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Apostolos Apostolou – La poesia e la filosofia come terapia


APOSTOLOS APOSTOLOU
LA POESIA E LA FILOSOFIA COME TERAPIA

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Filosofia e Psicanalisi

Comincerò con una domanda. Come si può oggi parlare di terapia, in un’epoca dove il termine terapia è così carico di un’articolazione burocratica ed è stabilito come un centro funzionale ed un modello di tutto il sistema della guarigione, la quale in sostanza si identifica con il potere? Tanto più che il relatore insegna la filosofia e tecniche terapeutiche per mezzo filosofia e della poesia ed è considerato come l’ispiratore dell’operazione poetico-filosofica. L’operazione poetica- filosofica che non ha per obiettivo di convincere e di impressionare, né di dimostrare, bensì di condividere le opinioni, le conoscenze, le esperienze teorizzate, che sono ricostruttibili e verificabili, rispetto alla responsabilità e la libertà, desiderando così di rendere il suo interlocutore aperto alla negabilità della sua ingegnosità. Come si può parlare oggi di terapia quando anche Sigmund Freud nel testo del «Pirata ed il non Pirata Analisi» annunzia la sua fine. Dicendo che la psicanalisi si stacca dall’obiettivo della terapia. [1] Ossia dalla formazione, noi diremmo sregolamento – nuova regolazione – adattamento, ed anche dalla formazione educazione – stato – terapia. Le domande per quanto riguarda la psicanalisi sono chiare. Chi e come si può determinare la perturbazione e la guarigione? In un’epoca dove il vantaggio comparativo suo, ossia la rappresentazione come processo di pensiero e fabbricazione della fantasia (Derrida dice che la rappresentazione funziona come una copia di qualcos’ altro che non e’ mai stato? Come principio del principio ) [2] si è identificata con l’immobilizzazione astratta, di modo che la filosofia, invece di seguire ogni ipotesi e presupposto, diventi sempre più imitazione di un linguaggio antico e sempre meno contemplazione. Le scienze della natura e dell’uomo diventano sempre più un fiscalismo che ci costringe invece di liberarci. L’arte diventa sempre più tecnica e decorazione. La letteratura e la teoria estetica è un semplice ciarlare e tutte quante messe insieme, sono sotto la pressione del successo e dell’utilità. Così, malgrado certi successi, dimostrano ugualmente le loro debolezze e portano la loro mitologia, rifiutando di vedere che tutte le soluzioni hanno in se’ la loro stessa problematica e rimangono problematiche. Non essendo quindi in misura di evitare la loro sorte, conoscono la loro morte nel pensiero vasto e ricco che sa giocare al gioco della conoscenza assoluta. Molte teorie parlano di vissuto come soglia della autoconoscenza, però come possiamo definire il vissuto? [3] Il vissuto, definito come il fissaggio di un espressione della vita tramite l’attenzione (vede psicanalisi) ed il nesso con processi nozionali, era una condizione per tutte le scuole psicanalitiche e psicoterapeutiche. Per la filosofia, il vissuto è un fare senza interruzioni, una risultante di funzioni e rapporti non qualcosa di costante e fisso mentre Rickert si riferisce al concetto del dopo-vissuto. L’errore sta nel fatto che attraverso il vissuto cercano di arrivare alla comprensione (non dimentichiamo la figura interpreto/capisco). Tuttavia Jaspers crede-dice, che ogni tipo di comprensione comprende un elemento di costruzione. Se vogliamo ricercare un approccio post terapeutico filosofico, questo deve procedere entro una filosofia del gioco. Il gioco come maschera della filosofia di Nietzsche, [4] come metafora/immagine – riferimento costituisce una sfida – invito all’attivazione del soggetto a procedere con la rottura con l’identità e l’unità. La maschera come passione assurda secondo Nietzsche e coesistenza di luoghi opposti della molteplicità e delle contraddizioni permette un avvicinamento pieno di tensioni delle sensazioni che capisce come il luogo dell’intermedio o meglio il luogo del’ insieme (per la prima volta incontriamo il termine nel Platone, quando usa la parola metaxy cioè insieme, Simposio e Filebo, ma anche a Heidegger, con il concetto Lichtung cioè Lucide) .

Il concetto dell’intermedio o di insieme è forse la causa del pericolo forse, la causa della maschera, del gioco, del luogo intermedio (legge oppure insieme) ossia della cultura, (secondo psicanalista Winnicott) della poesia (secondo Platone e Nietzsche). E questo perché come dice il Nietzsche per un poeta autentico la metafora è un immagine, un concetto e quello che vede il poeta è uno spettacolo che costituisce una rappresentazione teatrale dove le parole diventano maschere. Però non come il gioco come terapia che perde il suo taglio di inversione e del quale gli estremi sono definiti in una via di uscita sicura, (come sostiene F. Faun) ma invece un gioco con tutti i rischi. Il gioco è sinonimo del Questo (Cela) – Quello (Id) che può essere paragonato con l’inconscio. È aperto sul luogo/tempo delle risposte. E come dice K. Axelos il gioco non è un predicamento del mondo, il gioco gioca il mondo. (Per il gioco nella filosofia hanno parlato M. Heidegger, E. Fink, J. Granier, K. Axelos. J. Derrida). Il gioco conosce ogni comportamento nostalgico e reattivo, soffoca all’interno dei suoi stessi limiti, ogni opportunismo semplice e pulito perde tempo, ogni opportunismo scuro, o sopraccarico rimane plano e monolineare, mentre alle grandi domande non possiamo che rispondere senza rispondere. Non vede la vita come un labirinto di supplementi o sostituti (la vita come supplemento per ricordare Derrida) né una funzione dell’ellipse/desiderio, (secondo psicanalisi) che crea la metafisica della diaspora.

Poesia come Terapia

Poesia e filosofia del gioco, sono vicini senza che sia tuttavia stabilito che siano deducibili e spiegabili insieme. La poesia da alle cose un nuovo nome, (in letteratura greca antica triviamo il testo quando riguarda la poesia e il nome delle cose. «Ορφέως δε ός και τά όνόματα αύτών πρώτος έξηύρεν…») ma anche filosofia del gioco lo fa, ribattezza le cose. [5] Il poeta impara la dimissione, ci dira Stefan Georg, nel poema con titolo “ Das Wort “ un poema che distingue il M. Heidegger. Ma questo succede anche con il gioco filosofico che si esprime come una sistematica aperta e ci impedisce di giocare senza giocare, (K. Axelos) [6] visto che e’ aperto e insicuro e impone la dimissione rispetto a qualcosa che succede. Tuttavia tramite tutte le negazioni, sorge un’ affermazione. (La dimissione non è che il tutto per quel che si perde e la nuova nomenclatura il familiarizzarsi di uno sguardo nuovo oppure il riconoscimento della conoscenza secondo le teorie psicanalitiche e psicoterapeutiche) Così l’assoluta impasse senza uscita, il rischio esistenziale, l’insicurenza totale, l’esclusione multidimensionale, in una parola, il vuoto assoluto questa utopia della fisica ridotta da noi stessi ad una realta’ quotidiana, costtituisce una flida. Saremo all’ altezza simultaneamente alla corrente sotterranea che si muove all’ ombra nello spazio-tempo e all’ orizzonte degli orizzonti lontani che ci procura le sue luci, in fine questa è la scommessa dell’ uomo.[7]

Oggi le facoltà più profonde e piu’ sottili della psiche, quelle da cui dipende la conoscenza intuitiva che sola ci mette in rapporto con l’ essere, sono state distrute in gran parte da una cultura materialistica e tecnologica. Ma se la coscienza non guida la nostra emotiva, la nostra fantasia – tutto ciò che appartiene alla sfera di ciò che chiamiamo i’ irrazionale – queste facoltà degenerano, e degenerando si appropriano di noi in mondo nascosto e inosservato fino a sconvolgere la nostra vita. Ecco il ruolo della poesia. È quello di indicare l’ importanza dell’incoscienza in modo cosi particolare. Se il depressivo si deve rilassare, se l’ansioso deve dominarsi e l’inibito deve osare, la poesia può aiutare. Perché la poesia risponde alla corrente sotterranea che si muove all’ombra nello spazio e nel tempo, nelle situazioni e nei caratteri umani e all’ orizzonte degli orizzonti lontani che ci proccura la sua luci.

Il famoso ” dove’ era Es, deve diventare Io” di Freud, con la poesia diventa ”dove sono Io bisogna che emerga Es”. Questo non significa l’esaltazione di Breton dell’ Es come ” estremo rimedio”. Secondo poesia il mondo è ”un segno” (Goethe – Mefistofele, Rembaud, Mallarme ) il segno di cio’ che parla. La poesia sostiene che l’ altro parla mezzo di linguaggio. Lo stesso non dice con altre parole, anche S.Freud. ”L’inconsio non parla il linguaggio dell’Altro, ma parla molti dialetti, incomponibili e intraducibili in un linguaggio”. (Vede: S.Freud, Opere, Vol.VII, Ed. Boringhieri, Torino 1975, p.260. Anche qui possiamo vedere che cosa dice per l’analisi.” l’analisi non sarebbe dunque una pratica di trasformazione che, proprio spezzando il grande sasso della verita’ descrive le contraddizioni che questa componeva in una parola piena, totale, ma all’ opposto proprio la conferma della verita’ nella scoperta della parola dell’ inconsio.”)

Siamo davanti in una apertura culturale dove filosofia e poesia insieme (ricordate il pensiero presocratico che era un pensiero poetico-filosofico) dicono che l’ uomo puo’ cercare di imparare e di imparare di nuovo, riflettendo sulla vita e vivendo le nostre riflessioni.

Il gioco poetico-filosofico organizza , se possibile un pensiero interogativo che non sia ne’ scientifico, cioè funzionalità, né psicanalitico ossia narrativa e teoria delle proiezioni, ne’ micro-costruzioni sociologiche ossia ideologie prosaiche. La poesia ci dirà che la nostra epoca non ci appartiene , come una proprietà nostra , ma invece che siamo noi che apparteniamo ad essa come se fossimo suoi figli, in un’ apertura culturale. [8] Per questo dobbiamo essere aperti al fascino del tutto-nulla provando sia il tutto che il nulla.

[ 1] Abrams M. H., The Deconstructive Angel , Critical Inquiry 3 1977,p,425-438.
[2] J.Derrida, L’ Archeologie du frivole. Introduzione, in Essai sur l’ origine de la connaissance humaine, Paris, Galilee, 1973, p, 87.
[3] N. Abraham, L’ Ecorce et le noyau, Paris ,Aubier-Flammarion,1978, p.54.
[4] S. Kofman, Nietzsche et la metaphore,Paris, Payot,1972, p,67.
[5] J.Kristeva,Polylogue,Paris,Seuil,1977,p, 46.
[6] K. Axelos Systemattique ouverte, Paris, Editions de Minuit 1984, Problemes de l’ enjeu, Paris Ed. de Minuit 1979 , Le jeu du monde Paris, Ed. Minuit, 1969.
[7] Jean-Luc,Nancy, L’ Abosolu litteraire,Paris, Seuil,1978, p, 72.
[8] La poesia, natura e registra i sentimenti. Vede con altre parole l’ uomo come ‘possibile essere’, cioe,’ come lui esiste nella decentralizzazione, nell’ inizio dell’ incertezza, come volonta’ che non e’, per questo l’ uomo rimane un divenire aperto (ecco una nuova proposta con un significato analitico)

Apostolos Apostolou
Dr in Filosofia,

BIBLIOGRAFIA GENERALE
DE MAN PAUL, ALLEGORIES OF READING, YALE UNIVERSITY PRESS,1979
LACOUE-LABARTHE PHILIPPE- NANCY JEAN-LUC, LES FINS DE L’ HOMME: APRTIR DU TRAVAIL DE J. DERRIDA, PARIS GALILEE, 1981
TERRY EAGLETON, MARXISM AND LITERARY CRITICISM, LONDON METHUEN,1976.
TRILLING LIONEL, THE OPPOSING SELF, NEW YORK,VIKING,1955.

[in foto Ezra Pound a spasso nel bosco con la statua di James Joyce e Martin Heidegger a spasso nel bosco]

Il miracolo dell'espressione poetica


Tiziana Curti
Il miracolo dell’espressione poetica
intervista con Dalmazio Masini (il poeta, l’attore, l’autore di canzoni)

Il canto di questo poeta si alza limpido e puro sul panorama poetico moderno privo di vere novità, quest’uomo che ha fatto dell’esprimersi in versi e rime una ragione di vita, è una delle voci più nobili della Cultura Italiana. E’ nato a Firenze dove vive e opera. Tutte le sue poesie sono raccolte nel volume SETTIGNANO E DINTORNI stampato nel 1983 a cura dell’AccademiaVittorio Alfieri (la terza ristampa ampliata è del 2003) – Dal 1989 è presidente dell’Associazione Accademia Alfieri per la quale nel Gennaio dello stesso anno fondò e ancora dirige il periodico L’ALFIERE/Dolce StileEterno. Debuttò giovanissimo, come autore, nel mondo della canzone e a tutt’oggi sono quasi 500 i suoi brani editi tra i quali il più noto I GIORNI DELL’ARCOBALENO, nell’interpretazione di Nicola Di Bari nel 1972 vinse il Festival di Sanremo (altri premi prestigiosi; il Gatto d’argento di Sorrisi e Canzoni nel 1971 e il San Valentino d’oro nel 1999) – Nel 1983, a Firenze, fu tra i fondatori del gruppo teatrale I GIOVANI ATTEMPATI per il quale nei 15 anni di vita della compagnia fu attore e autore delle 5 commedie musicali messe in scena. Poi nel 1997 fu chiamato a far parte del prestigioso Gruppo Teatrale “Societas Raffaello Sanzio” come protagonista del loro GIULIOCESARE, opera di successo che fu portata nei maggiori teatri europei ed ebbe anche due tourne’ in America e due in Australia/Nuova Zelanda e rimase in scena sino alla primavera del 2003. Attualmente è tornato a vivere a tempo pieno la sua prima passione, la POESIA ed è fondatore del movimento IL DOLCE STILE ETERNO per una nuova poesia degli anni 2000 che recuperi tutte le più belle forme della poesia italiana di tutti i tempi. Autore di molti sonetti a lui si deve l’invenzione della forma RONDO’ ITALIANO (le quartine incatenate ). Sempre alla ricerca di innovazioni stilistiche ricordiamo anche il suo “sonetto speculare”.

Un uomo fuori del comune anche perché alla fine degli anni ‘90 un tumore alla laringe lo costringe ad un’operazione che lo priva per sempre delle corde vocali, ma la sua tenacia, il suo temperamento che non si arrende mai nemmeno difronte a questa beffa atroce del destino, lo aiutano a superare questo handicap e a ricostruirsi una “voce” particolare dal caratteristico timbro con la quale come detto nel curriculum reciterà con la compagnia “Societas Raffaello Sanzio” l’impegnativo ruolo di Antonio nel cast del “Giulio Cesare”.

Un poeta puro che non si è piegato ai facili clientelismi ,che non ha accettato facili alleanze per emergere, dalle idee chiare e impegnative . Nel corso di un recente incontro gli ho rivolto alcune domande per meglio conoscerlo incuriosita da questa sua vita particolare e lui gentilmente come sempre ha accettato di rispondermi:

Quando comincia il tuo amore per la letteratura?
Non saprei dire. Già a 4 anni imparavo a memoria le filastrocche dei libretti che mia madre mi leggeva. In seguito fui accanito lettore di giornalini e riviste per adolescenti. Partecipavo a concorsi e pubblicai qualche testo già all’epoca delle Scuole Medie.

Sei stato a contatto anche con il mondo della musica ce ne vuoi parlare? Hai anche fatto esperienze teatrali?
Nel 1959, quando avevo 20 anni vinsi un concorso indetto da un settimanale della Mondadori e uscì la mia prima canzone, “Uscita da un quadro di Modigliani”, che ebbe 3 o 4 versioni discografiche tra le quali quella di Achille Togliani che fu presente in parecchi programmi radiofonici e televisivi. Quell’anno mi iscrissi anche alla SIAE: pertanto considero proprio il 1959 l’inizio della mia carriera professionale come autore di canzoni che mi ha visto attivo sino a 5 o 6 anni fa. In questi più di 40 anni di attività ho pubblicato circa 450 canzoni tra le quali la più famosa, “I Giorni dell’Arcobaleno”, cantata da Nicola Di Bari, vinse il Festival di Sanremo del 1972.

Sono stato impegnato in operazioni teatrali a vario livello. Nel 1983 fui uno dei fondatori del Gruppo Teatrale “I Giovani Attempati”, compagnia amatoriale fiorentina che ebbe un certo successo e nella quale ebbi il doppio ruolo di interprete e autore di tutte le 5 commedie musicali messe in scena fino al 1996, anno in cui il gruppo si sciolse. Poi dal 1997 al 2003 fui chiamato a far parte del prestigioso cast del “Giulio Cesare” messo in scena dalla “Societas Raffaello Sanzio” e con questo, nel ruolo di “Antonio” per la regia di Romeo Castellucci, ho calcato i palcoscenici dei più importanti teatri di mezzo mondo.

Quando e perché è nata l´esperienza della rivista l’Alfiere? Che cos´è cambiato dal 1985 a oggi nella rivista? Quali sono le novità introdotte i cambiamenti in corso d´opera?
Nel 1983 fui invitato a partecipare, come socio fondatore, alla costituzione dell’Associazione “Accademia Vittorio Alfieri”, della quale nel 1989 fui chiamato alla presidenza, e fu allora che fondai il periodico L’Alfiere, allora di 8 pagine e oggi, con l’inserimento dell’inserto “Il Dolce Stile Eterno” pervenuto alle 16 pagine..

Come giudichi questi VENTICINQUE anni di attività?
Anche se l’Associazione fu fondata nel 1983, e quindi anagraficamente ha 25 anni di vita, in realtà la sua crescita è iniziata dopo il 1988. E’ sicuramente difficile pilotare oggi un’associazione di poeti quando si ha il coraggio di rifiutare la “cattiva poesia” che imperversa in ogni luogo. Per questo il nostro gruppo è composto da circa 190 e non da 500 persone.

Organizzate anche dei laboratori di scrittura ed avete tante attività anche in altre città oltre a Firenze, ce ne vuoi parlare?
Abbiamo una sede operativa molto attiva a Genova e due punti di incontro fissi al di fuori della sede fiorentina: Rimini, ove organizziamo da più di 10 anni un raduno nazionale di una settimana a fine Luglio e Abbadia San Salvatore, in provincia di Siena, dove animiamo ogni anno due incontri nazionali rispettivamente di 3 – 4 giorni a inizio Giugno e di 2 giorni a metà Ottobre. Questo nell’intento di offrire ai soci più vaste e differenziate platee.

Che cos´è il convegno di poesia per la riviera adriatica e quando si svolge?
Da oltre 10 anni è consuetudine della nostra Associazione organizzare, nell’ultima settimana di Luglio, un incontro nazionale dei soci all’Hotel Ivano di Rimini-Rivabella nel corso del quale si unisce l’utile di una serie di scambi di opinioni artistiche al dilettevole di ore di relax su una delle più belle spiagge adriatiche. Poi a metà vacanza, nel pomeriggio del mercoledì, in collaborazione con l’Università per la Terza Età e col patrocinio dell’Unione Albergatori di Rimini abbiamo a disposizione il Salone del Museo Civico per organizzare un Recital con le nostre poesie.

Cosa offrite agli scrittori esordienti?
Ai poeti esordienti noi intendiamo offrire diversificati punti in cui esibirsi, la possibilità di pubblicare sul nostro giornale, ma più che altro la possibilità di frequentare gratuitamente i nostri Laboratori di Poesia, fissi e itineranti. Attualmente il Laboratorio a cadenza più regolare è quello che teniamo ogni giovedì pomeriggio a Firenze, presso Il Centro Socio-culturale Il Fuligno, Via Faenza, 52 che Mario Macioce dirige da oltre 10 anni con indubbia capacità. Da 3 anni abbiamo iniziato una attività laboratoristica anche a Genova, con incontri mensili presso la Stanza Della Poesia di Palazzo Ducale, a cura di Elena Zucchini.

Esiste una casa editrice accanto alla rivista?
No, non siamo editori. Pubblichiamo solo il trimestrale L’Alfiere/Dolce Stile Eterno e una antologia annua di una sessantina di pagine con le nuove poesie dei soci.

Che cosa pensi della situazione del mercato letterario italiano?
Il mondo letterario italiano mi sembra generalmente ancora sano e molta gente continua a leggere volentieri romanzi e saggi di ogni genere. L’eccezione è il mercato della Poesia dove le troppe persone che si autodefiniscono poeti e che stampano, a loro spese, anche più di un libro all’anno di pessima qualità, hanno creato una terribile confusione nei possibili lettori che non sapendo come districarsi preferiscono ignorare questo genere letterario. Credo comunque che l’origine di questa anomalia sia più a monte e da ricercarsi nella “cattiva lezione del novecento” che troppo spesso ha teso a confondere i due generi (intendo Poesie e Prosa) disorientando i lettori più volenterosi e nel contempo facendo credere a tutti coloro che possiedono un quaderno, una penna e il denaro per pagarsi la stampa di 200 libretti in tipografia di potersi definire poeti solo spezzettando le righe di banalissimi pensieri.

L’incontro con Dalmazio Masini è concluso però ci ha lasciato oltre alla sensazione di grande forza d’animo e di solarità, per ricordo di questo piacevole incontro una sua poesia che dedico a tutti voi come messaggio di speranza e di forza.

IL PREZZO

Volevo l’onda calma e la tempesta
Il vino e l’acqua, il cielo e l’arenile,
gli alberi, enormi re della foresta
e le tenere erbette dell’aprile.

In cambio avrei donato solo file
di versi da cantare ogni momento,
certo d’essere il capro dell’ovile,
quello che solo vale più di cento.

E più che avevo e meno ero contento
negli anni accesi dell’età più forte,
quando ambizioso come un monumento
sognai perfin di vincere la morte

Ora che ho spalancato le mie porte
a una realtà che mai volli vedere
neppure un’ombra siede alla mia corte,
e nessun verso nasce al mio cantiere

Niente sono riuscito a trattenere
sprecando ad una ad una ogni occasione
per declinare sempre il verbo avere
e recitar la parte del leone.

Oggi mi basterebbe l’emozione
di un fresco bacio a risvegliarmi in festa
e in cambio di quest’ultima illusione
darei tutta la vita che mi resta.

A breve l’emittente online radioblablanetwork.net trasmetterà uno spazio dedicato al poeta DALMAZIO MASINI nella fascia oraria 8.30-14.00/18.00 sulla stessa emittente potrete ascoltare altri interventi di poeti soci dell’Accademia Alfieri e non solo, durante la trasmissione del programma VETRINE D’AUTORE, condotto da Tiziana Curti

(fonte fotografica Societas Raffaello’s production of Julius Caesar directed by Romeo Castellucci. Photograph copyright Gavin Evans.)

Ingannevoli passioni. su "Le seduzioni dell'inverno" di Lidia Ravera


Elisabetta Liguori
Ingannevoli passioni. L’ultimo romanzo di Lidia Ravera “Le seduzioni dell’inverno”

Questa volta non vorrei raccontare una trama.
Davanti ad un romanzo come questo, vorrei poter parlare di passione. Di quella di ieri, di quella di oggi. Di passione e di equivoci. Parlare cioè di quello che di mio o di altri, forse di universale, mi è parso di riconoscere dentro il nuovo romanzo di Lidia Ravera, ” Le seduzione dell’inverno” edito da Nottetempo: una storia che racconta abilmente le attuali conseguenze dei fraintendimenti amorosi.
Un buon romanzo, a mio avviso, nasce sempre da un’idea forte, una specie di intuizione quasi fastidiosa. Tale idea si nutre dell’osservazione e attraverso quella, nel bene e nel male, genera atmosfere, personaggi, eventi. A volte anche in maniera casuale. Se l’idea iniziale è davvero forte, il romanzo che ne deriva andrà lontano e sarà sempre possibile, per ciascun lettore e in ogni tempo, riconoscere, tra le altre da quella germinate, l’idea principale. In questo romanzo si conciona di umane corrispondenze, intese come frutti diversi di un diverso fraintendimento. Un po’ tutte le relazioni umane, infatti, si fondano su un malinteso, sull’efficace elaborazione di un’ immagine che risente della soggettività di entrambe le parti coinvolte, e che per questo produce cambiamenti continui e variabili. Ecco in sintesi l’idea prodromica alla storia messa in scena da Lidia Ravera, il suo romanzo incubato.
Tutto comincia in una casa: stanze caotiche che sembrano fuggire dagli oggetti o dalle quali gli oggetti stessi sembrano voler fuggire. La casa di un uomo solo, descritta esattamente come le donne sono solite immaginarla. Sudiciume e stratificarsi di detriti su detriti, tra i quali nulla lascia intuire un cambiamento imminente. A questa casa viene fatto il dono di una donna. Non dirò qui come, perché il come riguarda la trama ed è terreno impervio adatto solo al lettore. Non voglio entrarci. Dirò invece di questa donna, perché lei è l’idea prodromica. Una cameriera: tale la donna si dichiara, come tale si veste, come tale agisce, pur restando fuori da ogni schema noto sin dalla sua prima apparizione. Già la sua presenza, prima ancora della sua vista, impone ai luoghi un prurito nuovo e diverso. La tavola imbandita, un pentola che brontola sul fuoco, profumi indefiniti che evocano l’infanzia, musica impegnativa, stanze ritornate alla luce. Tutto questo, un mattino qualunque, precipita il padrone di casa in un’ansia imprevista, lasciando presagire una presenza aliena e un’armonia nuova da metabolizzare. Lui è un editor ultraquarantenne, algido, capelli sale e pepe, grande cultura, ma sguardo incupito, disilluso, avvezzo alla solitudine. Un matrimonio sbagliato alle spalle, nessun figlio, solo alcune esperienze recenti con quelle che lui chiama “Opere Prime”, cioè giovani scrittrici debuttanti, acerbe, vogliose di successo e credito. Il rigore chirurgico con il quale la Ravera descrive i suoi personaggi è strumentale al corretto svilupparsi dell’idea di partenza. Il profilo del protagonista maschile è, infatti, netto, la sua immagine riflessa nello specchio ha contorni compiuti, costituiti da mille dettagli che raccontano sapientemente un’intera generazione. Quella generazione così ben cantata dalla Ravera anche in altri suoi romanzi, quella delle scoperte e delle rivolte, quella dell’intelletto appassionato, quella che aveva mandato Flaubert a memoria. Quello descritto non è più lo stesso uomo, ormai, ma un freezer, da tempo relegato all’inverno emotivo più rigido, sia nella cura di sé, che in quella delle relazioni con gli altri. Cosa potrà mai far cambiare idea ad un uomo così? Da cosa o da chi potrà mai essere veramente sorpreso e animato un uomo deluso, ormai stabilmente planato nel suo inverno sentimentale? Sarebbe scontato chiedere ausilio all’amore, immaginare una passione autentica, se pur letteraria, capace di rimettere in movimento la partita e cancellare gli effetti di una sorta di “collettiva epocale anestesia”, come la stessa Ravera definisce la cifra stilistica degli anni che viviamo. Ma l’autrice non si accontenta dell’amore. Il romanzo trabocca di accorate definizioni del cuore e le sue maniere, ma il tema fondante l’intero plot narrativo non è semplicemente l‘amore, quanto i suoi necessari molteplici artifici.
Quella che l’autrice mette in scena, dunque, è proprio quella chiamata ancora oggi The comedy of errors, ma lo fa con i toni della truffa e della disperazione. Per mettere in atto una vera rivoluzione sentimentale, infatti, ci vuole una sorta di sorprendente e articolata epifania. Una donna epifanica, appunto. La donna immaginata dall’autrice è dunque molte cose insieme. Serva, femmina, donna, mentore, complice silenzioso. Una rappresentazione strutturata per piani e punti di vista. Non è mai chiaro infatti se questa donna menta o dica il vero; cosa riveli e cosa taccia; fino a che punto finga e perché, quanto sia reale la luce che sembra le si accenda negli occhi. Dinanzi ad una donna come questa, che sa di casa, di desco, di odorose mura domestiche, che edifica familiarità laddove prima era il deserto e che lascia intravedere altri mondi senza svelarli del tutto, senza imporli, ci si aspetterebbe la stesura immediata di un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Invece tutto evolve verso la passione e il contrasto. Lei cucina splendidamente, legge Perec, parla francese, ascolta musica classica, veste notturni abiti da sera. Ha un’età indefinibile, modi riservati e biondi, eloquio raffinato e schivo. Rivela profili quasi inconciliabili con quelli propri di una colf, ma che illuminando la casa finiscono per illuminare anche chi la abita, inducendo stati di grazia e benessere. Un personaggio così si presta splendidamente al tormento amoroso, ma anche all’equivoco, all’infingimento, all’autosuggestione, che è elemento imprescindibile della passione stessa. La creazione di un personaggio come questo consente all’autrice di giocare a piacimento con le categorie tradizionali, coi ruoli maschili e femminili, con gli schemi ai quali ogni giorno nonostante tutto, siamo ancora costretti, ribaltandoli, finalmente contaminandoli.
Il romanzo racconta, in un crescendo altamente sensuale, questo evolvere della mente, del cuore e del corpo, con cadenze che a volte si tingono di giallo, in altri di erotico cinismo.

“La gabbia si apre e l’ego prende aria.”

E’ così che solitamente prende forma la passione: partendo principalmente da sé. Rompendo gli argini e rovesciandosi sul mondo. Quell’editor glaciale vede in questa donna, spuntata fuori dal nulla col suo bravo grembiulino e la crestina inamidata, tutto quello di cui lui ha bisogno. Vede un nuovo se stesso.
Lei di contro recita accortamente la sua parte, rivestendo posizioni femminili e maschili nello stesso tempo. In parte soddisfa le aspettative, in parte sfugge. Tutto s’incastra perfettamente: sogni, desideri, immagini, bisogni. La Ravera, infatti, è splendida nella descrizione di questa donna/uomo, che ha della donna il potere del corpo e la conoscenza, mentre dell’uomo le regole psichiche, i codici primitivi, gli impulsi. Pennella così i tratti di una giocatrice matura, di una regista esperta e di un’attrice navigata, che sa come farsi contenitore accogliente dell’altrui proiezioni, che sa di quale materia sono fatte le emozioni e sa come usarle. Regina della casa e del letto, fatta di vetro trasparente, è in grado di raccoglie tutta la luce all’esterno, brillando di tutto e del contrario di tutto.
Con una regina così è inevitabile lo scacco al re, come si evince dalla copertina del libro. Nel momento dell’innamoramento la narrazione sale di tono, diventa trionfale, una sorta di inno alla gioia. Il giudizio morale è sospeso e il rischio si eleva insieme alla posta in gioco. Finalmente il Sentire! I personaggi, l’editor, la sua giovane amante, la sua ex moglie, gli amici, la misteriosa cameriera, che fino ad allora erano stati elementi di un insieme omogeneo, membri diversi di uno stesso gruppo, diventano unici, ciascuno a suo modo. Perché è vero: l’amore ti estrae dal mucchio. Ti fa sentire unico e irripetibile. Ti trasforma in un eroe solitario ed illogico. Offre alle strade che percorri abitualmente un’enfasi epica, emozionale, altissima, prima sconosciuta. Ti sveglia in un letto nuovo e importante. Forse è un inganno, un gioco d’azzardo, ma accade. E ne abbiamo bisogno. Così come una donna di servizio che, per le ragioni le più varie, voglia essere amata, sarà in grado di altissime prestazioni, questa illusione è l’unica ragione per cui chi ama o crede di amare diventa capace di grandi cose. Chiedersi se stia amando davvero e perché, di chi sia la colpa o il merito, a volte può essere fuorviante.

Le seduzioni dell’inverno, Lidia Ravera, Nottetempo, 2008, €14

Rivedere “Palombella rossa”


Rivedere “Palombella rossa” di Nanni Moretti.

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Gli ebook di Musicaos.it

Può un film girato quasi venti anni fa descrivere con una discreta approssimazione l’attuale situazione politica e la sinistra, oggi? Se il regista è Nanni Moretti e il film in questione è “Palombella rossa” la risposta potrebbe essere un sì. “Palombella rossa”, del 1989, è una delle pellicole che più si addentrano nello studio delle anime e dei fantasmi della sinistra. Nonostante siano trascorsi quasi venti anni dalla caduta del muro di Berlino, nonostante il mercato del lavoro sia stravolto, nonostante siano mutati gli equilibri internazionali, in quella pellicola sono descritti alcuni dei termini di un conflitto di identità. Conflitto che con le prossime elezioni anticipate si cerca di risanare o dirimere, tutto e subito, prima di rischiare la sconfitta delle urne. Michele Apicella, esponente politico della sinistra parlamentare, in seguito a uno scontro avuto con l’auto, è soggetto a un vuoto di memoria. Amnesia. Ciò accade nel giorno in cui la sua squadra di pallanuoto deve affrontare l’avversario temuto, l’Acireale. Il giorno della partita precede il giorno in cui gli italiani si recheranno alle urne. Michele viene prelevato dai compagni di squadra “Già, quale squadra? Di che sport stanno parlando?” è la domanda che si pone Michele durante il tragitto in bus, insieme alla squadra e all’allenatore Mario, impersonato da Silvio Orlando, che fino all’inizio del match ripercorrerà le tattiche e le strategie da adottare contro l’avversario. Nello spogliatoio Michele è assorto. Il mister ha descritto gli schemi anche nella pause dopo il pranzo, al ristorante. Si tratta di un’insistenza che accresce l’ansia nei confronti della partita. Pallanuoto. Michele, leggendo un articolo di un giornale che lui ha scritto, si rende conto di essere comunista. Esclamerà proprio così, Io sono comunista. Michele ha un flashback di quando da bambino si allenava. Tutti i genitori seguivano i bambini, lui era accompagnato agli allenamenti da sua madre. Il padre? Comparirà una sola volta, più in là. Michele, nel passato e nel presente, è smarrito. La mancanza di guida che prova da bambino è la stessa che sente adesso, ora che la memoria va e viene per via dello shock subito, facendo emergere i suoi ricordi a tratti, lucidità, nebbie. Sul bordo della piscina viene avvicinato da due persone che si riferiscono a un gesto che lui ha commesso “martedì scorso”, durante una puntata del programma Tribuna Politica. Comincia a delinearsi uno dei significati della pellicola, quello per cui la piscina è una metafora dello scontro politico, con le sue tattiche, nel conflitto che vede contrapposte le due squadre, compresi colpi bassi e scorrettezze. La descrizione della sinistra operata da Nanni Moretti nelle sue opere ha accompagnato tutte le fasi di evoluzione di questo schieramento politico, dagli esordi ai giorni nostri, fino al Caimano (2006), passando per Caro Diario (1994) e ancora in Aprile (1998). I due avventori che avvicinano Michele si autodefiniscono “puri”, sono ossessivi “noi riceviamo tante lettere a cui non rispondiamo mai”. Michele si allontana. “Il potere dell’opposizione è la lotta”. Questa l’affermazione di allora, pronunciata da un altro avventore, un anziano che si definisce sindacalista. La soluzione per la sinistra consta nel sapere dirigere il potenziale conflittuale, nel dare a esso una forma, dei contenuti e soprattutto una direzione. “Siete un partito da rifare, siete scomparsi, galleggiate a mezz’aria”. Si delinea qui un tentativo di assumere la critica e l’autocritica del comunismo. “Mancate d’identità, avete almeno, tre anime”. Viste oggi, quelle immagini, risultano profetiche; non tanto perché prefiguravano ieri ciò che si sarebbe ripresentato oggi, quanto perché alcuni punti nodali del dibattito interno alla sinistra sono rimasti gli stessi. “Chi siete, siete un partito inutile, innocuo”. Sul piano narrativo e stilistico, ai discorsi politici che tutti gli avventori di Michele Apicella si sentono in dovere di promuovere, fa da contrappeso la partita vera e propria, non più politica, cioè lo scontro tra le due squadre di pallanuoto. È in questo momento, quando fa la sua comparsa l’allenatore dell’Acireale (la squadra avversaria che deve incontrarsi con la squadra allenata da Silvio Orlando), che avviene l’identificazione/parallelo tra politica e partita di pallanuoto, su quel terreno sono contenute le critiche al partito politico, il PC, di allora. Silvio Orlando si perde in tattiche e schemi complicati, bilanciamenti fumosi che non interessano gli stessi giocatori, gli unici due che restano a sentirlo sono Michele, (il politico che ha nostalgia del passato?) insieme al giocatore più giovane (il giovane idealista?). Ciò di cui raccontano queste immagini è il tarlo che si insinua come problema degli anni novanta, il progressivo allontanamento dalla base. L’allenatore avversario non si perde in chiacchiere, è consapevole che sulla carta la sua è la squadra vincente, dileggia gli avversari, addirittura sostiene di non prendere la partita sottogamba, perché altrimenti potrebbero sorgere difficoltà; a quell’affermazione, fatta davanti a una squadra di giocatori stravaccati come gli antichi romani alla sauna, tutti scoppiano in una grassa risata. Quel che bisogna sapere è che non c’è rispetto per gli avversari. L’elemento di punta della squadra avversaria è Imre Budavari, giocatore ungherese, nessuno vuole marcarlo. “Quello che è avvenuto in questi anni è un processo di trasformazione della nostra società.”. Michele comincia a ricordare frammenti del suo discorso televisivo. I due avventori di prima lo incontrano nuovamente, è il crollo. “La questione cattolica si intreccia con la questione del centro, noi dobbiamo lavorare per conquistare il centro, non per farci conquistare dal centro”. Uno dei due avventori dice che “Hanno paura di vincere, loro vogliono stare all’opposizione e moriranno all’opposizione”. Oggi si la questione si ripropone in termini diversi, la sinistra è pronta all’eventualità di condurre un’opposizione extra-parlamentare? Il fenomeno cui stiamo assistendo è lo sgretolamento di alcune vecchie leadership che non sono più in grado di dialogare con il Paese, perché hanno percorso tutte le modalità, le strade, senza risultati accettabili?

Il modo è cambiato, la consapevolezza da parte dei cittadini nei confronti di alcuni temi (l’ambiente, l’economia, il lavoro, la partecipazione) sono cresciute. Ecco che i “circoli” sono una parola che Silvio Berlusconi ha messo nel suo dizionario appena ha compreso l’importanza dell’identificazione con il suo elettorato. A ciò contribuisce la continua propaganda che viene effettuata sui mezzi di comunicazione Mediaset. C’è un’apposita rubrica del TG4 dove le persone vengono intervistate sul caro-prezzi nei mercati rionali. I toni con cui la Destra accusa il Governo dei Sedici Mesi sono simili a quelli che si potrebbero utilizzare contro un governo che ha appena fatto ritorno dalla guerra. La pressione fiscale è aumentata, sono stati scoperti alcuni grandi evasori. Dov’erano le telecamere del TG4 tra il 2000 e 2006, gli anni che hanno preparato e fatto montare il caro-vita? Gli aumenti dei prezzi non sono iniziati ieri. Dov’erano i sondaggi? I governi di Silvio Berlusconi sapevano? Certo.
“Perché sei diventato comunista? Perché penso che sia giusto. Uno. Perché non ti senti isolato. Perché sei con altre persone che credono come te in certe cose. Le vivono come te. Con te. Sei parte di un movimento che va avanti in tutto il mondo. Vedi cos’è questa realtà e cerchi di trasformarla. Perché ami l’umanità e siccome ami quella vera fai in modo che venga fuori”. A parlare così è il Michele di quindici anni prima, 1974. Umanità. Umanesimo della sinistra. Attenzione ai problemi dell’uomo, della persona, prima di quelli della società, dell’economia, della ferrea logica dello sviluppo. Oggi un discorso simile non sembra plausibile. Quello di cui c’è bisogno è una ripresa che vada di pari passo con i problemi della persona, in primis quello dell’occupazione e dei salari. Quando l’amico di Michele gli ricorda di come, da ragazzi, hanno preso a botte un ‘fascista’, Michele è inorridito, non può credere che sono stati capaci di ciò. La virulenza della lotta politica non può resistere come cifra caratteristica del porsi. Il Partito Democratico, insieme al Popolo delle Libertà, giocano su un terreno che elegge il fair play a regola di condotta. La “fusione fredda” tra il partito di Silvio Berlusconi “Forza Italia” e quello guidato a Gianfranco Fini “Alleanza Nazionale”, e il gioco delle alleanze in Sicilia, hanno dimostrato che è difficile fare accettare una politica a tavolino, che non tenga conto delle alleanze sul territorio e del consenso degli elettori. Mai come oggi sembra che la cosa più difficile sia proprio fare la conta dei voti in anticipo. Lo stesso Pier Ferdinando Casini ha ammesso in una recente intervista televisiva che in Sicilia non si poteva non agire a questo modo. Una franchezza che fa paura perché dimostra un attaccamento a certi modi di fare politica che difficilmente possono essere sradicati, laddove hanno fino a oggi costituito la norma. È come se una delle nuove differenze debba essere quella di ‘fare le cose alla luce del sole’. Le alleanze vanno cercate e ribadite a questo modo. Chi accetta è dentro, chi non accetta è fuori. È la crisi. Michele si ricorda di quando ha incominciato a nuotare. Voleva cambiare sport. Si tuffa nella vasca, non riconosce gli schemi. Dopo un po’, in azione, ha paura dell’acqua alta “C’è l’acqua alta al centro“. Non riesce ad avanzare. Michele ha il terrore di tuffarsi e, una volta tuffato, ha paura dell’acqua alta. Finalmente si decide, attraversa il centro, un avversario gli ruba la palla con agilità. Non bisogna abbandonarsi ai dubbi, alle angoscie, alle incertezze. C’è una giornalista che cerca di ottenere delle delucidazioni sulle ultime settimane di campagna elettorale da Valentina, la figlia di Michele, interpretata da Asia Argento. Il giorno dopo ci saranno le elezioni. Il giornalismo parla un linguaggio superficiale. La giornalista che lo intervista, impersonata da Mariella Valentini, estrae un Bignami, un ipotetico bignami con la storia del PC. “Che sensazione ha essere in un partito ormai al tramonto?”. Nel famoso intervento di martedì un giornalista prende il suo orologio, lo mostra a Michele, dice che il suo orologio ha due quadranti, uno dei quali è regolato sull’ora di New York, “oggi, anche il suo orologio è regolato sull’ora americana?”. La risposta del Michele di allora “Non posso che ribadire il riconoscimento dell’adesione dell’Italia alla Nato” può confrontarsi con un passo del programma del neonato PD “Il PD è per il rafforzamento dell’amicizia e della collaborazione nazionale e europea con gli Stati Uniti.”. Michele non è d’accordo con chi crede che il Capitalismo abbia dimostrato di essere in grado di risolvere le sue contraddizioni. Tuttavia esistono dati oggettivi per cui il non allineamento a certe posizioni porta a un’esclusione dell’Italia dalla politica estera. Il timore di oggi si accompagna ai dati di crescita di altri paesi, come la Spagna, e di arretramento dell’economia del nostro paese. Michele scaraventa a terra un cattolico. “Io sono felice che tu esisti tu sei felice che io esisto?”. Michele Apicella risponde deciso “No”. Un tiro di Budavari è così forte da spaccare la traversa della porta. La partita si arresta. La giornalista prosegue nel suo dialogo a senso unico con Michele Apicella. È la dimostrazione che la realtà politica è fluida non solo per chi ne partecipa, ma anche per chi tenta una descrizione di essa. Rivelando che non soltanto è ridicolo pensare che possa esistere un bigino del PC, ma che lo stesso dibattito si sposti da un’area pratica a un’area concettuale, dove le “parole sono importanti”. Le parole sono le cose. Bisogna trovare quindi una descrizione che sia in grado di contenere la ‘cosa’ descritta. Michele, alla vista di una scena del Dottor Zivago alza il pugno sinistro. “Mai godersi nulla se prima non c’è stata una fatica”. Michele è un politico che viene assalito dai frammenti dei discorsi. “Il problema è il silenzio.” Il cattolico presenta a Michele un guru/teologo che gli ha cambiato la vita. Anche l’allenatore dell’Acireale ha un suo guru, è un maestro di yoga. Un altro aspetto che dell’ideologia che viene qui rappresentato è quello del deus ex-machina, un politico che si faccia portatore delle istanze del proprio partito, con l’altra faccia della medaglia, il rischio di vedersi trasformati in icona. L’arbitro della partita trova in uno psicanalista l’uomo della sua vita. Al fianco di Silvio Orlando c’è Remo Remotti, l’uomo che ha cambiato la sua vita, interrogato “Dicci qualcosa?” non dirà nulla. Gli avventori che compaiono all’inizio, quelli che continuano a portare dolci a Michele, lo avvicinano ancora, dopo che lui ha commesso un fallo, chiedono a Michele con insistenza di “fare i nomi e i cognomi”. Michele è stato espulso. Michele non si sposta dalla sua posizione. Dagli spalti parte un coro “Michele è finita, l’hai persa la partita”. Ecco che cosa ricorda la torta a Michele, da bambino aveva rubato una torta ed era stato spedito in collegio dalla famiglia. Si tratta di un sogno. È in pantofole in strada. “Noi dobbiamo essere insensibili, noi dobbiamo essere indifferenti alle parole di oggi. Chi parla male pensa male e vive male, bisogna trovare le parole giuste”. Michele incontra lo stesso ragazzo fascista a cui aveva appeso un cartello al collo, insieme ad altri manifestanti. Ne scaturisce un’acquisizione per cui Michele ammette di essere uno schematico. Silvio Orlando, l’allenatore, urla troppo, viene espulso anche lui. Si lamenta con l’arbitro per la sua corruzione. L’arbitro, deputato a far sì che vengano rispettate le regole, è un “cane”. Bisogna inventare un linguaggio nuovo, una vita nuova. Michele continua a rimuginare il senso travisato dell’intervista che ha appena concesso alla giornalista. “Se io traduco quello che ho in testa in una forma semplice, io fallisco…Bisogna pensare tutto, prevedere tutto…Un concetto, appena viene scritto, ecco subito che diventa menzogna….non bisogna fare un uso criminale delle parole”. Il terremoto politico avvenuto negli anni novanta, del quale la discesa in campo di Silvio Berlusconi, altro non è che una scappatoia, volge forse al termine, con la completa trasformazione della sinistra italiana. “Proviamo a recuperare, un goal alla volta”, dice Silvio Orlando. Nel 1991 ne “Il portaborse” di Daniele Lucchetti (con Nanni Moretti attore protagonista), descriveva la corruzione della politica. “Palombella rossa” contiene una descrizione dei temi che agitavano la sinistra di allora, alcuni dei quali sono gli stessi che chiedono una risposta oggi. Una delle differenze è semplice, sono passati venti anni, e certi problemi forse si danno già per risolti in maniera scontata. Forse alcuni problemi sono sorpassati. Sembra che soltanto oggi ci si stia accorgendo di quella che oramai è sulla bocca di tutti con la parola di “Casta”, a maggior riprova del fatto che i due governi precedenti, e non tanto l’ultimo governo Prodi, hanno mediaticamente ottuso i sensi.

L’arbitro non concede un rigore lampante. La giustizia non sanziona. Silvio Orlando grida “Assassini!”. Lo psicologo suggerisce all’arbitro come comportarsi. Chi decide la giustizia non possiede lo spirito necessario per decidere. A un certo punto il ragazzo cattolico torna alla carica di Michele Apicella insieme al suo guru sudamericano, che enuncia una verità che molto si addice allo scontro odierno, in termini di grande coalizione “Siamo cattolici, religiosi, sportivi. Ma non buoni contro cattivi, buoni contro buoni. Così i buoni fanno goal. Ogni goal è un silenzio.”. Mentre dai bordi del campo i due avventori, quelli che lo hanno disturbato continuamente con profferte di torte, gli gridano che lui è un egoista, che pensa solo a se stesso, Michele ha la palla di un goal, il secondo che segna in pochi minuti. Non può perdersi in sterili pensiero socio-analitico-filosofici, deve segnare, è con l’acqua alla gola, tira, mette a segno. La piscina è una metafora del mondo in cui viviamo. A dieci secondi dalla fine la squadra di Michele è sotto di un goal. Viene finalmente assegnato un rigore, sull’8 a 9. Michele chiede una possibilità, può farcela, chiede a Mario (Silvio Orlando) di battere il rigore. Remo Remotti, il guru di Silvio Orlando, dà il suo consenso. In questa fase nessuno assume su sé la responsabilità delle proprie scelte, tutti si affidano alla decisione di una persona più grande “Valentina ce l’ho fatta. Batto il rigore, vinciamo il campionato”. Michele batte il rigore, troppo presto, l’arbitro non ha fischiato. “Ma quanti anni sono che parlo da solo. E non hai pietà tu di me”. Michele viene colpito da un avversario. “Cosa vuol dire ripensare le ragioni di fondo di una forza che vuole ripensare la società?”. Michele è pronto al secondo tiro, dal pubblico parte un fischio, Michele tira e sbaglia. Anche questo è un falso tiro. Siamo, finalmente, al terzo tentativo. Michele lascia la palla a galleggiare, esce dalla piscina. Tutti vengono attratti magneticamente verso il televisore dove nel frattempo il Dottor Zivago è giunto all’ultima scena. Tutti conoscono quella scena. È un film già visto. Visto e rivisto. Malgrado le regole del gioco siano cambiate, malgrado un tentativo, e un altro e un altro ancora, tutti sono bloccati dalla scena finale, quella del tram, in cui Lara si allontana dalla scena e Zivano tenta invano di raggiungerla. Gli spettatori del film incitano insieme, finché Zivago non scende dall’autobus. Urla di tutti. I presenti gettano le sedie per terra, tirano calci, pugni. Il film, visto e rivisto, delude sempre. “Ma dove vuole andare questo PC?”.

In risposta alla domanda postagli durante la Tribuna Politica avviene l’episodio chiave del film. Michele Risponde così “Come dovrebbe fare? L’alternativa democratica mi sembra qualcosa di fisiologicamente maturo, utile, per il nostro paese, perché voi non ritenete possibile questo, perché voi non ritenete possibile il partito comunista al governo, cos’è che non va, cosa c’è che non va, il programma? Cosa dobbiamo fare, ancora? Noi dobbiamo guardare al nuovo, noi dobbiamo aprire le porte del partito a tutti, ai giovani, alle donne, ai lavoratori, ai movimenti, noi dobbiamo dire Venite! Venite nel partito, prendetelo, Vediamo insieme cosa possiamo fare, Questo Sentimento Popolare Nasce Da Meccaniche Divine, è un rapimento mistico e sensuale, mi imprigiona a te, dovrei cambiare l’oggetto dei miei desideri, non accontentarmi di piccole gioie quotidiane, fare come un eremita, che rinuncia a te”. Il discorso di Michele si scioglie nel canto di “E ti vengo a cercare”. La scena ritorna al presente, Michele continua a cantare, questa volta sta per battere il rigore decisivo della partita, dagli spalti anche gli spettatori cominciano a cantare “E ti vengo a cercare”, di Franco Battiato, in coro. Il rigore non è più importante. I nuotatori cantano, “Questo secolo è oramai alla fine, saturo di parassiti senza dignità, mi spinge solo ad essere migliore con più volontà…cercare l’uno al di sopra del bene e del male…essere un’immagine divina di questa realtà…Acireale! Acireale! Acireale”. Tutto il pubblico si alza in piedi. Michele viene risucchiato in ipotesi assurde sul terzo rigore “se io guardo a destra il portiere pensa che tiro a sinistra, ma io tiro veramente a destra…a destra, a destra, guardare a destra, devo guardare a destra e tirare a destra, il portiere mi lascia spazio a sinistra, no, forse è meglio a sinistra…” Michele tira e sbaglia. Gli spalti si riversano in acqua. La partita è persa. È perso l’appuntamento con la conferma della storia che si ripete su se stessa (Zivago), è persa la battaglia da parte di chi adotta la tattica dell’arrovellamento cerebrale distante dalla pratica (Mario – Silvio Orlando). “Se io avessi tirato veramente a destra”. Michele continua a ripensare al rigore, si dice, “torniamo a quel momento”. In chiusura, domina la nostalgia. I padri che incitano all’inizio sono sostituiti dalle madri che asciugano i capelli dopo la doccia, a tutti i bambini, negli spogliatoi. “Sono trent’anni che sto dentro l’acqua, stai attento all’acqua”. La morale è contenuta nelle ultime parole, dove la parola pallanuoto può essere sostituita dalla parola ‘politica’: “Io m’aspettavo di più…m’aspettavo di più dalla vita, di più, e meglio. Anche se questa pizza qui, lo spogliatoio. Ecco il motivo per cui per venticinque anni ho giocato a pallanuoto, che è uno sport che poi non mi piace nemmeno tanto, però, queste trasferte, i pullman, gli autogrill, il pubblico che ti insulta, che ti sputa addosso, i calci degli avversari, beh, tutto questo è bellissimo”. Michele è confuso, guida l’auto, esce fuori di strada per una seconda volta. Non si è fatto nulla. Un sole rosso sorge, tirato su un impalcatura, funge da scenografia per una probabile festa, mentre il sole rosso sorge, il Michele bambino ride. Cosa è cambiato e, soprattutto, cosa è rimasto ancora intatto nella sinistra?

Luciano Pagano

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Alcune considerazioni su "Hitler" di Giuseppe Genna


Luciano Pagano
Alcune considerazioni su “Hitler” di Giuseppe Genna

Mi ero accostato alla lettura di questo romanzo con un’unica cautela, quella di capire se questo fosse davvero, come annunciato dall’autore del medesimo, il primo romanzo su Hitler. Durante la lettura mi sono accorto di condividere appieno il giudizio. Non esiste un punto della biografia di Hitler dove tutto ha avuto inizio, giustificare un inizio significherebbe forse ammettere che senza quell’inizio la vita di Hitler sarebbe stata simile a quella di molti altri. Non è così. Hitler, come racconta Giuseppe Genna, nella disamina delle fonti e delle riviste di antisemitismo dozzinale, è letteralmente circondato dal sentimento antisemita della Germania del suo tempo. Ogni antisemita è un Hitler in potenza, un pensiero che non offre redenzione. La scrittura di Hitler è distante da quella del romanzo precedente, Dies Irae. In quest’ultima opera Genna ha trovato una soluzione differente che non cede nulla all’esagerazione linguistica, che non esorbita. Tanto la materia gli offriva possibilità di onirismo strabordante, tanto la lingua è trattenuta in un periodare netto. Costruito per quadri, delinea la scena in modo succinto. Mai eccessivo. Gli unici momenti che eccedono il limite imposto sono momenti lirici, nei quali ciò che viene narrato a un certo punto trascende, ci si affida alle parole di T. S. Eliot, Mario Luzi, alle similitudini dantesche. Alcuni degli episodi, quello della lotteria, sono presenti anche nel romanzo di Eric-Emmanuel Schmitt (“La parte dell’altro”, E/O), in questi episodi è come se in modo sottile si cercasse di lanciare una sfida al pensiero dell’eterno ritorno del male, che cosa sarebbe accaduto se? Sono ipotesi che vengono smentite in modo puntuale, Hitler ha voluto tutto ciò che ha fatto, ogni suo passo era compiuto per assecondare un’idea abominevole di grandezza che non conosceva limite. Fino al racconto degli eventi che narrano l’ascesa del potere tutto il male che emana da questa figura è circondato dalla luce di un bagliore accecante, creato da tutta la corte di cui Hitler si circonda, che annienta tutto ciò che cerca di avvicinarsi al nucleo primordiale e personale di questa non-persona. Se Hitler fosse il personaggio di un romanzo potremmo scrivere che le cose gli vanno bene finché tutti i suoi sogni di dominio si concentrano su qualcosa che è esterno a sé. Quando il suo potere si involve su se stesso declina nella sconfitta. Giuseppe Genna fa incontrare Hitler, di sfuggita, con Sigmund Freud. “L’altro” Hitler di Schmitt si recherà dal medico scopritore della psicoanalisi per farsi curare dagli svenimenti che gli procurano le visioni dei corpi nudi delle modelle, presso l’Accademia dove è riuscito a iscriversi passando l’esame. Questo è un altro punto che assume un significato teorico importante. L’incontro cioè tra l’uomo che ha dispiegato il male, sentimento irrazionale per eccellenza, con chi invece ha cercato di ricondurre le pulsioni ancestrali di ogni individuo in un sistema di interpretazioni, analisi, diagnosi e cura. Quest’incontro può cambiare la storia? No. Ancora una volta la risposta è un secco no. Perfino la psicoanalisi è arrivata in ritardo, così come è arrivato in ritardo, a giochi già in corso, chi governava i paesi europei nel periodo in cui l’astro di Hitler ascendeva indisturbato. Si pensi all’analisi di Erich Fromm contenuta ne “L’anatomia dell’aggressività umana”. Ogni analisi psicologica, in tal senso, è un riduzionismo. Ogni spiegazione arriva tardi, quando non serve più. L’unico modo di fermare il male era quello di fermarlo sul terreno irrazionale della sua forza, con la guerra. Con un gesto altrettanto potente e maligno, come un assassinio o con un attentato. Ma è troppo presto, in fondo Hitler non è ancora nessuno, e l’autore del romanzo ce lo presenta così come è, un giovane che cova astio esponenziale. Sono diversi i momenti in cui l’autore ci accompagna, fermandosi e discutendo con il lettore, per fare riflettere sulla figura che si sta componendo in un affresco rapido, non frettoloso. Sappiamo quel che dovrà accadere, come i condannati che conoscono la pena che verrà loro inflitta, così da spettatori di una Storia già scritta è come se chiedessimo di non procrastinare l’attuazione della pena. La vicenda storica in cui Hitler si muove è storia universale, il fine, il bunker, il termine, il 1945, lo Sterminio. Durante la lettura succede che si percepisca una sorta di ipervisione di un finale che è già lì, apparecchiato, pronto per essere narrato. Cos’è che sfugge da questo quadro? L’evento peggiore, quello che avrà più ripercussioni nella storia e nel pensiero dei nostri giorni, non c’è, viene accennato, se ne parla per approssimazioni. La tragedia del popolo ebraico, la soluzione finale. Uno degli assunti principali del romanzo è contenuto in epigrafe “è fatto e divieto agli ebrei di concedere a Hitler vittorie postume”. Quando Hitler cadeva già c’era chi pensava a come spartirsi l’Europa, così racconta Giuseppe Genna. Il romanzo narra la vita di una non-persona con la quale non può esserci identificazione, il messaggio è tuttavia chiaro, qualora dovesse sorgere un processo identificativo c’è una parte di quella storia, l’Olocausto, che non potrà mai essere soggetta a revisione. E che occupa una parte a sé, nel finale, dal corpo del romanzo. Anche perché in “Hitler”, per quanto l’autore abbia scritto di un uomo che viene definito come la non-persona, vengono raccontati i fatti che sono accaduti. La non-persona non si produce in non-azioni ma in azioni spropositate, che non tengono conto della realtà in cui accadono, emblematici a riguardo i giudizi che Hitler esprime in materia di cose che gli sono del tutto sconosciute o che conosce sommariamente. È quindi apprezzabile che la parte finale sia così costituita, con un infittirsi di citazioni; come a sottolineare che romanzare la storia è possibile (e qui non si è certo davanti a un primo tentativo) ma riscrivere la storia sottoponendola a revisioni narratologiche, quello no, non si può fare. Il romanzo di Giuseppe Genna secondo me non cede una virgola a retoriche di nessun genere. Himmler, Göring, Speer, Eva Braun, Stalin, Mussolini, sono tutti succubi di Hitler, una non-persona che si è spinta nell’attuazione del crimine peggiore dell’umanità. Leggendo “Hitler” il lettore di Giuseppe Genna si accorge che un libro del genere poteva essere scritto e in questo modo soltanto dal Miserabile Autore, uno dei pochi attualmente in grado di descrivere il delirio trasmettendo la febbre. A ciò si aggiunge il dato storico, frutto di ricerca minuziosa, che bilancia la narrazione senza farsi sopraffare da questo ‘motore immobile’ del male. Non c’è proprio nulla che ‘faccia la differenza” tra ciò che sarebbe potuto non accadere e ciò che è stato, neppure la rapidità di anni in cui viene apparecchiato il disastro, né il fatto che tutti i segnali, tutte le avvisaglie, vengono rintracciate nell’inesorabile abulia di un popolo. Il 12 settembre del 1919, Adolf Hitler prende la parola in una riunione del DAP, il partito dei lavoratori. Da quel giorno in poi acquista la consapevolezza che tutti i suoi deliri micromegalomaniaci, curati e cresciuti in un paese che versa nella crisi, coincidono con il desiderio della massa, la maggior parte delle persone di cui si circonda. È l’inizio, per Adolf Hitler, l’eterno inizio, e per il mondo è l’inizio della Fine.
Da quel momento in poi saranno determinanti le amicizie altolocate e le relazioni con gli antisemiti nel mondo, si faranno avanti da soli, da oltreoceano, come Henry Ford, per ricoprire d’oro la Caria Umana, il nulla che ha la tracotanza inusitata di raccontare loro come vorrebbero che fosse il mondo nuovo, l’orripilante visione, il mondo senza ebrei. Alcuni fermo immagine: Jesse Owens che taglia il traguardo, i cadaveri di ebrei gettati nelle fosse comuni, mentre si muovono ancora, le lettere dei soldati tedeschi dal fronte della disfatta sovietica, la comparsa nella vicenda di Winston Churchill. Questo “Hitler”, se letto come un libro di storia, perfino nei punti più ‘imaginifici’ – per intenderci quelli dove vengono descritte le incursioni del “Lupo” – non si discosta di molto dallo stile di certi storici, che condiscono con narrazioni le descrizioni di fatti documentati e frutto di ricerca; credo che Giuseppe Genna fosse consapevole del fatto che sarebbe stato facile, nella scrittura di questo romanzo, cedere alle lusinghe della retorica; in alcuni punti si verifica il contrario, cioè che l’autore potrebbe approfittare della sua condizione di Dominus per calcare la mano, cosa che non si verifica, non c’è sadismo, ma neppure commiserazione. L’autore non arretra di una virgola dalla sua posizione, ed è un bene, anche per il frutto che ne deriva, cioè un ottimo romanzo. C’è un momento in cui un soldato tedesco durante la ritirata, incappa nei cadaveri lasciati durante l’avanzata, si chiede se siano potuti essere loro gli artefici di ciò. Ecco, il delirio della potenza era così terribile che soltanto una sconfitta poteva riportare lo sguardo sulla propria coscienza. Questo libro secondo me fornisce ottimi spunti per la lettura della realtà storica. La parola d’ordine, dall’inizio alla fine, è Memoria.

“Hitler”, Giuseppe Genna,Mondarori, €20

Chi ha bisogno di Harry Potter?


Elisabetta Liguori
Chi ha bisogno di Harry Potter?

I nostri figli hanno bisogno delle fiabe oggi?
Da donna moderna quale aspiro ad essere, da donna che vuol sentirsi al passo coi tempi, da donna che spesso arranca e questo passo sincopato ancora non lo ha compreso del tutto, io me lo chiedo di frequente. E poi si fa presto a dire fiabe. Quali fiabe? Non tutte le fiabe sono uguali, questo è evidente, sebbene qualcosa le accomuni. E se è vero che certe narrazioni di genere antico sono e restano espressione del Senso dei popoli; se è vero che, come lo stesso Freud sosteneva a proposito dell’Interpretazione dei sogni, esiste un nesso forte tra la psiche degli uomini e le fiabe che l’affollano; se è vero che l’immaginazione fantastica è indotta, frustata o esaltata dal quotidiano, allora la risposta non può che essere positiva.
I nostri figli ne hanno bisogno.
Questa necessità è estendibile a tutte le fiabe del mondo? Vediamo di capirlo.
Io cerco il fantastico. Perché è poi questa la chiave per distinguere ancora oggi la Favola (quella che si limita a raccontare una storia più o meno bene, con una morale più o meno efficace), dalla Fiaba in senso stretto. Il fantastico appunto. Una dimensione dell’altrove impossibile, eppure verosimile. Vicina. E’ di quello stupore convincente che i nostri figli hanno bisogno. Ed io con loro. E tanti come noi. Questo spiegherebbe, almeno in parte, il fascino suggestivo ed il grande successo editoriale della letteratura fantasy, dalla scopa fumante di Harry Potter, all’armadio bidimensionale di Narnia, fino ai draghi sentimentali di Eragon.
Per questa stessa ragione sono lieta che Eliana Forcignanò, giovane giornalista leccese, abbia scelto di esordire in questi giorni con il suo “Fiabe come rondini” per Lupo editore e il Fondo Verri: una scelta che oggi mi appare coraggiosa, quanto necessaria. La scelta della via fantastica, appunto.
La vita delle madri (e dei padri) è spesso costellata di storie di tutti i tipi. Anch’io ne ho cercate e trovate a valanghe in questi ultimi anni, così che ora sono ovunque nella mia casa, aleggiano come spiriti, fuori e dentro i miei farfugliamenti materni, dimorano tutte insieme nella stanza nella quale io continuo a rifugiarmi coi miei bimbi al buio della sera per tentare di avvicinare, con più leggerezza, idee comuni e vaste come quella del futuro, della morte, del dubbio, dell’imperfezione. Ogni volta che al mattino mi avvicino ai letti dei miei cuccioli c’è sempre un sorcio parlante che mi dà il buongiorno, mentre un cavallo alato protesta perché è troppo presto. E persino i quaderni sbuffano nelle cartelle.
Forse anche Eliana vive in una stanza come la nostra. Anche lei, nelle sue storie, racconta di un sé, disperso e fluttuante in universi fantastici, unici e personali.
E lo fa come se avesse un occhio da vecchio e uno da bambino.
Ecco, secondo me, sono proprio così gli occhi dei veri narratori di fiabe. Due occhi opposti. Atemporali. Mi pare che questo abbiano fatto, e continuino a fare ancora oggi, tutti i raccontatori di fiabe: cogliere il mondo attraverso una specie di strabismo onirico e terrestre, così da descrivere le cose che sono state e che saranno, interpretandole secondo le regole di un universo che mai sarà. Non una capacità comune. Forse un difetto di percezione.
Eliana ha questo splendido difetto.
Otto fiabe per diventare adulti, le sue.
Tanti modi sono offerti agli uomini per crescere, la fiabe da sempre sono uno di questi. Una strada semplice ed incantevole in cui ogni piccolo eroe senza risposte può cimentarsi coi giganti e uscirne sorprendentemente vivo. Quasi una fede da costruire. Cosa altro c’è, a pensarci bene infatti, al fondo di tutte le religioni del mondo, se non un’ idea come questa? Cosa alla base di ogni forma di spiritualità? Cosa se non il fascino rassicurante di una fiaba per sopravvivere e cambiare? Uno stupore finalmente rassicurante? Il desiderio di soluzione, futuro, pacificazione, meraviglia? La terra di Non so, abilmente raccontata in una delle fiabe di Eliana dal titolo “Le tre bottiglie”, è espressione perfetta della dimensione ambientale e spirituale del Dubbio con la quale tutti, adulti e bambini, siamo oggi chiamati a confrontarci. In questa storia la maturità arriva non da un padre, da un maestro, da un codice, ma dal mare. La verità qui non è imposizione, violenza, guerra di potere o indottrinamento; è invece riconoscimento dei propri limiti, esercizio di modestia, lunga arrampicata solitaria.
Sono tutti così gli eroi di Eliana: imperfetti.
Il re che non ha risposte per i suoi sudditi, la bambina allergica alla virgola che non può andare a scuola, la fata brutta a cui nessuno dà credito, la donna esageratamente bella che ha paura di perdere la libertà, il sovrano che non sa amare, lo scienziato che non vuole uscire dal suo laboratorio per paura di vivere, l’inquieta Linda che vive in un mondo igienicamente protetto ma fa la pipì nel letto. E molti altri: imperfetti, ma instancabili.
In una società che vuole costruire uomini futuri assoluti, con un Io meravigliosamente gigantesco e cieco, all’interno di famiglie che nutrono i propri figli a pane e perfezione, prepararsi per tempo al fallimento, all’incertezza, accettarla in anticipo come possibilità potrebbe significare assicurarsi una dignitosa sopravvivenza futura, garantirsi un risparmio certo domani sul costo dello psichiatra.
Un risultato importante, io credo.
Ma allora torno a chiedermi: abbiamo bisogno di tutte le fiabe allo stesso modo?
A mio parere, quello che rende una fiaba diversa dalle altre è il fine. La capacità di creare un mondo per un fine. Se un racconto mira al potere, al successo personale, alla suggestione, non può che essere fonte di violenza o artificio, se invece punta alla Felicità, alla trasformazione e alle sue rondini strane, allora, è di certo una buona fiaba. In una delle storie di Eliana la Felicità è una donna malata, che se ne sta, sdraiata ed esanime, ai bordi della città in attesa di essere accolta e riconosciuta da qualcuno. Come tutte le donne, non è una matassa facile da sbrogliare. Una caso interessante ma complicato. Quella donna per guarire cerca l’autenticità dell’Essere. Un’autenticità senza altri fini, quella dimensione cioè concessa a volte solo alla poesia.
È quella Felicità il fine delle fiabe di Eliana. Il loro vanto fuori dal tempo.
È sorprendente, ma le fiabe di Eliana, pur non provenendo da antiche tradizioni popolari, raccontano quella ricerca lenta ed affannosa con la levità delle rondini migranti e il fardello dei secoli. Tra le sue pagine il futuro incontra il passato e si riempie di meraviglia e potenziali trasformazioni. Non si deve fare altro che restare ad ascoltare.

Fiabe come rondini, Eliana Forcignanò, Lupo Editore, p. 96, 2007

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Ne resterà solo uno. (su Io sono leggenda)


Luciano Pagano
Ne resterà solo uno.
(su Io sono leggenda)

“L’ultimo uomo sulla terra” è il titolo della pellicola girata nel 1964. Come protagonista c’è il famosissimo Vincent Price, che nella sua carriera ha girato qualcosa come 145 film. Il lungometraggio è basato sulla storia di Richard Mateson scritta dieci anni prima, la stessa che ha dato ispirazione al recente “Io sono leggenda”, in uscita nelle sale italiane. Sul pianeta terra non abita più nessuno. Nell’ultima versione cinematografica la morte del genere umano, o meglio, la sua trasformazione, è causata dall’impazzimento di un virus che era partito bene, come cura globale contro un male di per sé incurabile. Il film in bianco e nero ha un fascino differente, più aderente per filologia al testo del romanzo e oltretutto uscito in un epoca particolare, dopo i lunghi successi di film dedicati dagli anni 50 – in clima di Guerra Fredda – in poi alle ‘mutazioni’, un classico da rivedere resta “L’invasione degli Ultracorpi” (1956), basato su una storia pubblicata proprio un anno dopo l’uscita di “Io sono leggenda” di Matheson. In una delle prime inquadrature dove compare Vincent Price viene mostrato il muro dove il sopravvissuto tiene un diario dei giorni che ha trascorso da quando ha ‘ereditato’ la terra (…giorno 1001), il muro somiglia alla parete di una cella, con i mesi e le croci segnate con un pennarello nero. Il mondo è una prigione desolata. L’anno di ambientazione di cui adesso ricorre il quarantennio è il 1968. Essendo il film con Vincent Price datato 1964 e dato che il protagonista vive la vicenda a distanza di 3 anni dall’avvenimento che ha dato il via alla storia, è evidente che chi ha girato la versione del ‘64 ha preferito porre il tutto più a ridosso del proprio presente. Manca, nella versione odierna, il possibile rimando al cinema di genere, con sconfinamenti in pellicole come “Fahreneit 451”, dove le geometrie asettiche delle ambientazioni aiutavano a distanziare la storia narrata in un punto di desolazione-zero. La catastrofe di cui sarà protagonista Will Smith, ambientata nel 2009, trova conclusione nel 2012; lo svolgimento a New York da il pretesto all’agente Smith per ricordare l’ecatombe di Ground Zero, un evento dell’immaginario americano spartiacque tra chi lo ha vissuto e chi no, anche nel futuro cinematostorico, un po’ come il Vietnam e molto più che Pearl Harbor. La regia del ‘64 è di Ubaldo B. Ragona. Vincent Price ha una bella collana d’aglio appesa sulla porta, la puzza di vampiro si sente da un miglio. Nel film di oggi si insiste di più sulla desolazione, complice l’atmosfera di silenzio assoluto che pervade la pellicola, ogni rumore è assente perché dobbiamo restare in allerta. Times Square con le piante che sbucano dall’asfalto è un’immagine che rende bene l’idea di un pianeta abbandonato a se stesso. Quali problemi si pone un sopravvissuto alla catastrofe? Problema numero uno: l’energia. Vincent Price se la cava con un motore a gasolio piazzato nello sgabuzzino sul terrazzo di casa. Will Smith pompa la benzina direttamente a mano. E l’energia elettrica? Negli Stati Uniti del futuro prossimo venturo non si capisce bene da dove questa venga, ampio spazio alle congetture, forse l’energia è fornita dalle centrali termonucleari dove l’uranio garantisce eternità di emissione, probabilmente un Homer Simpson neo-vampiro è il controllore delle centrali, insomma c’è energia in quantità, anche perché il consumatore di energia è uno e solo. Problema numero due: l’intrattenimento. Grazie alla presenza di energia elettrica a sufficienza la giornata di Robert Neville trascorre tra allenamenti su tapis roulant in compagnia del proprio cane, visione di vecchi dvd, corse in auto, partite a golf utilizzando lo skyline di New York come bersaglio. Vincent Price più che padrone del mondo viene presentato come spazzino dell’umanità residuale, a lui spetta l’onere di bruciare i corpi dei vampiri che vengono ammazzati o rimangono stecchiti non si sa come. I vampiri più forti ammazzano i più deboli. Solo con un cane, solo come un cane, Robert Neville ha un laboratorio dove si è attrezzato per studiare una serie di topi affetti dal virus, lì cercherà di scoprire le eventuali cure alla malattia, nel corso della storia riuscirà a catturare un soggetto umanoide femminile e cercherà di farlo guarire. Con un esito più catastrofico (dipende dai punti di vista) rispetto alla versione del ‘64. Se negli anni ‘60 la trasposizione si affidava al tema del vampiro, oggi, in “Io sono leggenda”, i vampiri hanno altri nomi: solitudine, incomunicabilità, guerra tra simili, in una storia che trattando il tema del doppio mutante sembra molto vicina alle tematiche del Jekyll e Hyde di Stevenson. Tanto è vero che fino all’ultimo la sensazione più forte proviene dal pensiero che ognuno di noi, al suo interno, nasconde una parte orribile che potrebbe essere attivata da un virus e che, in modo irreversibile, sconvolgerebbe il nostro comportamento. Il motivo è semplice, il virus più che scatenare la follia omicida dei vampiri è terribile perché ci fa tornare animali, dove l’unica ragione dominante è la non-ragione dell’istinto primordiale alla sopravvivenza. La visione che viene data delle forze dell’ordine e dell’eventuale risposta a un’emergenza epidemica è anch’essa desolante, dall’inizio alla fine, un’interpretazione politica di questa pellicola non cederebbe terreno a un’immagine di potere assoluto del governo sulla vita del singolo. L’esistenza o meno di qualche sopravvissuto, a questo punto, è a dir poco inutile, grande è infatti lo scoramento del protagonista quando è costretto ad accorgersi che di ciò che un tempo si chiamava umanità è rimasto poco. A essere sinceri le passeggiate di Will Smith sono molto simili a quelle che può fare chiunque, oggigiorno, in alcune metropoli deserte di Second Life. L’unico commento musicale, in un film dominato dall’assenza di suoni, è affidato a Bob Marley, culminante nel canto liberatorio dei titoli di coda. Redemption song.

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Io sono leggenda.


Stefano Donno
su “Io sono leggenda” di Richard Mateson

Il libro di Matheson non è un libro qualunque. Non so se sia un errore o meno lasciarsi prendere dalla voglia di incasellarlo all’interno di un genere letterario, come quello dark ad esempio, perché verrebbero messe fuori due altre categorie come l’horror e il noir, che tutte e due l’autore sintetizza in maniera davvero esemplare. E allora? Lasciamo da parte qualsiasi intento sistematizzante, che in certi casi, e mai come in questo, si rischierebbe di fare gran brutte figure. O peggio uscirsene alla buona con affermazioni del tipo … una splendida metafora del limite sottile esistente tra normalità e diversità. L’orizzonte in cui si muove la vicenda narrata è l’Apocalisse. Per essere più chiari: immaginiamo uno scenario consueto come quello che trascorriamo giorno per giorno, dove gli oggetti, le persone, le cose, i ricordi, le nostre abitudini, il lavoro che svolgiamo per tirare a campare, gli affetti facenti parte non solo del nostro bagaglio interiore, ma anche di quello agito nella realtà, scompaiono improvvisamente. E di tutto quell’universo esistenziale non rimane altro che un sopravvissuto, che scoprirà a sue spese di non essere l’unico! La meccanica narrativa sviluppata da Matheson in “Io sono Leggenda” percorre con grandissima lucidità tutte quelle dinamiche psicopatologiche che fanne parte degli abissi mentali di tutti coloro i quali riescono a sfuggire ad un disastro: sciagura aerea, attacco terroristico, guerra, incidente automobilistico mortale. Poi l’autore lavora ancora di fino, e con grande disinvoltura rappresenta tutte le tecniche di sopravvivenza, che un essere umano può mettere in campo, in un ambiente ostile, pericoloso, dove l’altro è né più né meno che un predatore, con mezzi di sussistenza che diminuiscono copiosamente con il trascorrere del tempo, secondo la legge della darwiniana selezione della specie: il più forte domina, il più debole soccombe. Ma non è così semplice. In base a questa teoria si tratterebbe di eliminare i pesi morti della specie di riferimento, per migliorarne esponenzialmente la qualità, potenzialità, e la produttività. Nello specifico, è in ballo la razza umana, il suo ultimo prodotto. Parliamo di una minaccia che viene dallo spazio? Una guerra termonucleare su scala planetaria? No un batterio ad alto potenziale virale, trasforma gli esseri umani in vampiri. Robert Neville sembra uno di noi, che dopo una giornata di duro lavoro, torna a casa, svolge le sue attività domestiche, del tipo cucina, scopa per terra, ascolta un disco, si siede in poltrona ascoltando musica classica, si concede la lettura di un libro. Mi si potrebbe dire … e allora? Tutto nella norma! Eppure la sua è una vita tutt’altro che normale. Di giorno forse … ma dopo il tramonto…le cose cambiano! Neville è l’ultimo uomo sulla Terra in un mondo completamente popolato da vampiri.
Robert in perfetta solitudine, studia il suo nemico. Ne analizza ogni singolo aspetto, la storia, la leggenda, il mito di questi abomini, e addirittura riesce ad entrare in possesso di un campione di sangue di questi neo-vampiri, e ne studia chimicamente la composizione. Il tutto per raggiungere un unico, fondamentale obiettivo: lo sterminio delle creature delle tenebre. La storia è ambientata nel 1976. In questi giorni esce nelle sale cinematografiche il film con Will Smith, dove l’ambientazione appartiene ai nostri giorni. Sia in un caso che nell’altro rimarremo tutti a bocca aperta!

Io sono Leggenda, di Richard Matheson, Fanucci, pp.224, euro 13

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