Ettore Maggi intervista Pietro Grossi
Pietro Grossi è un giovane scrittore (ha meno di trent’anni, in un paese in cui si è adolescenti fino a quaranta, ormai…) che un pubblicato due libri con Sellerio (Pugni e L’acchito), dopo il lungo Tre racconti lunghi sui quali svetta soprattutto il primo, Boxe. Grossi è, secondo il nostro personalissimo giudizio, il miglior scrittore uscito dalla Holden. Molto gentile e disponibile (senza l’arroganza tipica dei giovani Autori con la A maiuscola. che pensano di cambiare la storia della letteratura, o di alcuni giovani scrittori di genere, che pensano di essere trasgressivi e contro il sistema perché pubblicano storie truculente) ha acconsentito a fare una chiacchierata su scrittura, boxe e altro…
Ettore Maggi: Per iniziare, dato che io collaboro (tra le altre cose) con una rivista di letteratura giallo-noir-poliziesca, ti chiederei se tu apprezzi questi generi, attualmente molto di moda.
Pietro Grossi: E se la risposta fosse negativa? Il fatto è che per essere onesto non leggo granché gialli-noir-polizieschi, ma un passato da legare al genere c’è, e pure piuttosto importante. A nove anni cominciai un romanzo su due ragazzini che scappano di casa ed eventualmente se ne vanno dalla nonna di uno dei due a Napoli, infilandosi poi in una storia di camorra. Visti i successi dell’argomento devo ammettere che l’avevo vista lunga. Due o tre anni più tardi iniziai un altro romanzo ambientato in Florida, che aveva come protagonista un investigatore privato. E se devo pensare al mio primo vero amore come lettore, il nome che balza alla mente è Sam Llewellyn, autore di diversi gialli ambientati nel mondo della vela. Insomma, purtroppo ho iniziato a leggere tardi e sono un lettore lento, dunque finisce che per riprendere il tempo perso il genere passa in secondo piano, ma senza dubbio i primi passi li ho mossi là, a cavallo proprio tra giallo, noir e poliziesco. Chissà che non fosse stato meglio continuare su quella strada.
La tua risposta apre una questione per me fondamentale: il dualismo Letteratura vs. Letteratura di Genere. I rispettivi esponenti continuano a sparlarsi addosso (tranne alcune eccezioni: ad esempio quello che l’ottimo Maurizio Maggiani, vincitore del Campiello e dello Strega, ha detto a proposito dell’importanza della lettura di S. King, nella sua formazione letteraria).
Spesso non è molto convincente quello che viene detto da entrambe le parti: molti Autori con la A maiuscola lamentano la qualità scadente degli autori “di genere”, ma poi non hanno la capacità
di “costruire” storie, mentre molti scrittori di genere rovesciano le accuse, ma effettivamente scrivono male. Ad esempio, adesso c’è questa ondata di noir, che secondo alcuni sarebbe (pretenziosamente) l’unico strumento per descrivere la società moderna, i meccanismi di potere e per recuperare la Memoria Storica ecc. In realtà poi questo succede soltanto per alcuni scrittori, più sensibili (e forse più bravi), come ad esempio Juan Madrid in Spagna e Didier Daeninckx in Francia, mentre spesso, purtroppo, la maggior parte del noir si limita a rappresentare una realtà da Real TV, oppure si preoccupa soltanto di descrivere dettagli morbosi, per accontentare quelli che si fermano davanti agli incidenti.
Cosa pensi di questa contrapposizione?
Diciamo innanzi tutto che questa è una domanda da un milione di dollari, e soprattutto una domanda a cui chiunque può dare una risposta giustificata.
Io in ogni caso sono dell’idea che l’uomo è pervaso dalla debolezza di giustificare il proprio mondo denigrando gli altri. Mi pare in sostanza piuttosto fine a se stesso fare una graduatoria di merito tra Letteratura “vera” e Letteratura di genere, che a mio avviso può anche essere definita di intrattenimento.
Siamo d’accordo: la grande letteratura ci insegna qualcosa del mondo; direttamente o meno quando finiamo un grande libro – grande per noi stessi, beninteso – abbiamo la più o meno consapevole
sensazione che il mondo intorno a noi ha acquistato una piccola ma fondamentale e inaspettata nuova sfumatura. Ma siamo pronti a scommettere qualunque cifra che questo sia in fin dei conti più rispettabile dell’intenzione di travolgere un lettore con una storia appassionante (di qualunque colore essa sia: rosa, gialla, nera o a pallini)?
Insomma: è più importante una vita di qualità o la qualità di vita? Ovviamente siamo qui per porre delle domande e non per dare delle risposte: sono faccende queste che ognuno – con tutta libertà – deve dare a se stesso. E per quanto mi riguarda è proprio questo il bello della letteratura e dell’essere
uomini: la libertà.
Poi diciamocelo, c’è letteratura di genere bella e brutta, allo stesso esatto modo in cui c’è molta più
letteratura scadente che di qualità, e allo stesso modo in cui diversi autori hanno scritto le loro migliori pagine immersi nei loro filoni di genere piuttosto che quando ne uscivano. Ripeto: chi a priori denigra l’uno o l’altro mondo letterario mi fa solo venire il sospetto di doversi riparare
dietro le accuse. Per uscire un attimo dalla letteratura e dare un po’ di credito anche al cinema: se ci penso non sono affatto sicuro che le riflessioni simboliche di Tarkovsky mi abbiano giovato tanto più delle grasse risate di Mel Brooks.
Dato che hai parlato di cinema, chi è il tuo regista preferito?
Anzi, nell’ordine: regista e film preferito, scrittore e romanzo preferito e soprattutto pugile e incontro di boxe preferito… Sono ammesse risposte multiple, ovviamente.
È sempre il vecchio dramma fare delle classifiche: forse è per questo che in Alta Fedeltà se ne gode così tanto. Allora: regista preferito direi senz’altro Kubrick, e devo dire che dopo aver visto al cinema “2001: Odissea nello spazio” di solito metto questo come film preferito: non credo che nessuno sia mai arrivato a significare tanto e al tempo stesso estetizzare tanto in una pellicola. Al secondo posto butterei forse “C’era una volta in America”, o per citare l’amico Antonio Monda “Il Padrino”.
Scrittore e romanzo preferiti è tosta. Non so se ho uno scrittore e un romanzo preferiti. Sicuramente in ogni caso non coincidono. Per quanto riguarda il romanzo mi riparo citando il libro che più mi ha fatto godere nel leggerlo: “Il Conte di Montecristo”, ma per ricalcare il dilemma tra intrattenimento e piacere intellettuale non è certamente quello che più mi ha cambiato. Per quanto riguarda l’autore citerò invece quello che in questo momento ammiro di più e sono più in sintonia: Saul Bellow. Ma è
davvero difficile dire chi è l’autore preferito: sono talmente diversi tra loro che è un po’ come chiedermi se mi amo più la bistecca alla fiorentina o il gelato alla crema: senza entrambi la mia vita sarebbe parecchio più triste. Per quanto riguarda invece pugile e incontro – rischio di essere scontato – non ho un dubbio al mondo: l’incontro è quello tra Alì e Foreman del 1974 a Kinshasa, nello Zaire: nessun match è mai stato scritto dalla vita con maggiore dovizia di epica e colpi di scena; il pugile invece è senz’altro
lo stesso Alì, e per descriverlo non serve dilungarsi molto su quel corpo che danzava sul ring come una libellula, mandando al tappeto uomini ben più grandi e forti di lui: bastano le parole con cui George Plimpton – dopo aver raccontato di un incontro tra Alì e gli studenti di non ricordo quale università, in cui recitò una sua poesia: Me, We (Io, Noi) – chiude il documentario di Leon Gast sullo stesso incontro in Africa: What a fighter he was, what a man! (che pugile era, che uomo!).
L’immagine di Alì che combatte, a 32 anni (se non ricordo male) contro il 26enne Foreman, lento ma dalla potenza devastante, con tutto il pubblico di Kinshasa che lo incita, è qualcosa che non potrò mai dimenticare. Tornando a te, mi sembra di ricordare che hai fatto la Scuola Holden.
Domanda scontata: cosa pensi delle scuole di scrittura? Se riesci a dare una risposta non banale a una domanda così banale (lo confesso), complimenti…
Allora, prendiamola un attimo alla larga. Ieri sono stato a girare in pista con la moto insieme a un mio cugino. Lui tornando e facendo i conti della giornata diceva che aveva voglia le prossime volte di aggiungere qualcosa al semplice girare – garettina, tempi, qualunque cosa – che gli desse uno
scopo più preciso del semplice strusciare i ginocchi in terra. Chiacchierando gli ho detto a un certo punto che si sarebbe prima o poi potuta considerare l’idea di fare un buon corso di guida. Lui mi ha risposto “Mah, non lo so. Se devo essere sincero non vedo granché cosa possano insegnarmi”. “Magari a guidare meglio”, ho detto io. Lui è stato in silenzio un momento, poi ha proseguito:
“Boh sarà anche, ma ormai vado in moto da vent’anni e per dirla tutta mi sa che vado piuttosto bene (anzi, secondo me ha usato l’espressione ho un certo talento), quindi che mi possono insegnare?”
“Se si sapeva cosa ci potevano insegnare non ci si poneva il problema”, ho detto io. Poi abbiamo parlato un altro po’ di questa storia dei corsi e alla fine il succo è stato che andare a un corso non è altro che mettersi in mano a gente che ne sa più di te e che magari ti dà qualche dritta. Ecco, secondo me la questione delle scuole di scrittura sta lì a metà strada tra me e il mio amico: è vero che non si può insegnare a scrivere, che è una faccenda talmente personale che ognuno deve imparare a gestirla per conto suo (dico sempre che è come imparare a suonare uno strumento senza però avere lo strumento: ti devi trovare te i pezzi e montarli e accordarli via via senza sapere mai granché dove stai andando a parare); è vero quindi che nessuno ti può raccattare i pezzi, ma magari trovarti per un po’ in mezzo a gente che un giorno ha avuto le stesse difficoltà e farsi raccontare come le ha risolte non fa male: o se non altro ti fa sentire meno solo.
Hemingway, a chi gli chiedeva cosa fosse necessario fare per diventare uno
scrittore, rispondeva: “Tre cose: leggere, leggere, leggere.” QuaIcuno dice che il problema, in Italia, è che ci sono più scrittori che lettori. Sicuramente ci sono tanti aspiranti scrittori, che magari hanno letto pochino. Forse sarebbe necessario che si insegnasse di più a leggere, che a scrivere… D’altro canto anche insegnare a leggere non è semplice. Che ne pensi?
Diciamo tanto per cominciare che alla maggior parte delle persone che amano scrivere avrei voglia di chiedere perché lo fa, e sono parecchio convinto che a buona parte delle loro risposte saprei attaccare un’attività più adatta e soprattutto più sana. Insomma: il problema del sovrappopolamento di sedicenti scrittori – a cui probabilmente appartengo – non dipende secondo me dal come lo si fa o come lo si impara ma dal perché lo si fa e lo si impara.
Sulla faccenda di leggere e scrivere invece devo purtroppo – e credo per la prima volta – controbattere il primo dei miei maestri da sempre: proprio Hemingway. Per scrivere non basta leggere, per scrivere bisogna imparare a scrivere, e prima di tutto è una faccenda fisica. Mi fa sorridere tra l’altro che sia proprio lui a dire “leggere, leggere, leggere”, lui che ha speso così tanto a trovare dei trucchi e dei metodi e dei riti per trascinare la penna sulla carta o le mani sulla tastiera. La cosa più onesta da dire sul rapporto tra scrittura e lettura è che l’una non esiste senza l’altra – in tutti i sensi – e chiunque intenda isolare uno dei due aspetti azzoppa il discorso e niente più. Non esiste scrivere senza leggere, non esiste scrivere senza ri-leggere; ma non esiste leggere o ri-leggere senza qualcosa che si è scritto sudando e bestemmiando alla cieca per settimane o mesi. È un po’ come stare a domandarsi se una grande storia d’amore vive più di sentimento o di impegno e ragione: chiunque difenda esclusivamente uno dei due aspetti ha buone probabilità di andare presto a gambe all’aria.
Visto che prima ho citato la moto torno sui motori: se l’atto di scrivere è la camera di scoppio, leggere è la benzina, e sfido chiunque a far camminare una ruota senza una delle due.
Credo che tu abbia ragione dicendo che scrivere è una faccenda fisica. Forse questo è il motivo per cui ci sono tanti aspiranti scrittori. Molta gente si culla nell’idea “Scrivo, quindi sono uno scrittore.” La pittura, la scultura, e altre forse d’espressione artistica sembrano più difficili, la scrittura sembra più facile. Certo, quando sento alcuni scrittori lamentarsi, oltre che della fatica mentale di scrivere, anche di quella fisica, mi viene da ricordargli la fatica di un minatore, ma d’altronde è vero: per scrivere ci vogliono costanza, disciplina, allenamento…
Un po’ come la boxe, con le dovute differenze.
Per concludere, quindi, ti farei un’ultima domanda: hai visto Million Dollar Baby, e hai letto i racconti di Felix Toole, da cui è stato tratto il film?
Questa volta sono costretto a essere secco, anche perché per mia fortuna me ne sto per andare a fare qualche giorno di bella barca nell’arcipelago toscano: non ho letto Toole, purtroppo; e sì, ho visto Million Dollar Baby, ma se devo essere sincero, pur amando molto Clint Eastwood soprattutto come regista e amando anche parecchio i film di Boxe, non riesco a farlo entrare tra i film su cui valga la pena spendere troppe parole. In fin dei conti ha quello che un film sulla Boxe deve avere – a parte il gratuito finale strappa lacrime – ma se sei cresciuto vedendo anche solo Rocky e Toro Scatenato il resto scompare quasi tutto in una nebbia monotona e indistinta.