgana aveva tolto la stagnola alla roba e stava scaldando. Guardai ancora una volta tutta quella droga.
Non riuscivo a capacitarmi.
Era un sasso enorme, compatto. Dal colore dedussi che doveva essere buona. Poi mi rivolsi alla mia amica e le chiesi se, per caso, non avesse voluto pesarla.
-Sai, – aggiunsi,- ho il bilancino.
Mi disse di andarlo a prendere. Quando tornai, la mia insulina mi aspettava già carica e Morgana sclerava perché non trovava un canale aperto.
Le guardai le braccia. Non aveva una vena intatta. Provai pena, per le sue vene.
L’avevo conosciuta parecchi anni prima e il ricordarla in condizioni migliori mi rendeva tutto insopportabile. Avrei svuotato la spada. Le avrei detto di mollare tutto e di ricominciare da un’altra parte.
Solo io e lei.
Appoggiai il bilancino sul tavolo. Presi la siringa e, in piedi e senza stringermi, me la piantai nel braccio. Mi presi subito.
Il primo fiotto di sangue che entrò nella spada mi diede le vertigini. Spinsi in dentro lo stantuffo.
Vago sapore d’acetone in gola.
L’ultima cosa che vidi fu Morgana che sciacquava l’insulina in un bicchiere.
Quando mi svegliai, un faccione enorme mi stava chiamando per nome.
Ero morto e quello era il mio angelo custode. Vestito di bianco con l’aureola e tutto il resto.
Girai gli occhi a destra e a sinistra e notai che dal mio avambraccio sinistro partiva un tubicino. All’estremità del tubicino, una flebo.
Non ero morto. Ero in ospedale e quello non era il mio angelo ma solo un infermiere.
Mi sentii sollevato. Non ero ancora pronto per il giudizio finale.
Intanto, quello continuava a ripetere il mio nome e a darmi dei leggeri schiaffetti sulle guance.
Raccolsi le poche forze che avevo.
-La vuoi smettere?- rantolai, mentre con la mano destra gli tiravo un lembo del camice.
Lui mi guardò un attimo, fece un passo indietro e, senza dir nulla se n’andò.
Provai ad alzarmi ma non ce la feci. Chiusi gli occhi.
Avevo sonno, volevo dormire.
-Non dormire! Non dormire, mi hai capito?
Era ancora lui. Mi stava scuotendo.
-Si- biascicai – ho capito.
Andò via. Richiusi gli occhi. Mi vennero in mente cose stranissime. Cose, alle quali non pensavo da anni.
Amici d’infanzia. La mia prima ragazza. I quattro cani che avevo a sei anni. Mio nonno.
Nel frattempo mi giungevano i suoni confusi del pronto soccorso. Un medico che s’incazzava per qualcosa. Sirene d’ambulanze e il pianto di una donna. Qualcuno era appena morto.
Tutto, mi arrivava ovattato e sordo. Una sensazione di benessere che non avevo mai conosciuto. Mi stavo lasciando andare. Il mio corpo e la mia mente precipitavano piano verso un nonluogo senza più suoni né colori. La catarsi. E non sarei più tornato indietro. Mai più.
Un violento scrollone mi riportò alla realtà.
-Ma insomma, hai capito o no che non devi dormire?
Questa volta era una donna.
-Quando me ne posso andare?
-Quando starai meglio, quando finirà la flebo. Sta’ tranquillo e cerca di restare sveglio. Chiaro?
Non le risposi e lei si dileguò in un’altra stanza.
Passò del tempo. Tempo in cui rimasi sospeso tra la veglia e il sonno. Ogni tanto qualcuno veniva ad assicurarsi che fossi vivo.
Poi mi stancai. Mi tolsi l’ago dal braccio, mi alzai in piedi e, barcollando, provai a guadagnarmi l’uscita.
A metà corridoio fui intercettato dalla solita infermiera.
-Ma dico!- sbottò- è impazzito? Perché si è tolto la flebo? Mi aspetti qua. Si segga.Vado a chiamare il medico.
Mi prese per un braccio, mi fece sedere su di una sedia a rotelle e se n’andò borbottando. Io non opposi la minima resistenza. Ero troppo stanco per farlo e volevo solo andarmene a casa.
Qualche minuto dopo, la sentii ciabattare un’altra volta verso di me. Al suo fianco, un uomo.
-Perché ti sei tolto la flebo?- mi chiese lui.
-Perché me ne vado- risposi io.
Mi accorsi che perdevo sangue dal braccio. Istintivamente me lo portai alle labbra e succhiai.
-Ma no- urlò l’infermiera- che fai? Aspetta che ti disinfetto.
Sparì in una stanza e riapparve subito dopo con un flacone di disinfettante e dell’ovatta.
Mi prese dolcemente il braccio. La lasciai fare.
– Sei sicuro?- mi stava dicendo lui nel frattempo- è meglio se resti qui ancora un po’.
-Quanto?
-Almeno un’oretta- intervenne lei. Poi cercò con gli occhi l’approvazione del medico.
-Già. Ha ragione.
Scossi il capo: – No, non se ne parla nemmeno. Io me ne vado adesso.
-Ma, si può almeno sapere che hai combinato? Sei tossicodipendente?
-Tu che dici?- chiusi gli occhi.
– Dico che dovresti farti aiutare. Ti abbiamo preso per un soffio. A proposito, per precauzione ti abbiamo fatto una lavanda gastrica. Potresti rimettere per un po’ di tempo.
-Va bene. Adesso mi dai quel cazzo di foglio così lo firmo e me ne vado?- riaprii gli occhi.
Tre infermieri si erano radunati attorno alla mia sedia e mi guardavano.
– Cazzo volete? Andate tutti affanculo.
Tentai di mostrare il terzo dito della mano destra ma il braccio mi ricadde mollemente sulle gambe.
I tre se ne andarono.
L’infermiera se n’andò.
Il medico, pure. Tornò con il foglio di dimissioni.
-Se ti senti male cerca di tornare subito qui.
Ci credeva davvero. La mia sorte gli stava a cuore.
Per un attimo pensai di dargli retta e di fare come diceva ma scartai immediatamente l’idea.
Dovevo andare.
Scarabocchiai il foglio, mi rimisi in piedi ed uscii.
L’aria della sera era fresca. Dal traffico ipotizzai che fossero intorno alle sei del pomeriggio.
Incrociai una ragazza e le chiesi le ore.
M’ignorò.
Dopo qualche metro, vomitai. Copiosamente. Era praticamente acqua, solo che di colore nero.
La lavanda gastrica.
Probabilmente la mia amica, per pararmi il culo, aveva raccontato la storia degli psicofarmaci.
Lo facevamo spesso. Se uno di noi collassava, dicevamo che aveva bevuto sui farmaci. Era per evitare il Narcan.
E gli sbirri.
Non sapevo se mi avevano fatto il Narcan. Non era importante. A parte la nausea, stavo bene.
Finii di vomitare e mi rimisi in cammino.
Frugai nelle tasche alla ricerca delle sigarette. Le trovai e ne accesi una.
Cercai ancora e trovai le chiavi di casa. M’imboscai dietro un albero e vomitai nuovamente.
Un quarto d’ora più tardi ero davanti alla porta della mia dimora. Entrai. Era deserta.
Sul tavolo, al posto della roba, c’era una busta. L’aprii.
Un foglio a quadretti, ripiegato in due, asseriva di volermi bene e di essere molto preoccupata per me. Diceva anche di guardare nel fondo della busta.
In una stagnola, un po’ di eroina.
Il bilancino era sparito. Evidentemente Morgana aveva ritenuto opportuno portarselo via. Forse aveva pensato che a me non sarebbe più servito.
Mi chiusi in bagno e, mentre aspettavo che si riempisse la vasca, mi feci una pera.
Per il giorno dopo ne misi da parte un po’.
Un rivolo di sangue mi scorse lungo tutto l’avambraccio. Qualche goccia cadde sul pavimento.
Pensai a Franco, che un giorno era sparito nel nulla. Un amico d’infanzia, come tanti. Eravamo cresciuti insieme. Avevamo rubato insieme. Per lo più negli ospedali, ai malati.
Per un po’ di tempo avevo pensato che se n’era andato. Parlava sempre del Sudamerica e di come avrebbe svoltato facendo business laggiù.
Me lo immaginavo ingrassato, sotto una palma, a farsi sciacquare le palle da un mare tropicale trafficando e bevendo rhum.
Lo speravo veramente.
Invece, lo ritrovarono in un fosso un mese dopo.
Dissero che era morto di overdose e che era tutto gonfio. I topi gli avevano divorato la faccia.
La madre lo riconobbe dall’orologio. Stop. Fine.
Addio, Franco.
Non pensavo mai alla morte. Non mi sembrava vero che potesse accadere. O almeno, non così.
Dovevo smettere.
Diazepam. Clonidina cloridrato. Flunitrazepam. Bromazepam. Tramadolo cloridrato. Fenobarbitale. Naprossene sodico. Brunorfina. Codeina fosfato. Efedrina. Metadone…
Il problema non era il dolore fisico. A quello potevi anche non pensarci o comunque, un rimedio lo trovavi.
Il problema non era durante, ma dopo. Era dopo che ti toccava fare i conti con la realtà.
Dopo, c’era la monotonia di giorni che ormai erano divenuti troppo vuoti. Dopo, c’era la solitudine. La paura.
Dopo, c’erano gli happy hours e i telefonini cellulari. C’erano le serate e i locali dove puntualmente ti rimbalzavano perché non eri adeguatamente abbigliato.
C’era una spossatezza, una nonvoglia, un vuoto esistenziale che afferravi a malapena ma che ti travolgeva. Lentamente. Inesorabilmente.
Giorno dopo giorno.
Eppoi, i consigli degli amici. Quelli sensibili e politicamente corretti, dispiaciuti e comprensivi della tua sfortuna e debolezza.
E quelli per i quali eri quasi una merda e, l’unica cosa che riuscivano a dirti era di tirare fuori le palle.
-Grinta. Nella vita, ci vuole grinta!
E tu, magari, avresti voluto dirglielo che ti sentivi solo e pazzo eccetera eccetera.
Ma non lo facevi. La solitudine non era trendy.
Così, un bel giorno, strafatto di Ketamina ti dicevi: -Be’, vaffanculo, perché no?
E senza sapere come ti ritrovavi in piazza e lì i giochi erano fatti. Punto e a capo.
Però dovevo farlo.
Vasca da bagno. Acqua bollente. Sera che incalza dai vetri appannati.
Com’era?
(Ogni piacere vuole eternità. Vuole profonda, profonda eternità.)
Stavo bene a mollo. Mi sentivo al sicuro, protetto.
Scoreggiai. Mi piaceva scoreggiare in acqua. Mi piacevano le bollicine, le trovavo interessanti.
Si, si, avrei smesso di farmi. Pochi giorni di sofferenza. Al massimo una settimana.
Questa volta sentivo che era la volta buona.
Avrei dato una svolta decisiva alla mia vita. Mi sarei fatto il bidè tutti i giorni e avrei cercato i vecchi amici.
Un lavoro, una casa, una ragazza. I colloqui settimanali con lo psicologo del Sert.
Avrei rigato dritto.
Uscii dalla vasca, mi asciugai, mi misi il pigiama e andai a dormire. Considerai per un attimo di masturbarmi.
No, troppo faticoso.
A metà nottata mi sparai il resto della roba.
Il giorno dopo oziai nel letto a lungo. Poi mi alzai e feci colazione. Guardai l’orologio: mezzogiorno.
Freddi brividi da rettile lungo la schiena. Mi accesi una sigaretta. Era una giornata limpida e ventosa. Il sole, risplendeva su tutto.
Sadìk era il mio spacciatore di fiducia. Presi i soldi dal cassetto e li contai. Una decata. Pochi, troppo pochi. Frugai in giro per casa e trovai un braccialetto d’oro e un altro pezzo da dieci. Potevano bastare.
Lo chiamai e mi disse che, se volevo, potevo raggiungerlo subito. Era al bar.
(Ma non dovevi smettere?).
Domani, un altro giorno, non so…
Mi fiondai per le scale.

FINE

“Giorni” di Pasquale Iannucci
è stato pubblicato su Musicaos.it, Anno 2, Numero 17, Maggio 2005

i numeri di Musicaos.it dal 2004 al 2007 sono disponibili qui

A differenza sia del recensore che dello storico della letteratura, il critico dovrebbe occuparsi di capolavori. Il suo primo compito è quello di distinguere non tra il buono e il cattivo, ma tra il buono e l’ottimo


George Steiner, Tolstoj o Dostoevskij

“Troppi libri, invece di arricchire la nostra coscienza, invece di essere sorgenti di vita, ci tentano con le armi della facilità, della grossolanità e del più effimero dei piaceri. Ma quelli sono i libri destinati al mestiere del recensore, non all’arte meditativa e ricreatrice del critico. Ci sono più di «cento grandi libri», ce ne sono anche più di mille, ma il loro numero non è inesauribile. A differenza sia del recensore che dello storico della letteratura, il critico dovrebbe occuparsi di capolavori. Il suo primo compito è quello di distinguere non tra il buono e il cattivo, ma tra il buono e l’ottimo”

A che ora è la fine del mondo. Su “L’inizio delle trasmissioni?” di Massimiliano Manieri.


Il secondo personaggio delle performance di Massimiliano Manieri che vado ad affrontare con questa mia disamina di scorribande inattualissime sulle sue opere è un nuovo antropomorfo. L’ennesimo bozzolo, involucro, uomo sottratto alla comunicazione che deve averci a che fare – con la comunicazione stessa – per quel principio artistico insito nelle performance di Manieri, quello per cui il culmine della comunicazione è affidato al tutto-che-circonda, alla scena, al ‘mutante’ immutabile, fissato una volta per tutte in un luogo preciso. Il punto di partenza scelto dall’autore per questa performance mi sta molto a cuore, essendo parte centrale di alcune riflessioni letterarie aperiodiche sul concetto del futuribile, della non-(eu)topia e del presente che sorpassa di gran lunga ogni aspettativa negativa; parliamo di George Orwell, e del meraviglioso capolavoro intitolato 1984.

Orwell è probabilmente uno degli scrittori inglesi più radicali del secolo scorso. Difficilmente si può uscire dalla considerazione delle utopie negative senza una sensazione di disagio; ecco, il disagio è creato dal fatto che i motivi di fondo di 1984 non possono essere ‘suonati’ in altre salse o con esiti differenti da quelli di quest’opera. Il suo “Animal farm” è una metafora che descrive i danni del totalitarismo, non si scappa. Così come “1984” descrive il terrore di un’epoca che vive senza storia, nella consapevolezza che il lavaggio del cervello incomincia dove incomincia un’azione di dominio del linguaggio. George Orwell non si può edulcorare, ecco la lezione. Ci hanno provato in salsa editoriale, non so con quali esiti, quando pubblicarono una ristampa negli Oscar Mondadori del capolavoro orwelliano, mettendoci anche la fascetta, “il romanzo che ha ispirato il Grande Fratello”. Funzionò così bene che adesso la copertina della nuova edizione riporta fedelmente la copertina dell’edizione originale attualmente in vendita presso l’editore Penguin. Da vedere il bellissimo film tratto dal capolavoro orwelliano, “Nineteen Eighty-Four”, di Michael Radford, con la colonna sonora degli Eurythmics.

Non ci dispiace molto affermare che se George Orwell e Massimiliano Manieri si fossero incontrati nella casa del GF di Mediaset, dopo avere sterminato tutti i concorrenti (immagino Max Manieri che fa il braccio armato di colt e Orwell la mente che indica chi colpire e in che ordine) si sarebbero seduti a consumare un sigaro discutendo di arte, dittature e scrittura. Un Grande Fratello che diventa un Grand Guignol, come direbbe Arbasino, “che carriera!”. Massimiliano Manieri con questa performance ci restituisce il Grande Fratello orwelliano così come deve essere, con tutta l’angoscia, il senso di impotenza, l’ineluttabilità della nostra vita catodica. Segnali di questa comunicazione a senso unico e elementi disturbativi sono la corona di spine posta in testa all’umanoide i cui sensi sono occlusi e il cui corpo è bendato dal nastro isolante. Dall’ombelico fuoriescono i cavi che gli permettono di alimentarsi di notizie e cibo eventuale. L’uomo è quindi ridotto allo stadio di vegetale che assorbe tutto ciò che gli serve, ovvero sia gli stimoli visivo/sonori, dai quattro schermi che lo circondano.

Se con “Plink (…L’uomo caduto in cattive acque)” l’artista rappresentava la casualità della caduta sulla terra sotto forma di giustizia suprema inflitta dal caso, sottoforma di lancia che trafigge il ‘marziano’ al suo arrivo, qui ci troviamo di fronte a uno stadio avanzato in cui non c’è discussione, non c’è approvvigionamento idrico di quell’acqua chiamata dibattito, o idea, o scambio con l’altro. Qui lo scambio, al massimo, può venire dall’affondare un’antenna nella terra brulla, in attesa di suggere qualche goccia di pioggia caduta. Nella serie di performance di Manieri questo è forse l’atto di denuncia più consapevole e allo stesso tempo rassegnato nei confronti del ruolo della civiltà di a-comunicazione di massa nella quale l’uomo, quando ha a che fare con l’industria culturale, la televisione, internet, è concepito come semplice punto terminale/scarico di immondizia, del reale.

Luciano Pagano

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[foto di Dario Manco]

mostra SENSAKTION: L’INIZIO DELLE TRASMISSIONI [installazione performativa], Massimiliano Manieri, (Primo Piano LivinGallery, Lecce – giugno 2009)

“INIZIO DELLE TRASMISSIONI?”
(libera rilettura delle teorie retrò/futuriste orwelliane)

È pronto per trasmettere?
Si, è stato adeguatamente “educato”…
Possiamo cominciare,
Silenzio in sala…!!!

«Siamo impegnati in un gioco in cui non possiamo vincere. Alcuni fallimenti sono migliori di altri, questo è tutto.»
(1984 – George Orwell)

CONCEPT
Dovranno sotterrare tutte le dita possibili, per ridurre un uomo ad un elemento passivamente fagocitante.
Dovranno succhiargli ogni linfa per suggerirgli che non c’era altra utopia possibile.
Dovranno imprigionarlo, rincoglionirlo, dovranno togliergli ogni riferimento reale per strozzargli in gola l’ultimo suono libero.
Dovranno intirizzirgli i muscoli del sorriso, ghiacciargli la mascella dei lamenti, svuotargli i serbatoi lacrimacei per ridurlo ad un guscio secco utile a loro.
Eppure penso che anche quando avranno fatto tutto questo, un briciolo di umanità resterà dentro, e sarà sufficiente a riaccendere la miccia del “giuoco” che si ripappa il “soggiogo”…

Ma allora perché ora mi sento così minacciato..??? …ed è così vicino…

Massimiliano Manieri

http://www.articoweb.it/2009/05/31/sansaktions-lecce-primo-piano-livingallery-fino-al-17609/

http://www.giapponeinitalia.org/evento.php?eventId=41

http://www.fotolog.com/davizeen/49069163

http://www.undo.net/cgi-bin/undo/pressrelease/pressrelease.pl?id=1243607382&day=1243720800

http://arteinvendita.blogspot.com/2009_05_01_archive.html