L’anaconda
Bianca Madeccia
La mamma lo tiene prigioniero da quarantacinque anni. Non si può allontanare da lei. Questi sono gli ordini. Allora lui, allora lui, dicevo, allora lui, per sopravvivere si è trasformato in anaconda. Non viaggia molto, anzi per niente. Sta perlopiù fermo, striscia attorno alla casa. Oppure guarda le foto delle bambine discinte attraverso l’oblò sul mondo, la scatola elettronica dei giochi, insomma, lì, dove ci sono le bamboline vive, quelle che puoi circondare e stritolare con un click. A lui piacciono quelle che hanno quella bella luce luminosa attorno. E più sono morbide, più sono “puff”, più sono irragiungibili, diverse da lui, insomma, lontane (è importante che siano lontane), e più desidera stritolarle.
Lui non sa nulla di umanità, è un rettile, sa solo di fame. Quella roba gli è necessaria per vivere. La mamma non vuole che lui si allontani troppo da casa e così lui è costretto a trascinare le prede nella tana e mangiare le vite degli altri sottoterra, anzi, nell’attico, perché lui abita in un appartamentino con vista su una palma.
Per sopravvivere cattura principalmente piccole bestioline di sesso femminile, preferirebbe i maschi, ma i maschi sono troppo grossi, e, in generale più attaccati alla vita, spesso anche violenti e non si lasciano sbranare così facilmente. Poi non hanno l’alone luminoso attorno, non nutrono.
Così, ripiega sulle femmine. Sono stupide, credono in quella cosa sciocca che loro chiamano amore. E’ più facile soppraffarle.
Le segue, le spia, le traccia e quando riesce a portarle nella tana, con un lavaggio subitaneo ma metodico di coscienza, diventa loro per un po’. Così diventa organizzatore di viaggi con la bambina luminosa viaggiatrice, critico d’arte con la bambina di luce pittrice, regista con la bambina attrice, editore con la bambina poetessa e così via. Deve dominarle, avere un potere. Si convince di essere stato loro per un po’, di aver avuto il loro nome, i loro interessi, di averle capite e respirate, persino di esserne stato vittima. Attribuisce a loro la sua fame, la colpa, la violenza, insomma, quella cosa che succede sempre, ogni volta.
È l’unico modo che ha di viaggiare e nutrirsi: attraverso le vite delle bambine luminose. Non è colpa sua. La mamma non lo lascia allontanare.
Scrive anche strane parole gelide e oscure che nessuno capisce, neanche lui. Suoni quasi sempre separati e svincolati tra loro, spesso inframmezzati da parole come “torbido” e “vago”. Tutta la sua vita era stata vagamente torbida. Le parole che scrive le ruba dai libri, oggetti con cui cercava di nutrirsi prima delle bambine luminose. Ma poi aveva letto che le anaconde non si cibano di cellulosa, lo sanno tutti.
Da una vita ruba parole a caso che poi lascia decantare tanto tempo per dimenticare che appartengono ad altri. Lui questo lo chiama “labor limae”. Le parole che ritaglia e mette in una scatola gli servono a costruire storie con cui pesca le bambine luminose nella scatola di vetro.
Ogni tanto si arrabbia, picchia le bambine che è riuscito ad attirare fuori dalla scatola luminosa, soprattutto quando parlano e fanno domande che non dovrebbero fare. Ma questo per lui non è importante.
Ama fare foto, soprattutto alle donne africane svestite e incinte sui marciapiedi. Sono tutte lì lungo la strada, quando torna dal lavoro, prima di andare a pranzo dalla mamma. Pensa anche di farne un cd, con le ragazze svestite lungo la strada, come un vero fotografo. Lui pensa sia arte. Le chiama poesie-oggetto.
Ogni tanto si sposta e va al porto. Vive accanto al mare. Ama sbirciare la risacca mentre parla di prostitute con i suoi amici d’infanzia: il fotografo di cadaveri parenti, l’installatore balbuziente, il cocainomane impotente con i capelli unti.
La mamma è sempre contenta quando le bambine della scatola spariscono e lo aiuta in fretta a farne scomparire i resti e a cambiare le lenzuola del letto. Ora sono di nuovo solo loro due. Possono di nuovo amarsi e incrociarsi con gli occhi e con le parole. Le anaconde vivono così, avvitate nelle loro spire.
Senza muoversi troppo e divorando d’amore (o di quella cosa che loro pensano sia amore) tutto quello che si muove nel raggio della loro breve vita senza luce.
Ma anche i coccodrilli e le loro lacrime, vanno tenuti accuratamente in considerazione nello studio psicologico del poeta-personaggio. Dal nostro studio preparatorio non escluderemmo i documentari sui crotali e sulla loro cecità violenta e assassina ma NECESSARIA, come può esserlo solo la vera poesia.
dalla raccolta “Serial Killer Italiani”