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“Casa della Poesia” chiede aiuto.


Cari amici, vi lascio qui sotto una lettera dei fondatori delle “Casa della poesia”, un luogo unico e di grande valore per la poesia e per la cultura in generale.
Sarebbe un vero peccato, per l’Italia, e per il mondo perderlo.

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“Cari amici di Casa della Poesia,

le notizie che dobbiamo darvi continuano a non essere piacevoli. Pur svolgendo in questi mesi un’intensa attività in tante città italiane e all’estero, pur avendo raccolto grandi successi ed entusiasmi per le ultime cose organizzate (Napolipoesia nel Parco, Incontri internazionali di poesia di Sarajevo, Verso Sud a Reggio Calabria, gli Incontri dedicati al Centenario di Alfonso Gatto, gli incontri in “Letture senza confini”, i tour italiani di Jack Hirschman, di Paul Polansky, di Maram al-Masri, ecc. ecc.) la situazione della struttura fisica di Casa della poesia rimane problematica e ancora a rischio di chiusura o trasferimento.

Come sapete ormai da tempo a questa crescita continua del progetto e della considerazione internazionale di cui gode, agli impegni sul territorio nazionale e all’estero, corrispondono problemi di natura finanziaria e di relazioni con gli enti pubblici locali che mettono in grave difficoltà la struttura proprio nel nostro territorio. Dobbiamo quindi segnalarvi di nuovo e con forza il pericolo imminente. È davvero a rischio la stessa esistenza di Casa della poesia!

Ricordiamo che il 2008 è stato l’anno dell’apertura della “Casa dei Poeti”, la struttura residenziale di Casa della poesia che rende la nostra organizzazione unica probabilmente non solo a livello nazionale, ma forse a livello internazionale. E ricordiamo anche che il prossimo anno, 2010, Casa della poesia realizza il quindicesimo anno di attività, un traguardo importante, straordinario per una struttura indipendente.

Torniamo a dare i numeri di quella che ci ostiniamo a considerare una straordinaria impresa: quattordici anni di intensa attività, circa 40 grandi eventi realizzati in varie città (Napoli, Salerno, Baronissi, Reggio Calabria, Pistoia, Trieste, Sarajevo, Potenza, Benevento, ecc. ecc.), incontri, progetti, seminari, in tante città italiane e all’estero, collaborazioni con Ministeri ed enti culturali di tanti paesi europei ed extraeuropei, circa 400 passaggi di poeti di ogni parte del mondo, una bella biblioteca internazionale, una mediateca, un archivio audio (“Le voci della poesia”) tra i più ampi e vasti del mondo, laboratori di produzione audio e video.

E come già  detto l’apertura di una casa-alloggio per poeti che fa di Casa della poesia, nell’insieme delle sue attività, una struttura forse unica al mondo per complessità, approcci, aree di intervento e sviluppo. **Casa della poesia è un’impresa culturale riconosciuta e riconoscibile a livello internazionale, apprezzata e presa ad esempio, con relazioni internazionali di livello altissimo (Università, Ministeri, Ambasciate, Istituti di cultura, Associazioni, Enti pubblici, Case della poesia, ecc.).
Facciamo appello ad amministratori, uomini politici, imprenditori, disponibili a “leggere” i risultati e la qualità dei progetti di Casa della poesia e ad impedire un ulteriore impoverimento culturale del nostro territorio. **Intanto noi proviamo a proseguire le nostre attività (ma non sappiamo ancora per quanto), insieme a coloro che in questi anni sono stati protagonisti (i poeti) e testimoni (gli amici di CdP) del nostro lavoro, con la speranza di non dover rinunciare e trasferire tutto il patrimonio di lavoro, relazioni, contatti, materiali, conoscenze e competenze, in altri ambiti e territori.

Chiediamo a tutti gli amici, i giornalisti, gli uomini di buona volontà, di essere parte attiva in questa operazione di r/esistenza per tenere in vita una struttura che per 14 anni ha dato spazio e voce ad una cultura dell’impegno, della partecipazione, della solidarietà, dell’incontro. Siamo certi di poter contare sul vostro aiuto (articoli, interviste, segnalazioni, ecc.) e di ricambiare continuando a proporre progetti e la grande poesia internazionale.
Aspettiamo un vostro cenno e intanto, un caro saluto, Raffaella Marzano & Sergio Iagulli Info: 089/951621 – 089/953869 – 347/6275911″.

Una vita come si deve. Florio Panaiotti


Florio Panaiotti
Una vita come si deve

Michela ripensava ai suoi genitori. Erano dei buoni genitori, e prima ancora erano una coppia cristiana come si deve.
A Michela non importava se i suoi genitori fossero una buona coppia, o un’ottima coppia, o addirittura eccellente. Erano come si deve e basta. E ne era fiera.
Da bambina pensava spesso che una volta cresciuta avrebbe voluto essere come loro. I suoi genitori, anche presi come singole persone, le sembravano degli ottimi modelli: erano educati, rispettosi degli altri, generosi verso il prossimo, andavano a Messa la domenica e per Pasqua e per Natale, e avevano sempre aiutato la loro unica figlia, cioè lei.
E lei aveva cercato di ripagarli. Era sempre andata bene a scuola, e una volta arrivata all’università aveva scelto una facoltà che potesse aprirle le porte di una professione rispettata dalla gente, così come piaceva a loro. Aveva scelto di fare il magistrato, e tutti erano stati contenti, orgogliosi di lei.
Fin da quando aveva quindici anni andava a trovare una ragazza disabile della sua età, che aveva difficoltà a camminare e a parlare, e quindi a fare le cose che gli altri ragazzi facevano senza alcun problema. Andava a trovarla una volta a settimana, e l’aiutava a fare la lezione e conversava a lungo con lei. Era contenta di questo, si sentiva sinceramente buona, e del resto anche i suoi genitori erano contenti di quello che lei faceva per quella ragazza sfortunata. A dire il vero l’anno precedente aveva iniziato a fare la stessa cosa con un ragazzino ipovedente, ma poi, su consiglio della mamma, aveva deciso di smettere di andarlo a trovare, perché a quell’età è meglio che le ragazze non stiano troppo tempo insieme ai ragazzi.
Gli anni di studio all’università furono molto duri per Michela. Sentiva di dover riuscire nel migliore dei modi, per se stessa e per i suoi genitori, ma le materie erano molto tecniche e i professori severi, perciò i suoi obiettivi erano difficili da raggiungere nonostante la dedizione che metteva nello studio. Però alla fine, e grazie al supporto continuo della mamma, la sua media rimase incredibilmente alta.
Nei momenti di difficoltà si aiutava immaginandosi i due eventi che dovevano essere i più belli della sua vita, come dovevano esserlo per ogni brava ragazza: la laurea e il matrimonio.
Le pareva di vederseli davanti, in ogni dettaglio, e piangeva di gioia mentre li viveva nella sua mente, e le davano un’enorme carica per continuare a inseguire i propri obiettivi.
Però Michela non aveva ancora un fidanzato. Diceva e pensava “fidanzato”, e non “ragazzo”, perché lei cercava il ragazzo della sua vita, quello che avrebbe sposato e che le sarebbe stato accanto per sempre, e le avrebbe dato uno o due bambini. Quello era il suo fidanzato.
Michela non aveva mai avuto un fidanzato, e naturalmente era vergine. Non vedeva l’ora di incontrare l’uomo giusto per lei, un uomo che potesse formare con lei una buona coppia cristiana. Iniziò a domandarsi dove avrebbe potuto incontrarlo, iniziò ad analizzare i ragazzi che conosceva per capire se potessero andar bene per lei, e dopo pochi mesi accadde quello che sperava: riconobbe il suo fidanzato, incontrò Domenico.
In Domenico vedeva tutto quello che l’uomo della sua vita doveva avere: era educato, rispettoso degli altri, generoso verso il prossimo, andava a Messa la domenica e per Pasqua e per Natale, aveva sempre aiutato i propri genitori, era un ottimo studente di Economia con una brillante carriera di manager d’azienda da seguire. Michela riconobbe in lui tutte queste qualità, o almeno a lei pareva che quella fosse la parte buona di lui. Ogni tanto infatti Domenico era sbracato, irriverente, giocherellone al limite del maleducato. Questo dava fastidio a Michela, e quel fastidio si trasformava in vergogna quando ciò accadeva in pubblico, o peggio davanti ai suoi genitori.
A ogni modo ormai aveva deciso. Si misero insieme, e gli amici di Domenico ne rimasero colpiti. Si stupivano che un tipo scapestrato come lui si fosse legato a una ragazza come Michela, ma Domenico sembrava contento, e a chi gli faceva obiezione lui rispondeva serio che Michela gli aveva fatto mettere la testa a posto.
Domenico col passare del tempo assomigliava sempre più all’uomo che Michela aveva sempre sognato. Passava nottate intere ad sentirle ripetere i vari programmi d’esame, l’accompagnava dalla sfortunata ragazza disabile, andava ogni venerdì sera a cena dai suoi genitori. Smise anche di fumare, perché Michela gli disse che fumare faceva molto male, e che a lei i fumatori non piacevano.
L’unica cosa che sembrava non andar bene era il sesso. Domenico voleva fare l’amore, ma Michela avrebbe voluto perdere la verginità dopo il matrimonio, e non prima come le ragazze facili. In realtà anche lei avrebbe voluto farlo, ma cercava di non pensarci perché non era così che le cose dovevano andare. La situazione rischiava di allontanarli, e anche se Domenico sembrava col passare del tempo aver accettato la castità, Michela continuava a percepirne il potenziale pericolo per la loro relazione. Così un giorno, rimasta sola con la sua mamma, le disse che voleva fare l’amore con Domenico prima del matrimonio, e le spiegò il perché. La mamma si fece il segno della croce, e disse che era una cosa sbagliata. Subito dopo, rimanendo seria, le strizzò l’occhio e se ne andò. Michela capì che poteva farlo.
Un giorno Domenico, che era di due anni più grande, si laureò. Si laureò con centootto, e Michela per l’occasione gli organizzò una festa come si doveva per un evento del genere. A dire il vero le dispiaceva molto del fatto che Domenico non avesse preso centodieci, e si rammaricò di non averlo potuto aiutare abbastanza durante i suoi studi. Del resto, pensò, non si può avere tutto dalla vita. A Domenico non piacevano le feste di laurea, ma visto che Michela era così contenta di avergliela organizzata non disse nulla.
Dopo la laurea Domenico ebbe un sacco di offerte di lavoro, anche importanti, ma Michela gli chiese di accettare un lavoro vicino a casa. Gli spiegò di quanto erano contenti lei, sua madre e suo padre nel vedersi ogni sera riuniti a tavola. Come avrebbe potuto stare con la sua famiglia tutte le sere, così come aveva fatto suo padre con lei, se fosse andato a lavorare lontano da casa, oppure semplicemente se avesse accettato un lavoro dagli orari interminabili? Domenico era indeciso. Da un lato gli dispiaceva molto rinunciare alla carriera, ma dall’altro non voleva deludere da sua futura sposa. Alla fine, ancora una volta, fu la mamma di Michela a risolvere il problema, a rimuovere gli ostacoli fra sua figlia e i propri sogni. Un giorno prese Domenico da parte e gli fece un discorso accorato sull’unità della famiglia cristiana. Domenico si convinse, e andò a lavorare in un piccolo studio di commercialisti a un paio di isolati da casa di Michela.
La laurea di Michela fu preceduta da un periodo carico di tensione per tutti. Nonostante i suoi sforzi, Michela non era riuscita negli ultimi tempi a tenere la media di voto che voleva, e rischiava di non ottenere centodieci. Una sera, durante la cena, ebbe una crisi isterica e si rifugiò in camera sua. Sua madre e suo padre ne parlarono preoccupati, cercando una via d’uscita al problema. Quando Michela tornò, suo padre, che conosceva molte persone influenti, le promise di darsi da fare per aiutarla con la commissione d’esame. Michela sapeva che questa non era una buona cosa, e anche la mamma si fece il segno della croce quando suo padre, sottovoce, disse cosa avrebbe fatto. Quella sera Michela ci pensò bene, e concluse che suo padre stava facendo ancora una volta la cosa giusta. Stava aiutando la sua unica figlia, cioè lei. E comunque, dalla mattina dopo fece di tutto per dimenticare ciò che aveva sentito, perché di per sé quello rimaneva un peccato.
Prese centodieci, e fu festeggiata come aveva sempre voluto esserlo. I suoi genitori organizzarono un ricevimento, e tutte le persone che conosceva furono invitate.
Domenico nel frattempo non aveva più amici. Era depresso e si lamentava del proprio lavoro, monotono e senza prospettive. Michela, assai dispiaciuta, per risolvere la cosa decise di mandarlo da un buono psicologo, dato che non c’era in verità niente di così grave di cui lamentarsi. Tutto sommato Domenico aveva lei, e la prospettiva di una buona famiglia.
Pochi mesi dopo anche l’altro suo sogno si realizzò: il matrimonio. Michela e sua madre scelsero i vestiti da sposa e da sposo, la chiesa nella quale svolgere la cerimonia, il luogo del ricevimento, le bomboniere e ogni altro dettaglio. Fu un lavoro incessante e a suo modo stressante, perciò Michela fu costretta a limitare gli incontri con Domenico.
Domenico nel frattempo era peggiorato, e una sera cercò di parlarne con Michela. Le disse che in quelle condizioni non sapeva più se fosse il caso di sposarsi. Lei lo abbracciò, e gli disse che erano sciocchezze, che sarebbe stato contento. Però questa cosa la preoccupò non poco. Il giorno dopo chiamò lo psicologo, e concordarono di aggiungere alla terapia alcuni farmaci antidepressivi.
Michela scelse anche una casa, la sua futura casa, nuova e bellissima, e fu suo padre a comprarla, anche se per far questo dovette spendere tutto quello che aveva messo da parte. Michela gliene era grata, e pensava che fosse doveroso da parte di un buon padre.
Il giorno prima del matrimonio Michela andò a confessarsi, e al parroco raccontò quella brutta storia di suo padre e le pressioni sulla commissione della sua laurea. Il parroco la assolse, e lei si sentì meglio.
Proprio davanti alla torta nuziale, circondata da composizioni di rose bianche, pensava che quello era il giorno più bello della sua vita, ed era esattamente come se lo era immaginato.
Voleva che niente di quello che aveva raggiunto cambiasse più. Ora che aveva un marito, una casa e una laurea, voleva dei figli, una casa più grande e il posto in magistratura.
Voleva continuare a vivere felice come lo erano stati i suoi genitori quando era piccola. Voleva una famiglia felice, una famiglia come si deve.
Il bianco del suo vestito da sposa, così carico di felicità, rifletteva pallido su Domenico, sua madre e suo padre, nascosti in piedi vicino a lei.

La bambina utile (microracconto). Bianca Madeccia


Bianca Madeccia
La bambina utile (microracconto).

La bambina utile un giorno aprì alle bambine inutili.
Era da molto che premevano alla porta, così, le lasciò entrare.
In pochi minuti, le bambine inutili presero possesso della casa.
La loro prima azione fu bruciare pile di libri da cui divamparono storie ardenti.
La fiamma, che mai prima aveva brillato tra quelle pagine, ora svettava incontrastata.
La cenere, bianca e compatta, riposava a terra, cipria cocente di rare pagine avoriate di buona grammatura.

(Da “La bambina utile”, inediti)

Biografia breve:

Bianca Madeccia, è giornalista. Ha pubblicato microracconti, sillogi poetiche, saggi, traduzioni. Suoi testi sono stati pubblicati in svariate antologie di poesia. È autrice di una raccolta poetica “L’acqua e la pietra” (LietoColle, 2007) e di due raccolte poetiche inedite e di un numero consistente di microracconti. È appassionata di fotografia, arte materica e installazioni che ama contaminare con la scrittura. Alcuni dei suoi esperimenti sono visibili sul suo blog: http://biancamadeccia.wordpress.com

(dipinto Cinderella di Sir John Everett Millais, 1881, olio su tela)

Daniela Rindi. Figlio della luna


Daniela Rindi
Figlio della luna

Venivo da Milano, avevo poco più di vent’anni e facevo l’attrice. Costretta a stare per lunghi periodi nella capitale, a causa delle prove, decisi di trasferirmi definitivamente. Cercare casa non era facile, gli affitti non erano alla mia portata, perciò tergiversavo approfittando delle amicizie, girandomi tutti i quartieri di Roma. Quella volta abitavo in vicolo dei Serpenti, la casa era dell’amica di una mia amica, in pratica una sconosciuta, anche lei attrice, ma molto più grande di me. La sera che arrivai, le dieci circa, mi accolse frettolosamente, mi fece vedere il letto e scappò via, urlandomi che non c’era niente da mangiare. Sbatté la porta. Buttai la borsa sul letto e comincia ad accusare il digiuno. Andai ad aprire il frigo, solo per curiosità, naturalmente. Due uova sode, una ciotolina di patate lesse, coperte con attenzione dalla pellicola trasparente, uno yogurt magro, un avanzo di burro. Anche se avessi potuto, non mi sarei fatta deprimere ulteriormente. Decisi di andarmi a comprare una pizza. Nel vicolo notai subito molta sporcizia, per terra siringhe, bottiglie e il cassonetto stracolmo. Le facce degli sconosciuti rovinate dall’indigenza, o dalla disperazione, o da entrambe, le donne erano, per lo più, puttane. Mi preoccupai dei miei ritorni a casa, la sera tardi dopo lo spettacolo. Mi feci fare una pizza tonda, in una pizzeria deserta, con le pareti ammuffite e l’aria che puzzava d’olio rancido, però il pizzaiolo era simpatico. Mi fece le battute da copione sul mio accento e mi raccontò del solito parente trasferito a Milano per lavoro. “Come si lavora bene là, ma la città, il tempo…”. Sì lo so, anch’io odio Milano, non solo per questo. Milano si odia e basta. Presi la pizza e andai a mangiarmela a casa. Era poco illuminata, due finestre davano sul vicolo, mentre quelle della cucina, camera e bagno, si affacciavano su un piccolo cortiletto interno, da dove si potevano lavare bene i panni sporchi dei vicini. Fu dalla cucina che assistetti alla scena. Iniziarono ad urlare, lui la insultava pesantemente, lei si difendeva piangendo, lui le tirò uno schiaffo, e lei gli sputò in faccia. “Sei una puttana, questo non è mio figlio!”. Lei aveva un bambino piccolissimo in braccio. “Sei un porco, come fai a pensare una cosa simile, schifoso!” Lui accecato dall’ira, continuava a negare, ad accusarla di tradimento, “Lui è biondo, troia!”. Lei si agitava, noncurante del bambino, strattonandolo, se avesse potuto lo avrebbe gettato dalla finestra. Non poteva difendersi. Lui approfittò, l’afferrò e le affondò la lama di un coltello nella pancia. Urlai, la pizza mi cadde per terra, non sapevo cosa fare, altri vicini si affacciarono e cominciarono ad urlare anche loro: “Chiamate la polizia, un’ambulanza! Presto!” Non avevo la minima idea di quale fosse il numero. Completamente nel pallone, incapace, inerme, frustrata, arrabbiata, non potendo aiutare quel neonato. La notte passò insonne, molta gente, macchine della polizia, ambulanza, chiacchiere, interrogatori. La mattina dopo, scesi per andare a bere un caffé, ero molto stanca, la strada era tornata silenziosa e io non riuscivo a togliermi dalla mente quella scena. Guardai il cassonetto, era stato svuotato, come il cuore di quel bambino.

“La flor más roja” un racconto di Ettore Maggi


Ettore Maggi
La flor más roja

A Gianni-san non piacciono le lame. Dice che sono da infami, e che quando hai una lama in mano, o un’arma qualsiasi, non sei più tu a usarla, ma è lei che ti usa. Gianni-san dice che quando hai una lama in mano puoi fare poco, sei troppo preso dalla volontà di colpire, e ti dimentichi che possono colpire te. Ti dimentichi che possono darti un calcio in un ginocchio, una bastonata, e buttarti giù.
Luciano ride, e dice che se avesse avuto una lama, a Verona, l’anno scorso, non andrebbe in giro con quel ricamo sulla faccia. Ma Gianni-san se ne frega, per lui non è un problema portare una cicatrice sulla faccia. Io credo che in fondo sia contento di averla.
Io ammiro Gianni-san, lui è il mistico del gruppo, infatti lo chiamiamo anche il Monaco. Gianni-san non beve e non fuma, e non mangia carne. Lo ammiro, però la lama ce l’ho, e anche Luciano e Roberto.
Roberto ha sempre anche il suo butterfly, e lo sa usare, lo fa girare in un modo assurdo, ma secondo lui il butterfly serve soprattutto per fare scena. Dice che è un’arma da camorristi, buona per spaventare e graffiare, oppure per ammazzare piantandolo di punta, ma non per combattere.
Io ho due coltelli, uno lo ha fatto mio padre, quando lavorava ancora alla raffineria. La lama proveniva da una valvola di scarico di un camion. Ci sapeva fare mio padre, se avesse fatto l’artigiano invece dell’operaio, chissà…
Ma il coltello di mio padre di solito lo tengo a casa.
Ci troviamo sempre nella nostra piazza, dietro il monumento. Questa è zona nostra. Abbiamo delimitato il territorio con le bombolette e con gli adesivi RedSkin e Sharp. L’altra sera al concerto della Banda Bassotti ne abbiamo presi altri. Io ho quelli con la stella rossa, Ama la musica odia il fascismo, e li ho attaccati anche a scuola ieri.
Mentre li attaccavo è passata la profe nuova, la supplente, quella che viene dal sud. Mi ha visto e ha sorriso. Mi piace, la profe nuova, ha i capelli neri, ricci e lunghi.
A volte la guardo, durante la lezione. Anzi, la guardavo, perché una volta mi ha detto di smetterla di fissarla, e io ho smesso, perché la rispetto. Non è come gli altri stronzi prof, lei è diversa. E poi è una compagna. Lo so, perché aveva la foto del Che sull’agenda.
Uno dei primi giorni mi ha visto la lama, avevo quella di mio padre. Non so perché, di solito non la porto in giro. E lei l’ha vista. Allora non la conoscevo ancora bene, la profe, e pensavo che fosse una stronza come quella che c’era prima, e quando ha visto la lama ho sorriso. Ma lei non si è spaventata. Allora ho capito che aveva le palle. E ho messo via la lama. Però poi lei un po’ di paura di me ce l’aveva lo stesso.
Tutti le dicevano che sono uno skinhead, e lei a vedermi rasato, con la Lonsdale e gli anfibi, mi credeva un bonehead, uno stronzo di skin fascio. Che poi adesso la Lonsdale la portano tutti i fighetti alternativi, ma comunque lei pensava che fossi un nazi di merda.
Un giorno ho visto che leggeva il diario del Che in Bolivia, e mi sono avvicinato.
Anch’io l’ho letto, profe.
Pensavo che fossi uno skinhead
, ha detto lei.
Sono uno skinhead, ho risposto.
Ho indicato le toppe sulle maniche del bomber. Da una parte RedSkin, dall’altra Sharp e Rash.
E lei mi ha chiesto RedSkin lo capisco, ma che significano Sharp e Rash?
Rash significa Red and Anarchist Skin Heads. Sharp invece significa Skin Heads Against Racial Prejudice. Skinheads antirazzisti, se preferisce.
Pensavo che gli skinheads fossero razzisti.
Quello sono i BoneHeads.
Pensavo che tutti gli skinheads fossero nazisti.
Lei crede a tutte le stronzate che dicono in televisione e sui giornali, profe?

Lei ha sorriso, e mi è piaciuto come lo ha fatto.
Hai ragione, ha detto.
Mi dispiace di averla spaventata, profe, quel giorno, con la lama.
Non mi sono spaventata. Quando insegnavo all’altro professionale, giravano coltelli più grossi.

Allora abbiamo iniziato a parlare tutti i giorni, e lei adesso mi presta un sacco di libri. Mi ha prestato di tutto, e di solito di notte resto un’ora a leggere i suoi libri. Quello che mi è piaciuto di più è Omaggio alla Catalogna, di Orwell, parla della rivoluzione spagnola, della guerra con i fascisti, degli scontri tra gli stalinisti e gli anarchici.
Quella parte l’ho capita un po’ meno, perché ci si sparava tra compagni invece di sparare ai fascisti? Ma non ho chiesto niente alla profe, e nemmeno a mio padre. Volevo chiederlo a Gianni-san, ma poi non ho detto niente nemmeno a lui. Alla profe perché non volevo sembrare ignorante, a mio padre perché non so mai se chiedergli qualcosa. A volte penso che mi consideri un coglione. Però mi ha fatto piacere quando mi ha regalato il coltello che aveva fatto. E quando è andato a parlare con la profe e lei gli ha parlato bene di me è rimasto sorpreso. Non ha detto niente, ma è rimasto sorpreso, lo so. Però era contento. Lo so, anche se non ha detto niente.
Una volta la profe mi ha prestato un libro di Hemingway. C’era un racconto che mi è piaciuto, La capitale del mondo. Parlava di un ragazzo spagnolo, un cameriere di Madrid, appassionato di tori e corride. Per scommessa con un altro cameriere, e per dimostrare di non aver paura, finge di essere un matador, con il grembiule, mentre il suo amico lo attacca con una sedia a cui ha legato due coltelli da cucina. La prima volta riesce a schivare, ma la seconda le lame lo feriscono e lui muore dissanguato. Ho raccontato la storia a Luciano, a Michele e a Roberto.
Roberto e Luciano dicono che loro avrebbero fatto lo stesso, invece Michele dice che quel ragazzo del racconto, Paco, era uno stronzo. Secondo lui non è stato coraggioso. Secondo lui solo un coglione muore così, squarciato da una lama legata a una sedia, fingendo di essere un torero.
Stasera, abbiamo trovato una scritta, sul muro di fronte alla nostra panchina: Milanese infame per te ci sono le lame. Sotto c’era un fascio.
A noi non piacciono i milanesi, soprattutto quegli stronzi fighetti che vengono nelle nostre spiagge d’estate, con le moto e le macchine. Però non ci piace nemmeno che qualcuno faccia delle scritte nella nostra zona. Abbiamo cancellato il fascio, ma la scritta abbiamo deciso di lasciarla, anche se Luciano non era d’accordo. Luciano dice che sa chi è stato, a scriverla. Ci sono dei boneheads che frequentano un pub, qua vicino.
Il loro capo è Lupo, uno skin alto e tosto. Pare che lui e Gianni-san fossero amici da ragazzini.
Luciano dice che dovremmo andare a cercarli e fargliela cancellare.
A me sembra una stronzata e gli altri sono d’accordo con me.
Siete tutti senza palle, dice Luciano.
È una stronzata, ripete Gianni-san.
Tu lo dici perché non vuoi metterti contro Lupo, dice Luciano. Lo sappiamo tutti che siete amici. Guardiamo Gianni-san.
Non siamo più amici. Però lo rispetto.
Ma lui è venuto qui a fare quella scritta.
Che cazzo ne sai che è stato lui?
Se non è stato lui, sarà uno dei suoi.
Appunto.
Va bene. Tu non vuoi metterti contro Lupo. Ma voi? Voi siete dei conigli,
dice Luciano.
Vattene a ‘fanculo, dice Michele.
Ci vado anche da solo, dice Luciano.
Tu sei fuori.
Tu invece sei un coniglio.
‘Fanculo. Non devo dimostrarti niente,
dice Michele.
Luciano ci guarda e se ne va. Siete tutti senza palle, grida.
Noi restiamo in silenzio e guardiamo Gianni-san.
Gianni-san è un mito, per me. È il più grande di noi, lavora insieme a Roberto in un magazzino di frigoriferi. Una volta il direttore del magazzino aveva cacciato via una ragazza, e lì sapevano tutti perché. Il direttore le aveva messo le mani sul culo e lei lo aveva preso a schiaffi.
La settimana dopo Gianni-san e Roberto lo hanno aspettato sotto casa, con i caschi integrali. Lo hanno aspettato nel portone, e quando lui è uscito dalla macchina non hanno perso tempo. Calci e pugni da rompergli le costole e il naso. Poi mentre Gianni-san lo teneva, Roberto ha tirato fuori la lama. Lo stronzo si è pisciato addosso, e Roberto gli ha lasciato un ricordo sulla faccia.
Così quando si guarda allo specchio se lo ricorda, dice Roberto, quando lo racconta. Gianni-san invece non dice niente. Sorride, e basta.
Entro a casa, vedo la luce dalla cucina. Mio padre sta guardando la televisione, e bestemmia. Mio padre bestemmia sempre quando guarda la televisione. Lo saluto e lui si volta e mi guarda, poi guarda l’orologio, e bestemmia.
Entro in camera, mi sdraio sul letto e guardo il coltello che ha fatto mio padre. Lo apro e guardo la lama. Lo tengo sempre qua vicino al letto, e lo guardo spesso. La settimana scorsa mio padre è entrato in camera e l’ha visto. Mi ha guardato e mi ha chiesto come andava la scuola, ma ha continuato a guardare il coltello.
Bene, gli ho detto. E al lavoro, come va?
Bene
, mi ha detto, ma so che non era vero. So che vogliono chiudere la fabbrica, anche se lui non ne ha mai parlato.
Poi mi ha chiesto perché tenevo lì il coltello, aperto, come se lo dovessi usare. Ho alzato le spalle. Non sapevo cosa dire, e anche lui è stato zitto.
Lascio il coltello aperto e prendo il libro che mi ha prestato la profe. È un altro libro di Hemingway, Per chi suona la campana. Mi piace, parla della guerra di Spagna anche questo, come quello di Orwell. Alla fine del libro Robert Jordan, l’inglés, come lo chiamano i suoi compagni spagnoli, rimane ferito e protegge la fuga degli altri.
Era tosto, l’inglés, un vero duro. Se vuoi essere rispettato, devi essere duro. Il problema è che se vuoi essere duro, lo devi essere sempre. Questo è più difficile.
Anche la profe è dura. Non si è spaventata quando ha visto la lama. Secondo me un po’ di paura ce l’aveva, ma se la è tenuta dentro. Essere duri è questo, non serve portare una lama in tasca.
A scuola oggi non c’era la profe. Dicono che è malata. Mi dispiace che stia male, e poi avrei voluto vederla, oggi, e parlare con lei. Lei è l’unica profe con cui riesco a parlare. Volevo anche restituirle il libro di Hemingway. Nell’intervallo vedo Michele, e mi viene da chiamarlo Miguel. Sarà che ho letto tutti quei nomi spagnoli. Miguel mi dice che Luciano ieri è andato nel pub dei boneheads.
Che cazzo dici?
Ti dico di sì. Ha rubato un bomber, e dentro c’era una lama.

Andiamo a cercare Luciano. Ha un bomber verde militare con lo scudetto italiano sulla manica destra. Sulla sinistra c’è uno strappo.
C’era una svastica. Quella l’ho tolta e l’ho buttata nel cesso, dice Luciano.
Miguel mi ha detto che c’era una lama, dentro.
Chi cazzo è Miguel?
Lui
, dico indicando Michele.
Luciano mi fissa come se fossi pazzo, poi si guarda in giro e mette una mano in tasca.
Eccolo, dice.
La lama scatta e brilla al sole.
Non si può più dormire, la luna è rossa, rossa di violenza, bisogna piangere i sogni per capire. Non ricordo come continua la canzone, la cantava la Banda Bassotti al concerto, ieri sera, questa canzone, ma non la ricordo tutta.
Sono tosti, quelli della Banda. Romanacci, ma tosti, compagni di quelli duri. I romani non mi piacciono molto, una volta ho conosciuto una ragazza, una che ha lo stesso nome di quel regista romano. Era una stronza, una che se la tirava da alternativa impegnata, ma era una stronza, e poi faceva l’intellettuale, con tutti i suoi amici alternativi ed era più ignorante di me. Invece quelli della Banda Bassotti sono muratori, mica fighetti alternativi che se la tirano da intellettuali, loro fanno i muratori, Avanzi di cantiere, come dicono loro.
Al concerto siamo andati tutti. Io, Gianni-san, Miguel, Luciano e Roberto. Era bello, eravamo tutti compagni, un sacco di skin. In realtà non tutti erano skin, ma stavamo tutti insieme, bevevamo tutti insieme e ballavamo tutti insieme, e non c’è stato nessun casino e quando la Banda ha attaccato Ska Against Racism cantavamo tutti Di che colore è la rabbia che corre dentro le vene, un rosso sangue che ad ogni battito griderà sempre più forte Ska Against Racism!
Mi piace andare ai concerti. Mi piace ballare lo ska. Una volta ho sognato che ballavo a un concerto, suonavano tutti gruppi ska, tutti gruppi tosti, c’era anche la Banda. C’erano tutti i miei amici e c’era anche la profe, e ballava con me.
Chissà come riderà, quando glielo dirò. Riderà, però a me piacerebbe davvero ballare lo ska con lei.
C’era anche un’altra canzone che cantava la Banda, la cantavano in spagnolo, El Quinto Regimiento, una canzone della guerra civile spagnola, e a me mi sono tornati in mente i libri che mi ha prestato la profe, e pensavo a Robert Jordan e a El Sordo, a Pablo e a Pilar, pensavo a Maria, e cantavo Anda Jaleo Jaleo, suena la ametralladora, y el cabrón se va a paseo, e pensavo di assaltare il ponte e mi vedevo ferito, e dicevo agli altri di scappare e sparavo con la mitragliatrice e cantavo Con el quinto, el quinto, el quinto regimiento, madre yo me voy al frente, para la linea de fuego.
Oggi sono stato in biblioteca. Quando sono entrato mi hanno guardato male, c’era la tipa che abita vicino a casa mia, mi ha chiesto se avevo bisogno di qualcosa. Gli ho detto che volevo fare la tessera. Mi ha guardato come se non capisse, allora l’ho ripetuto e lei ha continuato a guardarmi, ma non si è mossa. Stavo per incazzarmi, stavo per dirle Che cazzo vuoi, stronza, non sono degno della tua tessera di merda?
Poi è arrivata un’altra tipa, una vecchia, gentile, mi ha fatto lei la tessera.
Le ho chiesto quanto costava e lei ha sorriso e ha detto Niente, ragazzo, la tessera è gratuita.
Allora le ho chiesto se avevano libri di Fenoglio. Ce ne ha parlato la profe a scuola, e volevo leggere qualcosa. Fenoglio era uno con le palle, ha fatto il partigiano, ha combattuto contro i fascisti. La vecchia gentile mi ha detto che avevano Il partigiano Johnny, La malora e La paga del sabato.
Non sapevo cosa prendere, allora lei mi ha detto Per iniziare leggi La paga del sabato.
Di che cosa parla?, le ho chiesto.
Di un ex partigiano che dopo la guerra diventa un contrabbandiere.
La storia mi piaceva. L’ho preso in mano, e l’ho sfogliato. Poi ho sorriso.
Che c’è? mi ha detto.
Credo che mi piacerà. Il protagonista si chiama Ettore. Si chiama come me, ho detto e la vecchia gentile ha sorriso.
È un bel nome Ettore, ha detto.
La luna stasera è davvero rossa. Miguel è seduto accanto a me nella panchina, Luciano beve una birra. Stasera la lama l’ho lasciata a casa. Abbiamo visto una macchina delle Giacche Blu girare attorno alla piazza, e Gianni-san e Roberto sono andati via. Torneranno più tardi, forse. Ma vorrei che fossero già qui quando vedo i boneheads.
Non sono tanti, solo tre, ma dall’aria dura. Uno si fa avanti. È impossibile non riconoscerlo, è Lupo. Gli altri restano dietro, ci guardano e sorrido. Si sentono sicuri dietro Lupo.
Dov’è Gianni?, dice, e la sua voce è bassa, calma.
Luciano si alza, si pianta davanti a loro, non troppo vicino, e lo guarda.
Non c’è. Che vuoi da lui?
Lo sai quello che voglio.
Gianni non c’entra. Ce l’ho io la lama.
Allora dammela, e finisce lì.

Luciano ci guarda. Miguel annuisce. Io anche. Ma capisco che non può cedere così.
Adesso è mia, dice Luciano. Che mi dài in cambio?
I due boneheads dietro Lupo ridacchiano.
Che figlio di puttana.
Ti ha fregato la lama e vuole anche qualcosa in cambio, Lupo.
Spaccagli il culo, Lupo. Spaccagli il culo a quel rosso di merda.
Rotto in culo bastardo.

Lupo dice ai suoi di stare zitti, ma nemmeno lui può cedere. Luciano risponde agli insulti. Miguel mi guarda. Sta sudando.
Dove cazzo sono Gianni-san e Roberto? Roberto con i suoi nunchaku e il butterfly, Gianni-san con la sua forza.
Lupo si lancia contro Luciano. Uno dei boneheads viene verso di me. È della mia taglia, basso e tozzo. Mi slaccio la cintura e la faccio roteare. Lo colpisco sull’orecchio, ma lui non sente niente. E tira fuori la lama.
Allora ho paura. Mollo la cintura e indietreggio. Miguel si gira e mi guarda, e si prende un cazzotto, ma anche lui sembra non sentirlo, poi finisce a terra e prende calci e pugni dai due boneheads.
Miguel continua a guardarmi. Io indietreggio ancora, poi scappo.
Gianni-san e Roberto sono davanti al portone di casa. Fumano e mi guardano. Sì, guardano me. Perché mi guardano? Perché mi guardano così?
Che cazzo è successo, dice Roberto.
Niente. Non è successo niente.
Non dire stronzate. Che cazzo è successo?
Niente
, ripeto. Non è successo…
Poi vedo gli occhi di Gianni-san. Merda. Perché mi guarda così?
I boneheads… riesco a dire. I boneheads. Lupo e altri due.
Roberto getta la sigaretta e inizia a correre. Gianni-san continua a guardarmi. Non dice niente, non parla, ma i suoi occhi sì. Dicono che sono un coniglio. Dicono che sono un infame. Poi inizia a correre anche lui.
Allora resto solo. Non voglio restare solo. Corro, e mi manca il fiato, le gambe sono di legno, la gola brucia, ma arrivo fino alla piazza.
Miguel e Luciano sono a terra, pestati a sangue. Gli hanno portato via bomber e anfibi. Sentiamo una sirena e arrivano sbirri e ambulanza, ma le Giacche Blu non ci vedono, così possiamo allontanarci.
In silenzio, perché Roberto e Gianni-san non parlano. Ma so cosa stanno pensando. Roberto prende nunchaku e lama, infila il casco, sale sulla vespa dietro a Gianni-san. Io non esisto più, per loro, sono diventato invisibile.
Mi siedo e li guardo mentre si allontanano.
Se va lo mejor de España, la flor más roja del pueblo.
Penso a Robert Jordan. Poi mi alzo e li seguo. Sono scomparsi, ma so dove stanno andando. Li seguo, e inizio a cantare.
Con el quinto, el quinto, el quinto, con el quinto regimiento, madre yo me voy al frente, para la linea de fuego.
Arrivo davanti al pub, Gianni-san e Roberto sono già dentro. Suena la ametralladora, inglés?
Una ragazza urla. I boneheads sono tanti, troppi, ma noi non abbiamo paura, noi siamo lo mejor de España, la flor más roja del pueblo.
Lupo è davanti ai suoi. Guarda Gianni-san, ma non si muove, e nemmeno Gianni-san si muove.
Io cerco di avvicinarmi ai miei amici, alla flor más roja del pueblo, ma un nazi viene verso di me, Anda Jaleo Jaleo, suena la ametralladora. Gli spacco una sedia sulla testa, poi lo prendo a calci, y el cabrón se va a paseo, afferro un’altra sedia e cerco di raggiungere i miei amici, la flor más roja, ma un altro bonehead mi scaraventa contro un tavolo. Urlo, ma non per il dolore, poi mi rialzo, e lui tira fuori una lama.
Gianni-san mi guarda, poi guarda lui, poi me. La mia lama, quella che mi ha regalato mio padre è sul comodino, l’altra chissà dove.
Il bonehead è davanti a me, ma non si avvicina. Se avessi portato la lama di mio padre, adesso la tirerei fuori. Gianni-san mi guarda ancora, tutti ci guardano adesso. Sono fermi e ci guardano. Perché ci guardano così?
Il bonehead continua a guardarmi senza muoversi. Suda, ha la faccia bianca.
Avanti, urlo, dài, vieni! Vieni, cabrón!
Anche i suoi amici lo guardano, lo stanno guardando come Gianni-san e Roberto guardano me. Poi vedo la gamba di legno della sedia che ho sfasciato prima e la prendo. Gianni-san mi ha insegnato a usare i bastoni.
Vieni!, urlo ancora al bonehead, Vieni, cabrón!, ma lui resta fermo. Mi lancio verso di lui, lui si muove e allora lo sento. Sento il freddo del metallo. Sento lo squarcio, lo vedo, e vedo la faccia del bonehead che diventa ancora più bianca e la lama cade a terra.
Uno di loro urla Che cazzo hai fatto? Poi scappano, scappano tutti, anche Roberto. Lupo si ferma un attimo sulla porta, si volta, mi guarda, scuote la testa, poi guarda Gianni-san, ed esce.
Gianni-san è rimasto, si inginocchia vicino a me, e si sporca di sangue anche lui, e mi chiede se mi fa male.
Non mi fa male, non tanto, credevo che uno squarcio così facesse più male. Poi penso al libro della profe. Come faccio, adesso? Si incazzerà se non le restituisco il libro, non me ne porterà altri, e magari non parlerà più con me. E anche la vecchia gentile della biblioteca.
Diglielo, alla profe, che glielo restituisco…
Gianni-san mi guarda, ma non dice niente, o forse sono io che non riesco a sentirlo. Chissà cosa pensa di me, adesso.
Chissà cosa penserà di me Miguel. Chissà se penserà che sono un coglione come Paco o un duro come Robert Jordan.
Chissà cosa penserà di me la profe.
Chissà cosa penserà mio padre.
Chiudo gli occhi e inizio a cantare, la voce mi manca, ma mi sforzo, Anda Jaleo Jaleo, suena la ametralladora, e Gianni-san canta con me, y el cabrón se va a paseo, y el cabrón se va a paseo.

pubblicato su concessione dell’autore
il racconto è tratto da “Il gioco dell’inferno”
di prossima uscita per Besa Editrice

ETTORE MAGGI
è nato a Cagliari da padre genovese e madre sarda, e ha quasi sempre vissuto a Sestri Ponente (Genova). Lavora come tecnico di laboratorio precario nella ricerca scientifica da dodici anni. Attualmente lavora a Milano.

Nel 2003 ha vinto la sezione giovani del Premio Letterario Teramo 2003, presieduto da Walter Pedullà. È presente in diverse antologie di vari editori quali Addictions, Carabà, Ed. Terzo Millennio, Sonzogno e Mondadori (“L’uomo nel cerchio”, “La donna nel ritratto”, “Brividi neri”, “Non siamo stati noi. Racconti sul G8”, “Passi nel delirio”, “Fez, struzzi e manganelli”, “Professional Gun”), sarà ospite anche dell’antologia “Anime nere 2” di prossima uscita con Mondadori. Ha pubblicato un racconto sull’Agenda FNAC 2004 (insieme a C. Lucarelli, A. G. Pinketts, Alan D. Altieri, Alessandra C. e altri autori). Ha tradotto per la casa editrice Alacrán i romanzi Whiskey Sour di J. A. Konrath (2007), Corpus Delicti (2007) di Andreu Martín, Cronache di Madrid in nero (2007) di Juan Madrid. Collabora attualmente con la rivista letteraria M-Rivista del Mistero, con Sonzogno e con la casa editrice Alacrán di Milano. Ha pubblicato su Addictions, Il Foglio Letterario, M-Rivista del Mistero, Cronaca Vera, Confidenze, Il Segnalibro. Ha collaborato con la rivista AltroQuando-ArtVillageMagazine di Bologna nel 1999-2000.
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"La ragazza sordomuta", di Dora Albanese


Dora Albanese
La ragazza sordomuta

Edith allunga la piccola mano verso il cappotto di uno di quei due signori; il suo corpo si sposta e tira – con un leggero sforzo, quasi impercettibile, tanto che non trattiene nulla tra le mani, nessun lembo di stoffa, nessun bordo di certezza.
– Prendetemi con voi, non vi darò fastidio, sono qui, proprio dietro i vostri corpi, tenuta al caldo dalle vostre ombre tanto cercate, non lasciatemi di nuovo al sole, non spostate il passo di un solo centimetro, avvolgetemi, non girate l’angolo senza prima voltarvi, accorgetevi di me, vi prego, sono a un passo da voi -.
Le ombre dei due signori si dividono, aprendosi come si apre un sipario, lasciando di nuovo Edith al centro del palcoscenico, sotto il sole della grande vetrata dell’orfanotrofio.
La piccola resta ferma con le mani nelle tasche del grembiulino di stoffa a fiori, fatto su misura da suor Diletta – quella che le offrì un abbraccio per coprirla dal freddo dell’abbandono.
Piega la testa rosso rubino verso la spalla destra, mentre il sole sembra non voler tramontare mai dai suoi capelli; piuttosto succhiare, succhiarne tutto il colore, come per trarne energia – mentre i raggi, che le cingono il capo, appaiono come un’aureola infiammata.
Edith s’inginocchia e prega, unisce le mani, puntandole verso il cielo, alza il volto bagnato dal sole – ha sul viso i lineamenti di una giovane madonna, forse la madonna dei boschi, quella madre che, almeno una volta nella vita, ogni uomo ha provato a immaginare.
Due gocce le scivolano pastose dagli occhi, percorrendo la curva del naso, e fermandosi proprio sotto le mascelle.
Ha gli occhi scuri; e il naso, che le cade dritto, si unisce in una punta ottocentesca, che fa appena ombra sui contorni delle labbra superiori, rendendo quasi invisibile il piccolo porro cresciutole proprio là, al centro delle labbra.
Ora una ruga si impone – come fosse una cicatrice – e le divide la fronte a metà.
È triste, di una tristezza che ha trovato nido nella sua cassa toracica, nel suo ventre, in ogni vertebra, come un elemento in più, da non poter mai più eliminare.
Erano già cinque anni che era chiusa in quell’orfanotrofio, cinque anni che aveva smesso di parlare e di sentire.
Sua madre era una cantante, e raccontava sempre a Edith che, se avesse avuto una figlia, l’avrebbe chiamata come il suo idolo, Edith Piaf, e che l’avrebbe fatta diplomare al conservatorio, le avrebbe fatto suonare il pianoforte, le avrebbe messo a disposizione ogni mezzo per poter divenire una cantante affermata; suo padre, invece, era un insegnante di latino, contrario ai discorsi di sua moglie, che destabilizzavano la fanciulla, portandola in un mondo incantato, troppo lontano dalla quotidianità.
Edith, dunque, era in mezzo a due sogni: quelli paterni, che la vedevano dietro una scrivania, ad insegnare latino; e quelli materni, che la vedevano cantare nei migliori locali parigini. Di certo la sua estrazione borghese non l’avrebbe fatta morire di fame, nel caso questi sogni non si fossero avverati, e la piccola ne era consapevole, perciò annuiva senza fatica.
Sua madre – Caterina, italiana d’origine – era una donna giovane, bella, di una bellezza panica, rossa nei capelli e scura negli occhi, longilinea e accattivante nella voce; aveva sposato il suo insegnante di latino per sfida e per capriccio, pentendosene subito dopo – erano troppi gli anni che li dividevano, e troppe le diversità caratteriali.
Suo marito le impedì da subito di andare a cantare nei locali; non era bene che la moglie di un professore di liceo si esponesse in luoghi frequentati da gente così.
È proprio in uno di questi locali – frequentati di nascosto – che conobbe Giorgio, un chitarrista italiano. Non passò una settimana da quell’incontro che i due si innamorarono e decisero di lasciare la Francia e tornare in Italia.
Caterina, dunque, lasciò da parte tutti gli altri sogni, visto che il suo – quello di poter cantare in giro per il mondo, e di poter ritornare nella sua Italia – si stava appena avverando.
Cinque anni addietro abbandonò Edith davanti alla chiesa di Rue de la Fenac – la piccola allora aveva sei anni, ed era già troppo grande per dimenticare il tradimento materno.
Così svanì sua madre, percorrendo un viale alberato d’autunno – memoria senza più lineamenti, perché a rimanere è solo l’essenza. Ci vuole poco tempo per perdere la memoria di un ricordo.
Ad accoglierla fu proprio una monaca, suor Diletta, che poi le fece da balia all’interno dell’orfanotrofio.
Tutti sapevano che Edith era una bambina sordomuta, e tutti, specie i bambini, la evitavano, intimoriti da quell’ambiguità.
Indossava sempre la solita maglia nera con pallini bianchi, scarpette da ginnastica maciullate alle punte, e pantaloni neri corti alle caviglie, di una taglia in meno.
Le famiglie che frequentavano l’orfanotrofio – per scegliere quale giovane orfano prendere con sé – quando incontravano Edith restavano un po’ attoniti; la guardavano, le sorridevano, le dicevano parole dolci, giusto per sentirsi dei benefattori, per conquistare la sua benevolenza.
Gli esseri così incompleti sembra nascondano dei misteri, come fossero sacerdoti o angeli del Purgatorio – e l’uomo teme il silenzio sfingeo, e vorrebbe essere benedetto da questo mutismo contemplativo.
Edith allora li seguiva, con gli occhi e con i piedi; li seguiva e certe volte si aggrappava ai loro cappotti, tirando, come unico gesto di approvazione, ma poi tutti andavano via, spaventati, verso bambini dai colori meno vivaci, con la carnagione limpida e gli occhi del cielo.
Utilizzava la notte, Edith, per sciogliere la lingua dai crampi. Andava in bagno, tappava con una pallina di carta igienica il buco della serratura, e cantava sottovoce le canzoni della sua infanzia, quelle di Edith Piaf, che piacevano tanto a sua madre. E proprio in quei momenti pensava a lei, e a quei sogni rimasti incastrati in un cassetto, a quel padre che non l’aveva mai cercata, e che forse si era rifatto una famiglia. Tutta la rabbia di colpo esplodeva, riempiendole il viso di macchie rosse, annebbiandole la vista, facendola tremare.
Suor Diletta le dava sempre dei tranquillanti prima di andare a dormire – gliel’aveva prescritti la neurologa dell’istituto -.
Nessuna suora sapeva parlarle; solo suor Diletta sapeva farlo, con certi movimenti veloci e sincopati delle mani, con smorfie labiali, e con sorrisi. Alcune monache provavano ad offrirle balocchi, altre si limitavano ad accarezzarle i capelli, ma nessuno era riuscito ad entrare nel suo segreto, a nessuno mai era venuto il sospetto.
Nessuno si preoccupava d’interrompere certi discorsi, quando passava Edith.
Una di quelle notti si sentì morsa dal nervosismo; la lingua le faceva male più del solito, i crampi erano intensi e duravano molto, le orecchie le fischiavano. Aveva appena gettato i tranquillanti nel water, dato la buonanotte alla suora amica, messo la vestaglia, atteso sotto le lenzuola che il sonno arrivasse, ma i dolori erano acuti, le labbra le tremavano, la palpebra destra le pulsava, era in preda a un terrore panico, e non sapeva cosa fare, aveva appena rifiutato di prendere i tranquillanti – quelle pillole la indebolivano, le facevano girare la testa -.
Iniziò a credere di essere diventata pazza, di non avere più nessuna possibilità di salvezza, nessuna via d’uscita dal suo segreto, del quale era diventata prigioniera.
Un segreto che somigliava sempre più a una condanna.
Aprì la finestra della stanza. Vide la brina sugli alberi e sulle foglie, e anche le strade, ricoperte da uno strato sottile di giaccio, brillavano sotto i fanali delle macchine, che improvvisamente rallentavano.
Quella era proprio una di quelle notti fredde e buie quando la luna sembra non arrivi a illuminare tutta la terra. Edith decise di fare un giro nell’istituto, e magari fermarsi a recitare di fronte alla statua di Sant’Anna un atto di dolore, ma una voce, che somigliava a un lamento – sembrava fosse un fantasma che veniva a punire la sua anima menzognera – iniziò a farsi sentire, a penetrare nella mente di Edith.
La fanciulla fu pervasa da un tremore che la bloccò di spalle al muro. Persa e rassegnata, iniziò a pregare a voce bassa; pregava, chiedendo perdono per quelle menzogne, per aver mentito a tutti, anche a suor Diletta – per averle negato ogni parola di ricompensa. E mentre pregava, il lamento si faceva sempre più acuto.
Si accorse, respirando ansiosamente nel silenzio, di una porta socchiusa – era da quella porta che fuoriuscivano i lamenti. Lamenti che nessuno avrebbe mai raccolto, vista la collocazione del ripostiglio. Si affacciò e vide. Dunque nessun fantasma si stava lamentando, ma un bambino, fatto di pelle e di ossa. Un bambino che chiedeva alla suora, che era nella stanza con lui, di lasciarlo in pace, di smetterla di molestarlo. Un bambino di dodici anni – un ragazzo, ormai – che da chissà quanti anni subiva in silenzio le molestie sessuali di quella monaca perversa, che lo costringeva ogni notte a fare l’uomo.
Edith, già molto provata, tirò un respiro, bloccandolo negli addominali, si piegò sulle ginocchia, slacciò i lacci e ne prese uno in mano, diede un calcio alla porta, e gridò, gridò con tutta la forza che aveva in corpo:
“Basta, basta, basta…”.
La suora si voltò; era spaventata da quella figura diabolica, da quel segreto svelato; cercò allora di aggredirla, di soffocare le grida improvvise della bambina. Invece il ragazzo, rannicchiato in un angolo, rivestiva le sue nudità ferite. Edith afferrò la suora dai capelli, la strattonò a terra, e le strinse il laccio in gola, finendola così – finendola tra le urla del ragazzo, e quelle della Madre Superiora che, però, accorse troppo tardi.
Qualcuno gridò al miracolo, quella notte: la sordomuta aveva gridato, la sordomuta aveva sentito.

FISH!. Un racconto di Alessandro Milanese


Alessandro Milanese
FISH!

Era un martedì sera. O un mercoledì. Adesso non ricordo di preciso, mi ricordo solo del divano e di mio padre svenuto sopra. Telecomando incastrato sotto il cuscino, la luce della partita di coppa che gli sbatteva sugli occhiali. Io ero seduto, finivo un qualsiasi 4 salti in padella, terminandolo con una delle mie solite scarpette. Luca entrò. Si sentiva un fruscio, come di qualcosa trascinato per terra. Nostra madre non c’era. Una riunione urgente in parrocchia, lei e le altre perpetue. Inzaghi cercava il suo famoso tuffo carpiato e mio fratello cercava di raggiungere camera nostra senza farsi notare. “Dove cazzo vai?” Il vocione rauco del nostro genitore lo fermò. “Ho voglia di farmi una doccia”. Il rumore del sacchettone non era passato inosservato, purtroppo. “Cosa minchia hai comprato di nuovo ?” Alzai la testa dal piatto semivuoto. “Un paio di scarpe”. Il cuscino rimase orfano della testa quasi completamente calva. Si alzò. Prese il sacchetto. Lo girò al contrario, svuotando il contenuto. Un paio di scarpe. Un altro paio di scarpe. Un terzo paio di scarpe. Un paio di calze. Un paio di suolette. Lo scontrino. Lesse, senza proferire una parola. Non feci a tempo ad intervenire. “Ho ipotecato questo schifo di casa per farti ritornare ad essere un essere umano e tu continui ad essere solo un grandissimo stronzo!”. Luca fissava il pavimento, poi dopo un lungo respiro. “Mi sono fatto inculare da quel maledetti coglioni del negozio, non so cosa mi sia successo, mi sono ritrovato con tutta sta roba!”. Al posto del ceffone un solo sguardo, gelido, terribile. Poi il nulla, si voltò. Quando riprese posto sul comodo beige, ritrovò Inzaghi che si lamentava per l’ammonizione ricevuta per la simulazione.Luca entrò in camera e dopo 10 minuti, accompagnato da un borsone marrone, riapparse nel soggiorno-cucina. Ci guardammo e prima di scomparire nel corridoio mi disse solo. “Stammi bene”. L’ultima volta che ho visto mio fratello. Son passati più di 2 anni. 3 cartoline. Berlino, Londra, Barcellona. Sempre e solo intestate a me. Poche parole, senza gran senso, i miei mai menzionati. Nessuna telefonata, nessun indirizzo, niente.

Luca non era più lui. I 15 mesi in comunità l’avevano cambiato, radicalmente. Era tornato pulito, anzi pulitissimo, ma vuoto. Come se gli avessero prosciugato l’anima. Quieto, mansueto, quasi irritante per tanta tranquillità. Un’altra persona. L’immane testa di cazzo che a 16 anni girava l’Europa da solo e tornava dopo mesi devastato e in stati incredibili ero sparito, per sempre. Al suo posto un quasi trentenne immerso nel suo nuvoletta privata e quasi totalmente assente. Lui che prendeva a calci in culo la vita, prima la sua. Lui che era il mio eroe quando ero poco più di un bambino. Passava coi suoi capelli colorati, con le sue magliette con dei nomi assurdi sopra, una specie di santone antagonista. I miei amichetti dell’epoca m’invidiavano, nella loro stupidità. Non immaginavano cosa ci attendeva. I primi viaggi nella grande metropoli. I primi concerti in giro con la sua piccola-grande punk rock band. Le prime delusioni, le sconfitte. L’eroina. Gli anni a seguire. Lo sfascio, il disastro. Il tentativo di riordinare le cose. I sacrifici dei miei. La cascina in campagna, una comune ad una trentina di chilometri da casa nostra. Le mie visite, due volte al mese. Salivo con la panda di mia madre, azzurrina quasi blu. Le prime volte sembrava felice di aver cambiato guidatore. La lanciavo nel pezzo di statale leggermente in discesa. Mettevo la quarta e pian pianino spingevo fino in fondo, toccando tacche del contachilometri mai neanche sfiorate, come a scoprire un mondo nuovo, nuovi territori. Lei rispondeva entusiasta, sfoderando un bel rumorino di marmitta leggermente arrugginita. Prendeva coraggio e negli ultimi chilometri in leggera salita si arrampicava generosa tra una vigna e l’altra. Quando arrivavo lo trovavo sempre in cortile che mi aspettava. Lavato, ordinato, non sembrava neanche lui. Pranzavamo insieme, parlando delle cose di sempre. Mi diceva di essere contento dell’esperienza, di star lavorando sodo e che il “don”, come lo chiamavano loro, era il primo prete con cui avesse scoperto di aver qualcosa da dire. Gli facevo sentire qualche gruppo in ascesa con il mio lettore cd e lasciavo qualche cd nuovo per i quindici giorni a seguire. Poi ci salutavamo, lui ritornava in gruppo per i lavori di manutenzione della azienda agricola. Prima di ripartire mi fermavo dal don nel suo piccolo ufficio per far due parole su mio fratello. “Tuo fratello è una persona fantastica, a volte sai mi tocca avere a che fare con persone che forse non meritano quello che cerchiamo di fare per loro, ma lui è diverso, è buono dentro”. Tutte le volte quei piccoli dialoghi mi scuotevano. Afferravo bene il volante della piccola fiat e mentre le gomme fischiavano per i bruschi inserimenti in curva alcune piccole gocce salate scendevano a valle. Quell’anno passò così. Cd nuovi, cd vecchi. Cambiai le gomme terminate del panda, che col passar del tempo ritornò ad essere la macchina più lenta della provincia, quasi sfinita per quella seconda giovinezza forse eccessiva. Arrivò ottobre e a pochi giorni dalla scarcerazione definitiva ci fu un concerto in cascina per recuperare fondi. Andai su con qualche amico fidato. Non era un vanto avere un fratello tossicodipendente, ma alcuni di loro lo conoscevano da anni e mi sembrò giusto dividere con qualcuno una cosa importante come quella. Gli Africa Unite infilavano i loro pezzi, uno uguale all’altro. Le trecento anime affollavano lo stanzone e il sudore misto vapore appannava qualsiasi vetro. Luca leggermente brillo e felice ballava come un qualunque figlio di Bob Marley. Lui, che avrebbe ucciso pur di non sentire un disco reggae. Lui, in mezzo a noi altri, che faceva piroette e saltava come un invasato ad ogni inutile accordo in levare. Quella sera c’era solo lui.

Due settimane dopo ritornò all’ovile. Trovò un lavoro in un azienda agricola fuori città. Usciva prima delle 7 del mattino, pranzava in cascina da loro e ritornava per ora di cena. Taciturno, sempre con un sorriso d’ordinanza impresso sulla faccia. Con i miei sempre poche parole, come se sia lui sia loro avessero paura di rompere qualcosa parlando. Io provavo a portarlo fuori, qualche concerto, qualche uscita con amici. All’inizio sembrava funzionare, ma qualcosa si inceppò presto. Alle volte bastava una battuta o una sciocchezza qualsiasi e cadeva in una forma di distacco quasi catatonico. Si estraniava. Si autoescludeva da tutto, come se non si sentisse all’altezza di essere lì con noi. Aveva un peso troppo pesante da condividere con qualcuno. Così cominciarono i rifiuti, le scuse. Con me il rapporto diventò un pelo più freddo, continuarono le chiacchierate, i soliti scambi musicali, ma non ci fu più l’occasione di passare una serata insieme ad altra gente. Solo noi due, al massimo. Cercavo di capire se tutto andava per il meglio, se c’era qualche problema, e lo scongiuravo di dirmi sempre tutto, di qualsiasi cosa si trattasse. Le parti si erano invertite. Mio fratello grande che mi difendeva dagli idioti quando ero solo uno sbarbato magro, timido e con la brutta abitudine di parlare poco e a sproposito, adesso era diventato il fratello piccolo, che ha bisogno di qualcuno. Qualcuno che lo informasse che la gente ha la bella abitudine di cercare di inculare il prossimo. Qualcuno che lo proteggesse da un mondo che all’improvviso era diventato troppo grintoso per lui.

Lavora, vendi, compra, consuma. In campagna si trovava a suo agio. Il padrone parlava poco e in dialetto. Dava solo un paio di indicazioni al mattino sui lavori da fare, su quali appezzamenti di terreno dividersi, e poi chiamava la pausa pranzo e al calare del sole rimandava tutti a casa. Luca era il solo italiano. Gli altri 7/8 erano per lo più marocchini e tunisini. Si presentavano al mattino, venti minuti prima dell’orario prestabilito con il loro sacchetto plastica, con qualche bottiglia d’acqua e un maglione di ricambio. Alcuni di loro ogni tanto sembravano sulle spine, come se dovesse succedere qualcosa da un momento all’altro, come se non avessero il permesso di soggiorno. Pranzavano tutti insieme e il dialetto del basso Monferrato si mischiava con quello nord africano. Al secondo bicchiere di vino il padrone ritirava la damigiana e il goccio di grappa per pulire la tazzina del caffè era esclusiva sua e di Luca. “Sti giargianeis chi le mei chel bevu nient di tut, a son già ciuch acsi, e dop, dopdisna a travaiuma ammachi nui ater“.

Lo scontrino rimase su quel tavolo per tutta la notte. Era li, da solo. Il grande sacchetto aveva finito la sua avventura nella pattumiera e lasciava indifeso quel foglio di carta con in fondo una cifra. 356,00 €. Quei grandissimi pezzi di merda avevano fatto spendere mezzo stipendio a mio fratello per tre paia di scarpe, una suoletta e un paio delle loro stupide calze. Passarono un paio di giorni. Al primo turno favorevole, una mattina 6-14, passai dal negozio, erano all’incirca le 5 del pomeriggio. Il negozio era vuoto. Entrai piano, procedendo lentamente sul perimetro facendo finta di curiosare tra le nuove Nike esposte. Saltò fuori, nel vero senso della parola, un piccoletto di carnagione scura, quasi mulatto. Con un balzo inverosimile arrivò a qualche centimetro da me. “Io sono la persona che stai cercando! In che maniera posso aiutarti?”. I miei occhi incrociarono i suoi. La mia risposta mentale preferita sarebbe stata: “Mi potresti aiutare finendo la tua inutile vita sotto un tram, per esempio”. Sorrise, poi rimbalzò dietro di me e poi alla mia destra, girandomi attorno. “Siamo indecisi, non sappiamo ancora che scarpa prendere, con quale nuovo super mezzo di locomozione andare a correre dietro al cimitero, alla sera al tramonto”. La mia bile dava segni di cedimento.

Strinsi il pugno più forte che potevo e mentre mi accorgevo delle 2 telecamere a circuito chiuso del negozio cercai qualcosa che assomigliasse ad una risata. “Niente, davo solo un occhiata, per farmi un idea”. Ri-saltò alle mie spalle a velocità supersonica, ritornando nel mio campo visivo con in mano una Silver. “Dite tutti così poi alla fine la scarpa giusta non vi scappa”. In 26 anni era la cosa più vicina all’odio che non avessi mai provato. Le Silver erano diventate due perché tutto ad un tratto si era materializzato anche il secondo fenomeno a strisce. Più alto, più robusto, con un taglio alla moda tutto pettinato da una parte. “Ehi Lu scommettiamo che la faccio io sta vendita?”. Il palestrato non rispose. Piantò un sorriso che neanche all’isola dei famosi poteva aver un senso. “Coglione, oggi siam 4 a 1 per me, ne devi fare della strada per starmi addosso”. Lo spettacolino delle marionette. Due abbindolatori. Il piccoletto lanciò la sua Nike al suo socio con velocità e lui rispose prontamente con una presa volante. Lo fecero in maniera meccanica, come se fosse la cosa più naturale del mondo. A quel punto mi dedicai a loro.

Fingevo interesse, continuavo a voler vedere modelli diversi. 4-5-6 paia. Visto che mi proponevano le calze ancor prima che scegliessi le scarpe chiedevo cosa era meglio abbinare. Partirono gli abbinamenti. C’era merce dappertutto quando gli lasciai ad un ennesimo gioco di prestigio e la porta mi si apriva su un centro storico pieno di gente. Un ora del loro prezioso tempo buttata nel cesso. Camminai un po’, anche più del previsto. Cominciai a farmi una ragione di quello stramaledetto scontrino. L’avevano fottuto, letteralmente. Si sarà trovato in mezzo alle loro minchiate e frastornato da quei due clown avrà perso il senso delle cose, dei soldi. Ero quasi davanti alla porta di casa quando era chiaro che l’avrebbero pagata, e cara.

Da quel giorno mi informai sulla catena di negozi. Sui metodi che i commessi avevano per vendere e delle loro tecniche circensi. Trovai su Google un paio di forum di discussione sull’argomento. Scoprì che tutti quei loro versi da idioti facevano parte di una pantomima ben precisa. Fish! Una tecnica di vendita inventata dai pescatori di Seattle. In crisi per le scarsi incassi, e per il momento no del mercato del pesce della cittadina americana, i venditori si inventarono una specie di spettacolino per attirare gente e incrementare le vendite. In pratica urlavano a squarciagola tra di loro e soprattutto si lanciavano i pesci da una bancarella all’altra, tra l’incredulità e le risate dei presenti. Gli affari ricominciarono ad andare per il verso giusto e qualche coglione sdoganò quella cazzata in tutto il mondo. Me li immagino il piccoletto e il palestrato ad un fottuto di corso di vendita, con un mascellone che spiega come attirare l’attenzione del cliente, di come farlo sentire tra amici di vecchia data, di come metterglielo nel culo. Per un paio di mesi non pensai ad altro. Poi, per caso, capitò. Una sera come altre. Uno dei pub più frequentati delle mie zone. Una vecchia stamberga in stile vero pub scozzese, riemersa dal buio grazie ad un paio di vecchi capi ultras, ormai prossimi alla mezza età e decisi a monetizzare anni passati in giro a conoscere della gente. Il locale non era affatto male. Più volte a settimana c’era qualcuno che suonava, per lo più gruppi della zona, o qualcuno che metteva dei dischi. Quella sera c’era una serata gotica-new wave. Il tizio, che di vista avevo visto qualche volta in giro per concerti, alternava vecchi hit di Cure e Joy Division a pezzi sconosciuti di Industrial e rock cavernoso. Il nero era il colore dominante, le birre rosse il condimento. La fauna era controversa, musicisti, quasi musicisti, teste di cazzo, hooligan di provincia, nerd, varie & eventuali. Le 2 arrivano a sorpresa. La macchina, parcheggiata miracolosamente vicino, partì al primo colpo, nonostante i gradi vicini allo zero. Un piccolo bussetto al mio finestrino.

Abbassai cercando di eliminare quella patina pre-ghiaccio. Arrivò l’aria e la faccia del “Gigante”. “Gigante” aveva due anni meno di me, ma ne dimostrava abbondantemente 35 ormai. Pluripregiudicato, pluridiffidato, praticamente un’istituzione. “Bomber dammi uno strappo, almeno fino in stazione”. Nessuno tranne un paio di vecchi amici del rione mi chiama più bomber. Un vecchio nomignolo di quando ancora mi illudevo di poter giocare almeno in Promozione. “Gigante” è rimasto 1.60 scarsi, esattamente come quando ci implorava di farlo giocare nelle nostre partitelle all’ultimo respiro, su quella polvere che si attaccava ovunque. Io ero uno dei pochi che spingeva per farlo giocare, mi stava simpatico. Sembrava un piccolo jolly scappato dalle carte di scala 40. Ora, dopo varie fratture e vari abusi, sembra una versione moderna del gobbo di Notredame. Una spalla quasi il doppio della sorella. Il collo gonfio come quei bovini d’allevamento. Quando mi sorrise, sentendo che il passaggio era approvato, una lucina si accese in quel piccolo parcheggio, era il mio uomo.

“Grande Bomber, sei sempre il numero uno”. Aspettò un secondo prima di salire, poi accompagnato da un gesto della testa rasata. “Vieni! Il mio vecchio centravanti ci porta avanti un pezzo”. Lui salì dietro al volo, come se conoscesse la mia Punto da sempre. Davanti, in fianco a me, seduta, una ragazza con meno di vent’anni. Lunghi dread neri. Orecchini dappertutto, un tatuaggio enorme che spuntava dalla manica del giubbotto militare. Si presentò ma non afferrai il nome. Senza che aprissi bocca si mise la cintura e piantò la faccia tra i due poggiatesta per farsi recapitare un bacino dal gladiatore metropolitano. Nella loro insensatezza erano davvero una coppia.

Lei rideva senza alcun motivo, lui anche. Li ascoltavo in silenzio, respirando un po’ del profumo di fumo che i due piccioncini sprigionavano nell’auto. “Bomber e Luca come sta?”. “Non lo so, sai è stato un po’ alla Cascina Bianca poi qui non ci stava più dentro, è andato via, è in giro per l’Europa, di più non so”. Cercai la voce più neutra che avevo, ma non bastò. “Vedrai che se la cava, è sempre stato un duro, massimo rispetto”. Quanti secoli erano che non sentivo qualcuno che diceva “massimo rispetto”. I primi concerti ai centri sociali. Le prime risse. Le trasferte. La polizia.

Luca sempre in mezzo, 50 chili mal contati, che rimbalzava tra i casini, riemergeva nel pogo, si arrampicava per primo sulla rete quando segnavamo sotto la Nord. Ora non c’era più niente. La stazione era li, al buio quasi completamente, con i soliti marocchini assonnati che non spaventavano neanche me. Accostai e i due passeggeri smisero di tenersi per mano, il termine giusto è incredulo. “Grazie sei troppo il numero uno, ha ragione Gigante”. Lui rise mentre a testa bassa cercò lo spiraglio per uscire sul marciapiede. “Buonanotte Bomber”. “Ciao Gigante, volevo chiederti una cosa veloce”. “Dimmi, qualsiasi cosa”. “Dove bazzichi in settimana, vorrei proporti una cosa, ma di persona, zero telefoni”. “Bar Moderno”. Mentre lo diceva uno scintillio negli occhietti piccoli mi rimandò indietro di anni luce.

Ci accordammo in fretta. Non serviva molto. Gigante aveva sempre bisogno di soldi. Io, avevo bisogno di un onesto picchiatore, niente di più. Spiegai la fuga di mio fratello, i due stronzi. Accettò immediatamente e i soldi furono solo un dettaglio. Patteggiammo a 200 euro, semplice. Cominciai tramite E-bay a vendere vari 45 giri e 33 giri di vecchio Punk italiano. Tutti dischi che Luca aveva miracolosamente recuperato in qualche sgombero di centri sociali. Negazione, Raw power, Wretched, Indigesti. Sembrava incredibile che ci fosse ancora gente disposta a pagare 100 euro per un piccolo vinile che gracchiava chitarre distorte. Luca non aveva vissuto quegli anni, solo marginalmente, ma nei suoi deliri a volte raccontava di concerti incredibili, di migliaia di persone al vecchio Leoncavallo, di battaglie vere e proprie sotto il palco. Spedivo i dischi, arrivavamo i soldi. Nel giro di poco 450 euro. Cominciai a frequentare il bar davanti al negozio per prendere l’aperitivo.

Era un posto molto frequentato da fighetti e da commesse dopo la chiusura.

La gente, le chiacchiere e il rumore dei bicchieri mi nascondevano quando i due dementi chiudevano la luce, i conti, e uscivano da quel corridoio pieno zeppo di scarpe da ginnastica. Io, avendo già pagato il mio conto per i 2 o 3 americani bevuti, seguivo a turno l’uno e l’altro per capirne le abitudini, le mosse. Il piccoletto parcheggiava a pagamento nella piazza principale, proprio sotto il municipio. Di macchine a quell’ora ce n’erano ancora molte, metà delle quali appartenenti a quelle facce da culo che sgomitavano per un bicchiere di rosso, o per un negroni. Scartai il piccoletto, quasi immediatamente. Pedinai il palestrato per un paio di settimane. Non si fermava mai, se non per fare il versamento in cassa continua in un vicolo a poche centinaia di metri dal negozio. Parcheggiava quasi sempre in una delle poche piazze non a pagamento rimaste in città. Quasi un chilometro dal centro storico a piedi. Una piazza per metà illuminata con alcuni angoli belli bui, nascosti da qualche pianta e da casermoni tristi che si allungavano minacciosi. Si. Ero pronto.

Lo avremmo seguito e un giorno in cui il posteggio e le condizioni fossero favorevoli avremmo colpito. Quella sera il Gigante partì con un paio di coca & havana al brucio. Ero preoccupato ed emozionato al tempo stesso, sentivo le mascelle farmi male, in preda ad un nervosismo irreale. Quando quel bel ragazzoccio s’incamminò verso la banca eravamo entrambi quasi ubriachi. La paura era diventata pura goduria, ero eccitato a morte. Ci tenevamo a poche centinaia di metri di distanza, sempre pronti ad infilarci in qualche cortile con quelle belle ringhiere di una volta. Entrambi con felpe col cappuccio e con sciarpe anonime ben infilate in giacconi scuri, senza grossi marchi né scritte.

Avevo organizzato tutto. La macchina, una scintillante golf metallizzata, era messa al posto giusto. Non ci fu bisogno di aprir bocca, Gigante mi guardò, poi sfoderò un sorriso monco di un paio di denti e il suo alito dinamitardo riempì la via. L’idiota aprì la portiera con il telecomando, fece appena in tempo a mettere una mano sulla maniglia. Gigante per prima cosa lo colpì da dietro, forte, alla mascella destra. Esterrefatto cercò di girarsi giusto in tempo per farsi spaccare in naso, di netto. Un rumore meraviglioso e lui sulle ginocchia. I miei anfibi rispolverati per l’occasione s’infilarono un paio di volte nel costato. A terra, fermo, cercava di rigirarsi, a fatica. Il piano era semplice.

30 secondi, non di più, nessuna parola, silenzio. Fine.

Per qualche giorno non spuntò alle 7.30 dalla porta del negozio. Riapparve quattro giorni dopo, fasciato, con un braccio immobilizzato e un cerottone a coprire il naso che era. Nel frastuono delle patatine e dei tramezzini io e Gigante brindammo in silenzio, gli amici ci guardavano e senza capire il motivo scoppiò una risata.

L’umore migliorò. Ci presi gusto. Controllai per bene i punti vendita della catena più vicini. Un centro commerciale dell’hinterland torinese, un negozio in pieno centro a Novara. Nei giorni di riposo visitai entrambi i negozi.

Volevo semplicemente colpire ancora. Soldi da parte ne avevo e Gigante mi sembrava motivato come non mai. La storia di Luca che entra indifeso nel negozio e che esce praticamente truffato aveva fatto presa. Gigante era un ragazzo strano. Da piccolo, o meglio, da giovane era un tranquillissimo e quasi timido ragazzino. Più piccolo degli altri di statura, trovava difficoltà a mettersi in mostra, in un campo da pallone, in mezzo ad una compagnia, tra le sue compagne di classe. Poi, all’improvviso, quasi per caso, arrivò la curva. Nuove amicizie, un giro nuovo. I primi scontri, un senso di appartenenza. I primi riconoscimenti, le prime mosse coraggiose, in curva si fece notare più volte e qualcuno notò lui. Comincio a girare coi capi, con chi contava davvero. Con chi decideva come dovevano andare le cose, con chi designava chi era giusto e chi No. Fu diffidato e da quel momento diventò strapopolare. Alcune ragazze che trovavano estremamente interessante passare il proprio tempo con gli ultras se lo contendevano. Era arrivato.

Lo vedevo in centro e non lo riconoscevo più, ma aveva l’espressione di uno che si sente realizzato. Poi, come normale che sia, arrivarono i problemi. La difficoltà di far combaciare il suo stile di vita con un lavoro, con una casa, con una qualsiasi forma famigliare. E senza soldi bisogna procurarseli. Arrivò la galera, poca ma arrivò. Uscì e si notava chiaramente che non era più lui. Lui, che nella nostra trasferta per andare a Novara, insistette che dividessimo il contenuto del portafogli del povero coglione di un commesso.

“Mi paghi già, più che bene, questi li dividiamo, anzi potremmo farci un giro a russe insieme stanotte, la consumazione la porto io che me la danno gratis”.

“No Gigante, ti ringrazio ma non mi va”.

“Ok bomber, volevo solo festeggiare un altro bel nasino che se ne andato”.

Rideva come uno scemo, era tranquillamente alla sesta o settima Becks della giornata.

Il naso era attaccato ad un trentenne biondino che non sapeva di niente. Nella mia visita di controllo lo scemo cercò di rimbambirmi di scemenze, cercando di decidere per me cosa cercavo e cosa volevo. Povero stupido. Stupido con una Polo bianca parcheggiata in una via piccola e buia. Stupido che dopo solo un paio di pugni piangeva come un asino, implorando Gigante di smetterla, togliendosi il portafogli e regalandocelo. Due piccioni con una fava, l’agguato e 70 euro a testa.

A casa le cose andavano sempre alla stessa maniera. Mio fratello ormai era un fantasma che non andava menzionato. Mia madre scappò anche lei, ma mentalmente, lanciatissima nella sua pensione dorata, era totalmente dedicata alla parrocchia ed al suo importantissimo volontariato. Bambini poveri, clochard, disgraziati di ogni parte del mondo, si spendeva per gli altri in maniera encomiabile. Sembrava il suo dazio da pagare per quello che era successo al suo primo figlio. Mio padre stava cercando di batter il record mondiale del gioco del silenzio, e a ben vedere era sicuramente tra le teste di serie. Completamente assorto nel suo nulla, ostentava una indifferenza granitica, ma si vedeva lontano un miglio che ogni giorno senza notizie di Luca asportava via un pezzo del suo cuore. Io, dal canto mio, mi mantenevo in acque putride. Vedevo una persona, Michela. Un paio di anni in meno di me, divedevamo un po’ delle nostre solitudini. Ci vedevamo, le solite cose, uscivamo, cene, cinema, facevamo l’amore, ma la maggior parte delle volte pensavo ad altro. Stavo bene quando c’era lei, stavo altrettanto bene quando non c’era. Lei dal canto suo probabilmente non vedeva solo me, e sinceramente non mi importava. Mi chiamava, andavo, tutto qui.

Le cose su e-bay cominciavano a rallentare. I dischi migliori erano andati, insieme ad un po’ di rimpianti e sensi di colpa. A volte sognavo Luca che rientrava in camera nostra, di sorpresa, come un ladro nella notte, e mi minacciava per aver venduto il suo piccolo tesoro, i suoi unici averi. Mi svegliavo e pochi secondi dopo razionalizzavo che non sarebbe più tornato. Che nessuno mi avrebbe rimproverato di aver svenduto un rarissimo 7 pollici dei c.c.m. Semplicemente mi mancava. Mancava il suo incasinarsi la vita, mancava la preoccupazione che mi dava, che ci dava, il suo trattenere tutti sulla corda, sempre attenti al più piccolo rumore, aspettandosi una chiamata nel cuore della notte. Me lo immaginavo a Camden davanti al Falcon a distribuire biglietti gratis per una serata dub. In pieno centro a Barcellona mentre friggeva qualche stramaledetto spiedino rosso sangue. In qualche obitorio di Berlino, coperto solo di una cerata trasparente. Cominciai ad andare spesso a Moncalieri al centro commerciale. Un posto assurdo, un enorme corridoio con due piani di negozi, cinema, ristoranti, da entrambi i lati.

Un posto di una tristezza assoluta, quasi finta. Famiglie di obesi, a spasso con cani, o figli scodinzolanti come cani. Commesse volgari e pesanti come macigni, le fedeli copie dei propri compagni truzzi. Il negozio era il primo del centro, proprio all’entrata, era enorme, su 2 piani, senza ombra di dubbio il migliore di quelli che avevo visto. Gli stronzi erano 4, avevo ampia scelta.

Dopo un paio di volte, seduto nel solito bar da centro commerciale, puntai un tarchiatello tutto nero. Nella mia visita era stato il più pressante ed aveva, oltre alla solita insopportabile verve e ironia, una specie di ansia nel vendere a tutti i costi. Quando mi stavo per allontanare, dicendo che non c’era niente che mi piaceva, arrivò addirittura a trattenermi per un braccio. In pochi decimi di secondi mi passarono davanti tante immagini e mi calmai solo pensando al male che il Gigante gli avrebbe fatto. Il parcheggio poi era perfetto, enorme, poco illuminato e loro erano tra gli ultimi che lasciavano quella merda di posto. L’unica cosa piacevole era una barista. Piccola, ricciolina, mi ricordava una mia vecchia fidanzata di Pinerolo. Una ballerina che d’estate veniva da noi in collina per uno stage di danza. Sembrava una bambolina con le pile, che sorrideva sempre e ogni tanto dava un colpetto ai capelli che prendevano vita all’improvviso. Dopo un paio di volte ci davamo del tu, chiacchieravamo del tempo e di stronzate simili. Riuscivo a farla ridere, e mi piaceva vedere quelle lentiggini che si muovevano insieme al sorriso. Il suo torinese misto ad una cadenza calabrese era un toccasana dopo un oretta di macchina nella nebbia.

Gigante non parla. Siamo quasi a Villanova e lo vedo che sminchia fuori dal finestrino, con poca convinzione a volte gira la testa, mi guarda, si rigira. Pensieroso. Di solito all’altezza della seconda di Asti mi ha già raccontato tutta la sua vita tre volte, oggi No. “Ue, ti han rubato la lingua?” Rido convinto, ma non ne capisco appieno il motivo, chissà. “No, scemo! La lingua ce l’ho, ma sto pensando, ho un problema, io per ste cose, cazzo! Non so mai che minchia fare”. “Per quali cose?” “Ma si, la tipa, sto cristo di compleanno, e che cazzo le compro? Una volta facevo prima, grattavo un giubbotto ad una tipa di stazza uguale ed ero a posto, ma con le non mi va di regalargli qualcosa di grattato”. Smetto di ridere grosso modo a Santena. “Gigante, visto che lei ha sempre sta roba sportiva tipo anni 70 perché non prendi una bella tuta dell’Adidas di quelle vecchio stile?”. I campi che continuava a fissare vengono sostituiti dalla mia faccia, Gigante mi bacia sulla guancia, e io voglio scomparire.

“Sei sempre stato il più intelligente della gruppida”. “Sì Gigante, non ci voleva molto!”. Seguitiamo a prenderci per il culo finché non parcheggio ad una decina di metri dalla Uno del prescelto e scendiamo. Ci infiliamo in un multimarche sportivo. Non passa neanche un minuto e il mio socio picchiatore sbuca da una gondola con in mano una tuta nera con le tre strisce coi colori giamaicani, praticamente il regalo perfetto. Il suo sorriso monco mi contagia. Chiamo un paio di commesse e chiedo se hanno un sedativo per il mio amico. Una mi guarda malissimo. L’altra si mette a ridere quando vede sto scemo che salta sul posto con in mano 90 euro di tuta da ginnastica. Io compro una replica della classica tshirt anni 80. Stretta, con il collo bello alto, come quelle che andavano di moda anni fa, abbinate al classico taglio corto corto. Passeggiamo per vetrine, e l’uomo mi racconta in maniera leggendaria di alcune spaccate con mattone dei tempi pre penitenziario. “Certo che di minchiate ne hai fatte?”. “Si, all’epoca mi sembrava l’unica cosa da fare, era così e basta”. Cambio discorso e mi infilo al bar. Manca quasi un’ora alla chiusura del centro e dobbiamo festeggiare il regalo. Arriva prima il suo sorriso che lei. Gigante mi vede, mi tira un poderoso calcio negli stinchi, mi spacca quasi una tibia. “Coglione! Cazzo mi fai male”. “E di sta scoiattolina non mi dici niente? Pirla! Hai visto come ti ha salutato? Razza di rimbambito”. Dopo la parola scoiattolina praticamente non ascolto più nulla. Son troppo impegnato a sputare dal ridere il pezzo di arancia che navigava nel cocktail. Lei mi guarda da dietro il bancone, faccio segno che è tutto a posto, indicando con il dito che la colpa è del mio amico. Scrolla la testa, lo fa in maniera dolce e capisco che dovrei fare qualcosa. Il secondo giro arriva presto, i regali, le cazzate, il viaggio, ci han reso felici e assetati. Ricompare. Posando i bicchieri, senza guardarmi. “Mi raccomando, non ti strozzare con l’arancia di nuovo”. In tono malizioso, presumo di diventare viola. “Scusa, ma qui il mio amichetto ha già fatto lo stupidino o no? Te l’ha già chiesto il numero di cellulare?”. In questo preciso istante vorrei la testa di Gigante. Fisso il rosso dentro al bicchiere, aspetto che gli risponda male. “No, anzi, a dir il vero non mi ha neanche mai chiesto come mi chiamo”. Gigante ride, io No. “Scusalo, non so mai se è più timido o più coglione!”. Adesso son costretto a ridere anch’io. Mancano pochi minuti all’azione, ci alziamo, faccio un segno con la mano, pago io. Arrivo coi soldi giusti. Quando sta battendo lo scontrino, e non mi sta guardando, le dico come mi chiamo, che non sono del posto, se posso lasciarle il mio numero, se gli va di vederci qualche volta. La saluto mentre tiene in mano un foglietto del suo piccolo block notes per le ordinazioni con sopra scritta la mia speranza.

Siamo in ritardo, in un fottuto ritardo. In macchina posiamo i pacchi, prendiamo le felpe, le sciarpe, ci cambiamo di giubbotto. Un cespuglio tra la nostra macchina e la sua. La nostra casa base. Il nostro nascondiglio.

Siam pronti, alzo la testa e lo vedo. È già quasi alla macchina, acceleriamo, quasi correndo. A pochi metri, tira fuori la chiave, si passa un sacchetto da una mano all’altra, stiamo praticamente correndo. Parto io, prima volta da quando colpiamo insieme. Un destro. Il rumore delle mie maledette all star sul asfalto sporco lo avverte. Mi scansa. Colpisce duro, nel costato. Mi allontano senza respirare, come rotto in due. Sta per finirmi quando arriva il Gigante. Lo prende, non bene, ma lo prende. Lui, non cade, non indietreggia, non piange, non urla. Niente. Gigante riprova. Lo schiva, colpendo il mio amico di giochi in pieno setto nasale, secco come il rumore di un osso che si spacca. Una parola mi balena nella mente. Arti marziali. Gigante non sì tocca il naso ben sapendo cosa gli è successo. Non da segni di debolezza. Io arranco. Lo attacchiamo entrambi con dei calci, ne esce quasi illeso. Io vedo il fuoco e rantolo invece di prendere aria. È immobile il bastardo. Gigante lo sfida, mettendosi le mani dietro la schiena e facendo ampi gesti di venire, di caricare. Lui parte, e il mio socio estrae una lama. Appena sopra il ginocchio.

Ora voliamo indietro, tra le urla del tipo che coprono il rumore dei 100 all’ora delle macchine nella cintura torinese. Pochi cristi richiamati dal casino fanno qualche passo verso di noi. Li oltrepassiamo correndo, non c’è più tempo. Lei, ferma. Io, di corsa, cappuccio sulla testa, una sciarpa fino al naso, un giubbotto diverso, gli occhi liberi, in bella mostra. Sguardo, un decimo di secondo, è finita. Accendo e tengo il cappuccio fino alla tangenziale. Non parlo, anche volendo non riuscirei. Devo stare seduto quasi di lato per non avere i brividi dal male, che pian piano sta entrando nelle budella. Gigante non si guarda nello specchietto, conosce a memoria la forma del suo naso quando si rompe. Tiene semplicemente la sua sciarpa premuta forte, spinge la testa all’indietro dopo aver sradicato il poggiatesta.Vorrei ucciderlo. Vorrei uccidermi, visto che so perfettamente che è assolutamente ed esclusivamente colpa mia. In 40 minuti percorriamo i 100 chilometri che distano. Lo porto in stazione. Parliamo poco, o meglio parlo per meno di un minuto. Spiego cosa farò, di non preoccuparsi. Dico che non ci scopriranno mai. Mento. Dico di procurarsi un alibi, di organizzarsi bene. Dico che in qualsiasi caso, se dovesse saltar fuori tutto, di dare la colpa a me di tutto, del piano, della coltellata. Ci guardiamo negli occhi.

Metto il cellulare per terra, gli passo sopra con la macchina. Raccolgo i cocci. Li butto sparpagliati in diversi bidoni che incontro per strada. Butto la lama nel Tanaro che nello scuro scorre sotto il ponte a qualche centinaio di metri da casa mia. Salgo. L’ascensore ruota attorno a me, facendo un rumore assordante che solo io posso sentire. Entro. Attraverso la zona giorno non guardando niente, punto la stanza. Tolgo le scarpe e prendo due borsoni. Li riempio. Roba invernale, estiva, di tutto. Tutto quello che riesco, mulinando le mani. Prendo le tre cartoline di Luca, le infilo in una cartellina trasparente con la chiusura a lato. Provo ad immaginare per un secondo da dove comincerò il pellegrinaggio. La parola pellegrinaggio sostituita dalla parola fuga. Ammasso il walkmen e pochi cd nel piccolo spazio rimasto libero nella borsa più piccola. Chiudo e son pronto. Un foglio, a quadretti, una biro.

VADO DA LUCA

Prima di aprire la porta in quella poca luce della lampadina dondolante fisso la parete e la sua enorme fotocopia a colori. Una foto della curva, anno 96. Presa dal basso, dal limite dell’area. In mezzo ai fumogeni, alla foschia, ai brandelli di bandiere che spuntano da quella coltre, spicca un solo piccolo striscione, il nostro. Quadrato. Le quattro lettere che formano il nome del nostro rione ai lati. In mezzo la croce rossa su sfondo bianco, simbolo di sta merda di città. Come se il ragazzo della foto abbia messo a fuoco solo noi, abbia dato importanza solo a noi. Al nostro orgoglio. Via. Arrivo in soggiorno. Il mio vecchio dorme sul divano, raggomitolato in posizione fetale, girato di schiena rispetto alla televisione, russa. Butto un occhio. Un numero di telefono, grandissimo. Una delle star della notte, dei solitari, dei sonnambuli, dei tristi, degli ultimi. Un nome in sovrimpressione. Sofia Gucci. Ansima. Si strofina in maniera esagerata, con una cornetta telefonica ormai in disuso, su un paio di minuscole mutandine rosse. Chi sta dietro la telecamera aziona lo zoom. In primo piano, mima, con la mano libera, di chiamarla. È bellissima, con i suoi capelli scuri del colore della maglia del Casale e gli occhi abbinati, grandissimi che sembran brillare. La camera si avvicina ancora un pelo, sulla bocca. Il labiale è chiaro. Chiama. E penso, che se non dovessi andare, chiamerei davvero.

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"Carni paesane" di Giovanni Matteo


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Selvaggio a chi?

su “Carni paesane” di Giovanni Matteo

Nel novembre del 2004 al gennaio del 2006, sulle pagine elettroniche di Musicaos.it, venne pubblicato “Carni paesane” di Giovanni Matteo, una serie di storie disegnate ambientate in Salento negli anni ’80. Perché riproporre il fumetto quest’oggi, a così breve distanza e in un formato differente? Tanto per cominciare perché anche se a soli due anni di distanza e anche se sullo stesso sito, “Carni paesane” è un insieme di storie che vanno lette nel loro insieme, con le duecento tavole in bianco e nero in formato pdf. Giovanni Matteo oltre che a essere pittore e musicista è un artista eclettico che utilizza il suo tratto per raccontare storie. Un altro esempio della sua bravura di sceneggiatore, anche esso scaricabile gratuitamente da Musicaos.it, è “Mignotta“, liberamente ispirato a un soggetto cinematografico scritto da Pier Paolo Pasolini (pubblicato nella raccolta Alì dagli occhi azzurri). Le storie di “Carni Paesane” sono ambientate a Serragliano, comune immaginario della provincia salentina, così simile alle decine e decine di paesini che si affastellano come semi di sesamo sulla crosta di un pane arrugginito. Sono raccontati con realismo e crudeltà i giorni di Pero e Carlo, dove ogni cosa nella vita si rimpicciolisce, così piccola da finire più veloce nello stantuffo di una siringa, piccoli mafiosi, piccoli faccendieri, piccoli politici, piccoli delinquenti. Difficile compiere tentativi di fuga da una realtà simile, dove lo squallore e la desolazione della droga sono niente se paragonati allo squallore circostante. Se proprio un viaggio deve esserci, tanto vale fare il corriere e approfittare dell’occasione. La poesia di Giovanni Matteo e il suo sguardo, tuttavia, sono in ogni luogo, e traducono una storia dove i reietti meritano un posto in paradiso, senza accorgersi di nulla. Il linguaggio è un dialetto basso, mescolato all’italiano, con espressioni che non richiedono difficoltose traduzioni. “Carni Paesane” è una delle tante fotografie che potevano essere scattate da queste parti quando la generazione dei nati negli anni settanta muoveva i primi passi nell’adolescenza. Che dire quindi di un Riccetto che si incontra a braccio con Pompeo? La bravura di Giovanni Matteo sta nell’aver colto quei motivi dell’ambiente del Sud che tanto rischiano di rimanere stereotipi se vissuti passivamente, senza l’energia che può imprimere una narrazione; la parrocchia barocca con le statue infinite, le campagne desolate, i motorini, i video poker, la nonna che prepara la crostata super-calorica, i collassi chimici e i recuperi sul limite dell’overdose, il tutto sotto lo sguardo vigile delle forze dell’ordine che viaggiano nelle campagne del paese alla velocità media di 20 km/h. Buona visione!

l'anaconda


L’anaconda
Bianca Madeccia

La mamma lo tiene prigioniero da quarantacinque anni. Non si può allontanare da lei. Questi sono gli ordini. Allora lui, allora lui, dicevo, allora lui, per sopravvivere si è trasformato in anaconda. Non viaggia molto, anzi per niente. Sta perlopiù fermo, striscia attorno alla casa. Oppure guarda le foto delle bambine discinte attraverso l’oblò sul mondo, la scatola elettronica dei giochi, insomma, lì, dove ci sono le bamboline vive, quelle che puoi circondare e stritolare con un click. A lui piacciono quelle che hanno quella bella luce luminosa attorno. E più sono morbide, più sono “puff”, più sono irragiungibili, diverse da lui, insomma, lontane (è importante che siano lontane), e più desidera stritolarle.
Lui non sa nulla di umanità, è un rettile, sa solo di fame. Quella roba gli è necessaria per vivere. La mamma non vuole che lui si allontani troppo da casa e così lui è costretto a trascinare le prede nella tana e mangiare le vite degli altri sottoterra, anzi, nell’attico, perché lui abita in un appartamentino con vista su una palma.
Per sopravvivere cattura principalmente piccole bestioline di sesso femminile, preferirebbe i maschi, ma i maschi sono troppo grossi, e, in generale più attaccati alla vita, spesso anche violenti e non si lasciano sbranare così facilmente. Poi non hanno l’alone luminoso attorno, non nutrono.
Così, ripiega sulle femmine. Sono stupide, credono in quella cosa sciocca che loro chiamano amore. E’ più facile soppraffarle.
Le segue, le spia, le traccia e quando riesce a portarle nella tana, con un lavaggio subitaneo ma metodico di coscienza, diventa loro per un po’. Così diventa organizzatore di viaggi con la bambina luminosa viaggiatrice, critico d’arte con la bambina di luce pittrice, regista con la bambina attrice, editore con la bambina poetessa e così via. Deve dominarle, avere un potere. Si convince di essere stato loro per un po’, di aver avuto il loro nome, i loro interessi, di averle capite e respirate, persino di esserne stato vittima. Attribuisce a loro la sua fame, la colpa, la violenza, insomma, quella cosa che succede sempre, ogni volta.
È l’unico modo che ha di viaggiare e nutrirsi: attraverso le vite delle bambine luminose. Non è colpa sua. La mamma non lo lascia allontanare.
Scrive anche strane parole gelide e oscure che nessuno capisce, neanche lui. Suoni quasi sempre separati e svincolati tra loro, spesso inframmezzati da parole come “torbido” e “vago”. Tutta la sua vita era stata vagamente torbida. Le parole che scrive le ruba dai libri, oggetti con cui cercava di nutrirsi prima delle bambine luminose. Ma poi aveva letto che le anaconde non si cibano di cellulosa, lo sanno tutti.
Da una vita ruba parole a caso che poi lascia decantare tanto tempo per dimenticare che appartengono ad altri. Lui questo lo chiama “labor limae”. Le parole che ritaglia e mette in una scatola gli servono a costruire storie con cui pesca le bambine luminose nella scatola di vetro.
Ogni tanto si arrabbia, picchia le bambine che è riuscito ad attirare fuori dalla scatola luminosa, soprattutto quando parlano e fanno domande che non dovrebbero fare. Ma questo per lui non è importante.
Ama fare foto, soprattutto alle donne africane svestite e incinte sui marciapiedi. Sono tutte lì lungo la strada, quando torna dal lavoro, prima di andare a pranzo dalla mamma. Pensa anche di farne un cd, con le ragazze svestite lungo la strada, come un vero fotografo. Lui pensa sia arte. Le chiama poesie-oggetto.
Ogni tanto si sposta e va al porto. Vive accanto al mare. Ama sbirciare la risacca mentre parla di prostitute con i suoi amici d’infanzia: il fotografo di cadaveri parenti, l’installatore balbuziente, il cocainomane impotente con i capelli unti.
La mamma è sempre contenta quando le bambine della scatola spariscono e lo aiuta in fretta a farne scomparire i resti e a cambiare le lenzuola del letto. Ora sono di nuovo solo loro due. Possono di nuovo amarsi e incrociarsi con gli occhi e con le parole. Le anaconde vivono così, avvitate nelle loro spire.
Senza muoversi troppo e divorando d’amore (o di quella cosa che loro pensano sia amore) tutto quello che si muove nel raggio della loro breve vita senza luce.
Ma anche i coccodrilli e le loro lacrime, vanno tenuti accuratamente in considerazione nello studio psicologico del poeta-personaggio. Dal nostro studio preparatorio non escluderemmo i documentari sui crotali e sulla loro cecità violenta e assassina ma NECESSARIA, come può esserlo solo la vera poesia.

dalla raccolta “Serial Killer Italiani”

Canzoni tristi


Lorenzo Piantini
Canzoni tristi

Avevano risparmiato per tutto l’anno e finalmente Paolo e Francesca potevano passare i loro quindici giorni in Sardegna.
Siamo in agosto, i due fidanzati sono appena entrati in macchina e si lasciano il traghetto alle spalle. Sta guidando Paolo. I due ragazzi sono stanchi, il sole non è ancora alto nel cielo. I loro occhi sono nascosti dietro due spessi occhiali da sole. Un paio sono di Prada, un paio sono un’imitazione.
Francesca tira fuori il portacassette dal cruscotto. È vecchio e polveroso, come l’autoradio, del resto. Estrae la cassetta che vuole e, dopo averla brevemente esaminata, la infila nello stereo. Prima che cominci la canzone, alza il volume.
Dopo pochi secondi, Zucchero sta cantando di sere d’estate dimenticate e di dondoli che dondolano. A Francesca viene in mente quando, cinque anni prima come minimo, ha doppiato quella cassetta per Paolo. Non stavano ancora insieme. Si sente poco, il motore è rumoroso e ci sono molti scossoni.
“Vai più piano, per piacere”.
Paolo non stacca gli occhi dalla strada dissestata e lascia leggermente il piede dall’acceleratore.
“Sei stanco, caro?”
“Un po’. Un po’”.
Sembra voler aggiungere qualcosa, poi si trattiene. Ma Francesca insiste:
“Vuoi che guidi io?”
Parla con un mezzo sussurro. Paolo la capisce a malapena.
“No. Senti lascia stare”.
Lo dice con brusca dolcezza. Un grande senso di stanchezza avvolge l’abitacolo.
“Io lo so che c’hai, caro”.
“Sì? E che c’ho?”
“C’hai che volevi dormire in macchina e sei incazzato che ti ho chiesto se potevamo stare sul ponte tutta la notte”.
Paolo non risponde. Abbassa la radio.
“Non hai chiuso occhio, vero?”
“No”.
“Vuoi che guidi io, sì?”
“No”.
“Allora fai come ti pare, testone!”
Ha alzato il tono della voce, ma non di molto. Delle nuvole stanno passando davanti al sole. Paolo si tira gli occhiali sulla fronte, poi li rimette giù. Abbassa il finestrino e si accende una sigaretta con la mano destra. Francesca si stringe nel giubbotto di jeans e si rannicchia con la spalla contro la portiera.
La Tipo blu continua a scivolare sotto il sole mattutino. Vista dall’alto sembra un vecchio modellino.
Paolo sta scaricando i bagagli.
“Ti do una mano”, gli dice Francesca. Ma poi si mette a giocherellare al cellulare. Sono appena passati a prendere le chiavi. Paolo apre la porta, che cigola un po’. Spinge i due borsoni all’interno e va ad aprire le persiane.
“Sì, bravo apri. Senti che puzzo di vecchio”.
“Cazzo”.
Mentre stava aprendo, a Paolo è rimasta in mano una persiana.
“Si comincia bene, sì”.
Lei non gli dà retta e va a vedere la camera.
“Almeno siamo vicino al mare, no?”
Si sono avvicinati e provano ad abbracciarsi. Mentre stringe Francesca a sé, Paolo alza gli occhi al soffitto. Ci sono alcune crepe. È il primo piano di un vecchio rustico. Il resto della casa non è abitabile. I due si staccano l’uno dall’altra.
“Nell’annuncio su internet c’era scritto che c’era una camera, bagno con doccia, cucina e soggiorno, no?”
“Sì”.
“Mi sembra che ci siano queste cose, no, caro?”
“Sì, non era specificato che cascasse a pezzi o meno”.
Paolo ride, ma Francesca resta seria. Lui allora decide di star zitto, e ripensa al tempo che lei è stata dietro per l’affitto, il viaggio e tutta l’organizzazione.
“Su, diamoci da fare”, è tutto quello che Paolo sa dire.
Ma per un bel po’ i due ragazzi rimangono fermi, e si guardano intorno.
“Possiamo mettere a posto dopo, e ora andare un po’ sul mare, che ne dici?”
“Sì, è una buona idea. Mentre tu prendi l’asciugamano e il resto, io scarico la bici”.
“Ce la farai a pedalare con una cicciona come me in canna?”
“Ci proverò”, dice Paolo con una voce buffa.
Francesca sorride e Paolo la bacia. Poi esce e va verso la macchina.
La bici è una vecchia bici da città nera, Paolo l’ha comprata da un suo amico che forse l’aveva rubata, ai tempi dell’università. Un paio di mesi dopo ha smesso di studiare ed è stato indeciso se darla indietro o meno. Ma poi se l’è tenuta e l’ha usata ogni santo giorno, con la pioggia o con il sole, per andare al lavoro. Quando in officina non c’è tanto da fare, Paolo sistema la sua bicicletta. Anche se ha qualche anno, è come nuova. Adesso la scarica dal portapacchi. Mentre lo fa, pensa che sia un miracolo che sia arrivata senza staccarsi, durante il viaggio.
“Telefono a mia madre e vengo”, dice Francesca. Si è messa in costume e si è affacciata alla porta.
“A quest’ora dovevamo già essere arrivati da un pezzo, sarà in pensiero”.
Francesca vive da sua madre da un paio d’anni ormai. Si è scoperta molto legata a lei. I genitori si sono separati quando Francesca aveva tre anni. È cresciuta nella casa del padre, fino a quando, sui vent’anni è andata a vivere nell’appartamento di Paolo. La cosa era durata un anno e mezzo, ma non è che funzionasse granché e il riavvicinamento alla madre ha portato Francesca a fare le valigie. Ognuno a casa sua il rapporto è ricominciato a funzionare. Paolo adesso divide l’appartamento con un paio di studenti che nemmeno conosce.
“Eccomi”.
Francesca esce e si mette a sedere, come al solito, sulla canna della bici. Paolo dà le prime pedalate con difficoltà, la bicicletta si muove a zig-zag, poi trova la giusta andatura. Fa caldo, c’è una breve ma ripida salita. Una volta scollinato, si comincia a vedere il mare. Oggi è calmo. Una tavola. Il sentiero si fa sempre più stretto.
“Una macchina mica lo so se ci passa”, dice Paolo. Ma Francesca non sembra ascoltarlo. La discesa la fanno tutta con i freni tirati.
Arrivati sugli scogli, dispongono la loro poca roba. Francesca si sdraia su un grande scoglio piatto, si tira giù gli spallini del bikini e prende il sole, con gli occhi chiusi.
“Vado a fare una nuotata”, dice Paolo, e si immerge nell’acqua. È calda, avverte subito un senso di benessere. Nella piccola caletta, e intorno, poche persone, cinque o sei. L’acqua è limpida e Paolo si vede bene i piedi. A un tratto si ricorda di essersi dimenticato la maschera. Non può neanche prendersela con Francesca, perché ognuno ha pensato a sé stesso. A Francesca non piace nuotare e di certo non si è portato nessun accessorio da nuoto.
Paolo va con la testa sott’acqua e apre gli occhi. Senza maschera è un problema. Dà le prime bracciate con vigore, si allontana un po’ dalla riva. Gruppi di pesci più o meno piccoli nuotano nella corrente, si orientano nel loro traffico. Non si scontrano mai. Paolo si mette a fare il morto. La testa verso il cielo. Non c’è una sola nuvola. Un aereo passa veloce lasciando la scia bianca. Chissà dove va, pensa Paolo.
Paolo procede con colpi di pedale decisi, ma lenti. Nel cielo ci sono un sacco di stelle, una vicina all’altra.
“Guarda, quella è Orione”, dice Francesca.
“Sì, sei sicura?”
“Sì. Me ne intendo, lo sai?”
“Certo. Sono contento che stasera tu stia meglio”.
Paolo distoglie gli occhi dal cielo e li riabbassa sul sentiero illuminato dalla vecchia dinamo.
È il dieci di agosto, la bicicletta sta viaggiando sul solito sentiero di tutti i giorni. Stavolta i due ragazzi vanno in spiaggia a vedere le stelle cadere. Da questi pochi giorni che sono arrivati, Francesca non è che sia mai andata molto in spiaggia. Non si è sentita molto bene. Ma stasera sta meglio e la notte di San Lorenzo bisogna stare fuori e guardare il cielo.
C’è un silenzio tra loro, per qualche secondo. Poi Francesca comincia a intonare È delicato, dall’ultimo album di Zucchero. La sussurra, le sa tutte già a memoria, le canzoni.
“Che bella, eh?”
Paolo non capisce bene, sul primo, a cosa si riferisce. Ha sentito una specie di sibilo. Francesca gira la testa verso di lui, come in attesa. Ha smesso di cantare.
“Sì. È una bella canzone, davvero”.
“Ma come farà a scrivere cose così belle, così poetiche?”
“Francesca, è un cantautore…”
“Sì, ma è come se conoscesse i nostri sentimenti, quello che proviamo. Come se fosse uno di noi”.
Paolo tace, continua a sentire questo sibilo.
“Mi ascolti? Come farà ad avere queste intuizioni. Uno come noi non ci riuscirebbe mai ad avere idee così”.
“Certo l’isolamento e la natura in cui è immersa la sua mega-villa in Toscana lo aiutano”.
“Ecco, comincia a fare l’invidioso? Sei patetico”.
“Zitta!”
“Oh, ma come ti permetti? Sei fuori?”
Paolo ha smesso di pedalare. Ferma la bici e abbassa lo sguardo. Fa scendere Francesca.
“Porca puttana porca!”
“Ma che ti prende?”
“Mi prende che abbiamo bucato, cazzo! Cazzo!”
“E vabbe’, ma ce l’avrai una ruota di scorta, no?”.
Paolo aveva portato una camera d’aria di riserva, ma ha dimenticato di toglierla dal portabagagli e si è mezzo sciolta al sole. Se ne è accorto oggi pomeriggio.
Adesso lo sta spiegando a Francesca.
“Che idiota che sono! E non è neanche che ci si può venire in macchina, in spiaggia”.
“Ci toccherà qualche scarpinata sotto il sole”,dice Francesca, e si avvicina a Paolo. Gli fa una carezza.
Paolo lascia cadere la bici. Si mettono a sedere sull’erba ai lati del sentiero. Il tempo passa lentamente. Nessuna stella cade. Ma nessuno dei due stacca gli occhi dal cielo.
“E se facessimo l’amore?”, dice Francesca nell’orecchio del suo fidanzato.
Paolo la guarda.
“Adesso”.
Si baciano. Paolo sta per salire sopra Francesca, quando si sente il rumore di un motorino. È una vecchia Vespa, passa piano. Quando arriva all’altezza dei due ragazzi, l’uomo si ferma e li guarda.
“Buonasera”, dice Paolo. Il vecchio sulla Vespa non risponde. Poi riparte.
“Che tipo, certo”, dice Francesca. Si guardano per un po’, poi suona un cellulare. È la musica di Un kilo, la suoneria di Francesca.
“Ah, ciao, come stai?”
Paolo non sa con chi sta parlando e non vuole saperlo. Rialza gli occhi verso il cielo. Pensa a che desiderio esprimere nel caso vedesse una stella cadere.
Paolo cerca di girare la chiave nella toppa. Non è facile, la serratura è vecchia.
“Penso che anche se non la chiudessimo, nessuno ci entrerebbe”.
“No, credo di no”.
Non c’è molta luce. È ora di chiudere gli scuri, l’estate comincia già a finire. Paolo accende l’interruttore. La lampada al neon frigge un po’, poi si accende.
È venerdì sera, sono già le otto. I due ragazzi sono stati a vedere un mercatino tipico, oggi.
“Sono un po’ stanca, non ho neanche molta fame”.
“Non ti preoccupare, ci penso io alla cena. Faccio gli spaghetti, ok? Ti vai in camera a riposarti un po’”.
“Tesoro, grazie. C’è una conserva di mamma per condirli”.
“Non ti preoccupare, ti faccio un sugo speciale con quei pomodori e quel tonno affumicato che ho preso alla bancarella”.
“Non esagerare con le dosi per me”.
Francesca gli si avvicina e lo bacia sulla guancia. Poi va verso la camera. Chiude la porta e accende lo stereo portatile, con la stessa cassetta di Zucchero.
Paolo fischietta, è di buonumore, anche se da quando sono arrivati Francesca è sempre stanca, scostante, come se le mancasse qualcosa. Si mette di impegno. È bravo a cucinare. Una bella cena sistema tutto. Mette su l’acqua della pasta nella vecchia pentola. Intanto scalda un po’ d’olio con l’aglio e il peperoncino. Quando il soffritto ha preso colore mette i pomodori, lavati e tagliati fini. Poi si ricorda che Francesca non digerisce le bucce dei pomodori. Toglie la padella dal fuoco e li sbuccia, pezzetto per pezzetto, scottandosi un po’. Fa caldo dentro la cucina, Paolo comincia a sudare. Si toglie la canottiera, poi se la rimette. Prende un po’ di scottex e si asciuga il sudore dalla fronte. Dalla camera si sente il volume dello stereo che si alza. Paolo apparecchia la tavola.
Dalla finestra entra un po’ di fumo: qualcuno sta bruciando qualcosa. Si sente l’odore acre del fuoco. Paolo chiude la finestra. Poi butta gli spaghetti.
“Tesoro, dieci minuti”.
Francesca non risponde. Paolo va verso la camera. Apre la porta. Francesca è sul letto, il cellulare in mano, i piedi e le gambe scalze. Sul volto un sorrisetto ironico. Paolo deve tornare ai fornelli.
“Capito, sì?”
“Sì, sì, arrivo”.
“No, ma c’è ancora un po’”.
Esce dalla stanza.
“Chiudi la porta, per favore”.
Paolo vorrebbe dirle di abbassare il volume, ma poi ci ripensa e non dice niente.
C’è da scolare la pasta, adesso. Otto minuti della loro vita se ne sono già andati. Paolo cerca le presine. Gira intorno alla cucina con lo sguardo. Niente da fare. Allora stacca due pezzi di scottex, li doppia, e scola la pasta. La pentola è bollente. Adesso la pasta è tutta nello scolapasta. Paolo non la scola del tutto e la mette in padella, coi pomodori. Assaggia uno spaghetto: è ancora al dente. Poi, con movimenti decisi del polso, fa saltare la pasta, come i veri cuochi. Per quei pochi secondi, Paolo sente che gli sta riuscendo bene, e non pensa più a niente. Toglie la pasta dal fuoco e ci aggiunge il tonno tagliato a listarelle. Mescola un po’, poi divide le due porzioni nei due piatti, con cura. Il piatto di Francesca ha meno pasta, ma è più condito.
“È pronto”.
Francesca non risponde. Paolo sta per andare in camera, quando la porta si apre.
Francesca esce col cellulare in mano. Sta esaminando un messaggio. Poi si sente la suoneria. La stanno chiamando. Paolo torna in cucina.
“Fai in fretta, che la pasta è nei piatti”.
“Sì, d’accordo”.
Francesca torna in camera, per parlare.
Paolo si siede al tavolo della cucina. La sedia traballa un po’. I due piatti davanti a lui fumano. È abituato a mangiare la pasta a cena. In officina pranza sempre con un panino. Come pranza Francesca, quando lavora al negozio della madre, Paolo neanche lo sa. Di certo quando la sera va in palestra, non cena nemmeno. Paolo ha smesso di andare in palestra. Gli piaceva, ma non poteva permetterselo. Quando, qualche sera, torna dall’officina e non è troppo stanco, e fuori non piove, va a correre sul lungofiume. Ma di solito è troppo stanco.
Paolo continua a fissare i piatti davanti a lui e d’improvviso, si sente una grande stanchezza addosso. Si sente stanco in ogni centimetro quadrato del suo corpo. Gli è anche passata la fame. Cerca di scuotersi: assaggia una forchettata di pasta. Sa che non dovrebbe, ma rischia di asciugarsi troppo. È buona.
“Ma che aspetta? Mi piacerebbe saperlo!”, dice a voce alta.
I piatti continuano a fumare, ma sempre meno. Il tempo sta passando. I gomiti di Paolo sono sul tavolo. La testa, tra le mani.
Paolo arrotola un’altra forchettata di spaghetti controvoglia. Lo sa che non dovrebbe. Ma sa anche che se si fredda non è più così buona. Comincia a masticare. Paolo mastica come mai ha fatto prima, lentamente, sminuzzando il cibo nelle più minime parti, prima di inghiottire. Fa fatica a deglutire.
Dopo un paio di minuti, Francesca esce dalla camera. Entra in cucina col cellulare in mano, senza staccare gli occhi dal display.
“Sai, era Luca, al telefono?”
“Sì?”
“Sì, tanti saluti”.
“Dai, mangiamo che sennò si fredda”.
Francesca mette gli occhi sulla tavola per la prima volta. Posa il cellulare sulla tovaglia.
“Ma che bel lavoro che hai fatto, eh? Chissà che buona”.
“Assaggia, dai”.
Mentre Francesca si porta alla bocca le prime forchettate, Paolo ha quasi finito.
“Bravo, è davvero buono”.
Finge di battere le mani.
“A te si vede che piace, eh? Hai già finito?”
“Senti, Francesca, è mezz’ora che aspetto come un cretino, avevo fame, va bene? Sempre con quel telefonino del…”
Si trattiene.
Francesca continua a mangiare, lentamente. Sembra giocherellare col cibo.
“Ma che voleva, poi?”, Paolo si è alzato per prendere la padella con l’altra pasta.
“No, niente”.
“Come, niente, ci hai parlato un quarto d’ora”.
“Ma niente, lo sai è anche lui in vacanza in Sardegna”.
“Non mi dire!”
“Dai, non fare lo scemo, ora. Voleva chiedermi se avevo intenzione di…”
“Di…”
“Se avevamo intenzione di andare al Billionaire, la sera di Ferragosto. Potrebbe farci avere delle riduzioni. Lui ci va spesso”.
“Ti piace, eh, Luca? Occhiali di Gucci, scarpe di Prada, Porsche e villa in Sardegna? Il meglio che si può avere dalla vita, no?”
“Ma che dici, idiota? Per chi mi hai preso?”
“Eh, lo so io, che se non fossi un poveraccio…”
“Ma che dici?”
“Se anche te e tua madre ci aveste i soldi…”
Paolo non sa più quello che dice.
“Non sai quello che dici, Paolo. Comunque non ti preoccupare, gli ho detto di no”.
“Ah, sì? Gli hai detto che siamo due poveracci e che non abbiamo i soldi per la benzina e il resto, per andare una sera a quel locale da stronzetti?”.
“Come sei stasera! No, gli ho detto che ci avevano invitato a una festa a San Teodoro, e che avevamo accettato. Poi il Billionaire è troppo lontano da noi”.
“Troppo lontano, eh?”
“Sì”.
“Festa a San Teodoro? Ti vergognavi a dirgli la verità?”
“Che verità?”
“Che sono un poveraccio. Che non possiamo permetterci una vacanza decente. Che per stare in questa merda di posto abbiamo fatto i salti mortali, da gennaio”.
“Ma sei impazzito?”, dice Francesca. Ma non lo dice convinta.
I due ragazzi hanno smesso di mangiare da un pezzo.
“Senti, adesso, sono io che non ho più fame. Anzi, ho ancora fame, ma non ho voglia di mangiare qui”.
Paolo prende la padella e il forchettone di legno. Va verso la porta. Mentre esce dice:
“Esco un po’”.
Appena uscito, Paolo appoggia sul cofano dell’auto la padella. Non è che abbia davvero così fame. Si volta per vedere se Francesca l’ha seguito. No. Si incammina, verso il mare. C’è andato un paio di volte a piedi. Da quando la bici è ko, Francesca non ha più messo il piede in spiaggia.
Mentre cammina Paolo vede una stella cadere. Non che sia importante. Abbassa la testa sul sentiero e guarda dove mette i piedi.
Nella casa, Francesca guarda il suo piatto, ormai quasi vuoto. Non ha voglia di finire. Il suo sguardo vaga un po’ per la casa. La porta di camera socchiusa. La luce ancora accesa. Francesca torna a sedere sul letto. Le lacrime cominciano a scendere. Accende lo stereo. Francesca pensa possa farla star meglio. Non migliorare le cose tra lei e Paolo, non far decollare la vacanza, non darle un lavoro da sogno. Ma farla star meglio, sì. Meno male c’è sempre uno che canta e la tristezza ce la fa passare.
La musica parte.
“Ho una canzone triste nel mio cuore”.
“Come mi conosce!”, dice Francesca a voce alta. La voce è un po’ rotta dal pianto. Francesca si sente così sola. Adesso sta proprio singhiozzando.
Da un’altra parte della Sardegna, in quel preciso momento, 850 persone stanno ascoltando una canzone di Zucchero. Hanno pagato mille euro, per cena e concerto. Stanno mangiando aragoste, ostriche, caviale e bevono champagne. Zucchero sta cantando a bordo piscina dell’Hotel Cala di Volpe, il compenso per la serata è di 300 mila euro.
Una signora sta scrivendo un sms sul telefonino. Zucchero se ne accorge, si arrabbia e inizia ad insultarla:
“Lavandino, baraccone, bagascione, cassonetto, sei uno schifo, puzzi come un’aringa”.
Poi il cantante prende una bottiglietta di Gatorade e la lancia in direzione della signora, ma sbaglia mira. L’oggetto sfiora un bambino e cade su un tavolo di miliardari russi. I russi rilanciano verso Zucchero la bottiglietta di plastica, che cade sul palco, poi cominciano a tirare bottiglie di vino e superalcolici. Bloccati al momento del lancio dagli addetti alla sicurezza, tentano allora l’assalto al palco per aggredire il cantante. Spintoni e urla. Zucchero continua a cantare. Solo i pompieri calmano la situazione. Un’altra canzone finisce. Zucchero dice:
“Non sono qui per voi ma per i soldi che mi danno”.
C’è qualche istante di silenzio. Poi, proprio come nello stereo di Francesca, comincia un’altra canzone.

Il sosia


Il giorno successivo mi fermai al solito posto. Con una differenza. Anziché proseguire nel mio cammino decisi di attendere l’arrivo del sosia. O meglio. L’arrivo della persona che secondo me aveva deciso di recitare la parte del mio sosia. Vedere con i miei occhi era l’unico modo che avevo di accorgermi se quello che diceva la gente era vero. Non ci crederete. Non ci ho creduto nemmeno io. Se qualcuno venisse a dirmi oggi “ciò che hai visto era verità” allora sarei il primo a non credere a me stesso. Così è stato. Il sosia entra dalla parte sinistra dell’inquadratura passando davanti all’edicolante dove mi rifornisco ogni settimana. Il sosia saluta l’edicolante che ricambia il saluto in modo affettuoso, come mai aveva fatto con me. Il sosia prosegue nel suo cammino, penso, forse si sta dirigendo verso la mia auto. Invece no. Il sosia attraversa la strada per entrare nella ricevitoria dove tre volte alla settimana vado a giocare la mia schedina del superenalotto, senza vincere nulla. Il sosia esce fuori con un sorriso sornione stampato sul viso, come se avesse in tasca un’ipoteca sulla vittoria. Incredibile a dirsi. Non riesco a capacitarmi di quello che vedono i miei occhi. Continuo a non credere. L’unico sistema filosofico che potrebbe venirmi in soccorso in questo momento è quello si Berkeley, ma sì, quello che coniò il motto esse est percipi, che tanto odiavo – perché non lo comprendevo – al liceo, e che adesso mi si manifesta in tutto il suo nitore. Il sosia esiste. Da quel momento non decido nemmeno più di seguirlo. Se c’è un sosia che mi assomiglia e che viene scambiato per me quando giunge in determinati luoghi, tanto vale incrociare le dita e sperare che il mio sosia si comporti bene. Da quel giorno ho preso a considerare il mio sosia come un padre può considerare un figlio disgraziato, “va bene, è nato, speriamo che non vada in giro per il mondo a far troppo danno”. Il sosia da quel giorno diviene la scusa della mia negligenza galoppante. Quando il telefono mi squilla e non mi va di rispondere chiamo in causa il Sosia, mi dico, “forse è di lui che cercano”. Certe volte mi arrivano dei messaggi in una delle mie caselle postale dove alcuni collaboratori stretti o addirittura semplici conoscenti, cercano notizie, all’inizio credo che siano interessati a me, soltanto ad una lettura attenta mi accorgo che non posso rispondere alle loro richieste perché mi mancano i frammenti di raccordo tra i discorsi che mi accennano. Come se un Sosia si sia messo tra me e loro incontrandosi in modo del tutto autonomo. Il sosia è quieto. Non mi perseguita. Si limita ad esserci. Il telefonino vibra sul tavolo. Il brusio è inconfondibile. “Numero privato”, deve essere lui. Finalmente è giunta l’ora della resa dei conti. È vero “possiamo incontrarci?”, “chi è lei, che cosa vuole?”, “ma come, ti sembra questo il modo di rispondermi? Non aspettavi anche tu questo momento?”.

[continua]