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“Le strade di Laura” di Patrizia Caffiero (Musicaos Editore)


Una nuova storia scritta da Patrizia Caffiero, un racconto, anticipazione del volume di racconti che uscirà, in autunno, con Musicaos Editore. L’ebook è scaricabile gratuitamente.

“Le strade di Laura” di Patrizia Caffiero (Musicaos Editore)

Laura vive con la sua famiglia a Pescara, è una giovane ragazza, i suoi occhi evocano creature del bosco e spazi sovrannaturali. Allʼetà di quattordici anni Laura si è iscritta allʼIstituto dʼArte della sua città. La vita di Laura è divisa tra il mondo di fuori e casa sua, dove viene picchiata, senza preavviso, senza motivo, senza ragione, dal padre, senza che sua madre muova un dito. Laura frequenta un uomo più grande di lei. Laura sogna di scappare, un giorno, scappare di casa, e andare a vivere in unʼaltra città.

“Molte volte, negli ultimi anni, aveva pianificato quella partenza senza confidarlo a nessuno. Un sorriso perenne le premeva dietro le guance tonde; era la certezza di poter fuggire dal suo luogo d’origine, che le aveva dato forza. I genitori credevano che aspirasse soltanto a farsi una famiglia, come tutte le figlie degli amici che conoscevano. Avevano sempre nascosto con cura agli estranei – così chiamavano tutti gli altri che non erano di famiglia – i problemi familiari, riuscivano a mostrare un’aria rispettabile. Per qualche misterioso motivo i genitori di Laura credevano che, nonostante tutto, la figlia fosse felice in casa con loro. Le botte erano incidenti e basta, accadevano di rado, i lividi svanivano e i sorrisi tornavano a tavola regolarmente, dopo qualche giorno.”

Lʼunica cosa che fa vivere Laura in armonia con se stessa è la pittura. Le sue grandi tele e le sue “teste” evocano una forza illimitata, una tenacia interiore che non ha freni. Perché cambiare è possibile, la fuga è a un passo. A Bologna Laura troverà unʼesistenza nuova, un lavoro, la realizzazione.

La violenza tuttavia ha segnato la sua vita, incidendo sul suo percorso una linea che Laura non sa se seguire o cancellare, una strada che è diversa da tutte quelle che ha percorso fino a oggi.

“Le strade di Laura” di Patrizia Caffiero è la storia di unʼesistenza difficile, radicale, alternativa. Un racconto estratto dalla raccolta di racconti inediti che Patrizia Caffiero pubblicherà con Musicaos Editore nellʼautunno del 2017.

Patrizia Caffiero, nata e vissuta a Lecce fino al 1996, si è trasferita prima a Ferrara, poi a Bologna e infine ad Anzola dell’Emilia dove ha “trovato” le sue radici, e lavora dal 2006 per il Comune come addetta alla cultura e bibliotecaria. È laureata in Lettere e Filosofia (Università di Lecce) con una laurea dak titolo “Pasolini e il Potere. Linee per un’interpretazione storico-politica.” S’interessa di cinema, il teatro, la letteratura; i suoi scrittori preferiti sono Maeve Brennan, Truman Capote, Karen Blixen, Jean Stafford, Paul Auster. Ha pubblicato per Miraviglia editore, nel 2007, “Guarda che prima o poi Dio si stancherà di te”; sempre nello stesso anno, per la casa editrice Fernandel, un racconto per l’ antologia “Quote rosa”; nel 2009 un racconto per l’antologia “Fobieril – soluzione MANIAzina” (Jar Edizioni).
Aggiorna settimanalmente il blog letterario “Prima della pioggia” visitabile all’indirizzo: https://testiappuntinotedablogs.wordpress.com/

“Le strade di Laura”, di Patrizia Caffiero, Musicaos Editore, ebook, isbn 9788899315887
disponibile gratuitamente su tutti gli ebook store, anche su:

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“Prosit”, un racconto di Evelyn De Simone.


“PROSIT” di Evelyn De Simone

Siamo seduti a questo tavolino da circa due ore e sono circa due ore che me ne sto curva sul mio quaderno, simulando trance creativa, solo per sottrarmi alla discussione in corso tra Luca e Alessandro, circa l’amicizia, i legami, la fiducia. Tutte quelle parole che, solo a pronunciarle, ti riempiono la bocca.

Se c’è una cosa che non sopporto è quando la gente continua a parlare per tanto tempo dello stesso argomento, pur essendo totalmente d’accordo su qualsiasi aspetto della questione. È come in quegli stupidi talk show del primo pomeriggio in cui tutti si contraddicono urlando, per dire la stessa cosa. Almeno Luca e Alessandro sanno usare i congiuntivi e, soprattutto, parlano a volume abbastanza moderato.
– Certe volte non puoi prevederlo. È inevitabile fare qualche errore di valutazione: ti fidi degli altri, dai loro ciò che puoi e…
– Tac! Ti fottono in men che non si dica. Il punto è che non bisognerebbe dare tanto. O forse pur di evitare le delusioni non bisognerebbe dare tanto aspettandosi di ricevere tanto..non so..
-Io lo so: per preservarsi non bisognerebbe dare tanto a chi vuole ricevere tanto. E comunque se ti faccio un favore, se condivido una cosa con te lo faccio visceralmente, senza una vera intenzionalità razionale. Non lo faccio perché tu lo faresti (anche se a posteriori so che è così), il moto del “farlo”, del “darsi” è una forma di prepensiero elicitata da…
-Solo da determinati tipi di rapporti. E se le viscere, qualche bella volta, si sbagliano?
-È proprio questo, ciò che cercavo di dirti. Le viscere possono sbagliarsi, eccome, e noi non possiamo farci niente: possiamo scegliere se fidarci o meno degli altri, ma non possiamo non fidarci del nostro stesso istinto. Non si può sfuggire a lungo all’istinto, sarebbe come vivere in una cella di isolamento.
-Prima o poi ci convinceranno che saranno giuste le amicizie “con i beni separati e con i mali in comunione”.
-Adoro quel pezzo, cazzo ha un sound…comunque ti dicevo…

E avanti così, ancora, smetto persino di stilare quello schema mentale in cui appunto le posizioni dell’uno e dell’altro. Mi alzo per andare in bagno e quando torno, Alessandro sta dicendo qualcosa circa i condizionamenti ambientali che subiscono le nostre viscere e Luca sembra dare i primi segni di cedimento: ha smesso di guardarlo in faccia, preferendo la vista di un gratta&vinci che sta grattando con la cura con cui si spogliano le mogli durante la prima notte di nozze.

Riprendo il quaderno tra le mani e inizio a disegnarli. Due bicchieri di birra a metà e due vuoti allontanati al bordo destro del tavolo. Abbozzo il modo gentile di toccarsi i capelli di Alessandro, le sue labbra carnose inclinate in un mezzo sorriso benevolo. Di fronte stendo due/tre righe per la sagoma di Luca, aggiungo le rughe di concentrazione sulla fronte, la testa piegata di lato per guardare meglio il biglietto, la bocca serrata, non sorride, non è triste, non è seria. Alzo la matita dal foglio solo quando sento Luca che, continuando a guardare tra i disegni idioti del biglietto, dice:

– Sai cosa ti dico? Che alla fine è tutto una presa per il culo. L’amicizia, la fiducia, la reciprocità. Sono parole prive di significato, sono solo aria che mette in subbuglio, inutilmente, neuroni e corde vocali.
– Cosa?
– Sì, è così. Qualsiasi forma di altruismo o di affiliazione nasconde solo il desiderio intrinseco di scampare alla solitudine o di trovare gratificazione attraverso le carenze degli altri o di ricevere ciò che vogliamo per pura avidità. Tu, per esempio, mi sei amico e mi dai ascolto in previsione di ciò che riceverai. Altro che prepensiero, caro mio. Non darmi niente perché non voglio niente, perché non ti darò niente.

Riabbasso la testa e riprendo a disegnare, con l’ostinazione degli autistici. Luca parla ad Alessandro con un tono di voce che gli ho sentito assai di rado, parla ad Alessandro, ma fissa il suo gratta&vinci e quando si blocca un attimo, per prendere fiato, un fugace impercettibile sorriso gli increspa le labbra. Forse Alessandro neanche se ne accorge. Eppure io l’ho visto: ha guardato quel biglietto e ha sorriso, per un attimo, d’istinto. Non si può sfuggire a lungo all’istinto.

Torno a scrivere e questa volta non lo faccio per sfuggire alla conversazione, torno a scrivere di quel sorriso, dei suoi occhi raggrinziti che cercano disperatamente di mettere a fuoco i numeretti sul biglietto, delle sue mani, ora evidentemente sudate, che lasciano impronte sulla plastica verde del tavolino. Scrivo, mentre loro continuano a parlare di amicizia, di fiducia e di legami. Tutte quelle parole che ti viene difficile pronunciare quando pensi di avere un segreto tra le mani che speri possa cambiarti la vita, ma un pezzo di carta non può cambiarti la vita e sto ancora scrivendo quando la voce di Luca torna quella di sempre, si apre una risata, e dice “Dai, scherzavo” col tono delle fiction buonalaprima. “Vado a prendere da bere, questo giro lo offro io!” dice, ancora con quel tono. Lo guardo alzarsi, prendere il gratta&vinci, accartocciarlo e gettarlo nel cestino all’entrata del bar e quando ritorna al tavolo con tre birre appena spillate brindiamo all’amicizia e alla lealtà, cercando di crederci davvero.

§

Questo è il secondo racconto di Evelyn De Simone , pubblicato su Musicaos.it, il primo, intitolato “The Spirit of Innovation” è qui.
Per invio materiali, suggerimenti, eccetera e altri eccetera a Musicaos.it, leggete le istruzioni qui: http://www.musicaos.it
C’è una pagina che ha poco più di cento fan su facebook, è la pagina di Musicaos.it, la trovate a questo indirizzo.  Se siete interessati a seguire giorno per giorno le riflessioni, i post, i link, e i pensieri del curatore di musicaos.it potete leggerlo su twitter, un assaggio è nella colonna a destra di questo blog. Alcuni dei libri in lettura attualmente sono “Afra” (Besa Editrice) di Luisa Ruggio, “Cadenza d’Inganno” (Lupo Editore) di Alfredo Annicchiarico, “In cielo come in terra” (Laterza) di Susan Neiman, “Invisibili” di Fulvio Colucci e Giuse Alemanno (Kurumuny), “La passione” (Untitl.ed) di Marco Montanaro, “451 Via della Letteratura della Scienza e dell’Arte” e – che non guasta mai – La Divina Commedia nel commento audio di Vittorio Sermonti.

Solo l'inferno è onesto. Silvia Rosa.


Silvia Rosa
Solo l’inferno è onesto.

” Io mi sento […] Colpevole […]
di aver creduto che il corpo fosse una
prigione e non il bozzolo del cielo”

Dome Bulfaro

Un taglio di luce abbagliante le incideva la pelle avvizzita.
Camminando svelta per la strada sparecchiata d’Agosto, una verga di luminosità pura e assoluta, a picco, lambiva il suo grembo rinsecchito, attraversandola tutta, senza proiettare intorno nessun cono d’ombra. Nessuna zona nera dove rifugiarsi, per scampare all’immagine nitida del suo corpo, scomposto in lembi luccicanti di carne giallognola. Una sensazione di immobilità faticosa la colse all’improvviso. Come fosse inchiodata all’asfalto, che pareva liquefarsi sotto gli affilati raggi solari di Mezzogiorno. Eppure stava quasi correndo, verso il portone di casa.
L’odore del suo sudore era così penetrante che restava a lungo nell’aria, come una nebbiolina acre e nauseabonda. In bagno si sbottonò la camicetta di cotone bianca, si sfilò la gonna ampia, tolse il reggiseno consumato e le mutande, che all’altezza dell’ombelico le avevano tratteggiato una linea zigrinata e violacea. Dalla specchiera i suoi seni cadenti, marchiati dalle grosse areole sfatte, ghignavano raggrinziti. I capelli radi appiccicati alla spaziosa fronte avevano un colore indefinito, untuosi e spolverati da scaglie di forfora grassa. Voltò le spalle a se stessa riflessa a metà, ed entrò nella doccia. Si insaponò strofinandosi con vigore, insistendo soprattutto sulle cosce flaccide e spugnose, sulla pancia prominente e sul viso.
Ma la bruttezza non si lava via. Lei lo sapeva bene.
Avvolta in un vecchio accappatoio si sdraiò sul letto. L’aspettava. Con l’orecchio teso cercava il rumore dell’ascensore che si arrampicava al piano, e lo sbattere della porta accanto alla sua. La musica dei passi di Doriana, di rientro dalle vacanze.
Sul comodino c’era il libro che le aveva regalato, con una dedica scritta in blu “A Marisa, Auguri di Buon Natale e Felice Anno Nuovo!”. Tutte le poesie di Manganelli. Lo aprì a caso. Pagina numero 73. Lesse il primo verso “Non tenterò più di risolvere…“. Scandendo bene ogni parola, recitò ad occhi chiusi: “Non tenterò più di risolvere le contraddizioni del mio sangue in un’esistenza funzionale: né di catalogare il mio disordine in archivi razionali; propone diversi più esaurienti sillogismi l’onesta dialettica della lenta malattia: imparo a memoria una imprevedibile chiarezza dentro il mio corpo che decade.
Il ventilatore frullava roteando da una parte all’altra della camera. Marisa si frugò tra le gambe, scorrendo lentamente le dita lungo il contorno spelacchiato del suo sesso, fino al vertice tenero di sé, che prese a pulsare lievemente. Un fremito di sterile piacere la scosse. E poi di nuovo quella sensazione di immobilità soffocante, e una tristezza di piombo che le sgocciolò nelle ossa. Pensò che certo Doriana non conosceva l’infinita solitudine di un corpo abbandonato all’indifferenza e all’incuria del tempo, che sfigura e deforma, crudele. Lei sì, invece. Ci conviveva ormai da anni, desiderando con ostinata disperazione di essere sfiorata da una carezza, stretta in un abbraccio. Toccata, dalle mani calde di un altro essere umano, ché la sottraessero all’involucro opprimente di se stessa, restituendola alla vita. Certe notti insonni ascoltava attenta, al di là della parete, Doriana che faceva l’amore. Immaginava di trovarsi al suo posto. Sognava di essere lei. Giovane e bella. Amata.
La prima volta che l’aveva vista, quell’Autunno, era rimasta colpita dall’inusuale bellezza del suo volto: due vivaci occhi di cioccolata dall’espressione fiera, il naso sottile e lungo, le labbra impigliate in un perenne broncio infantile, il mento piccolo e un poco appuntito, in una cornice vaporosa di capelli corvini. Inclinava la testa da un lato, quando rideva. E profumava di vaniglia. Con una voce fresca e allegra, davanti alla buca delle lettere nell’atrio del palazzo, si era presentata: “Buongiorno! Sono la nuova inquilina del quarto piano, mi chiamo Doriana.”
Dopo quell’incontro Marisa aveva cercato ogni occasione per conversare con la ragazza, per rubarle parole che, come pezzi di un puzzle, pazientemente raccoglieva, ordinava, metteva insieme, finché l’esistenza di quella sconosciuta le divenne familiare e prese ad appassionarla più della propria, squallida e grigia. Aveva bisogno di sapere tutto di lei. A volte, con urgenza, suonava il campanello. Una scusa qualsiasi, e le entrava in casa. Doriana era una farfalla colorata che si agitava leggera tra il tavolo e le sedie: “Ti preparo un caffé…Ah, non sai che cosa mi è successo oggi a scuola…Ma tu come te la cavi con quelle arpie nevrotiche delle mamme dei tuoi? Io, guarda, un giorno di questi ne mando a stendere qualcuna. Ma che cavolo…c’hanno dei comportamenti che neanche i figli di sette anni…” Maestrina appena laureata, al primo impiego, le chiedeva spesso dei consigli. Allora, come si fa con una bimba dagli occhioni sgranati di curiosità, Marisa raccontava una favola sempre nuova. Quello che in più di venticinque anni di lavoro avrebbe dovuto imparare, se essere una buona Professoressa di italiano in una scuola media le fosse interessato davvero qualcosa. Non gliene importava nulla, invece. Quei quattro ragazzini impertinenti non si meritavano niente di niente. Pensavano che fosse una stupida, che non si accorgesse dei soprannomi offensivi che le affibbiavano, delle risatine quando entrava in classe, delle smorfie che mimavano fra loro ad imitare la sua faccia?
“Brutta scrofa!”, s’era sentita sputare con veemenza da un suo allievo, esasperato dall’ennesimo ‘insufficiente’ che, in verità godendo assai, con le mani tozze gli aveva ricamato sul registro. Lo sciocco s’era fatto sospendere e la bocciatura, probabile per via dei brutti voti, era diventata sicura a causa di quello sfogo. A seguito di quell’episodio, sui muri dell’edificio scolastico era comparsa una scritta in verde: “La Ferri è una racchia puzzolente”. Il Preside aveva definito l’accaduto “gravissima mancanza di rispetto”, accalorandosi tutto in una noiosa ramanzina circa il “vergognoso atteggiamento di chi denigra una persona per il suo aspetto fisico”, e con voce un poco stridula e teatrale gesto della mano levata verso il cielo, aveva avvertito gli studenti, convocati in assemblea straordinaria nella palestra dell’Istituto, “della pericolosità di certe discriminazioni”. E a concludere, dopo un greve silenzio, aveva aggiunto sospirando: “cari ragazzi, non si giudica qualcuno dall’apparenza fisica…ci sono cose più importanti…valori…”
Marisa scoprì le gengive in un acido sorriso. Ipocrita, sussurrò girandosi su un fianco a cercare il mulinello d’aria fredda che il ventilatore alzava ora alla sua sinistra. Proprio lui parlava, lui che a cinquant’anni suonati aveva piantato la moglie per mettersi con l’amica ventenne della figlia. Lui, che con atteggiamento paterno non perdeva occasione di chiacchierare con le quattordicenni più procaci, sogguardando lascivo le loro scollature, il vortice voluttuoso dei loro ombelichi esposti generosamente, la carne florida e immacolata delle loro natiche, debordanti dai pantaloni strizzati, sode e rotonde come il più gustoso dei frutti proibiti.
Un’amara riflessione le corrucciò d’un tratto l’angolo della bocca, appuntandosi in una ruga verticale tra le due sopracciglia. Tutto si riduce infine a questo. Al banale gioco perverso del “guardare e non toccare”. I corpicini delle giovanissime resi oggetti di desiderio, ambiguamente impacchettati in succinti e provocanti abiti all’ultima moda, offerti alla vista degli adulti, a cui si vieta di possederli, ma non di usarli. L’avvenenza inquietante dei corpi di plastica delle pubblicità, levigati e perfetti, senza odore né sapore, senza anima e senza età, troneggianti su giganteschi cartelloni sospesi a mezz’aria, ammiccanti dalle riviste patinate, prestanti e tonici nelle movenze da marionetta in televisione. Idealizzati e irraggiungibili. Da venerare, come nuovi Dei, feticci e simboli di un’epoca visionaria d’ombre e di fantasmi, di schermi ipertecnologici dietro cui nascondersi, avvicinandosi virtualmente per essere ancora più distanti. Guardarsi e non toccarsi, nella metropolitana gremita o di Sabato pomeriggio negli affollati centri commerciali. Corpi che si scontrano, senza incontrarsi mai. Impenetrabilità delle loro scorze molli solo in superficie. Scrigni inaccessibili invece, monadi di solitudine feroce, frammenti di un’umanità impossibile da ricomporre. Aggrappati ‘agli appositi sostegni’ per non correre il rischio di farsi male, perdendo l’equilibrata posa di statue immote, o al carrello della spesa per colmare di inutilità l’abisso di vuoto che si apre in ogni gesto. Non toccare e non guardare i corpi segnati dalla malattia, relegati in asettiche celle numerate di macroscopici alveari, lontani, rimossi, come la parola più autentica inscritta nel sangue…il dente della morte che rosicchia la carne, paziente…e ci salva …Il mio corpo come una prigione, orribile… Nessuno preme sul mio corpo cercando il denso suono del mio piacere…liberandomi…
Immagini di rosee nudità si affastellarono nella mente affievolita di Marisa. Confuse orge di labbra spalancate come gallerie buie, di mani chiuse in pugni serrati, di cosce umide di saliva, di membri minacciosi che svettavano da nere praterie di peli attorcigliati, di occhi svuotati, e poi il cadavere enfiato di sua madre nella chiesa gelida e le sue scarpe lievi di bambina, l’urlo di dolore annegato nel segno della croce, la risata turchina di Doriana e il cuore che danza di vita e batte, batte forte, batte rumoroso.
Si svegliò di soprassalto. Da quanto dormiva? Il muro tremò un’ultima volta. Doriana era ritornata e stava picchiando, batteva contro la parete. S’alzò di scatto, si disfò dell’accappatoio e si rivestì in fretta, corse in cucina, prese il sacchetto poggiato in un angolo e fu davanti alla sua porta.
“Bentornata! Stamattina sono stata al supermercato e ho pensato di portarti del pane…qualcosa da mangiare …”
“Marisa! Ciaooo! Ma Grazie… non dovevi disturbarti! Sei sempre così gentile! Vieni, entra, non guardare il casino. Stavo attaccando un quadretto che ho comprato in vacanza…ti piace? Non ho saputo aspettare, lo volevo appendere subito, non è carino?”
“Molto… si adatta bene anche all’arredamento.”
“Vero? Lo dicevo io! E guarda qua: un’altra pazzia…questo mese mi sa che devo chiedere i soldi ai miei per l’affitto, ho speso un patrimonio!”
Dal borsone riverso sul divano estrasse un lungo vestito di seta cremisi, con le spalline tempestate di strass, accostandoselo addosso. Marisa deglutì sentendosi raschiare la gola. Pensò che lei non aveva mai indossato niente di simile in tutta la sua vita.
“Volevo mettermelo domani per il compleanno di Giacomo…Però, uffa… va accorciato, no?”
“Posso farlo io, se vuoi. Provatelo con le scarpe. Mi servono solo degli spilli per prendere la misura.”
Poco dopo Doriana, con la pelle imbrunita e le spalle scoperte, al centro della stanza, fasciata nella morbida stoffa rossa, sorrideva di gratitudine. Marisa abbracciava la scatolina del cucito e l’ammirava. Tentò goffamente di chinarsi per afferrare l’orlo dell’abito, ma il suo corpo l’ingombrava. Si ribellava sempre, sempre, come fosse stato altro da lei. Doriana notò che faticava ad abbassarsi. Allora avvicinò una sedia e agile, tirandosi su il vestito fino a svelare le ginocchia, ci salì sopra, traballando sui tacchi dei sandali di vernice nera, “così sei più comoda…”.
Persino i suoi piedi erano incantevoli. Con le piccole dita appena arcuate e le unghie come zuccherini bianchi. Le stava raccontando del mare, ma Marisa sentiva solo un fruscio in cui nessuna parola era più distinguibile. Provava l’impulso irrefrenabile di afferrarle una caviglia, di morderle il polpaccio, di toccarla e stringerla a sé, fino ad essere una sola persona con lei, fino ad essere lei.
“Ma che cosa stai facendo?” La voce dura come uno schiaffo la ferì inaspettatamente. Incrociando gli occhi della ragazza colmi di ribrezzo, smise di accarezzarla, umiliata dal suo rifiuto, sentendo crescere dentro di sé una collera cieca. In una frazione di secondo, con una spinta violenta, scaraventò Doriana a terra. Distesa e inerme, così vulnerabile e fragile, era ancora più bella, insostenibilmente bella. Marisa si mosse come un automa verso l’acciaio rilucente del martello dimenticato sul tavolo, lo impugnò e prese a colpirla furiosamente. Infieriva con tutte le sue forze. Con ogni colpo voleva toglierle via quella grazia ingombrante e inutile, che odiava e al tempo stesso avrebbe desiderato per sé, voleva rimuovere il guscio del suo corpo ed arrivare alla polpa vivida di lei.
Quando fu esausta si fermò ansimante, accucciata nel sangue accanto al corpo senza vita di Doriana. Si accorse solo allora che la mano destra della giovane era scampata alle terribili lesioni inflitte, conservando intatta la sua forma delicata. Se la portò alle labbra baciandola, succhiando avidamente quel tepore. Dalle profondità più recondite del suo essere baluginò il ricordo lontanissimo del calore di un abbraccio assoluto, di un amore incondizionato, di uno sguardo che non s’era mai fermato alla laidezza della sua figura, ma che era andato oltre, l’aveva trovata, accolta, l’aveva posseduta completamente. L’incontro perfetto di due corpi, fusi insieme in uno, indistinti in un respiro. Uno dentro l’altro. Mamma…Mormorando quel nome Marisa provò una tristezza inconsolabile, impastata di smarrimento e rabbia. Perché mi hai abbandonato, mamma? Mi ha lasciata sola e avevi giurato di non farlo mai. ‘Staremo sempre insieme’, dicevi. Bugiarda. Menzogna e tradimento…solo questo esiste…E solitudine…non c’è rimedio alla solitudine…alla condanna di questo corpo che ci separa e ci imprigiona… divorato dal tarlo della morte… Doriana, amore? Non mi rispondi? Perché non mi vuoi, perché?
Marisa fissava l’anellino d’argento nell’anulare di Doriana. Voleva piangere, ma non ne era più capace. Quella mano fra le sue divenne pesante come un macigno. La sentiva bruciare, come fosse divorata dal fuoco. Riafferrò il martello, contrasse i muscoli del braccio e le si avventò contro percuotendone ritmicamente le nocche. Con una voce roca, che non le parve più sua, biascicò adagio: “Rinuncia alla mano dell’amica, la sosta assurda della mano nel giro di altre dita: solo l’inferno è onesto…Nega l’elusiva sosta di un dialogo di frode, segna con l’unghia…il segno della fine. Sdràiati nel centro dell’inferno, riconosci i confini del girone astratto, conclusivo. Non cedere ai cattivi sillogismi d’una divinità qualunque: solo l’inferno è onesto solo l’inferno è onesto solo l’inferno è onesto solo l’inferno è onesto solo l’inferno è onesto solo l’inferno è onesto solo l’inferno…
Quando smise di ripetere l’ultimo verso della poesia, di quel corpo massacrato restavano solo brandelli. Allora, con sgomento, si rese conto che di Doriana non rimaneva più niente.

(photo by flyzipper)

Palco 5. Enrico Martini


Enrico Martini
Palco 5

Palcoscenico del Teatro Giuseppe Verdi di Brindisi

Di nuovo scese la notte sul teatro d’opera e la sonata dei sussurri riprese.
-Chi l’avrebbe detto? Il teatro, il gran teatro d’opera è sopravissuto al crollo! Il palco 5 è distrutto, invece. Ma ora lo restaureranno, ha sentito? Vedrà: sarà un palco meraviglioso, con mille bocche per i suggeritori, spalti a perdita d’occhio. E poi le luci…sì, le luci, con effetti da lasciare a bocca aperta. Ne ho ideato anch’io di nuovi, meravigliosi, sa? E poi le quinte! Lei non può immaginare cosa si celi dietro quelle tende.-
Erik strinse a sé la scopa, struggendosi d’emozione, quasi stesse recitando una di quelle arie d’opera per cui aveva vissuto: la carezzava, la scherniva, abbozzava qualche passo di danza, la traeva a sé e poi la respingeva.
Nel frattempo puliva. Puliva, puliva, puliva. Polvere su questo, polvere su quello.
I corridoi sembravano tappeti farinosi, i saloni piazze di pietra morbida, le trombe delle scale di legno marcio e di taffettà grigio; le stanze non aerate puzzavano di polvere stantia, i camerini di cipria di eternità e dai camini veniva un olezzo di zolfo e dimenticanza.
Non vedeva altro che polvere. Sembrava impossibile quanta se ne potesse accumulare. C’era uno strato morbido e uniforme. Gli pareva ricordasse quella carta grossa, quasi brufolosa ma soffice al tatto, che si usava per gli inviti per ospiti di rango.
-La signoria vostra è invitata alla prima rappresentazione de “Il Don Giovanni trionfante” all’antico teatro d’opera, presentato nella sua nuova elegante veste.-
Ah! Il suo sogno, il suo desiderio più grande! Vedere la sua opera rappresentata in quel teatro, nella culla stessa dell’arte.
-Il palco 5….il palco 5 sarà perfetto per quella rappresentazione. Basteranno alcuni ritocchi. Ha sentito, no? Vogliono ristrutturare il teatro. Riportarlo al suo antico splendore e il palco 5 sarà il suo fulcro, la gemma più splendente del diadema.-
Ma intanto c’era quella polvere a cui pensare. Doveva darsi da fare o il padrone non lo sarebbe stato a sentire.
Antonio Pironi, il padrone. Se ne raccontavano di storie su di lui, che era un cinico, che gli interessavano solo i soldi, ma Erik sapeva che non era vero. Aveva portato l’opera nel paese e questo genere di arte era diventato l’emblema stesso della città. Quello spazio, senza di lui, sarebbe rimasto solo un prato per ospitare gli acrobati del circo. Sì, certo: forse un teatro d’opera lo aveva arricchito, ma quanti avevano conosciuto la fortuna grazie a lui? E ora poteva essere il turno di Erik. Non più solo un’ombra che si muove dietro le quinte, non più solo un garzone.
Il suo progetto, la sua opera, l’avrebbe fatto. Rifulgere come una nuova stella. Tutti lo avrebbero acclamato
-Vedrà, vedrà. Grideranno il mio nome.-
Se solo questa polvere se ne fosse andata. Eppure, più lavorava, più si impegnava, più gli sembrava che non un solo granello si fosse mosso. Anzi. Sembrava quasi moltiplicarsi, inglobando tutto, nascondendo al mondo le cose, importanti o meno che fossero, sotto un velo di dimenticanza.
Ma ora…Dov’era il suo libretto? Dov’era la sua opera? Anche lei sotto la polvere del palco 5?
Prese fiato.
Con tutto quel lavorare, smuovere spostare, mobili e orpelli pieni di polvere, l’aria si era fatta irrespirabile. Gli sembrava che i suoi polmoni non ricevessero ossigeno da secoli. Quasi fossero anche loro sotto strati di polvere grigia.
-Allora, che ne dice: piacerà?- disse, appoggiandosi ansimante a un pianoforte cabinet.
A quell’uomo in frac piaceva ascoltare i sogni della gente e, se possibile, realizzarli. Non era propriamente un filantropo, ma se faceva una promessa si dannava per mantenerla. Ma nel caso di Erik…
-Temo di no.-
-Come? Eppure l’ha letta. Sa che è una grande opera. L’ha detto anche lei: il mio nome risuonerà sul palco 5!-
-Già, il palco 5. È da quando ti è caduto in testa il soffitto che continui a fissare quel cartello e alla fine ti ci sei affezionato, vero? Quant’è che sei lì? Quaranta? Cinquant’anni?
-Ma cosa dice? Non vede che sono in formissima! Nel fiore degli anni…-
Erik non capiva. Quell’uomo in frac non l’aveva nemmeno guardato.
Era passato oltre, si era chinato e aveva spostato un po’ di polvere, là dove non era ancora stato pulito.
-Già, magro sei magro.-
Tra i calcinacci e pezzi di trave del soffitto caduto, c’era uno cadavere mummificato vestito come Erik, che stringeva al petto un libretto, rannicchiato sotto il tavolo che guardava con la profondità delle sue orbite vuote l’indicazione per il palco 5.
Il volto del ragazzo era terrorizzato. Non poteva essere lui, quello.
Era vivo: aveva pulito quel posto per settimane, in attesa che arrivasse il padrone con i restauratori. C’era solo un po’ di polvere qua e là, ma bastava un colpo di straccio, così…ma quanto tolse la mano, nessuna orma rimase sul pianoforte.
-Non disperarti. Se tu non fossi morto, io avrei realizzato il tuo desiderio e la tua anima sarebbe stata mia. Invece, ora sei libero. Si sono scordati del palco, si sono scordati del teatro. E ora, per tua fortuna, come loro, io mi scorderò di te…-
Quel signore in frac guardò con tristezza l’ultima emanazione di Erik svanire come un fuoco fatuo.

Alle tre di un venerdì pomeriggio, il vecchio portone di accesso al palco 5 venne abbattuto. L’equipe degli operai addetti al restauro aveva cominciato il sopralluogo, per rendersi conto dei danni effettivi ai locali.
-E così tu saresti “la gemma più splendente del diadema”?- disse il capo cantiere. -Sarà una bella sfida riportarti al massimo splendore.-
Non aveva finito di parlare che un urlo squassò la calma che permaneva lì da decenni. Si aspettavano di tutto, ma non di trovarvi un cadavere mummificato di un uomo, probabilmente imprigionato in seguito al crollo di 147 anni prima. Ma la scoperta più sensazionale fu il ritrovamento vicino alla mummia di un libretto d’opera del tempo, che riportava il leggendario “Don Giovanni trionfante”, da tempo oggetto di un vera e propria serie di leggende.
Forse fu proprio per questo clima di mistero che in molti dissero fin da subito di aver visto una figura oscura aggirarsi nel labirinto di botole.
-Capo, ma sei proprio sicuro di non aver notato niente?-
-No, Binelli: io non l’ho visto “quell’uomo in frac ghignare nel buio”…-

§

Undici ballate, undici racconti. Una raccolta di novelle ma anche una compilation musicale. “Songs of Faith and Devotion” prende spunto da undici brani musicali di vari artisti per narrare altrettante storie d’amore. Come suggerisce il titolo, anch’esso preso a prestito da un celebre album dei Depeche Mode, le diverse declinazioni dell’universo amoroso ( fede, devozione, ma anche amore paterno, carnale o ossessivo) si susseguiranno durante la narrazione, portandoci in mondi dove reale e fantastico si sfioreranno, procedendo di pari passo con la colonna sonora, alternando un ritmo lento a uno più sostenuto, in battere e in levare.

Songs of Faith and Devotion” è il primo libro di Enrico Martin, edito da Altromondo Editore

Il baleniere. Racconto di Marco Montanaro


Cliccando sull’immagine potrete scaricare il PDF del racconto “Il baleniere” di Marco Montanaro. Una de-scrittura ispirata alla mitologia della Balena e delle Baleniere, un quadro sospeso al di fuori del tempo e dello spazio che riesce a conservare tutta la poesia dell’originale a cui si ispira. Un racconto imperdibile da mozzare il fiato. Buona lettura.

Hai sentito il battito?


Giovanni Padrenostro
Hai sentito il battito?

L’illuminazione della toilette è tenue, ombre ritagliano ampi spazi sulle pareti scalcinate, allungando e distorcendo come candele confuse i loro confini, aprendosi come soffice venatura verso invisibili punti; ho l’impressione di aver strappato gli incubi al mio sonno inquieto.
Il mio viso, abilmente imitato dalla trasparenza dello specchio, è frastagliato da spezzature vitree che restituiscono frammenti, parti separate: un occhio indagatore, un labbro ridotto a sottile linea rosea, una ciglia spezzata.
In mente mi ritornano come echi in corridoi di memoria alcune frasi: Ma chi sei veramente? Sei per caso quel ragazzo bastardo? Oppure quell’altro chiuso e taciturno? O quell’altro ancora estroverso e per i fatti suoi? O no? Sei quel magnifico ragazzo così dolce e sensibile come un grande artista dai mille pensieri?… perché non ti metti alla luce…
Qui c’è poca luce e il mio viso è una scheggia impazzita.
Prendo dalla tasca destra della giacca nera una piccola foto, e mi appaiono i suoi occhi neri e tristi, profondi spazi di solitudine, i capelli corvini, il viso fino e appuntito come una lama che trafigge ma non uccide.
A volte ci sforziamo in vicoli ciechi sbattendo ripetutamente la testa, sperando in una ricompensa che tarda e molto probabilmente non arriverà mai.
Ovunque sei, che tu sia felice.
Il rum che ho bevuto circola nelle vene, ho bisogno di camminare.
Esco dalla toilette e mi avvicino al bancone; chiedo un rum e pera al barista, un tunisino dallo sguardo inespressivo, lo bevo ed esco.
Accendo una sigaretta e alzo lo sguardo verso il cielo, tempestato di grigio, che questa sera accompagna i miei folti pensieri.
Abbasso lo sguardo e appare il mio angelo.
“Dove eri finito?”
“Problemi!” e faccio un segno circolare in testa con un dito.
“Ho finito le sigarette. Vado a comprarle. Vieni con me?”
“Sì!”
Abbandoniamo il brusio che irrimediabilmente inizia ad accumularsi davanti al locale.
Camminiamo con passi lenti e asimmetrici, altalenanti come barche attraccate ad un molo, avvolti dai colori della notte.
Osservo il suo viso dalle mie iridi nere e cupe: i lunghi capelli biondi e lisci, le grandi labbra, gli occhi fulgidi, un piccolo anello che decora il naso, una leggera cicatrice risale dalla parte destra del collo, una cicatrice di cui lei si vergogna un po’ ma che io vorrei baciarle qui, in questo momento mentre mi racconta schegge della sua vita.
All’improvviso piccole ed impercettibili gocce cadono sui nostri vestiti, alcune me le sento addosso come una benedizione, le sento scivolare lentamente tra le trame dei miei capelli.
La mia auto è ad un passo ma mi fermo immobile ad accogliere le lacrime pure del cielo.
“Entriamo in macchina…” mi dice.
Le stille che hanno per un attimo condotto la loro esistenza sulle sponde dei miei contorni, adesso spengono la loro breve e intensa vita sui finestrini della mia auto tratteggiando vaghe linee trasparenti.
“Sembra…come se non volesse smettere…mai…”
“Ti fa paura?”
“Sono qui con te…”
“Potremo far smettere…”
“In che modo?” sorride
I suoi occhi mi fissano a lungo in un profondo eco di luce e fulgore, di fuochi e rose.
“sai… io… noi potremo fare in modo che finisca… a volte…”
Le prendo dolcemente il viso con le mani e la bacio, a lungo.
Il battito della pioggia scema lentamente fino a spegnersi del tutto, volgo lo sguardo sullo specchietto dell’auto e ritrovo la mia immagine.
Accendo la radio, lei si toglie la maglia rossa, ci baciamo; le sfilo il reggiseno, avvicino le mie labbra ai suoi seni rosei e sento il battito del suo cuore, mentre i Modena City Rambles cantano:  “…in un giorno di pioggia ho imparato ad amarti, mi hai preso per mano portandomi via…”.
La sua mano sopra la mia mentre cambio marcia al motore. I nostri occhi sono lucenti e pieni di speranza. L’odore del suo sesso è impreso sull’atmosfera che si infrange sui vetri e il sapore di pioggia umida che filtra dalle sottili aperture dei finestrini si impregna del suo profumo. Poi, il rumore ruvido dello stridere di copertoni usurati dall’asfalto e il suono metallico di velocità in frantumi spazzano via ogni sapore. Un urlo tagliente come il soffio di una fiamma ossidrica che fora il cuore apre la notte.
Luci confuse e frammentate si mescolano in un tripudio di caos. Ho in bocca il sapore amaro della morte. I suoi occhi sono nascosti. Sono incastrato tra pezzi di alluminio e plastica e sento sparsi sul ventre il peso leggero di resti di vetri spezzati. Allungo la mano verso la mia destra. Solo plastica lacerata. Alcune ombre mi circondano. Sollevo la mano verso la testa, sto perdendo molto sangue. Cerco di uscire ma le gambe non rispondono.
Fuori ci sono lamiere cosparse di colori caldi che graffiano il cemento. L’asfalto è una lava incendiaria di rottami e sangue. Spingo con forza lo sportello dell’abitacolo. Cado per terra. Le ombre si avvicinano. Sento guaire delle sirene. Un brusio impercettibile di voci. Striscio come un lombrico per terra. Cerco di trovare le forze per alzarmi. Qualcuno o qualcosa cerca di fermarmi. Le sirene guaiscono più intensamente. Desisto, sono debole. Cerco i suoi occhi in quella confusione di suoni e ombre ma vedo solo tante scarpe che si muovono lentamente, indecise, sull’asfalto freddo e nero. Figure geometriche in ribellione. Sangue e materia. Le luci dell’autoambulanza illuminano e accecano i miei occhi. Mi sforzo di vedere oltre quella immensa prateria di cuoio e pelle. La pioggia inizia a cadere lentamente. Alcuni uomini con delle barelle escono dall’autoambulanza. La folla si apre, gli uomini vengono avanti. Cerco i suoi occhi e trovo il suo corpo sopra il cofano dell’auto che ci ha tamponato. Mi dà le spalle. Mi ha abbandonato. Il sapore della morte si fa più amaro. Le lacrime di sale scendono toccando il cemento ruvido.
Un medico scuote la testa. Altri uomini cercano di mettermi sulla barella. Non lo sentite questo odore acre. Non ha battito, il suo respiro è nell’aria che ci circonda. Smettetela! Non respirate, non la consumate. La sua anima sta fluttuando tra le fitte luci bluastre della morte. La mettono sulla barella come una cosa, un oggetto guasto e la coprano con un lenzuolo bianco. Adesso cercano di portami via. Il sapore si fa più intenso, sorrido. Presto, i nostri occhi si rifletteranno. Ancora e per sempre, io sentirò il tuo battito.

Al presente non si comanda


Daniela Rindi
Al presente non si comanda

Tu mi piaci, io ti piaccio, forse mi ami, forse ti amo. Si, ci amiamo. Vado a comprarti un anello così ci fidanziamo. Ci sentiamo meravigliosamente innamorati. Passano un paio d’anni e ti porto un altro anello, più costoso e ci sposiamo. Facciamo subito un figlio, bello, intelligente e, perché no, già ricco.

Il figlio ci riempie di soddisfazioni: è il primo della classe, suona due strumenti e vince sempre un sacco di medaglie nello sport. A che serve un figlio se non a questo? Ne siamo proprio orgogliosi, mica ce ne vergogniamo. Allora meglio due, così facciamo scopa, oltre che a scopare.

Questa volta è una femmina, perché la coppia mista ci vuole, è più completa. Formiamo un’ incantevole famiglia felice. Anche lei è bella, intelligente, un po’ meno ricca, perché una parte se l’è già presa il fratello. Il maschio ci costa un po’ di più, ma io lavoro sodo per non far mancare nulla a nessuno. Anche lei da tante soddisfazioni, altrimenti che gusto c’è.

Compriamo anche un cane, quello della pubblicità che insegue i rotoli di carta igienica, è simpatico, è bello e poi ce l’hanno tutti.

I figli crescono, si sposano, fanno figli a loro volta e noi diventiamo nonni, oltre che vecchi. Ci divertiamo ad andare ai giardinetti con loro, da soli è un po’ noioso. Giochiamo ai bravi nonni e così abbiamo un tornaconto: non veniamo sbattuti all’ospizio.

C’è tanta considerazione così e a noi ci piace. Poi uno dei due muore, forse io, forse tu, magari assieme. Se muori prima tu, io non mi consolo e deperisco ogni giorno di più, fino a raggiungerti in breve nella fossa.

Se muoio prima io, tu deperisci lentamente fino a raggiungermi nella tomba di famiglia. Chi prima, chi dopo che importa, finiamo insieme comunque. Se però ci spegniamo all’unisono è meglio, nessuno dei due deperisce o soffre.

Veniamo seppelliti insieme, meglio cremati. Lasciamo tutti i risparmi di una vita, anzi due, ai figli. Si spendono tutto fino all’ultimo centesimo e poi ricominciano da capo, loro.

Noi non abbiamo più problemi, abbiamo tutta l’eternità davanti… se esiste, altrimenti finisce tutto così e buonanotte.

Dentro gli occhi. Un racconto di Silvia Rosa.


Silvia Rosa
Dentro gli occhi

Non riuscivo neppure a guardarlo.
Ma guardarlo era ciò che più desideravo al mondo. Attraversare il sentiero del suo corpo, fermarmi all’ombra delle sue ciglia corvine, scivolare con lo sguardo acceso lungo i contorni increspati della sue labbra, che a volte si aprivano improvvise, esplodendo in una risata, come nuvole d’estate in perenne movimento. Seguire le linee precise e definite delle sue mani, ancora sconosciute, osservarne ogni dettaglio. Sostare, con l’avidità dei miei occhi affamati, nell’incavo pulsante di vita e calore del suo collo, che solo raramente si offriva alla vista, libero dal cappio floreale di qualche buffa cravatta, e dalla stretta ostinata del primo bottone della camicia, celeste grigia rosa a righe blu e rosse…Chissà che cosa si celava sotto la carezza ruvida della stoffa. Avrei tanto voluto vedere tutto di lui. E quando dico tutto, intendo proprio tutto. Non mi bastava svelare il segreto della sua pelle, imparare a memoria la geografia dei suoi nei e delle sue piccole cicatrici, conoscere l’involucro guizzante e mutevole del suo sesso. Io volevo andare oltre. Volevo guardarlo dentro. Interiormente.
Non mi fraintendere, Gentile Lettore.
L’espressione “guardare dentro” significa, certo, nell’accezione più comune, conoscere di qualcuno, che ci si presenta dinnanzi, in tutta la cruda verità del suo essere (prima di tutto?) un Corpo, anche ciò che di impalpabile racchiude in sé, i suoi moti interiori: le emozioni, i sentimenti, i pensieri. Insomma, sapere chi è davvero.
Ecco no, io non cercavo di cogliere l’essenza di quell’uomo. Io volevo vedere minuziosamente ogni particella di materia vivida e sanguigna, che componeva lo splendido e desiderabile arabesco della sua figura. Volevo schiudere, come fosse un guscio vellutato e fragile, la sua carne d’oliva, che proteggeva il regolare scorrere -sordo e ottuso- della Vita al suo interno.
Bramavo di scrutare il fluire del suo sangue denso e vischioso nel lume delle arterie e delle vene bluastre, cunicoli tesi e circolari e avviluppati intorno agli organi e dentro, dentro di loro. Guardare il movimento ritmato che scuoteva il suo cuore, seguire il labirinto delle sue viscere molli, calarmi nei suoi polmoni ed osservare i refoli d’ossigeno trasformarli in palloncini. Volevo guardare com’era il suo cervello, il colore della sua ragione, le strade in cui correva la logica delle sue parole, il rifugio dei suoi ricordi traditi.
Desideravo farlo a brani con il bisturi preciso del mio sguardo implacabile.
Amico Lettore, cerca di comprendermi. Alcune ossessioni baluginano all’orizzonte come devastanti tornado, che spazzano via quel poco che in certe aride terre riesce ad attecchire. E in me il pensiero di lui e del suo corpo di muscoli a fasci compatti, di ossa dal biancore angelico, di umori acri che sgocciolavano, stilla dopo stilla, producendo la misteriosa musica degli abissi marini, di sapori e profumi dolciastri, di cellule invisibili che io volevo passare al vaglio d’un microscopio inesistente, quell’anelito scabroso di lui, aveva allignato come gramigna nella prateria del mio ventre, senza che io me ne rendessi conto. E  quando mi accorsi che non riuscivo a guardarlo senza provare una fitta di spillo all’ombelico e poi un fremito leggero lungo le gambe, allora, fu troppo tardi per scappare. Ero presa nel vortice a spirale della più violenta delle tempeste. Non avevo via di scampo.
Accorto e Savio Lettore, tu, lo so, avrai già capito che una siffatta e insana brama di guardare, possedere completamente con l’umida conchiglia piena degli occhi, un corpo altro da sé, nella sua sincera nudità, in ogni suo caliginoso e segreto anfratto, e poi ancora più giù, più in profondità, più all’interno, altro non è che una perversione, pericolosissima, giacché inevitabilmente, ad un certo punto, quel desiderio smanioso non si soddisfa più con insipidi assaggi lattiginosi che immaginazione e fantasia cuociono lentamente, ma pretende ed esige concretezza di sangue, si affaccia alla coscienza e grida il suo bisogno di voluttà. E chiede carne viva.
Ma io ti giuro, Caro Lettore, non lo sapevo. Mai avrei pensato di ritrovarmi in quella radura devastata dal passaggio impietoso dell’ossessione per un corpo, il suo, da divorare tutto, con le mie pupille impazzite.
In principio pensavo d’essermi semplicemente invaghita di lui. -Lo desidero-, mi dicevo, -tutto qui; quando lo vedrò nudo e sentirò il suo corpo muoversi nel mio, mi dimenticherò di me stessa e dei miei grevi pensieri-, che, invece, sempre più insidiosi ed insistenti mi colavano addosso, di piombo, togliendomi il respiro.
E immaginavo come sarebbe stato sentirlo mio, spiando di sottecchi la più autentica delle espressioni, quella del godimento puro. Tutti gli innamorati vogliono guardare l’oggetto della loro passione. Non c’è nulla di strano, non è vero Saggio Lettore? Non è capitato anche a te?
Però ammetto solo adesso – tardi, purtroppo-, che di notte, nell’abbandono innocente del sonno, presero ben presto a visitarmi sogni insoliti, dai quali mi risvegliavo puntualmente madida di sudore, agitata. No, eccitata. Questa è la parola giusta, che allora non riuscivo ancora a pronunciare.
C’era il suo corpo, che si dava a me, ma io non sentivo niente. Era come se fossi evanescente. Lui era dentro di me, ma io, io non c’ero, non abitavo il mio corpo, apparentemente privo di vita. I miei occhi solamente si muovevano, rapidi. E schizzavano via, all’improvviso, rotolavano sulla sua schiena, che a contatto con essi diventava trasparente. Vedevo allora tutta la complicata architettura del suo organismo e ne rimanevo incantata, iniziando a godere di fronte allo spettacolo della sua sublime perfezione d’animale terrestre, assaporandone ogni fotogramma. Ma poi, d’un tratto, i miei occhi mi tradivano, negandomi il supremo piacere, oscurando l’immagine di quel corpo, che volevo possedere tutto e che invece mi sfuggiva alla vista, sbiadendosi e diventando tutt’uno con lo sfondo grumoso e violaceo del nulla, informe.
A questo punto il sogno diventava un incubo angosciante. I miei occhi non bastavano più a soddisfare la fame di lui. Ritornavo in me, riemergendo dal torpore in cui ero sprofondata, sentendo crescere nella pancia la furia di una rabbia incontrollabile e nelle tempie il fracasso della garrula cantilena dei miei perché. Perché non potevo vedere tutto il suo corpo? Perché non potevo possederne ogni cellula? Perché non potevo scoprirne completamente il Segreto? E ad ogni ‘perché’ seguiva un colpo violento, che sferravo con le mani nude, contro quell’uomo che desideravo da morire. Vedevo i brandelli della sua carne ovunque. Ma non coglievo più l’unicità vibrante del suo esistere, vivendo, nell’integrità estatica del suo corpo inaccessibile. E mi disperavo.
Mio Paziente Lettore, perdonami se ti tedio con queste prolisse descrizioni di macabri incubi. Ma voglio che tu conosca tutta la verità, per giudicarmi, ché non vedi l’ora di farlo, sì, confessa, tu che molto probabilmente non ti sei mai trovato in cella, dietro le sbarre asfittiche dei tuoi stessi deliri, pungolato continuamente dai tuoi pensieri insani, piegato alla schiavitù di un padrone crudele che ti tortura e da cui non puoi scappare. Perché è parte di te.
Lettore, bada bene: io non cerco la tua pietà. Vorrei che tu mi capissi un poco. Dichiarami colpevole, condannami pure, se vuoi. Ma ti prego, salvami.
Qual è il limite da non oltrepassare mai? Dov’è il confine che separa la vittima dal suo carnefice? E il burrone, il precipizio che si apre sul ciglio della strada, così ben nascosto, quasi invisibile? Qual è il punto di non ritorno, superato il quale si è perduti per sempre? Oh, certo, tu, Lettore di buon senso, sapresti rispondere a questi quesiti, vecchi come il mondo, senza alcuna esitazione. Io non ci riuscivo, invece. E infrangevo tutte le regole e i buoni propositi che mi inventavo per non cedere al richiamo di quel seducente corpo, per non cadere nella tentazione di cercarlo con gli occhi. Al tempo stesso avevo paura, non mi fidavo affatto dei miei desideri, che si ribellavano al mio controllo. Decisi di evitare quell’uomo: con tutte le mie forze io dovevo proibire a me stessa di rivederlo. Ma fu tutto inutile. Oramai quell’essere, quel corpo palpitante, era animato dalla linfa della mia ossessione, si annidava nelle mie iridi e le colorava di un intenso nero struggente, mi levava il sonno e la ragione, era al centro esatto di me, mi possedeva tutta. Era così dentro di me da confondersi in me. C’era lui, solamente lui e niente e nessun altro. Nemmeno io c’ero: l’immagine del suo corpo si nutriva di me, e quanto più diventava consistente e spessa tanto più io mi assottigliavo per lasciarle spazio, vulnerabile mi sgretolavo, consumandomi. Lentamente finii quasi col non esistere più. Mangiavo poco e male, senza assaporare nulla. Non dormivo che due o tre ore di fila per notte. Non trovavo la concentrazione necessaria a svolgere le abituali attività quotidiane. Uscivo di casa sempre più di rado. Non frequentavo nessuno. Mentivo costantemente, sulle motivazioni del mio evidente malessere; spergiuravo che si trattava solo di stanchezza.
Sull’altare di un Dio spietato, che avevo creato io stessa, ostinata seguitavo a supplicare, con le ginocchia sbucciate, nei giorni tutti uguali, sospesi ed esposti al davanzale di un’immobile attesa, pregavo che si lasciasse trovare da me, dai miei occhi, oppure che svanisse, cancellando il ricordo della sua figura e restituendomi a me stessa. Offrivo al suo corpo il sacrificio di me.
Ragionevole Lettore, non pronunciare ancora la tua sentenza: no, non ero diventata pazza. Purtroppo, ché la pazzia è un lusso, in certe situazioni. Io rimanevo lucida, consapevole, cosciente dello sfacelo a cui andavo incontro, precipitando sempre più giù in quell’abisso, sul cui margine avevo passeggiato, con la lievità infantile di chi non sa della Morte a cui è promesso.
Non ci sono scuse, né giustificazioni, né attenuanti di alcun genere quando si commette il crimine di annientare una Vita che non ci appartiene. Nemmeno se questa Vita scorre in noi stessi, protetta e inseparabile dalla scorza alchemica del nostro corpo, insensibile alle nostre reticenze, ai nostri dubbi e tormenti, occupata a perpetrarsi, proteiforme e gagliarda. Ma io non avevo altra scelta per liberarmi di quell’uomo, se non quella di violare il sacro veto di non uccidere.
Senz’altro, Scaltro Lettore, tu non saresti mai rimasto impigliato nella ragnatela di filo spinato, che l’ossessione ti tesse intorno, come un sudario funebre. E sagace come di certo sei, non ti saresti illuso che fosse in qualche modo possibile liberarsi dalla trappola immobilizzante di quel pungente ordito. Io no, sognavo la libertà, sfuggire a quel corpo che vedevo ovunque. A qualunque costo.
Quando il tempo si frantuma in pulviscoli di diafani istanti, ogni gesto assume la lentezza e la solennità della Fine. E’ come sgusciare via da sé e dal Mondo e vedersi da lontananze di stelle ultragalattiche. Così io osservavo il rigagnolo di sangue formare una piccola pozza, che si dilatava spaventosamente. Come appartenesse ad un’altra dimensione. Ad un’altra persona. Al corpo di lui, che aveva messo radici nei miei bulbi oculari, ramificandosi dentro di me. Io mi aprivo, affinché dalla feritoia dei miei polsi potessi strapparmi quel germoglio malato, che mi soffocava, come un parassita, annullandomi.
Lettore Caro, forse tu lo saprai già: morire consapevolmente è un’impresa difficile, ma non la più ardua che possa intraprendere un uomo. In effetti, accettare la condizione di condannato a(lla) Vita è assai più faticoso.
Fuori dalla finestra fioccano batuffoli di cotone idrofilo. Si depositano sui tetti, sulle automobili e sui giardini addormentati. Decorano alberi spogli. Coprono col loro candore il fango e il sudiciume stratificato delle nostre grigie strade metropolitane. Lo lavano via, trasformandosi in acqua e defluendo nelle fogne interrate.
Ma sotto lo scrigno di gelo e biancore tutto è in fermento. E’ quasi primavera. Sono a casa, finalmente. Il Dottor D. ha chiuso la mia pratica mesi fa, e la terapia volge al termine, una o due sedute ancora. Niente farmaci. Dormo che è una meraviglia. Sto bene.
Ieri che non nevicava sono uscita, indossavo il mio cappotto preferito, rosso vermiglio. E ho rivisto lui, al solito posto, dove sapevo di trovarlo. Il suo corpo m’è parso così insignificante, uguale a tanti altri. L’ho fissato a lungo. Assomigliava a qualcuno che mi sembrava di conoscere vagamente, ma di cui non ricordavo affatto il nome. Il sorriso, forse, mi era familiare.
Amico Lettore, adesso vedo bene l’ultima frontiera invalicabile, oltre la quale ci si ritrova faccia a faccia con l’Ombra del nemico, che alberga in noi.
Bisogna guardare dentro di sé. E’ qui il più esiziale degli abissi.

questo racconto è comparso anche su “Il sottoscritto“.

La notte è una parola breve


Marco Montanaro
LA NOTTE È UNA PAROLA BREVE
o
Margherita che salvò il mondo in primavera

Pensavo a un libro che avevo appena finito, ‘Una donna senza fortuna’, di Richard Brautigan. Volevo capire se era il caso di associare Margherita a una delle due donne che muoiono nel libro.
“Con quei capelli sembri Formigoni, quello della Lombardia”, mi disse Margherita. No, giunsi alla conclusione che Margherita non poteva essere una delle due donne senza fortuna del libro. Era troppo luminosa e aveva qualcosa a che fare con l’immortalità, ne sono certo. Non poteva morire, e con le due donne del libro condivideva solo una strana leggerezza.
E così eravamo al tavolo del nostro ristorante, io e lei, ad aspettare che Roberto tornasse dal bagno. E lei mi prendeva in giro per i miei capelli. E Roberto era il suo ragazzo. Adoravo quei due. Adoravo quella coppia. No, loro non erano una coppia. Loro erano l’amore. L’Amore. Non erano come tutti gli altri, loro sapevano condividere la loro felicità con chi gli stava intorno. Non ti sentivi un inutile peso morto a stare con loro. Con loro si era in tre, non in due più uno. Eri a tuo agio. Portavano in alto il vessillo dell’Amore con leggerezza e credo che mi bastasse guardarli per non aver voglia di avere una ragazza, così, giusto per non abbassare la media della felicità di coppia.
La felicità altrui è sempre un pericolo: viene sempre voglia di confonderla, disfarla, distruggerla con qualche parola di troppo; è una tentazione troppo forte che, manco a dirlo, non avevo in presenza di Margherita e Roberto.
E così eravamo in questo ristorante e io volevo parlare del libro che avevo letto e Margherita mi prendeva in giro per i miei capelli e Roberto diceva che io almeno li avevo, i capelli, e poi avevamo bevuto e, se qualcuno dei presenti avesse voluto stilare una classifica delle persone più luminose in quel locale, be’: al primo posto c’era Margherita. Poi io e Roberto. Poi tutto il resto.
Erano così gommosi quei due. Ci rimbalzavi addosso. Non ti facevano schiantare sui loro spigoli. Ah, che senso di relax che provavo quando li frequentavo. Roberto era l’agio in persona. Non mascherava i suoi sentimenti. Era geloso e non ne faceva segreto. Ma si faceva bastare i piccoli gesti con cui aveva conquistato Margherita. Cos’altro poteva esserci? Ah, quanto relax e gioia si provava in quei giorni. Come quella volta che mi invitarono in montagna con loro. Non ci andai perché dovevo lavorare. Avrei voluto. Peccato.
Eravamo in questo ristorante e Margherita sorrideva come se avesse potuto sorridere per tutta la vita solo per far piacere a me e a Roberto. Era naturale, come lo è solo qualcosa che puoi descrivere in questo modo: ‘Era naturale’, e senza aggiungere altro.
Partì una canzone un po’ blues un po’ gospel, musica di sottofondo per un locale così fintamente di classe, di quelli che frequentavamo per gioco, per farci beffe della gente fintamente di classe che ci andava. Credo fosse ‘It don’t worry me’, [‘Non mi preoccupa’], quella del film ‘Nashville’. Vidi Roberto e Margherita improvvisare un balletto seduti sulle sedie. Fecero un bel po’ di casino, fecero cadere qualche posata, la gente intorno si voltò, qualcuno rise, qualcuno ci giudicò male, e io amavo quei due, oh, se li amavo. Certo, forse era per via del vino. Il vino mi ha fatto amare cose molto strane, in vita mia, cose che in realtà non avrei mai amato: il jazz, i film pulp, l’epifania, i libri di filosofia e meditazione orientale e, se non ricordo male, anche una capra. Ma non era questo il caso: eravamo nel nostro musical, i miei occhi erano la macchina da presa e quei due i miei attori preferiti che avevo chiamato per girare il film che più avrei amato nella mia carriera di regista. Se solo gli altri attori nel locale si fossero uniti a quella danza!

Un giorno invece non stavo pensando a niente di tutto questo. Pensavo al fatto che non ero mai stato in grado di capirci qualcosa di automobili. Ero dal meccanico e quello non aveva nient’altro di meglio da fare che ironizzare sul fatto che avessi comprato un catorcio come quello che stava cercando di riparare. Avevo un bisogno infinito di quell’auto per lavorare. Era l’unico motivo per cui rimanevo lì ad ascoltare il meccanico che metteva in dubbio le mie capacità di cambiare persino una gomma alla mia auto, che rimaneva comunque un catorcio e che solo uno sprovveduto come me poteva aver acquistato.
Insomma, si fece sera e quel ciccione peloso mi comunicò che non sarebbe riuscito a ripararla in giornata. Avrei voluto ucciderlo. Vedere i brandelli della sua ciccia confondersi con la ferraglia del motore dell’auto. Avrei voluto insultarlo come lui aveva fatto con me prima, mentre gli spaccavo la testa contro il finestrino posteriore. “Lo vedi che nella vita ci vuole culo?”, lo avrei rimproverato.
Ovviamente mi toccò tornare a piedi verso casa. Niente pullman a quell’ora, e niente soldi per il biglietto, visto che i meccanici, se non li uccidi, devi pagarli anche se non hanno fatto il loro dovere.

Ero piuttosto lontano. Ero in quella zona della città in cui non avevo mai messo piede prima di allora. La cosa mi mise di buonumore, perché mi piace andarmene a zonzo a scoprire posti che non ho mai visto. Certo, meglio con la luce. Ma per scoprire quello che scoprii in seguito fu sufficiente la luce di un lampione.
Davanti a me avevo il nulla. Una strada deserta. Da dietro l’angolo provenivano delle risate femminili. Che donna sguaiata ci sarà dietro quell’angolo, pensai. Sembrava la voce di Margherita, ma ero abituato a ritrovarla spesso tra i miei pensieri. Certo, anche Roberto, anche Roberto.
Voltai l’angolo e quasi mi scontrai con una coppia. Una coppia, di cui evidentemente doveva far parte anche Margherita, visto che teneva per mano un uomo alto e piuttosto robusto. Ci guardammo per un attimo. La cosa era talmente strana che non ci salutammo nemmeno. In un solo istante, gli occhi di Margherita mi comunicarono: silenzio, complicità, imbarazzo piuttosto divertito, un pizzico, non di più, di angoscia. Poi tante risate trattenute, perché evidentemente non era il caso di far sapere niente all’uomo che Margherita teneva per mano.
La coppia mi superò e continuò per la sua strada, senza smettere di ridere. Diedi un ultimo sguardo a quei due, e ripresi a camminare. Se in quel momento mi fossi sdoppiato, l’altro me stesso mi avrebbe guardato con la stessa espressione divertita e meravigliata che avevo io, e all’unisono avremmo pronunciato l’unica, solenne, autentica cosa da dire a quel punto: “Ehi!”

Sono sempre stato abbastanza egoista da pensare solo a me in certi momenti. Quindi, durante il tragitto non feci molte congetture su Margherita, ero solo seccato perché dovevo fare molta strada e l’umidità prendeva le mie ossa e le accarezzava con dei machete. E avevo il cellulare scarico e non potevo chiamare nessuno per farmi venire a prendere. No, a quel punto non avevo più voglia di esplorare parti della città che non conoscevo né di pensare a Margherita.
Arrivai a casa bestemmiando e coi piedi a pezzi. Il telefono squillò presto.
“Ciao.”
“Margherita? Ma che ore sono?”
“Non lo so. Che pensi?”
“Oh, io non penso nulla.”
“Meglio. Non l’avresti mai detto, vero?”
“Be’, credo si tratti di una relazione parallela, una vera e propria relazione parallela, giusto?”
“Sì, col bollino di qualità!”
Oh, Margherita. Era sempre così leggera.
Ridemmo.
“Be’, non è mia abitudine fare la spia. Sai, credo che le persone certe cose debbano capirle da sole e…”
“Roberto è anche amico tuo. A lui non manca nulla, comunque, no? Lo vedi come stiamo bene insieme, no?”
“E’ innegabile.”
“Non glielo dirai, vero?”
“Se un giorno avesse dei dubbi su di te e mi chiedesse qualcosa… No, non glielo direi. Se un giorno avesse dei dubbi su di te e mi chiedesse qualcosa, torturandomi… questo non posso garantirtelo.”
Margherita rise ancora. Rideva! E io potevo immaginare le sue labbra piegarsi in due verso l’alto.
“Scemo. Alla fine non è che mi chiederai dei soldi in cambio del tuo silenzio?”
Sì, è ovvio che rise ancora. Che domande. Lei rise, certo. Il copione era quello. Io no, però, non risi. Silenzio.
“Be’? Posso… posso stare tranquilla? Non vuoi sapere chi è? Perché? Spero proprio di no!”
“Non mi interessa chi è lui, né perché e tutto il resto. E non voglio soldi. Solo… vorresti venire qui, adesso, Margherita?”
Ho già detto che sono sempre stato abbastanza egoista da pensare solo a me in certi momenti?

It don’t worry me. It don’t worry me.
You may say that I ain’t free,
But it don’t worry me.

Non avrei mai pensato che Margherita usasse quelle calze così colorate. Cioè, non pensavo fossero così lunghe. Non pensavo neanche che mi avrebbe chiesto di baciarle le ginocchia così tante volte. Ma questi sono particolari piuttosto insignificanti.
Il nostro incontro si concluse tra le mie lenzuola, per entrambi, sulle note di quella canzone di quel giorno al ristorante. Poi la playlist che avevo preparato terminò anche lei, come per lasciarci il silenzio adeguato per parlare. Di quei silenzi che finiscono per non aiutare la comunicazione tra uomo e donna.
“Non ti facevo così.”
Non ricordo bene chi pronunciò per primo questa frase. Era un sentimento che provavamo reciprocamente l’uno nei confronti dell’altro.
“Forse è inutile parlarne.”
Lo stesso vale per quest’altra.
“Potremmo parlare dell’inquinamento, allora”, questo ricordo bene che lo disse Margherita, con quella sua aria leggera e divertita.
“Be’, questo sì che è un problema serio!”, le risposi.
“A volte credo che l’uomo sia solo un incidente di percorso, su questa terra. Ne facciamo, di danni irreparabili.”
“Oh, ma vuoi mettere che noia senza di noi? Chi ha portato un po’ di fumo, veleno e… ehm… cose da fare, qui? Non certo i delfini, tesoro.”
“Tesoro…”
Piccole parole insignificanti nuocciono ben più di elevate percentuali di diossina nell’aria, alle volte.
“Tesoro…”, singhiozzava Margherita.
“Non volevo… mi spiace, sono un po’ scombussolato…”
“Tu… mi hai ricattata… e questo non toglie il male che stavo già commettendo…”
“Margherita, per favore… credevo… non parlare come la Bibbia, tanto per cominciare…”
Per fortuna riprese un po’ del suo Sacro Sorriso, grazie a quella mia battuta. Quel sorriso che mi allungava la vita nei ristoranti in cui la incontravo con… uhm, Roberto. Era così distante, lui, in quel momento. Chissà se sarebbe mai tornato.
“Sai Margherì, la sai una cosa? Forse è proprio inutile parlare, io e te.”
Rimanemmo così, nudi e abbracciati, fingendo di dormire, o forse dormimmo davvero, tutta la notte.

‘Notte’ è, in fin dei conti, una parola piuttosto breve. Cinque lettere. Invece finisce per racchiudere, spesso, un intero periodo della vita di una persona. E anche senza pensare a un periodo, una notte sola può essere più lunga di quello che le lettere che la compongono suggeriscono.
A me capitò comunque di sperimentare sia la lunghezza di quella notte, la prima notte con Margherita, e poi l’intero buio di un periodo piuttosto notturno. Non so se fu un periodo brutto, cattivo, peccaminoso, no, forse non lo fu per niente; ma le serate al ristorante con Roberto e Margherita non erano certamente la cosa più luminosa che mi capitava.
Roberto e Margherita erano luminosi allo stesso modo, forse. Forse ero io che non potevo confondermi con la loro felicità più di quanto ci fossi già invischiato; e comunque c’era anche quella quarta persona, che non credo Margherita aveva smesso di frequentare. Non so dove trovasse il tempo, quella ragazza. Di certo, aveva ancora il tempo di sorridere.
Con me piangeva. Ma credo fosse qualcosa di patologico, non si poteva eliminare, era come l’influenza a gennaio. Ciclicamente, ogni tre notti passate con me, lei scoppiava, piangeva. Forse solo perché poi amava farsi risollevare dal suo aguzzino, in fondo. Ero il più bastardo dei tre uomini che frequentava. In una speciale classifica, credo che Roberto… Oh, non è il caso di fare classifiche di questo genere.
Non so se Margherita mi percepiva come uno schifoso ricattatore. Credo che fossi una nuova abitudine per lei. Di quelle cose che si avvertono già come un’abitudine o come qualcosa che lo diverrà sicuramente a breve, pur essendo, al momento, fresca e nuova. Forse la storia del ricatto iniziale, che comunque non rinnovai (o forse sì? Non ricordo e, credo, non me ne preoccupai, non troppo), ecco, forse questo la eccitava. Forse aspettava il momento propizio per tirarla fuori davanti a Roberto e farci fuori entrambi e scappare con l’altro, di cui una volta mi disse il nome e il lavoro ma che adesso proprio non riesco a ricordare.
Di sicuro ricordo il profumo della pelle di Margherita. E del suo sorriso. Quel dannato sorriso aveva un profumo, posso giurarlo.

Dunque quando eravamo con Roberto non era luminoso, forse, ma in fondo scorreva tutto liscio, come il vino che buttavamo giù nei ristoranti. Era come se tutti e tre percepissimo qualcosa di diverso e di oscuro nell’aria, e bevessimo per non pensarci; per prendere solo il meglio di noi tre. Ma eravamo due più uno, adesso, o forse lo eravamo sempre stati. Solo che adesso quell’uno era Roberto. Oppure, era tutto come prima, tutto luminoso e splendente ed ero io che volevo pensarla in maniera diversa. Sì, forse Margherita era una fatina preziosa ed era riuscita a tenere tutto insieme nonostante tutto, e io non avevo che da prendere quel tutto magico e schifoso insieme.
Non c’erano battute fuori posto, quando eravamo noi tre.
Però ogni bacio che lei dava a Roberto era un avvertimento. Ogni abbraccio lo era. Era per dire: guarda cosa stai tentando di distruggere. Ma finivo per non crederci troppo: lei avrebbe distrutto tutto comunque, da sola.
E con me era serena, che diamine. Me la ricordo.
Poi col tempo cominciai a sentirmi un po’ fuori posto, devo ammetterlo. Pur essendo quello più informato sui fatti, dei tre uomini. Avevo avuto sempre un bel dire che l’informazione è tutto. Che più si conoscono i fatti, e più si è liberi di scegliere la propria strada. Ero libero di smettere di fare quello che facevo come un criceto è libero di nascere e poi di correre sulla sua ruota.
Forse avrei preferito essere Roberto. O quell’altro uomo, con cui la incrociai solo un’altra volta, e pure in quella circostanza Margherita mi era sembrata leggera.
Forse ero tutti e tre gli uomini contemporaneamente.
In compenso per un periodo fui certo che Margherita aveva paura di me, di lasciarmi. Magari pensava che avrei potuto rovinarla davvero, raccontare tutto. Me la immaginavo, di notte, che si alzava dal mio letto e tornava con un coltello da cucina ancora sporco di pomodoro per tagliarmi la gola.
Poi venne il periodo in cui cominciai a dare ascolto al mio cane. Il mio cane non poteva sopportare Margherita. Certo, era sempre stato geloso di tutte le mie ragazze. Ma con le altre abbaiava, la notte si metteva nel letto tra me e le ragazze, il che finiva immancabilmente per far innamorare ancora di più di me le ragazze in questione. Con Margherita, invece, era distaccato, assumeva una strana espressione ogni volta che lei veniva a casa. Come se volesse dire: “Che cazzo stai facendo?”
Insomma, cominciai a dare ascolto al mio cane. Volevo tirarmi fuori da quella situazione. Ma non sapevo assolutamente come fare. Non potevo vivere senza Margherita, nella misura in cui un uomo non può vivere senza una donna. Quindi avrei potuto farlo. Non volevo. Non volevo essere io l’unico a rinunciare a lei, forse.
Be’, volevo sbarazzarmene, comunque. A un certo punto ero io a svegliarmi nel cuore della notte per prendere il coltello e tagliare la gola a Margherita. Ma stavolta il coltello era pulito e luccicava nel buio del corridoio.
Eravamo gommosi, io e Margherita. Ci detestavamo per poi tornare ad abbracciarci, rimbalzando uno sull’altra.
Vi starete chiedendo quanto deve esser durata tutta questa storia. Non molto, per la verità. Quanto dura una notte, sapreste dirlo?

Per la verità, il mio umore incostante andò via con l’inverno. Le cose cominciarono ad andare meglio, con Margherita, con l’arrivo delle belle giornate. Oh, il suo sorriso, in primavera, acquistava qualità che mai avrei potuto apprezzare in quegli squallidi ristoranti che frequentavamo col suo ragazzo. Per completezza d’informazione, devo dire che non uscivamo più in tre. Avevo troppo da lavorare per perdere tempo con loro due, la sera.
Anche l’umore di Margherita migliorò. Ormai non c’era più ombra di ricatto, e nemmeno di lacrime. Tranne una volta. Si mise a piangere perché l’aveva lasciata. Certo, ci misi un bel po’ per capire chi dei tre l’aveva lasciata. Mi accertai con me stesso di non essere stato io, poi mi disse che era stato l’altro, e non Roberto.
La consolai, ma non volle fare l’amore con me quella notte. Poi l’altro la chiamò e le disse che aveva cambiato idea, così recuperammo l’amore al mattino; ridemmo nello sperimentare il fatto che la stessa scusa che Margherita aveva usato con Roberto per rimanere da me fino al pomeriggio andava bene anche per l’altro.
Sì, Margherita era in forma. Lo era il suo sorriso. Con le belle giornate smise pure di portare quelle calze così lunghe. Non ne usava. Altre volte si divertiva a non usare nemmeno gli slip. Mi assicurava sempre che era un giochetto che usava solo con me. Oh, era così amorevole nei miei confronti, Margherita, in primavera!
Io le regalavo sempre dei fiori bianchi. Bianchi, come il suo sorriso e, forse, per controbilanciare il buio della notte che avevamo attraversato piuttosto indenni. Piuttosto insieme.
Margherita era finalmente Margherita, sebbene non solo mia. Il mio cane continuava a non approvare, ma sono sicuro che la mia donna avrebbe avuto parole di riguardo anche per lui. Margherita avrebbe potuto salvare il mondo, in primavera.

Forse fu per questa strana situazione meteosentimentale che mi suonò strano quando Roberto mi telefonò nel cuore della notte. Mi disse che Margherita era sparita. Erano tre giorni che non la vedeva e che non riusciva a raggiungerla telefonicamente. A casa non c’era.
Be’, per me tre giorni senza di lei non equivalevano a una misteriosa sparizione. Ma io avevo altri standard. Chissà l’altro uomo che standard aveva. Forse lui poteva aiutarci.
La telefonata di Roberto ebbe una strana conclusione.
“Oh, sono disperato… forse dovrei chiamare la polizia…”
“Magari è solo stressata. Col lavoro che fa…”
“Ma se ha lasciato da un mese! Era così serena…”
“Ha lasciato? Ehm, non lo sapevo. Poi, magari non era così… ehm… serena come sembrava…”
“Sono disperato, cazzo! Ho bisogno di parlare con qualcuno! Ti… ti va di venire qua?”
Merda, dissi senza fiato, e accettai.

In casa di Roberto notai il puzzle di un dipinto di Bruegel il Vecchio, lo stesso che Margherita aveva regalato a me per il mio compleanno. Credo si chiamasse il ‘Trionfo della Morte’. Sbuffai, mentre ammiravo tutti quegli scheletri armati di falci uccidere dei poveri cristi disperati.
Roberto mi fece sedere, era ubriaco. Non parlava. Io nemmeno. Avevo voglia di mettergli una mano sulla spalla e poi di tagliarmela, o almeno di andare a lavarmela immediatamente. Avevo anche una leggera voglia di scomparire.
Insomma, intorno a noi c’era quel maledetto silenzio fatto apposta per non comunicare. Devo avervene già parlato.
A un certo punto Roberto alzò la testa. Eravamo proprio uno di fronte all’altro. Avremmo potuto sputarci addosso, da quella posizione. E vedere chi aveva più saliva.
“Mi ha mandato un messaggio, mentre venivi qua.”
“Ah, e… cosa dice?”
“Non tornerà. E’ partita. Non vuole dirmi dov’è andata. Mi chiede scusa. Dice che è meglio così, che non tornerà in città. Non tornerà.”
Mi prese un attimo di follia pura, dentro, proprio al centro del mio corpo. Un attimo. Avrei potuto urlare, piangere, picchiare la testa contro uno spigolo, se solo fossi stato capace di fare tutto questo in un solo attimo.
“Non tornerà, eh?”, dissi.
Ritornammo in silenzio. Mancava solo una persona. Mancava quell’altro. Non lo conoscevo, non avrei saputo consolare nemmeno lui e lui non avrebbe saputo consolare me. Ma ero sicuro che anche lui era rimasto fregato da tutta quella storia. Che anche lui era da solo su una poltrona a ripetere fra sé e sé: “Non tornerà, eh?”
Sì, rimanemmo in silenzio mentre fuori era buio. In qualche modo dovevo compensare l’assenza di dialoghi, l’assenza di sorrisi, persino di dubbi… di… di… Oh, così mi misi a fischiettare quella canzone del ristorante. Non ballava nessuno, certo, adesso. Non c’era nessun musical da girare, ma mi veniva da sorridere mentre sussurravo il ritornello: “You may say that I ain’t free, but it don’t worry me”.
Non mi preoccupa, no, no, no.

Buona fortuna, Margherita, sussurrai ancora. Ero l’unico che poteva augurargliela, e chissà se ne aveva avuta, o se ne avrebbe avuta ancora.

Due stronzi da marciapiede. Un racconto breve.


Se questo in questo breve racconto scrivessi di persone dovrei guardarmi bene da ciò che scrivo. Ciò non è dato, perché in questo racconto l’oggetto non sono le persone, bensì le deiezioni, due in particolare, che sostano da oramai troppo tempo sul marciapiede antistante l’ingresso della casa dove abito. Gli stronzi in questione ‘abitano’ lì, se così si può dire, da circa un mese. All’inizio credevo di essere malato, mi spiego. Quando ogni mattina uscivo di casa per recarmi a lavoro, verso le nove meno un quarto, prima di svoltare l’angolo e imboccare Via del Mare angolo Via Leopardi, mi scontravo in questi due oggetti, lasciati lì credo da qualche cane. Difficile dire se il cane in questione fosse o no accompagnato da qualche padrone. In tal caso le deiezioni si sarebbero moltiplicate, giungendo al numero di tre. Credevo di essere malato perché anziché tirare dritto e non pensarci al quinto giorno di permanenza da parte delle due deiezioni ho cominciato a notarli, ogni mattina. Ricordo che era il quinto giorno perché la settimana, dal lunedì, era arrivata al sabato. Il fatto è che certe cose ti fanno pensare, c’è qualcosa in me, una specie di convinzione metodologica, che mi fa credere nel particolare da cui si può desumere l’universale molto più e semplicemente che a ritroso, percorrendo la via inversa che dall’universalità della legge conduce al singolo delitto. Ebbene, quei due stronzi dopo una decina di giorni sono diventati miei amici. Ogni mattina passo davanti a entrambi, sempre accertandomi della loro presenza, traendone rassicurazione. Non solo, da buon osservatore ho imparato ad apprezzare il loro cambiamento. A prescindere infatti da differenze fisiologiche dovute a ciò che abbiamo mangiato oppure a ciò che frulla nel nostro intestino, tutti sappiamo che negli stronzi è impastata un bel po’ di fibra. Ebbene, dopo un po’ di tempo i due stronzi che abitano sul marciapiede del mio condominio hanno cominciato a sfibrarsi. Deve essere stata colpa del caldo. Uno dei due in particolare ha assunto la forma di una rana pescatrice. Ottima se cucinata nelle zuppe di pesce. Temo che un po’ di colpa possa essere imputata al continuo passaggio di scooter e moto sul marciapiede, ne sono arciconvinto. Una volta ad esempio mi è capitato di uscire aprendo il portone di casa vedendomi sfrecciare davanti una centaura, andava almeno a sessanta chilometri orari. Sul marciapiede. Se solo non mi fossi fermato sulla soglia per allacciarmi le scarpe al di qua del portone a quest’ora sarei potuto essere tuttuno con quei due stronzi, spalmato anche io sul marciapiede. La cosa che mi affascina nella sfibratura meccanica degli stronzi da marciapiede sta nel fatto che la loro consistenza si è rivelata così vincente da farli resistere davvero a lungo. Molto di più di certo asfalto che viene utilizzato per ricoprire le buche. Mi chiedo come possa accadere ciò, come è possibile che a Lecce una strada così trafficata – probabilmente una delle più trafficate della città – possa rimanere così, senza un cane – pardon, senza un uomo – che la pulisca, per così tante settimane? Non ne capisco molto in merito, non so chi si occupa della pulizia delle strade. So per esperienza che gli addetti alla pulizia dei marciapiedi, dalle parti di casa mia, hanno la puzza sotto il naso, basta che vi racconti qualche aneddoto. Un giorno nell’inverno scorso, nello stesso punto dove oggi giacciono i due stronzi summenzionati, c’era una siringa da eroina. Svoltato l’angolo, percorsi nemmeno dieci metri, ce n’era un’altra. Ciliegina sulla torta, svoltando a destra in direzione del supermercato ecco una terza siringa. Si ripresenta la stessa questione narratologica, è opportuno scrivere di queste cose, quand’anche non fosse la nausea a farti scrivere quanto piuttosto l’incazzatura dovuta all’essersi accorti che da una parte c’è chi si riempie la bocca sull’efficenza di un servizio carente, la pulizia della città, e dall’altra ci si debba accorgere che regna l’anarchia? Le tre siringhe in questione ancora oggi detengono il record della categoria “Oggetto Abbandonato in Via Balduini Che Ci è Rimasto per Più Tempo”, con il tempo di un mese. I due stronzi che stanno all’angolo con Via del Mare, tra due giorni (martedì per essere esatti) eguaglieranno le tre siringhe. Ciò che potrà accadere dopo martedì è previsione al cento per cento: riusciranno gli stronzi a battere le siringhe? Si potrà chiedere un transennamento dell’area per fare in modo che la gente possa constatare di persona il record. Un altro aneddoto che certifica l’abulia cronica degli addetti alla nettezza urbana dei marciapiedi nella città di Lecce è questo. C’è una vecchietta che abita nei paraggi del mio palazzo, con molta probabilità abita da sola, non sono cazzi miei, mi dissocio. Ebbene, questa vecchia ogni mattina usciva in strada con una busta vuota, raccattava l’immondizia da terra, riempiva la busta e la gettava nel cestino dell’immondizia, anziché nel bidone. In parole povere la vecchina svolgeva lo stesso servizio della nettezza urbana con l’unico errore, plausibile data la sua età unita alla lontananza dai bidoni, che non gettava la busta nel bidone giusto per via della lontananza dello stesso. Quelli della nettezza urbana, dato che arrivavano tardi, non prima delle undici, trovavano ogni giorno la grossa busta ripiena di immondizia incastrata nel piccolo cestino. Cosa hanno fatto? Hanno tolto il cestino, ovvero lo hanno schiodato da terra, sbullonato, scardinato, divelto, eliminato. Punto. Quando frequentavo le scuole elementari mi hanno riempito la testa di filastrocche, la maggior parte di Gianni Rodari, dove si raccontava che tutti i mestieri sono dignitosi. Da qualche parte devo avere letto che perfino Martin Luther King sosteneva che l’ultimo degli spazzini aveva la dignità del primo degli uomini, perché svolgeva un lavoro dignitoso. La verità è differente. La verità è che di spazzare le strade non frega un cazzo a nessuno e se non fosse che quello del netturbino è uno dei pochi posti di lavoro che offre ancora il comune allora nessuno lo farebbe, lo testimonia il fatto che ci sono giorni in cui i camion della nettezza urbana fanno il giro alle due del pomeriggio anziché alle due di notte. L’orario pomeridiano, a Lecce, garantisce un’invisibilità e una quiete che le notti della movida non concedono. Altrimenti non si spiegherebbe il perché, dato a quell’ora il tasso di umidità dell’aria sfiora il novanta percento e, per giunta, ci sono quaranta gradi all’ombra.

(Enterprise) Capodanno, Mezzanotte. Un racconto di Alessandro Milanese


Alessandro Milanese
(Enterprise) Capodanno, Mezzanotte

“..faremo dei rave sull’Enterprise
farò rifare l’asfalto
per quando ritornerai..”

LE LUCI DELLA CENTRALE ELETTRICA

Senza alcun dubbio, la festa più stupida che ci sia.
Dopo il mio compleanno, si intende.
Una casa a caso, di un quasi amico.
I pochi rimasti nel rastrellamento della festa comandata da fidanzati.
Il vero razzismo delle coppie, il capodanno tra innamorati.
I single nel lager della casa libera, 4 gatti malcontati, 5 effettivi.
Affettati, panettoni, bottiglie, un cotechino.
Morto rinsecchito, vecchio, sicuramente immangiabile, e noi, fingendo divertimento assicurato.
Si prospettava una serata indimenticabile e così è stato.
La tv accesa sul peggio possibile, la grande festa domenicale traslocata nel veglione di fine anno.
Trans, ballerini, cani, modelli, idioti, supereroi, filosofi, e i miei preferiti, gli psicologi.
Nel calderone del trenino, la vampa della vita che ci sorrideva dal plasma colorato come non mai.
Esplosioni di fuochi e fiamme che ci bruceranno tutti, prima o poi.
Se c’è un signore che ci senta, che ci veda attorno ad una tavola rotonda senza spigoli vivi.
Senza anime vive, senza il bencheminimo amor proprio.
Quel poco rimasto si spegne qualche secondo prima delle 00.
Perché sarebbe cosa giusta e saggia eliminare quello che è ormai diventato
il nostro più pericoloso nemico.
Il più infido, inaffidabile, viscido, bastardo, lurido, merdoso.
Un nemico che ti segue ovunque tu decida di andare.
Ti pedina.
Si infila nella tua tasca dei pantaloni, non ti lascia il minimo scampo.
E il mio nemico rumoreggia, si muove, vibra esagerato, mi rompe definitivamente i coglioni, perché vuole esser guardato, osservato, letto.
E io, la do vinta.
Sblocco, apro, leggo.
Un numero non in memoria, cancellato, ma rimasto nella mia di memoria.
“Mi manchi.”
Due parole interessanti davvero, più che altro cariche di significato.
Una lei in una sfarzosa settimana bianca, con il suo sfarzoso compagno, ad una sfarzosa cena.
Che non trova di meglio, di farmi sapere quanto noti la mia assenza, che non ci sono, non ci sono mai stato, non ci sarò mai.
Ripeto, interessanti.
E non mi rimane che imboccare una vita parallela.
Pensieri lontani dalla realtà, lontani da questo prosciutto crudo, che era l’unica cosa discreta della cena.
Tengo ben salda la forchetta, parcheggiata a bordo piatto, vado su nei monti.
Solo.
Mi proietto, sono assoluto nella mia interpretazione del castigo di dio.
Mi vedo veramente in alto, maestoso oserei dire.
Oltre il bosco volo, cerco il posto migliore da dove colpire.
Calcolo al centimetro il possibile evolversi della mia situazione.
Della loro, tragica, situazione.
Scateno un finimondo sincero, definitivo.
Aspetto che escano dal loro hotel bunker, abbracciati malconci e sbronzi.
Li colgo di sorpresa, mi basta poco nella mia meravigliosa prepotenza per far scendere a valle una marea bianca, linda.
Perfetta.
Fredda come è giusto che sia, silenziosa e cattiva per davvero.
Li voglio sepolti, seppelliti, non voglio altri innocenti.
Una cosa chirurgica, nessun spargimento di sangue.
Solo loro due.
Servizi tv.
Sciatte giornaliste con alle spalle cani che annaspano inutilmente nella neve smossa.
Le loro foto tessera.
Lei e il suo meraviglioso amore, un amore vero, coraggioso e impavido.
Che vista la precipitante sfiga protegge la sua amata fino all’ultimo, e a quel punto, solo a quel punto, posso rivolteggiare alto e indisturbato.
Verso il mio reale.
Contento, appagato, soddisfatto.
Come la prima volta che ho incontrato il barbaro.
Rude come solo l’avo Conan poteva essere.
Nel suo gesticolare immotivato, nel suo vaneggiare splendido, nella sua totale insensatezza.
Mi ricordo come se fosse ora, dio non me ne voglia, un bellissimo spaccato della sua incredibile lucidità mentale.
“Secondo me tra qualche anno, se andiam avanti di sto passo, inventeranno il teletrasporto.”
Io, colpito, direi quasi ucciso, da tale illuminazione avevo riflettuto molto sul fatto che lei preferisse tal scienziato a me.
Interrogavo il roastbeef freddo al limone, che ne sapeva meno ancora di me, e mi restituiva il mio sguardo ebete.
Ma, probabilmente, io non potrei darle tanto.
Anzi, sicuramente, e non mi sembra neanche così incredibile a dirla tutta che senta la mia mancanza.
Sono (esclusivamente) il perfetto completamento della mela.
Il cazzo di 3% mancante.
Sono il vuoto lasciato dal capitano Kirk, o come diavolo si faceva chiamare, teletrasportato a muzzo in qualche merda di pianeta.
Un pianeta in una galassia lontana, dove gli esseri non son umani, ma hanno fortunatamente per loro 4 orecchie 2 piselli e nessun cuore.
Un pianeta dove non si scrive un racconto breve per la ragazza di un buzzurro qualunque.
Un pianeta dove mangiano solo cotechini come questo qui.
Con le mani.
Questo rotolo rosso sangue davanti ai miei occhi, increduli.
Che lo fissano, quando il padrone di casa dice.
“Non hai toccato cibo!”
Lo so, perdio.
E mi lascio il tavolo alle spalle, mi sistemo su un divano una volta tale.
Davanti alla luce colorata, giusto davanti alla luce colorata.
E mentre guardo degli stronzi fischiare nelle trombette color arcobaleno mi concentro.
Nel tentativo di farmi venire un emicrania come si deve.
Aspettando che vengan le due.
Aspettando di risentire il rumore, non del tutto convinto, del panda materno.
Che mi riporti a casa, in sta tempesta di neve e ghiaccio, che è sta bellissima notte.

Margherita


Elisabetta Maltese
Margherita

Margherita è bella.
Contrasto fra carnalità e sacralità.
Viso angelico, corpo etereo, sguardo che muta rapidamente e sa diventare malizioso malgrado le labbra rosee ingenuamente socchiuse.
Margherita è una donna. Fragile, consapevole, difficile da piegare.
Piace agli uomini.
Quei contrasti fanno nascere il desiderio di possedere quel corpo di giunco e di sottomettere quell’anima ribelle.
Malinconicamente, si diverte a osservarli mentre fanno la ruota. Ognuno ha la sua danza.
Lei non vuole né ruote, né danze. Margherita cerca altro.
Nessuna illusione: realtà.
C’era un uomo nei suoi pensieri.
Con lui parlava, condivideva, e lui sembrava seguirla in quel filo che si srotolava, unendoli.
Una danza di parole.
Il suo ritmo diveniva ogni giorno più incalzante, un’urgenza da soddisfare.
Le notti si allungavano.
Parlavano per ore.
Il giorno dopo, stanchi, condividevano le difficoltà quotidiane, attendendo il nuovo tramonto per soddisfare il desiderio sempre più pressante.
Quando si vedevano non riuscivano a spezzare un contatto fisico che contrastava con le parole che si dicevano. Le parole destinate alla luce del giorno.
Ma Margherita è donna di contrasti, e non poteva essere altrimenti.
I suoi pensieri smisero di essere malinconici e si fecero leggeri.
Scalza, ora poteva danzare per se stessa, spensierata all’idea di un uomo che le faceva eco.
E le parole aumentavano, sovrapponendosi l’una all’altra come gli strati di una città lontana nascosta dal passare del tempo.
Margherita infilò le mani in quella nuda terra, e cominciò a scavare, ferendosi.
I suoi sogni divennero aquiloni: volavano alti, colorati, leggeri, in balia del vento, ma si allungarono anche verso il basso, facendosi radici.
I suoi piedi nudi percepirono le vibrazioni della terra: la danza non era poi così armoniosa, e le parole sembravano delineare una ruota.
Margherita desiderò quell’uomo, malgrado la scenografia strappata.
Andò da lui.
Lo voleva.
Lui la prese.
Tornata a casa si spogliò in fretta e indossò una sottoveste: voleva sentire la seta sulla pelle nuda.
Mollemente, si lasciò andare sul divano.
Sul tavolo, una bottiglia, un bicchiere di cristallo e il cellulare che trillava: messaggi in cui lui chiedeva conferme, gratificazioni.
Versò il vino rosso, profumato, corposo.
Assaporò con gli occhi il colore vermiglio attraverso il cristallo, giocò con il bicchiere creando delle liquide onde circolari, osservando gli archetti che lasciavano sulle pareti.
Il cellulare non smetteva di annunciarle messaggi. Parole, alle quali lei non avrebbe più risposto.
Le gambe nude, sottili, una allungata, l’altra piegata sul divano e appoggiata al petto.
La sigaretta appena accesa lasciata nel posacenere.
La testa appoggiata sullo schienale, senza tensioni.
Attese ancora qualche secondo prima di godere di quel rosso.
Alzò il bicchiere: brindò a se stessa e al bell’amore che si era presa.
E si prese anche il suo primo sorso e lo trattenne, facendo scivolare lentamente il bicchiere nell’incavo della scollatura, lasciando che l’accarezzasse.
Solo dopo qualche secondo permise al vino di scorrerle lungo la gola, prolungando il piacere.
Sorrise a se stessa e a quel cellulare impazzito. Lo spense.
Non si possono chiedere gratificazioni a Margherita.
Non così.
Margherita è una donna e ha la dignità di sé.

The gutter twins. Alessandro Milanese


Alessandro Milanese
THE GUTTER TWINS

Ci sono io, seduto sul letto, col pc sulle gambe.
Ci sono io, che navigo scazzatamente dentro pitchfork andando di recensione in recensione senza grandi mete.
Ci sono io, che mi fermo, attento.
The gutter twins – saturnalia (sub pop) rating: 7.8.
I gemelli sono Greg Dulli (afghan whigs soprattutto) e Mark Lanegan (screeming trees, solista e queens of the stone age).

I primi anni 90.
Da poco maggiorenne, oscillavo tra il suono inglese, figlio di una Manchester che ballava e sfoggiava caschetti anni 60, e le chitarre americane da Seattle e d’intorni.
Conoscevo Mark per un disco con i Trees, uncle anesthesia, e per un pezzo nearly lost you che finì in un film in voga al tempo e che aveva un video passatissimo.
Il vocione di Mark, le movenze feline del suo pachidermico chitarrista.
Greg arrivò a sorpresa.
93.
Una fidanzata quasi bambina con due grossi occhi scuri e un disco nelle orecchie.
Afghan whigs – gentlemen.
Il primo disco su major, la perfetta armonia tra chitarre taglienti e anima soul.
Lui, con un completo da urlo, con quel taglio di capelli, con quel bastone ad accompagnarne i passi.
In quel video, debonair.
La più grande interpretazione del figlio di puttana che io ricordi.
Lp perfetto, straziante, dilaniante.
La puntina continuava ad arare i solchi e l’inverno passò così, quella storia finì velocemente e quelle canzoni la trasformarono in qualcosa di non vero, qualcosa di importante.

Qualche anno dopo, cinque per la precisione.
98.
In 3, in un locale di Ladbroke grove, l’ultima fermata della via crucis che porta il nome di
Portobello Road.
Londra, due giorni prima del Reading festival, a caccia di quasi secret gig di preparazione al concerto sul main stage.
Il locale è il Subterranea o qualcosa del genere.
Una ex fornace.
Con una platea e dei piccoli loggioni a ringhiera che costeggiano un palco, alto ma poco profondo.
C’è il giusto fumo, si vede poco o nulla, e dal quel nulla esce una camicia nera, stiratissima ma con
le maniche arrotolate.
Attaccano un pezzo nuovo (something hot) che da li a breve finirà in 1965.

Contano fino a tre e ripartono.
Debonair.
Cerco inutilmente di staccare quella specie di parapetto, pochi metri sotto di noi il secondo chitarrista coi capelli bizzarri si lancia nella sua scatenata danza a piedi fermi.
Il concerto scorre così, sono in forma ma i pezzi nuovi annunciano quello che si sospettava, che dopo quel disco non ce ne saranno di nuovi.
Nei bis Greg fissa di continuo un punto nel buio della prima fila.
Un punto con dei capelli neri e lunghi, con un fondoschiena come dio comanda.
Lei sale sul palco, balla, si dimena, e finisce la sua corsa con la lingua in bocca al cantante meglio vestito della storia.

Passano due giorni e ci presentiamo nella signin tent del festival ad attendere i nostri eroi.
In mano la scaletta del concerto di due notti prima, che un roadie compassionevole ci aveva passato, sfinito dei nostri richiami inumani.
Arrivano.
Il concerto, colpa del palco dai mille suoni, della luce del giorno, e da un estate inglese finta come al solito, non è stato grandioso.
Greg è stanco bestia, ma sorride come un bambino quando capisce che li abbiamo visti due volte in tre giorni.
Il secondo chitarrista dice di ricordarsi di noi, della nostra vicinanza in quel buco fumoso.
Fanno i lori autografi, gentili e affabili, e alla precisa nostra domanda di come si sia conclusa la nottata con la fan scatenata Greg prende un respiro grande come una casa.
“Wow”, condito da un paio di parolacce in italiano.
Preciso, tutto quello che mi aspettavo dal mio uomo.

Quell’estate avevo lasciato a Milano la mia fidanzata dell’epoca.
A casa, nella periferia bollente di una metropoli agli sgoccioli, ascoltava il secondo disco solita di Mark Lanegan, alternandolo con il suo primo amore Pj Harvey.
“Ha una voce così sexy”.
Mi amava e da li ad un po’ mi sarei innamorato anch’io, troppo tardi.
Era qualcosa di bellissimo, nella sua imperfetta bellezza, come quei quadri che visti da vicino, con maggiore intensità, ti lasciano senza fiato, per davvero.
La scaletta del concerto londinese era attaccata, giusto un pelo sotto il pisellino del bambino nevermind, a mollo nel blu dipinto di blu, alle mie spalle.
Passarono quasi tre anni.
Ritornai alla provincia, con i miei stracci, da solo.
Staccai quel poster blu, con quella fotocopia bianca e nera coi titoli scritti sopra.

Questi ultimi anni.
Mark che, oltre a dischi solisti e collaborazioni varie, rende bellissime alcune canzoni dei Queens of…
Greg che forma i Twilight singers ma non si ripete, e come potrebbe d’altronde.
Fino ad oggi, un mp3.
A fine recensione, postato, con quella bellissima linea blu sottostante.
Idle hands.
La chitarra di Greg, semplice, serrata.
La strofa tutta per il suo socio.
“My idle hands
there’s nothin i can do”
Il bridge, classica scrittura del ex afgano.
Il ritornello che si trascina verso l’alto, le due voci che si incrociano e riportano indietro un paio di emozioni.
Prendo il cellulare.
Un sms, ordino il disco a dei miei ex commilitoni discografici, tra loro uno dei soci in quella gita londinese.

Il cd arriva venerdì.
La recensione la posso scrivere fin da ora.
Chitarre con un anima, piccoli nuovi esperimenti figli di giocattolini elettronici, ospiti d’eccezione, ma soprattutto loro due.
Come degli zii fidati, quelli che quando avevi i primi grattacapi ti davano le soluzioni senza passare dai tuoi.
Quelli che poi fanno un disco, anni dopo, e lo compri a scatola chiusa.
Quelli che a fine aprile suonano a Milano, e a cui, chissà, magari, forse, probabile, porti a conoscere la persona che sta con te, ora.

Walhalla. Orodè. (Film sonoro o quasi)


Orodè
WALHALLA

(Film sonoro o quasi)

La vita reale è soltanto un riverbero dei sogni dei poeti. Le corde della lira dei poeti moderni sono interminabili pellicole di celluloide.”

(Kafka)

N.B. I Bruciati: io e il mio trono di ceramica. Truccati. Tra Bosch ed Ensor. Maschere.

Ci sono degli individui e c’è il nulla. Ribellarsi. Ribellarsi all’ordine: è l’ordine! Ribellarsi! Ribellarsi all’ordine! Che cosa vogliono? Macchine! Hanno bisogno di macchine per fare soldi, per quantificarsi. Noi poeti non siamo macchine. Siamo barbagianni, verdura frullata, coglioni di toro, amplessi, secrezioni. Noi poeti siamo la morte non macchine. Noi poeti dobbiamo rubare, siamo ladri, truffatori, sgozzatori, santi, tutto tranne che macchine. La rivoluzione consiste nell’essere il più lontano possibile lontani dalle macchine, dall’essere una macchina. Hanno tolto il gusto. Il sapore a tutto. Hanno tolto le capacità. L’ordine è sbagliato! Ogni fuga dall’ordine avvicina l’individuo al Walhalla.1
La vita nell’ordine è una vita falsa, persa. Gli uomini e le donne sul pianeta sono degli stupidi bambini. È bene che ci si approfitti di loro. È bene che ci adorino!

CLEAN SLATE

Il Walhalla.

Pomodori dappertutto. “Pennuli”2 ovunque. Rosso su bianco. Collane di pomodori sui muri bianchi di calce.
Io ho paura della carne, dice il primo dei Carnivori. Le mani su morbide natiche, seni. Voi pensate che io mi annoi?
Così dicendo, disteso su corpi di donne, fluttua su frutta, stoffe antiche e consunte, si gira su uno dei bianchi, splendidi culi luminosi e lo penetra velocemente.

Solo rumore sapete fare, dice. Solo rumore.

A braccetto col mio morbido mandolino, dice. Passeggiando, attorniato da bellezze nude, calpestando acini d’uva. Un corridoio. Rivoli di mosto. In fondo, uno schermo gigante. Il volto di lei. Ondeggiante. Eterno. Il corteo va incontro a lei.

Sono il primo dei Carnivori, dice, amore mio, mia santità.

Peperoni sott’olio. Melanzane sott’olio. Capperi. Ogni tipo di conserva. Allineate su un armadio di ossa, di ossicini che decorano le ossa. L’immagine di lei che ondeggia flessuosa, fluttuante. Il viso che si allarga e occupa tutto lo schermo. Una maschera incantatrice. Il corteo è fermo di fronte a Lei. Tutte le nudità tremano. Si stringono. Non c’è più tempo, dice il primo dei carnivori. L’infinito si è rotto. Si accartoccia. Accompagnatemi di nuovo nella sala della Cicatrice. Puliremo la vergine. I fogli. Risorgeremo finalmente a nuova vita.

Lungo il corridoio, il lento corteo, totalmente bello nell’esposizione d’arte. L’opera prima del primo dei Carnivori. Tutti i corpi lucidi d’oli, profumati. I piedi, i polpacci blu. Rivoli di mosto e menta. Il primo dei Carnivori procede tenendosi il membro in mano. Sia fatta la luce senza la luce, dice. A braccetto. Non si capirà più niente, dice. Vivi e morti. Carne morta comunque. Morsi di cani. Orgasmi. Il tempo tutto per noi.

II

Nella Sala della Cicatrice. Una finestra con cornice di sassi e cemento. La finestra non può più aprirsi. Tutto il corteo guarda fuori. Verso le campagne. Nel temporale. Il primo dei Carnivori siede su un trono mosaicato. Collane di peperoncini, di melanzane e pomodori secchi tutt’intorno. Alcune donne toccano il Re. Altre lo truccano. Gli dipingono dei grandi occhi di uccello rapace. Gli pongono sulla testa un vaso di rame capovolto. Tutte le donne indossano calze coloratissime e un intimo succinto. Si dispongono intorno al primo dei Carnivori. Su di lui. Sotto di lui.

Riprendono le coincidenze, dice il primo dei Carnivori. Vedete? Siete come volete!

Una creatura alla pecorina, con calze blu elettrico e un corsetto rosso con fiori dorati si guarda in uno specchietto nascosto tra i lunghi peli di un tappeto bianco. Il seno bello, penzolante. Il culo tutto pronto come una cagna. Le cosce allargate e frementi. Aspetta! Scultura, dice il primo dei Carnivori. I vostri seni pari alle montagne, superiori ad ogni forma di linguaggio. Siamo qui per essere e per dimenticarci. Come il vento, la lava… Io sono il successore di Picasso. Io mangio la bellezza. Nemmeno la cerco. La mangio! Capite? Così dicendo si solleva dal trono. Si dispone dietro la ragazza alla pecorina. Le allarga la fica con due dita e la penetra. Si sporge su di lei che ansima. Entrambi si guardano nello specchietto. Si cercano con gli occhi. Gridano all’unisono: voi operai avete distrutto il mondo! Voi operai avete distrutto il mondo! Voi operai avete distrutto il mondo!

Nello specchietto gli occhi ansimanti e le bocche frementi diventano pezzetti di pane che vorticano in una purea di favette.

III

Nella sala della Cicatrice la rossa Danae dice al primo dei Carnivori:

Nel mio nulla io sono bella ma mi sento in colpa per tutto. Cimento il sangue, la saliva. Ci metto tutte le mie ossa in tutto questo disordine. Ci metto tutto quello che posso… la rivoluzione serve proprio perché è inutile.

Siamo lontani dal mondo, le risponde il primo dei Carnivori.

Niente è tanto bello quanto colpire gli insetti. Colpirli al volo, sentire il loro squallido peso schiacciato, sconfitto, inerme per terra… morta merda. C’è ancora tanto dolore ma io non voglio soffrire.

Pensiamo ai fiori, qui nel Walhalla, e non al fallimento! Pensiamo ai fiori… ché sono venuti bene, dice il primo dei Carnivori.

Le lunghe dita affusolate della donna accarezzano il sesso del Re poeta, il primo dei Carnivori. Egli è disteso sulle gambe della donna che con un braccio e le ginocchia lo culla. Il Re guarda in alto. Non indossa più il vaso di rame. Il trucco è intatto. Sul soffitto vari schermi televisivi. Fermi immagine dei tanti miti passati sul pianeta Terra e… iti. Siti ma iti, dice, persino la Musica. E grida: Musica! Dal greco “mūsiké”… oh! Arte delle muse…

La modella, la rossa Danae, contorcendosi glielo succhia freneticamente.

IV

Il giardino del Walhalla di notte. Chiuso dal mare e da mura mosaicate dallo stesso Re a dalle sue ancelle. Con viali e alberi, tappeti sui muri e tavoli bassi. Una musica indiana. Alcune bellezze ballano. Indossano solo una gonna bianca da dervisci e ruotano, ruotano finché non cadono. Il primo dei Carnivori con una telecamera gira il suo film. Le ombre degli aranci si proiettano sulle gonne che vorticano. Una delle donne per terra, nuda e splendente, con voce trafelata, dice: primo dei Carnivori, voscenza usa la nostra carne come carta, come cibo. Lei ci fotte e ci strappa e ci mangia!

Tu, con le tue grandi e piccole labbra, le risponde il Re, non capisci, piccola mia: io creo! Balla con me! Questa pipinara ci farà bene! Balla! Chiudi gli occhi e ascolta! L’abbracciò. La verità è nascosta nel buco di culo di qualcuno… ed io devo cercarla. Così la piegò sul trono. Le abbassò la gonna da derviscio. Diede alcuni colpi nella fica e le infilo il tirso nel culo, ferocemente, facendola gridare: “Oimmè! Sorta rande!”3

E il Re intanto la canzonava: “Na na!… Ciu ciu ciu!…. Cquà cquà!…. pìu pìu pìu…. Nane nane nane…. Ruccu ruccu…. Àa…a!…. isci…ii!….iù….u!…..arri!”4

Riprendendo il di lei culo meraviglioso, penetrato, i suoi lombi, la sua pelle, il suo collo fremente, le sue orecchie… riprendendo il proprio tirso che entra ed esce, entra ed esce nella stretta carne della modella… cercandole l’anima a morsi, stringendole i seni, mentre tutte le altre fremono eccitate, applaudono e fremono.s

V

Lo stesso giardino. Su uno schermo la proiezione della Danza dell’Eccesso. Il poeta maledetto Alessio dei Rifiuti, uno dei Bruciati, piegato su sé stesso a punto interrogativo, apre le braccia e arresta una massa di umani. Li blocca con la sola forza della sua pazzia. E balla, balla la Danza dell’Eccesso. Il Re sorride, tutta la corte sorride.

Io sono troppo delicato, dice il primo dei Carnivori. Onorate il grande Cendrars.

Le donne si voltano verso la grande statua dell’autore di Moravagine, scolpita e mosaicata dal primo dei Carnivori. Alta tre metri, raffigura il genio svizzero in smoking… una manica nera penzolante e un cappello nell’unica mano. A gambe divaricate con un membro ritto di 50 cm di legno nodoso che le donne venerano e succhiano come se fosse vivo, come ai bei tempi antichi.

Alcune se lo infilano. Il cielo è stellato.

VI

L’artista e l’essere umano devono riconciliarsi! Che conflagrazione! La società vuole che l’artista sia morto! L’artista puro, non il giocattolo del mercato, chiede alla società di allentare la pressione, di abbassare la temperatura. La società, come cadendo dalle nuvole, con le mani ancora sui pulsanti del potere, delle decisioni, chiede se la temperatura va bene, se la pressione-punizione è giusta. Cara società, tu puoi fare quello che vuoi, questo gioco tra il gatto e il topo è una trappola. Cara società, dove appendo i miei quadri? Dove lascio penzolare la mia lingua? Cara società, quando guardo i miei quadri sento che sono vivi. Tu? La melassa che proponi, il popcorn che hai ordinato, con me non funziona. Fai paura, società, ed io devo fuggirti, fuggirti. Mettertela nel culo e salvarmi. Che modello di eroe propongo? O di antieroe? Vediamo. Propongo un modello d’eroe che deve fuggirvi, perché la confusione è troppa. E l’ecosistema sta collassando. Propongo un modello di eroe che, quando aprite bocca, quando vi muovete, gli cadono le braccia e gli si tappano le orecchie. Un modello di eroe che non riesce ad utilizzare tutto il proprio cervello perché la classe è ritardata. Così, pur di non fare la fine di Cristo, rischia di implodere, di vedersi colare la genialità dalle orecchie. Un modello di eroe che, anche se veste i panni del gatto, è meglio sia topo. Perché voi, brutta società, fate cacare. Non mi farò sparare. Non mi farò fucilare. Non mi farò eliminare. Per me merdona società te la puoi prendere nel culo. Anch’io devo andare avanti!

Chi lo dice questo? E che fa?

VII

Nel sogno del primo dei Carnivori. Saltare di casa in casa con una leggerezza alla Chagall. Entrare e depredare. Servirsi da soli. Self-service! Nella lotta tra il bene e il male, sul pianeta Terra, c’è una lotta tra un unico modello di bene, il bianco, e un unico modello di male, il nero. Lavoriamo sul rosa ch’è meglio! Lavoriamo sulle nostre mani- non solo con le nostre mani. Io passo per mostro. Vi ficcherò questo “ramonzo” nel culo!

N.B. Stanze monotematiche tappezzate di “cannizzi”5 di pomodori, muri di origano secco appeso o peperoncini. Contadini, operai, truccati con segnali di guerra. Tutti a lavorare-lavorare. Tutti nell’ingranaggio per non fare nulla. Tutti contro i pochi.

VI/B

Uno alla volta o due alla volta, siamo in trappola. Guardiamo lo scoglio affondare, il cuore che se ne va e si ferma. Una nuvola di moscerini intorno al cuore, la barca lontana. Una mano è solo l’onda, le tante mani tutte le onde. Le tante falangi sorridenti e i tanti denti di tricheco. Mentre un mostro di sabbia mi tiene a terra la testa e la pesta.

Io, sono senza di te un resistente acaro della verità. Uno di quelli che dovrebbe essere già morto.

Si potrebbe disegnare nel male del mio cuore un paesaggio marino. Il ripetersi del languore con passi da giaguaro. La fine delle credenze e la necessità del salvagente incatramato che il primo che passa afferrerà. Ma nel ripetersi del mal di cuore si potrebbe disegnare un cinescopio al posto della mia testa. Con il corpo che non la regge più. E una resistenza sfrontata e inutile a questo lasciarsi andare nello stesso pianeta, nello stesso tempo, con gli stessi occhi. Senza più senso all’orizzonte.

Un esercito di chiwawa bianchi al galoppo, sono le onde del mare.

Canto la canzone d’amore.

Chi?

VI/C

Sentirmi inutile a 33 anni. Con questa mano che si rifiuta di scrivere. Rallenta il corso dei pensieri. Rimpicciolisce la scrittura. M’impone di guardarla. Come regge la penna. Come si sa muovere sul foglio. Che sfila per me come una puttana. Coi suoi peli delicati. Con le mie cicatrici- sue. Coi suoi occhi sul cappuccio. E mi fa sospirare profondamente. Con l’orologio che batte il tempo. Una bottiglia di vino scadente.

Ubriaco ormai, che non ho bisogno di bere. Fumato che non ho la forza di fumare. Occhi che vedono il tavolo e la scrittura. E la testa, la fronte pesante. Mi pare che i tanti tasti dolenti- non vogliono più essere tastati. Mi rimane una scacchiera che mi pietrifica. Tante parole che mi hanno distrutto. E fatti pochi per la verità. Pochi- pochi- per pochi- da pochi!

Sapere che la vita è più semplice e più complessa. Sentirmi un idiota. Credere troppo nel sogno per difendere chi, poi? Non sono resistente. O forse ho incassato troppo. Credere di salvarmi ma ho toccato il fondo un’altra volta. Cercare di salvarmi ma mi viene da ridere. Sentire. Sentite! Sentite! Tutto il mio operare lo riducete in polvere e me lo sputate addosso!

Nella mia nullità devastante, pitturicchio, sbudello, intervengo. La terminologia esatta fa male perché è vera. La terminologia esatta forse non ha le gambe corte. Il mio vuoto inutile. Incredibile nulla. Attende. Vuole mangiare.

VIII

Io sono come le erbette sulle nostre chiese barocche.

Di certo verrò divelto- se ci arrivate-

ma rinascerò da altra parte.

È inutile crepare!

Orodè

1 “Walhalla”. Nella mitologia nordica, l’oltretomba riservato agli eletti del dio guerriero Odino, quivi condotti dalle valchirie (propr. Tempio dei caduti in battaglia)

2 Collane di pomodori

3 Che dolore! Che maleficio!

4 Tutte voci, versi per comandare gli animali!

5 Cannicci: graticci di canne per vari usi (come riparo, per seccare la frutta, ecc.)

L'ultimo poeta


Giovanni Padrenostro
L’ultimo poeta

Sono seduto al tavolo con davanti un bicchiere di whisky; fumo una sigaretta e la macchina per scrivere attende impaziente che le imprimi le mie dita in corpo.
La mente è pervasa da un’unica frase: “il sole è forte e muoio affogando i miei disperati pensieri nel fluire delle tue iridi”.
Questi versi, Marco, li aveva scritti per lei, la sua Isabella, la prima volta in cui i loro corpi si erano amati.
Eravamo proprio seduti qui, in questo locale mentre lui mi raccontava del suo amore.
Ricordo che ad un certo punto entrò nel locale Isabella, si avvicinò a noi con passo lento, aveva il viso stravolto, il trucco scomposto, in disordine.
Si rivolse con gentilezza a Marco pregandolo di tornare a casa, che lei non era niente senza di lui.
Ricordo esattamente le frasi di Marco: “ma cosa cerchi in questo corpo decaduto, questo corpo capace solo di bevute notturne?”.
“L’amore!” rispose lei.
Se ne andarono insieme, abbracciati l’uno all’altra, sembravano un quadro di Munch, la danza della vita.
Marco non lo rividi più, qualche volta incontravo Isabella che mi dava delle poesie chiedendomi di leggerle, di aiutarlo, perché Marco in fondo non era cattivo, era un buon poeta.
Adesso ne ho una in mano è la trascrivo sui miei fogli: “le solide note di colori fuggiaschi/ di seta / di carne / di paura / di noia / nascondono abissi insondati / fragili specchi privi di riflesso /”.
Si racconta che Marco non usciva più da casa, che era impazzito, diventato folle ma io non credevo alle dicerie della gente, e anche se fossero state vere sapevo che aveva un’ uscita di scarto.
Così decisi di andarlo a trovare ma ogni volta che bussavo alla porta di quella piccola casetta in periferia nessuno veniva ad aprire; così decisi di rinunciare.
Isabella, dopo un po’, non si fece più viva, le nuove poesie di Marco le trovavo nella buca della lettere; erano la conferma, la mia conferma che Marco era ancora vivo.
Si raccontava per le strade che Isabella si prostituiva per racimolare soldi per l’eroina.
Si raccontava che Marco aveva l’aids.
Si raccontava che Isabella aveva abortito.
Ecco un’altra bella poesia di Marco: “il bicchiere tondo / sguainati gli occhi nel loro ondeggiare / di ricordi / dov’è la fine? / l’inizio?/”.
Il giorno del loro funerale eravamo poca gente, pochi intimi.
Quel giorno recitai le sue poesie ad alta voce accompagnato dal silenzio fluttuante del cielo limpido.
Si dice che la poesia è morta, se ciò è vero, io forse ho conosciuto l’ultimo poeta.
Lì trovarono abbracciati, consunti dalla fame, sfiancati dalla malattia che li aveva divorati.
L’ Aids aveva colpito, sinuosa e lenta come un serpente e la povertà aveva fatto il resto.
Ora si chiacchiera tanto per le vie, si dice che se la sono cercata, che la rettitudine è l’unica strada giusta, l’unico cammino che evita la morte, come se tutti non fossimo destinati inesorabilmente alla fine.
Si chiacchiera tanto di Isabella e Marco.
A volte si dubita anche che siano esistiti tanto le loro presenze erano impalpabili.
Io, qui, ho tra le mie mani la loro essenza, il loro folle e taciturno amore, la certificazione della loro esistenza, e penso che Marco aveva ragione quando diceva: “il passato è ciò che affiora dalle viscere dei nostri ricordi e c’è sempre una sorta di novità che zampilla, che si aggiunge e si mescola come in una sorte di continuum narrativo; né un inizio né una fine”.

§

Giovanni Padrenostro è nato a Caltagirone (CT) il 29/03/1980. Dopo aver conseguito una laurea triennale in Scienze della Comunicazione alla facoltà di lettere di Catania, mi sono trasferito a Bologna, dove vivo e frequento l’ultimo anno del corso di specializzazione in Cinema, Televisione e produzione multimediale al Dams. Adoro scrivere e leggere, e naturalmente sono un appassionato di Cinema. Gestico un blog personale: Stralci dal grande show (www.barnumg.splinder.com).
Due suoi racconti stanno per uscire in un’antologia per il corso “Scrivere” realizzato dalla scuola Holden e dalla De Agostini, e una raccolta di racconti con la casa editrice “Statale11editrice”.

Una vita come si deve. Florio Panaiotti


Florio Panaiotti
Una vita come si deve

Michela ripensava ai suoi genitori. Erano dei buoni genitori, e prima ancora erano una coppia cristiana come si deve.
A Michela non importava se i suoi genitori fossero una buona coppia, o un’ottima coppia, o addirittura eccellente. Erano come si deve e basta. E ne era fiera.
Da bambina pensava spesso che una volta cresciuta avrebbe voluto essere come loro. I suoi genitori, anche presi come singole persone, le sembravano degli ottimi modelli: erano educati, rispettosi degli altri, generosi verso il prossimo, andavano a Messa la domenica e per Pasqua e per Natale, e avevano sempre aiutato la loro unica figlia, cioè lei.
E lei aveva cercato di ripagarli. Era sempre andata bene a scuola, e una volta arrivata all’università aveva scelto una facoltà che potesse aprirle le porte di una professione rispettata dalla gente, così come piaceva a loro. Aveva scelto di fare il magistrato, e tutti erano stati contenti, orgogliosi di lei.
Fin da quando aveva quindici anni andava a trovare una ragazza disabile della sua età, che aveva difficoltà a camminare e a parlare, e quindi a fare le cose che gli altri ragazzi facevano senza alcun problema. Andava a trovarla una volta a settimana, e l’aiutava a fare la lezione e conversava a lungo con lei. Era contenta di questo, si sentiva sinceramente buona, e del resto anche i suoi genitori erano contenti di quello che lei faceva per quella ragazza sfortunata. A dire il vero l’anno precedente aveva iniziato a fare la stessa cosa con un ragazzino ipovedente, ma poi, su consiglio della mamma, aveva deciso di smettere di andarlo a trovare, perché a quell’età è meglio che le ragazze non stiano troppo tempo insieme ai ragazzi.
Gli anni di studio all’università furono molto duri per Michela. Sentiva di dover riuscire nel migliore dei modi, per se stessa e per i suoi genitori, ma le materie erano molto tecniche e i professori severi, perciò i suoi obiettivi erano difficili da raggiungere nonostante la dedizione che metteva nello studio. Però alla fine, e grazie al supporto continuo della mamma, la sua media rimase incredibilmente alta.
Nei momenti di difficoltà si aiutava immaginandosi i due eventi che dovevano essere i più belli della sua vita, come dovevano esserlo per ogni brava ragazza: la laurea e il matrimonio.
Le pareva di vederseli davanti, in ogni dettaglio, e piangeva di gioia mentre li viveva nella sua mente, e le davano un’enorme carica per continuare a inseguire i propri obiettivi.
Però Michela non aveva ancora un fidanzato. Diceva e pensava “fidanzato”, e non “ragazzo”, perché lei cercava il ragazzo della sua vita, quello che avrebbe sposato e che le sarebbe stato accanto per sempre, e le avrebbe dato uno o due bambini. Quello era il suo fidanzato.
Michela non aveva mai avuto un fidanzato, e naturalmente era vergine. Non vedeva l’ora di incontrare l’uomo giusto per lei, un uomo che potesse formare con lei una buona coppia cristiana. Iniziò a domandarsi dove avrebbe potuto incontrarlo, iniziò ad analizzare i ragazzi che conosceva per capire se potessero andar bene per lei, e dopo pochi mesi accadde quello che sperava: riconobbe il suo fidanzato, incontrò Domenico.
In Domenico vedeva tutto quello che l’uomo della sua vita doveva avere: era educato, rispettoso degli altri, generoso verso il prossimo, andava a Messa la domenica e per Pasqua e per Natale, aveva sempre aiutato i propri genitori, era un ottimo studente di Economia con una brillante carriera di manager d’azienda da seguire. Michela riconobbe in lui tutte queste qualità, o almeno a lei pareva che quella fosse la parte buona di lui. Ogni tanto infatti Domenico era sbracato, irriverente, giocherellone al limite del maleducato. Questo dava fastidio a Michela, e quel fastidio si trasformava in vergogna quando ciò accadeva in pubblico, o peggio davanti ai suoi genitori.
A ogni modo ormai aveva deciso. Si misero insieme, e gli amici di Domenico ne rimasero colpiti. Si stupivano che un tipo scapestrato come lui si fosse legato a una ragazza come Michela, ma Domenico sembrava contento, e a chi gli faceva obiezione lui rispondeva serio che Michela gli aveva fatto mettere la testa a posto.
Domenico col passare del tempo assomigliava sempre più all’uomo che Michela aveva sempre sognato. Passava nottate intere ad sentirle ripetere i vari programmi d’esame, l’accompagnava dalla sfortunata ragazza disabile, andava ogni venerdì sera a cena dai suoi genitori. Smise anche di fumare, perché Michela gli disse che fumare faceva molto male, e che a lei i fumatori non piacevano.
L’unica cosa che sembrava non andar bene era il sesso. Domenico voleva fare l’amore, ma Michela avrebbe voluto perdere la verginità dopo il matrimonio, e non prima come le ragazze facili. In realtà anche lei avrebbe voluto farlo, ma cercava di non pensarci perché non era così che le cose dovevano andare. La situazione rischiava di allontanarli, e anche se Domenico sembrava col passare del tempo aver accettato la castità, Michela continuava a percepirne il potenziale pericolo per la loro relazione. Così un giorno, rimasta sola con la sua mamma, le disse che voleva fare l’amore con Domenico prima del matrimonio, e le spiegò il perché. La mamma si fece il segno della croce, e disse che era una cosa sbagliata. Subito dopo, rimanendo seria, le strizzò l’occhio e se ne andò. Michela capì che poteva farlo.
Un giorno Domenico, che era di due anni più grande, si laureò. Si laureò con centootto, e Michela per l’occasione gli organizzò una festa come si doveva per un evento del genere. A dire il vero le dispiaceva molto del fatto che Domenico non avesse preso centodieci, e si rammaricò di non averlo potuto aiutare abbastanza durante i suoi studi. Del resto, pensò, non si può avere tutto dalla vita. A Domenico non piacevano le feste di laurea, ma visto che Michela era così contenta di avergliela organizzata non disse nulla.
Dopo la laurea Domenico ebbe un sacco di offerte di lavoro, anche importanti, ma Michela gli chiese di accettare un lavoro vicino a casa. Gli spiegò di quanto erano contenti lei, sua madre e suo padre nel vedersi ogni sera riuniti a tavola. Come avrebbe potuto stare con la sua famiglia tutte le sere, così come aveva fatto suo padre con lei, se fosse andato a lavorare lontano da casa, oppure semplicemente se avesse accettato un lavoro dagli orari interminabili? Domenico era indeciso. Da un lato gli dispiaceva molto rinunciare alla carriera, ma dall’altro non voleva deludere da sua futura sposa. Alla fine, ancora una volta, fu la mamma di Michela a risolvere il problema, a rimuovere gli ostacoli fra sua figlia e i propri sogni. Un giorno prese Domenico da parte e gli fece un discorso accorato sull’unità della famiglia cristiana. Domenico si convinse, e andò a lavorare in un piccolo studio di commercialisti a un paio di isolati da casa di Michela.
La laurea di Michela fu preceduta da un periodo carico di tensione per tutti. Nonostante i suoi sforzi, Michela non era riuscita negli ultimi tempi a tenere la media di voto che voleva, e rischiava di non ottenere centodieci. Una sera, durante la cena, ebbe una crisi isterica e si rifugiò in camera sua. Sua madre e suo padre ne parlarono preoccupati, cercando una via d’uscita al problema. Quando Michela tornò, suo padre, che conosceva molte persone influenti, le promise di darsi da fare per aiutarla con la commissione d’esame. Michela sapeva che questa non era una buona cosa, e anche la mamma si fece il segno della croce quando suo padre, sottovoce, disse cosa avrebbe fatto. Quella sera Michela ci pensò bene, e concluse che suo padre stava facendo ancora una volta la cosa giusta. Stava aiutando la sua unica figlia, cioè lei. E comunque, dalla mattina dopo fece di tutto per dimenticare ciò che aveva sentito, perché di per sé quello rimaneva un peccato.
Prese centodieci, e fu festeggiata come aveva sempre voluto esserlo. I suoi genitori organizzarono un ricevimento, e tutte le persone che conosceva furono invitate.
Domenico nel frattempo non aveva più amici. Era depresso e si lamentava del proprio lavoro, monotono e senza prospettive. Michela, assai dispiaciuta, per risolvere la cosa decise di mandarlo da un buono psicologo, dato che non c’era in verità niente di così grave di cui lamentarsi. Tutto sommato Domenico aveva lei, e la prospettiva di una buona famiglia.
Pochi mesi dopo anche l’altro suo sogno si realizzò: il matrimonio. Michela e sua madre scelsero i vestiti da sposa e da sposo, la chiesa nella quale svolgere la cerimonia, il luogo del ricevimento, le bomboniere e ogni altro dettaglio. Fu un lavoro incessante e a suo modo stressante, perciò Michela fu costretta a limitare gli incontri con Domenico.
Domenico nel frattempo era peggiorato, e una sera cercò di parlarne con Michela. Le disse che in quelle condizioni non sapeva più se fosse il caso di sposarsi. Lei lo abbracciò, e gli disse che erano sciocchezze, che sarebbe stato contento. Però questa cosa la preoccupò non poco. Il giorno dopo chiamò lo psicologo, e concordarono di aggiungere alla terapia alcuni farmaci antidepressivi.
Michela scelse anche una casa, la sua futura casa, nuova e bellissima, e fu suo padre a comprarla, anche se per far questo dovette spendere tutto quello che aveva messo da parte. Michela gliene era grata, e pensava che fosse doveroso da parte di un buon padre.
Il giorno prima del matrimonio Michela andò a confessarsi, e al parroco raccontò quella brutta storia di suo padre e le pressioni sulla commissione della sua laurea. Il parroco la assolse, e lei si sentì meglio.
Proprio davanti alla torta nuziale, circondata da composizioni di rose bianche, pensava che quello era il giorno più bello della sua vita, ed era esattamente come se lo era immaginato.
Voleva che niente di quello che aveva raggiunto cambiasse più. Ora che aveva un marito, una casa e una laurea, voleva dei figli, una casa più grande e il posto in magistratura.
Voleva continuare a vivere felice come lo erano stati i suoi genitori quando era piccola. Voleva una famiglia felice, una famiglia come si deve.
Il bianco del suo vestito da sposa, così carico di felicità, rifletteva pallido su Domenico, sua madre e suo padre, nascosti in piedi vicino a lei.

La bambina utile (microracconto). Bianca Madeccia


Bianca Madeccia
La bambina utile (microracconto).

La bambina utile un giorno aprì alle bambine inutili.
Era da molto che premevano alla porta, così, le lasciò entrare.
In pochi minuti, le bambine inutili presero possesso della casa.
La loro prima azione fu bruciare pile di libri da cui divamparono storie ardenti.
La fiamma, che mai prima aveva brillato tra quelle pagine, ora svettava incontrastata.
La cenere, bianca e compatta, riposava a terra, cipria cocente di rare pagine avoriate di buona grammatura.

(Da “La bambina utile”, inediti)

Biografia breve:

Bianca Madeccia, è giornalista. Ha pubblicato microracconti, sillogi poetiche, saggi, traduzioni. Suoi testi sono stati pubblicati in svariate antologie di poesia. È autrice di una raccolta poetica “L’acqua e la pietra” (LietoColle, 2007) e di due raccolte poetiche inedite e di un numero consistente di microracconti. È appassionata di fotografia, arte materica e installazioni che ama contaminare con la scrittura. Alcuni dei suoi esperimenti sono visibili sul suo blog: http://biancamadeccia.wordpress.com

(dipinto Cinderella di Sir John Everett Millais, 1881, olio su tela)

Daniela Rindi. Figlio della luna


Daniela Rindi
Figlio della luna

Venivo da Milano, avevo poco più di vent’anni e facevo l’attrice. Costretta a stare per lunghi periodi nella capitale, a causa delle prove, decisi di trasferirmi definitivamente. Cercare casa non era facile, gli affitti non erano alla mia portata, perciò tergiversavo approfittando delle amicizie, girandomi tutti i quartieri di Roma. Quella volta abitavo in vicolo dei Serpenti, la casa era dell’amica di una mia amica, in pratica una sconosciuta, anche lei attrice, ma molto più grande di me. La sera che arrivai, le dieci circa, mi accolse frettolosamente, mi fece vedere il letto e scappò via, urlandomi che non c’era niente da mangiare. Sbatté la porta. Buttai la borsa sul letto e comincia ad accusare il digiuno. Andai ad aprire il frigo, solo per curiosità, naturalmente. Due uova sode, una ciotolina di patate lesse, coperte con attenzione dalla pellicola trasparente, uno yogurt magro, un avanzo di burro. Anche se avessi potuto, non mi sarei fatta deprimere ulteriormente. Decisi di andarmi a comprare una pizza. Nel vicolo notai subito molta sporcizia, per terra siringhe, bottiglie e il cassonetto stracolmo. Le facce degli sconosciuti rovinate dall’indigenza, o dalla disperazione, o da entrambe, le donne erano, per lo più, puttane. Mi preoccupai dei miei ritorni a casa, la sera tardi dopo lo spettacolo. Mi feci fare una pizza tonda, in una pizzeria deserta, con le pareti ammuffite e l’aria che puzzava d’olio rancido, però il pizzaiolo era simpatico. Mi fece le battute da copione sul mio accento e mi raccontò del solito parente trasferito a Milano per lavoro. “Come si lavora bene là, ma la città, il tempo…”. Sì lo so, anch’io odio Milano, non solo per questo. Milano si odia e basta. Presi la pizza e andai a mangiarmela a casa. Era poco illuminata, due finestre davano sul vicolo, mentre quelle della cucina, camera e bagno, si affacciavano su un piccolo cortiletto interno, da dove si potevano lavare bene i panni sporchi dei vicini. Fu dalla cucina che assistetti alla scena. Iniziarono ad urlare, lui la insultava pesantemente, lei si difendeva piangendo, lui le tirò uno schiaffo, e lei gli sputò in faccia. “Sei una puttana, questo non è mio figlio!”. Lei aveva un bambino piccolissimo in braccio. “Sei un porco, come fai a pensare una cosa simile, schifoso!” Lui accecato dall’ira, continuava a negare, ad accusarla di tradimento, “Lui è biondo, troia!”. Lei si agitava, noncurante del bambino, strattonandolo, se avesse potuto lo avrebbe gettato dalla finestra. Non poteva difendersi. Lui approfittò, l’afferrò e le affondò la lama di un coltello nella pancia. Urlai, la pizza mi cadde per terra, non sapevo cosa fare, altri vicini si affacciarono e cominciarono ad urlare anche loro: “Chiamate la polizia, un’ambulanza! Presto!” Non avevo la minima idea di quale fosse il numero. Completamente nel pallone, incapace, inerme, frustrata, arrabbiata, non potendo aiutare quel neonato. La notte passò insonne, molta gente, macchine della polizia, ambulanza, chiacchiere, interrogatori. La mattina dopo, scesi per andare a bere un caffé, ero molto stanca, la strada era tornata silenziosa e io non riuscivo a togliermi dalla mente quella scena. Guardai il cassonetto, era stato svuotato, come il cuore di quel bambino.

“La flor más roja” un racconto di Ettore Maggi


Ettore Maggi
La flor más roja

A Gianni-san non piacciono le lame. Dice che sono da infami, e che quando hai una lama in mano, o un’arma qualsiasi, non sei più tu a usarla, ma è lei che ti usa. Gianni-san dice che quando hai una lama in mano puoi fare poco, sei troppo preso dalla volontà di colpire, e ti dimentichi che possono colpire te. Ti dimentichi che possono darti un calcio in un ginocchio, una bastonata, e buttarti giù.
Luciano ride, e dice che se avesse avuto una lama, a Verona, l’anno scorso, non andrebbe in giro con quel ricamo sulla faccia. Ma Gianni-san se ne frega, per lui non è un problema portare una cicatrice sulla faccia. Io credo che in fondo sia contento di averla.
Io ammiro Gianni-san, lui è il mistico del gruppo, infatti lo chiamiamo anche il Monaco. Gianni-san non beve e non fuma, e non mangia carne. Lo ammiro, però la lama ce l’ho, e anche Luciano e Roberto.
Roberto ha sempre anche il suo butterfly, e lo sa usare, lo fa girare in un modo assurdo, ma secondo lui il butterfly serve soprattutto per fare scena. Dice che è un’arma da camorristi, buona per spaventare e graffiare, oppure per ammazzare piantandolo di punta, ma non per combattere.
Io ho due coltelli, uno lo ha fatto mio padre, quando lavorava ancora alla raffineria. La lama proveniva da una valvola di scarico di un camion. Ci sapeva fare mio padre, se avesse fatto l’artigiano invece dell’operaio, chissà…
Ma il coltello di mio padre di solito lo tengo a casa.
Ci troviamo sempre nella nostra piazza, dietro il monumento. Questa è zona nostra. Abbiamo delimitato il territorio con le bombolette e con gli adesivi RedSkin e Sharp. L’altra sera al concerto della Banda Bassotti ne abbiamo presi altri. Io ho quelli con la stella rossa, Ama la musica odia il fascismo, e li ho attaccati anche a scuola ieri.
Mentre li attaccavo è passata la profe nuova, la supplente, quella che viene dal sud. Mi ha visto e ha sorriso. Mi piace, la profe nuova, ha i capelli neri, ricci e lunghi.
A volte la guardo, durante la lezione. Anzi, la guardavo, perché una volta mi ha detto di smetterla di fissarla, e io ho smesso, perché la rispetto. Non è come gli altri stronzi prof, lei è diversa. E poi è una compagna. Lo so, perché aveva la foto del Che sull’agenda.
Uno dei primi giorni mi ha visto la lama, avevo quella di mio padre. Non so perché, di solito non la porto in giro. E lei l’ha vista. Allora non la conoscevo ancora bene, la profe, e pensavo che fosse una stronza come quella che c’era prima, e quando ha visto la lama ho sorriso. Ma lei non si è spaventata. Allora ho capito che aveva le palle. E ho messo via la lama. Però poi lei un po’ di paura di me ce l’aveva lo stesso.
Tutti le dicevano che sono uno skinhead, e lei a vedermi rasato, con la Lonsdale e gli anfibi, mi credeva un bonehead, uno stronzo di skin fascio. Che poi adesso la Lonsdale la portano tutti i fighetti alternativi, ma comunque lei pensava che fossi un nazi di merda.
Un giorno ho visto che leggeva il diario del Che in Bolivia, e mi sono avvicinato.
Anch’io l’ho letto, profe.
Pensavo che fossi uno skinhead
, ha detto lei.
Sono uno skinhead, ho risposto.
Ho indicato le toppe sulle maniche del bomber. Da una parte RedSkin, dall’altra Sharp e Rash.
E lei mi ha chiesto RedSkin lo capisco, ma che significano Sharp e Rash?
Rash significa Red and Anarchist Skin Heads. Sharp invece significa Skin Heads Against Racial Prejudice. Skinheads antirazzisti, se preferisce.
Pensavo che gli skinheads fossero razzisti.
Quello sono i BoneHeads.
Pensavo che tutti gli skinheads fossero nazisti.
Lei crede a tutte le stronzate che dicono in televisione e sui giornali, profe?

Lei ha sorriso, e mi è piaciuto come lo ha fatto.
Hai ragione, ha detto.
Mi dispiace di averla spaventata, profe, quel giorno, con la lama.
Non mi sono spaventata. Quando insegnavo all’altro professionale, giravano coltelli più grossi.

Allora abbiamo iniziato a parlare tutti i giorni, e lei adesso mi presta un sacco di libri. Mi ha prestato di tutto, e di solito di notte resto un’ora a leggere i suoi libri. Quello che mi è piaciuto di più è Omaggio alla Catalogna, di Orwell, parla della rivoluzione spagnola, della guerra con i fascisti, degli scontri tra gli stalinisti e gli anarchici.
Quella parte l’ho capita un po’ meno, perché ci si sparava tra compagni invece di sparare ai fascisti? Ma non ho chiesto niente alla profe, e nemmeno a mio padre. Volevo chiederlo a Gianni-san, ma poi non ho detto niente nemmeno a lui. Alla profe perché non volevo sembrare ignorante, a mio padre perché non so mai se chiedergli qualcosa. A volte penso che mi consideri un coglione. Però mi ha fatto piacere quando mi ha regalato il coltello che aveva fatto. E quando è andato a parlare con la profe e lei gli ha parlato bene di me è rimasto sorpreso. Non ha detto niente, ma è rimasto sorpreso, lo so. Però era contento. Lo so, anche se non ha detto niente.
Una volta la profe mi ha prestato un libro di Hemingway. C’era un racconto che mi è piaciuto, La capitale del mondo. Parlava di un ragazzo spagnolo, un cameriere di Madrid, appassionato di tori e corride. Per scommessa con un altro cameriere, e per dimostrare di non aver paura, finge di essere un matador, con il grembiule, mentre il suo amico lo attacca con una sedia a cui ha legato due coltelli da cucina. La prima volta riesce a schivare, ma la seconda le lame lo feriscono e lui muore dissanguato. Ho raccontato la storia a Luciano, a Michele e a Roberto.
Roberto e Luciano dicono che loro avrebbero fatto lo stesso, invece Michele dice che quel ragazzo del racconto, Paco, era uno stronzo. Secondo lui non è stato coraggioso. Secondo lui solo un coglione muore così, squarciato da una lama legata a una sedia, fingendo di essere un torero.
Stasera, abbiamo trovato una scritta, sul muro di fronte alla nostra panchina: Milanese infame per te ci sono le lame. Sotto c’era un fascio.
A noi non piacciono i milanesi, soprattutto quegli stronzi fighetti che vengono nelle nostre spiagge d’estate, con le moto e le macchine. Però non ci piace nemmeno che qualcuno faccia delle scritte nella nostra zona. Abbiamo cancellato il fascio, ma la scritta abbiamo deciso di lasciarla, anche se Luciano non era d’accordo. Luciano dice che sa chi è stato, a scriverla. Ci sono dei boneheads che frequentano un pub, qua vicino.
Il loro capo è Lupo, uno skin alto e tosto. Pare che lui e Gianni-san fossero amici da ragazzini.
Luciano dice che dovremmo andare a cercarli e fargliela cancellare.
A me sembra una stronzata e gli altri sono d’accordo con me.
Siete tutti senza palle, dice Luciano.
È una stronzata, ripete Gianni-san.
Tu lo dici perché non vuoi metterti contro Lupo, dice Luciano. Lo sappiamo tutti che siete amici. Guardiamo Gianni-san.
Non siamo più amici. Però lo rispetto.
Ma lui è venuto qui a fare quella scritta.
Che cazzo ne sai che è stato lui?
Se non è stato lui, sarà uno dei suoi.
Appunto.
Va bene. Tu non vuoi metterti contro Lupo. Ma voi? Voi siete dei conigli,
dice Luciano.
Vattene a ‘fanculo, dice Michele.
Ci vado anche da solo, dice Luciano.
Tu sei fuori.
Tu invece sei un coniglio.
‘Fanculo. Non devo dimostrarti niente,
dice Michele.
Luciano ci guarda e se ne va. Siete tutti senza palle, grida.
Noi restiamo in silenzio e guardiamo Gianni-san.
Gianni-san è un mito, per me. È il più grande di noi, lavora insieme a Roberto in un magazzino di frigoriferi. Una volta il direttore del magazzino aveva cacciato via una ragazza, e lì sapevano tutti perché. Il direttore le aveva messo le mani sul culo e lei lo aveva preso a schiaffi.
La settimana dopo Gianni-san e Roberto lo hanno aspettato sotto casa, con i caschi integrali. Lo hanno aspettato nel portone, e quando lui è uscito dalla macchina non hanno perso tempo. Calci e pugni da rompergli le costole e il naso. Poi mentre Gianni-san lo teneva, Roberto ha tirato fuori la lama. Lo stronzo si è pisciato addosso, e Roberto gli ha lasciato un ricordo sulla faccia.
Così quando si guarda allo specchio se lo ricorda, dice Roberto, quando lo racconta. Gianni-san invece non dice niente. Sorride, e basta.
Entro a casa, vedo la luce dalla cucina. Mio padre sta guardando la televisione, e bestemmia. Mio padre bestemmia sempre quando guarda la televisione. Lo saluto e lui si volta e mi guarda, poi guarda l’orologio, e bestemmia.
Entro in camera, mi sdraio sul letto e guardo il coltello che ha fatto mio padre. Lo apro e guardo la lama. Lo tengo sempre qua vicino al letto, e lo guardo spesso. La settimana scorsa mio padre è entrato in camera e l’ha visto. Mi ha guardato e mi ha chiesto come andava la scuola, ma ha continuato a guardare il coltello.
Bene, gli ho detto. E al lavoro, come va?
Bene
, mi ha detto, ma so che non era vero. So che vogliono chiudere la fabbrica, anche se lui non ne ha mai parlato.
Poi mi ha chiesto perché tenevo lì il coltello, aperto, come se lo dovessi usare. Ho alzato le spalle. Non sapevo cosa dire, e anche lui è stato zitto.
Lascio il coltello aperto e prendo il libro che mi ha prestato la profe. È un altro libro di Hemingway, Per chi suona la campana. Mi piace, parla della guerra di Spagna anche questo, come quello di Orwell. Alla fine del libro Robert Jordan, l’inglés, come lo chiamano i suoi compagni spagnoli, rimane ferito e protegge la fuga degli altri.
Era tosto, l’inglés, un vero duro. Se vuoi essere rispettato, devi essere duro. Il problema è che se vuoi essere duro, lo devi essere sempre. Questo è più difficile.
Anche la profe è dura. Non si è spaventata quando ha visto la lama. Secondo me un po’ di paura ce l’aveva, ma se la è tenuta dentro. Essere duri è questo, non serve portare una lama in tasca.
A scuola oggi non c’era la profe. Dicono che è malata. Mi dispiace che stia male, e poi avrei voluto vederla, oggi, e parlare con lei. Lei è l’unica profe con cui riesco a parlare. Volevo anche restituirle il libro di Hemingway. Nell’intervallo vedo Michele, e mi viene da chiamarlo Miguel. Sarà che ho letto tutti quei nomi spagnoli. Miguel mi dice che Luciano ieri è andato nel pub dei boneheads.
Che cazzo dici?
Ti dico di sì. Ha rubato un bomber, e dentro c’era una lama.

Andiamo a cercare Luciano. Ha un bomber verde militare con lo scudetto italiano sulla manica destra. Sulla sinistra c’è uno strappo.
C’era una svastica. Quella l’ho tolta e l’ho buttata nel cesso, dice Luciano.
Miguel mi ha detto che c’era una lama, dentro.
Chi cazzo è Miguel?
Lui
, dico indicando Michele.
Luciano mi fissa come se fossi pazzo, poi si guarda in giro e mette una mano in tasca.
Eccolo, dice.
La lama scatta e brilla al sole.
Non si può più dormire, la luna è rossa, rossa di violenza, bisogna piangere i sogni per capire. Non ricordo come continua la canzone, la cantava la Banda Bassotti al concerto, ieri sera, questa canzone, ma non la ricordo tutta.
Sono tosti, quelli della Banda. Romanacci, ma tosti, compagni di quelli duri. I romani non mi piacciono molto, una volta ho conosciuto una ragazza, una che ha lo stesso nome di quel regista romano. Era una stronza, una che se la tirava da alternativa impegnata, ma era una stronza, e poi faceva l’intellettuale, con tutti i suoi amici alternativi ed era più ignorante di me. Invece quelli della Banda Bassotti sono muratori, mica fighetti alternativi che se la tirano da intellettuali, loro fanno i muratori, Avanzi di cantiere, come dicono loro.
Al concerto siamo andati tutti. Io, Gianni-san, Miguel, Luciano e Roberto. Era bello, eravamo tutti compagni, un sacco di skin. In realtà non tutti erano skin, ma stavamo tutti insieme, bevevamo tutti insieme e ballavamo tutti insieme, e non c’è stato nessun casino e quando la Banda ha attaccato Ska Against Racism cantavamo tutti Di che colore è la rabbia che corre dentro le vene, un rosso sangue che ad ogni battito griderà sempre più forte Ska Against Racism!
Mi piace andare ai concerti. Mi piace ballare lo ska. Una volta ho sognato che ballavo a un concerto, suonavano tutti gruppi ska, tutti gruppi tosti, c’era anche la Banda. C’erano tutti i miei amici e c’era anche la profe, e ballava con me.
Chissà come riderà, quando glielo dirò. Riderà, però a me piacerebbe davvero ballare lo ska con lei.
C’era anche un’altra canzone che cantava la Banda, la cantavano in spagnolo, El Quinto Regimiento, una canzone della guerra civile spagnola, e a me mi sono tornati in mente i libri che mi ha prestato la profe, e pensavo a Robert Jordan e a El Sordo, a Pablo e a Pilar, pensavo a Maria, e cantavo Anda Jaleo Jaleo, suena la ametralladora, y el cabrón se va a paseo, e pensavo di assaltare il ponte e mi vedevo ferito, e dicevo agli altri di scappare e sparavo con la mitragliatrice e cantavo Con el quinto, el quinto, el quinto regimiento, madre yo me voy al frente, para la linea de fuego.
Oggi sono stato in biblioteca. Quando sono entrato mi hanno guardato male, c’era la tipa che abita vicino a casa mia, mi ha chiesto se avevo bisogno di qualcosa. Gli ho detto che volevo fare la tessera. Mi ha guardato come se non capisse, allora l’ho ripetuto e lei ha continuato a guardarmi, ma non si è mossa. Stavo per incazzarmi, stavo per dirle Che cazzo vuoi, stronza, non sono degno della tua tessera di merda?
Poi è arrivata un’altra tipa, una vecchia, gentile, mi ha fatto lei la tessera.
Le ho chiesto quanto costava e lei ha sorriso e ha detto Niente, ragazzo, la tessera è gratuita.
Allora le ho chiesto se avevano libri di Fenoglio. Ce ne ha parlato la profe a scuola, e volevo leggere qualcosa. Fenoglio era uno con le palle, ha fatto il partigiano, ha combattuto contro i fascisti. La vecchia gentile mi ha detto che avevano Il partigiano Johnny, La malora e La paga del sabato.
Non sapevo cosa prendere, allora lei mi ha detto Per iniziare leggi La paga del sabato.
Di che cosa parla?, le ho chiesto.
Di un ex partigiano che dopo la guerra diventa un contrabbandiere.
La storia mi piaceva. L’ho preso in mano, e l’ho sfogliato. Poi ho sorriso.
Che c’è? mi ha detto.
Credo che mi piacerà. Il protagonista si chiama Ettore. Si chiama come me, ho detto e la vecchia gentile ha sorriso.
È un bel nome Ettore, ha detto.
La luna stasera è davvero rossa. Miguel è seduto accanto a me nella panchina, Luciano beve una birra. Stasera la lama l’ho lasciata a casa. Abbiamo visto una macchina delle Giacche Blu girare attorno alla piazza, e Gianni-san e Roberto sono andati via. Torneranno più tardi, forse. Ma vorrei che fossero già qui quando vedo i boneheads.
Non sono tanti, solo tre, ma dall’aria dura. Uno si fa avanti. È impossibile non riconoscerlo, è Lupo. Gli altri restano dietro, ci guardano e sorrido. Si sentono sicuri dietro Lupo.
Dov’è Gianni?, dice, e la sua voce è bassa, calma.
Luciano si alza, si pianta davanti a loro, non troppo vicino, e lo guarda.
Non c’è. Che vuoi da lui?
Lo sai quello che voglio.
Gianni non c’entra. Ce l’ho io la lama.
Allora dammela, e finisce lì.

Luciano ci guarda. Miguel annuisce. Io anche. Ma capisco che non può cedere così.
Adesso è mia, dice Luciano. Che mi dài in cambio?
I due boneheads dietro Lupo ridacchiano.
Che figlio di puttana.
Ti ha fregato la lama e vuole anche qualcosa in cambio, Lupo.
Spaccagli il culo, Lupo. Spaccagli il culo a quel rosso di merda.
Rotto in culo bastardo.

Lupo dice ai suoi di stare zitti, ma nemmeno lui può cedere. Luciano risponde agli insulti. Miguel mi guarda. Sta sudando.
Dove cazzo sono Gianni-san e Roberto? Roberto con i suoi nunchaku e il butterfly, Gianni-san con la sua forza.
Lupo si lancia contro Luciano. Uno dei boneheads viene verso di me. È della mia taglia, basso e tozzo. Mi slaccio la cintura e la faccio roteare. Lo colpisco sull’orecchio, ma lui non sente niente. E tira fuori la lama.
Allora ho paura. Mollo la cintura e indietreggio. Miguel si gira e mi guarda, e si prende un cazzotto, ma anche lui sembra non sentirlo, poi finisce a terra e prende calci e pugni dai due boneheads.
Miguel continua a guardarmi. Io indietreggio ancora, poi scappo.
Gianni-san e Roberto sono davanti al portone di casa. Fumano e mi guardano. Sì, guardano me. Perché mi guardano? Perché mi guardano così?
Che cazzo è successo, dice Roberto.
Niente. Non è successo niente.
Non dire stronzate. Che cazzo è successo?
Niente
, ripeto. Non è successo…
Poi vedo gli occhi di Gianni-san. Merda. Perché mi guarda così?
I boneheads… riesco a dire. I boneheads. Lupo e altri due.
Roberto getta la sigaretta e inizia a correre. Gianni-san continua a guardarmi. Non dice niente, non parla, ma i suoi occhi sì. Dicono che sono un coniglio. Dicono che sono un infame. Poi inizia a correre anche lui.
Allora resto solo. Non voglio restare solo. Corro, e mi manca il fiato, le gambe sono di legno, la gola brucia, ma arrivo fino alla piazza.
Miguel e Luciano sono a terra, pestati a sangue. Gli hanno portato via bomber e anfibi. Sentiamo una sirena e arrivano sbirri e ambulanza, ma le Giacche Blu non ci vedono, così possiamo allontanarci.
In silenzio, perché Roberto e Gianni-san non parlano. Ma so cosa stanno pensando. Roberto prende nunchaku e lama, infila il casco, sale sulla vespa dietro a Gianni-san. Io non esisto più, per loro, sono diventato invisibile.
Mi siedo e li guardo mentre si allontanano.
Se va lo mejor de España, la flor más roja del pueblo.
Penso a Robert Jordan. Poi mi alzo e li seguo. Sono scomparsi, ma so dove stanno andando. Li seguo, e inizio a cantare.
Con el quinto, el quinto, el quinto, con el quinto regimiento, madre yo me voy al frente, para la linea de fuego.
Arrivo davanti al pub, Gianni-san e Roberto sono già dentro. Suena la ametralladora, inglés?
Una ragazza urla. I boneheads sono tanti, troppi, ma noi non abbiamo paura, noi siamo lo mejor de España, la flor más roja del pueblo.
Lupo è davanti ai suoi. Guarda Gianni-san, ma non si muove, e nemmeno Gianni-san si muove.
Io cerco di avvicinarmi ai miei amici, alla flor más roja del pueblo, ma un nazi viene verso di me, Anda Jaleo Jaleo, suena la ametralladora. Gli spacco una sedia sulla testa, poi lo prendo a calci, y el cabrón se va a paseo, afferro un’altra sedia e cerco di raggiungere i miei amici, la flor más roja, ma un altro bonehead mi scaraventa contro un tavolo. Urlo, ma non per il dolore, poi mi rialzo, e lui tira fuori una lama.
Gianni-san mi guarda, poi guarda lui, poi me. La mia lama, quella che mi ha regalato mio padre è sul comodino, l’altra chissà dove.
Il bonehead è davanti a me, ma non si avvicina. Se avessi portato la lama di mio padre, adesso la tirerei fuori. Gianni-san mi guarda ancora, tutti ci guardano adesso. Sono fermi e ci guardano. Perché ci guardano così?
Il bonehead continua a guardarmi senza muoversi. Suda, ha la faccia bianca.
Avanti, urlo, dài, vieni! Vieni, cabrón!
Anche i suoi amici lo guardano, lo stanno guardando come Gianni-san e Roberto guardano me. Poi vedo la gamba di legno della sedia che ho sfasciato prima e la prendo. Gianni-san mi ha insegnato a usare i bastoni.
Vieni!, urlo ancora al bonehead, Vieni, cabrón!, ma lui resta fermo. Mi lancio verso di lui, lui si muove e allora lo sento. Sento il freddo del metallo. Sento lo squarcio, lo vedo, e vedo la faccia del bonehead che diventa ancora più bianca e la lama cade a terra.
Uno di loro urla Che cazzo hai fatto? Poi scappano, scappano tutti, anche Roberto. Lupo si ferma un attimo sulla porta, si volta, mi guarda, scuote la testa, poi guarda Gianni-san, ed esce.
Gianni-san è rimasto, si inginocchia vicino a me, e si sporca di sangue anche lui, e mi chiede se mi fa male.
Non mi fa male, non tanto, credevo che uno squarcio così facesse più male. Poi penso al libro della profe. Come faccio, adesso? Si incazzerà se non le restituisco il libro, non me ne porterà altri, e magari non parlerà più con me. E anche la vecchia gentile della biblioteca.
Diglielo, alla profe, che glielo restituisco…
Gianni-san mi guarda, ma non dice niente, o forse sono io che non riesco a sentirlo. Chissà cosa pensa di me, adesso.
Chissà cosa penserà di me Miguel. Chissà se penserà che sono un coglione come Paco o un duro come Robert Jordan.
Chissà cosa penserà di me la profe.
Chissà cosa penserà mio padre.
Chiudo gli occhi e inizio a cantare, la voce mi manca, ma mi sforzo, Anda Jaleo Jaleo, suena la ametralladora, e Gianni-san canta con me, y el cabrón se va a paseo, y el cabrón se va a paseo.

pubblicato su concessione dell’autore
il racconto è tratto da “Il gioco dell’inferno”
di prossima uscita per Besa Editrice

ETTORE MAGGI
è nato a Cagliari da padre genovese e madre sarda, e ha quasi sempre vissuto a Sestri Ponente (Genova). Lavora come tecnico di laboratorio precario nella ricerca scientifica da dodici anni. Attualmente lavora a Milano.

Nel 2003 ha vinto la sezione giovani del Premio Letterario Teramo 2003, presieduto da Walter Pedullà. È presente in diverse antologie di vari editori quali Addictions, Carabà, Ed. Terzo Millennio, Sonzogno e Mondadori (“L’uomo nel cerchio”, “La donna nel ritratto”, “Brividi neri”, “Non siamo stati noi. Racconti sul G8”, “Passi nel delirio”, “Fez, struzzi e manganelli”, “Professional Gun”), sarà ospite anche dell’antologia “Anime nere 2” di prossima uscita con Mondadori. Ha pubblicato un racconto sull’Agenda FNAC 2004 (insieme a C. Lucarelli, A. G. Pinketts, Alan D. Altieri, Alessandra C. e altri autori). Ha tradotto per la casa editrice Alacrán i romanzi Whiskey Sour di J. A. Konrath (2007), Corpus Delicti (2007) di Andreu Martín, Cronache di Madrid in nero (2007) di Juan Madrid. Collabora attualmente con la rivista letteraria M-Rivista del Mistero, con Sonzogno e con la casa editrice Alacrán di Milano. Ha pubblicato su Addictions, Il Foglio Letterario, M-Rivista del Mistero, Cronaca Vera, Confidenze, Il Segnalibro. Ha collaborato con la rivista AltroQuando-ArtVillageMagazine di Bologna nel 1999-2000.
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"La ragazza sordomuta", di Dora Albanese


Dora Albanese
La ragazza sordomuta

Edith allunga la piccola mano verso il cappotto di uno di quei due signori; il suo corpo si sposta e tira – con un leggero sforzo, quasi impercettibile, tanto che non trattiene nulla tra le mani, nessun lembo di stoffa, nessun bordo di certezza.
– Prendetemi con voi, non vi darò fastidio, sono qui, proprio dietro i vostri corpi, tenuta al caldo dalle vostre ombre tanto cercate, non lasciatemi di nuovo al sole, non spostate il passo di un solo centimetro, avvolgetemi, non girate l’angolo senza prima voltarvi, accorgetevi di me, vi prego, sono a un passo da voi -.
Le ombre dei due signori si dividono, aprendosi come si apre un sipario, lasciando di nuovo Edith al centro del palcoscenico, sotto il sole della grande vetrata dell’orfanotrofio.
La piccola resta ferma con le mani nelle tasche del grembiulino di stoffa a fiori, fatto su misura da suor Diletta – quella che le offrì un abbraccio per coprirla dal freddo dell’abbandono.
Piega la testa rosso rubino verso la spalla destra, mentre il sole sembra non voler tramontare mai dai suoi capelli; piuttosto succhiare, succhiarne tutto il colore, come per trarne energia – mentre i raggi, che le cingono il capo, appaiono come un’aureola infiammata.
Edith s’inginocchia e prega, unisce le mani, puntandole verso il cielo, alza il volto bagnato dal sole – ha sul viso i lineamenti di una giovane madonna, forse la madonna dei boschi, quella madre che, almeno una volta nella vita, ogni uomo ha provato a immaginare.
Due gocce le scivolano pastose dagli occhi, percorrendo la curva del naso, e fermandosi proprio sotto le mascelle.
Ha gli occhi scuri; e il naso, che le cade dritto, si unisce in una punta ottocentesca, che fa appena ombra sui contorni delle labbra superiori, rendendo quasi invisibile il piccolo porro cresciutole proprio là, al centro delle labbra.
Ora una ruga si impone – come fosse una cicatrice – e le divide la fronte a metà.
È triste, di una tristezza che ha trovato nido nella sua cassa toracica, nel suo ventre, in ogni vertebra, come un elemento in più, da non poter mai più eliminare.
Erano già cinque anni che era chiusa in quell’orfanotrofio, cinque anni che aveva smesso di parlare e di sentire.
Sua madre era una cantante, e raccontava sempre a Edith che, se avesse avuto una figlia, l’avrebbe chiamata come il suo idolo, Edith Piaf, e che l’avrebbe fatta diplomare al conservatorio, le avrebbe fatto suonare il pianoforte, le avrebbe messo a disposizione ogni mezzo per poter divenire una cantante affermata; suo padre, invece, era un insegnante di latino, contrario ai discorsi di sua moglie, che destabilizzavano la fanciulla, portandola in un mondo incantato, troppo lontano dalla quotidianità.
Edith, dunque, era in mezzo a due sogni: quelli paterni, che la vedevano dietro una scrivania, ad insegnare latino; e quelli materni, che la vedevano cantare nei migliori locali parigini. Di certo la sua estrazione borghese non l’avrebbe fatta morire di fame, nel caso questi sogni non si fossero avverati, e la piccola ne era consapevole, perciò annuiva senza fatica.
Sua madre – Caterina, italiana d’origine – era una donna giovane, bella, di una bellezza panica, rossa nei capelli e scura negli occhi, longilinea e accattivante nella voce; aveva sposato il suo insegnante di latino per sfida e per capriccio, pentendosene subito dopo – erano troppi gli anni che li dividevano, e troppe le diversità caratteriali.
Suo marito le impedì da subito di andare a cantare nei locali; non era bene che la moglie di un professore di liceo si esponesse in luoghi frequentati da gente così.
È proprio in uno di questi locali – frequentati di nascosto – che conobbe Giorgio, un chitarrista italiano. Non passò una settimana da quell’incontro che i due si innamorarono e decisero di lasciare la Francia e tornare in Italia.
Caterina, dunque, lasciò da parte tutti gli altri sogni, visto che il suo – quello di poter cantare in giro per il mondo, e di poter ritornare nella sua Italia – si stava appena avverando.
Cinque anni addietro abbandonò Edith davanti alla chiesa di Rue de la Fenac – la piccola allora aveva sei anni, ed era già troppo grande per dimenticare il tradimento materno.
Così svanì sua madre, percorrendo un viale alberato d’autunno – memoria senza più lineamenti, perché a rimanere è solo l’essenza. Ci vuole poco tempo per perdere la memoria di un ricordo.
Ad accoglierla fu proprio una monaca, suor Diletta, che poi le fece da balia all’interno dell’orfanotrofio.
Tutti sapevano che Edith era una bambina sordomuta, e tutti, specie i bambini, la evitavano, intimoriti da quell’ambiguità.
Indossava sempre la solita maglia nera con pallini bianchi, scarpette da ginnastica maciullate alle punte, e pantaloni neri corti alle caviglie, di una taglia in meno.
Le famiglie che frequentavano l’orfanotrofio – per scegliere quale giovane orfano prendere con sé – quando incontravano Edith restavano un po’ attoniti; la guardavano, le sorridevano, le dicevano parole dolci, giusto per sentirsi dei benefattori, per conquistare la sua benevolenza.
Gli esseri così incompleti sembra nascondano dei misteri, come fossero sacerdoti o angeli del Purgatorio – e l’uomo teme il silenzio sfingeo, e vorrebbe essere benedetto da questo mutismo contemplativo.
Edith allora li seguiva, con gli occhi e con i piedi; li seguiva e certe volte si aggrappava ai loro cappotti, tirando, come unico gesto di approvazione, ma poi tutti andavano via, spaventati, verso bambini dai colori meno vivaci, con la carnagione limpida e gli occhi del cielo.
Utilizzava la notte, Edith, per sciogliere la lingua dai crampi. Andava in bagno, tappava con una pallina di carta igienica il buco della serratura, e cantava sottovoce le canzoni della sua infanzia, quelle di Edith Piaf, che piacevano tanto a sua madre. E proprio in quei momenti pensava a lei, e a quei sogni rimasti incastrati in un cassetto, a quel padre che non l’aveva mai cercata, e che forse si era rifatto una famiglia. Tutta la rabbia di colpo esplodeva, riempiendole il viso di macchie rosse, annebbiandole la vista, facendola tremare.
Suor Diletta le dava sempre dei tranquillanti prima di andare a dormire – gliel’aveva prescritti la neurologa dell’istituto -.
Nessuna suora sapeva parlarle; solo suor Diletta sapeva farlo, con certi movimenti veloci e sincopati delle mani, con smorfie labiali, e con sorrisi. Alcune monache provavano ad offrirle balocchi, altre si limitavano ad accarezzarle i capelli, ma nessuno era riuscito ad entrare nel suo segreto, a nessuno mai era venuto il sospetto.
Nessuno si preoccupava d’interrompere certi discorsi, quando passava Edith.
Una di quelle notti si sentì morsa dal nervosismo; la lingua le faceva male più del solito, i crampi erano intensi e duravano molto, le orecchie le fischiavano. Aveva appena gettato i tranquillanti nel water, dato la buonanotte alla suora amica, messo la vestaglia, atteso sotto le lenzuola che il sonno arrivasse, ma i dolori erano acuti, le labbra le tremavano, la palpebra destra le pulsava, era in preda a un terrore panico, e non sapeva cosa fare, aveva appena rifiutato di prendere i tranquillanti – quelle pillole la indebolivano, le facevano girare la testa -.
Iniziò a credere di essere diventata pazza, di non avere più nessuna possibilità di salvezza, nessuna via d’uscita dal suo segreto, del quale era diventata prigioniera.
Un segreto che somigliava sempre più a una condanna.
Aprì la finestra della stanza. Vide la brina sugli alberi e sulle foglie, e anche le strade, ricoperte da uno strato sottile di giaccio, brillavano sotto i fanali delle macchine, che improvvisamente rallentavano.
Quella era proprio una di quelle notti fredde e buie quando la luna sembra non arrivi a illuminare tutta la terra. Edith decise di fare un giro nell’istituto, e magari fermarsi a recitare di fronte alla statua di Sant’Anna un atto di dolore, ma una voce, che somigliava a un lamento – sembrava fosse un fantasma che veniva a punire la sua anima menzognera – iniziò a farsi sentire, a penetrare nella mente di Edith.
La fanciulla fu pervasa da un tremore che la bloccò di spalle al muro. Persa e rassegnata, iniziò a pregare a voce bassa; pregava, chiedendo perdono per quelle menzogne, per aver mentito a tutti, anche a suor Diletta – per averle negato ogni parola di ricompensa. E mentre pregava, il lamento si faceva sempre più acuto.
Si accorse, respirando ansiosamente nel silenzio, di una porta socchiusa – era da quella porta che fuoriuscivano i lamenti. Lamenti che nessuno avrebbe mai raccolto, vista la collocazione del ripostiglio. Si affacciò e vide. Dunque nessun fantasma si stava lamentando, ma un bambino, fatto di pelle e di ossa. Un bambino che chiedeva alla suora, che era nella stanza con lui, di lasciarlo in pace, di smetterla di molestarlo. Un bambino di dodici anni – un ragazzo, ormai – che da chissà quanti anni subiva in silenzio le molestie sessuali di quella monaca perversa, che lo costringeva ogni notte a fare l’uomo.
Edith, già molto provata, tirò un respiro, bloccandolo negli addominali, si piegò sulle ginocchia, slacciò i lacci e ne prese uno in mano, diede un calcio alla porta, e gridò, gridò con tutta la forza che aveva in corpo:
“Basta, basta, basta…”.
La suora si voltò; era spaventata da quella figura diabolica, da quel segreto svelato; cercò allora di aggredirla, di soffocare le grida improvvise della bambina. Invece il ragazzo, rannicchiato in un angolo, rivestiva le sue nudità ferite. Edith afferrò la suora dai capelli, la strattonò a terra, e le strinse il laccio in gola, finendola così – finendola tra le urla del ragazzo, e quelle della Madre Superiora che, però, accorse troppo tardi.
Qualcuno gridò al miracolo, quella notte: la sordomuta aveva gridato, la sordomuta aveva sentito.

FISH!. Un racconto di Alessandro Milanese


Alessandro Milanese
FISH!

Era un martedì sera. O un mercoledì. Adesso non ricordo di preciso, mi ricordo solo del divano e di mio padre svenuto sopra. Telecomando incastrato sotto il cuscino, la luce della partita di coppa che gli sbatteva sugli occhiali. Io ero seduto, finivo un qualsiasi 4 salti in padella, terminandolo con una delle mie solite scarpette. Luca entrò. Si sentiva un fruscio, come di qualcosa trascinato per terra. Nostra madre non c’era. Una riunione urgente in parrocchia, lei e le altre perpetue. Inzaghi cercava il suo famoso tuffo carpiato e mio fratello cercava di raggiungere camera nostra senza farsi notare. “Dove cazzo vai?” Il vocione rauco del nostro genitore lo fermò. “Ho voglia di farmi una doccia”. Il rumore del sacchettone non era passato inosservato, purtroppo. “Cosa minchia hai comprato di nuovo ?” Alzai la testa dal piatto semivuoto. “Un paio di scarpe”. Il cuscino rimase orfano della testa quasi completamente calva. Si alzò. Prese il sacchetto. Lo girò al contrario, svuotando il contenuto. Un paio di scarpe. Un altro paio di scarpe. Un terzo paio di scarpe. Un paio di calze. Un paio di suolette. Lo scontrino. Lesse, senza proferire una parola. Non feci a tempo ad intervenire. “Ho ipotecato questo schifo di casa per farti ritornare ad essere un essere umano e tu continui ad essere solo un grandissimo stronzo!”. Luca fissava il pavimento, poi dopo un lungo respiro. “Mi sono fatto inculare da quel maledetti coglioni del negozio, non so cosa mi sia successo, mi sono ritrovato con tutta sta roba!”. Al posto del ceffone un solo sguardo, gelido, terribile. Poi il nulla, si voltò. Quando riprese posto sul comodo beige, ritrovò Inzaghi che si lamentava per l’ammonizione ricevuta per la simulazione.Luca entrò in camera e dopo 10 minuti, accompagnato da un borsone marrone, riapparse nel soggiorno-cucina. Ci guardammo e prima di scomparire nel corridoio mi disse solo. “Stammi bene”. L’ultima volta che ho visto mio fratello. Son passati più di 2 anni. 3 cartoline. Berlino, Londra, Barcellona. Sempre e solo intestate a me. Poche parole, senza gran senso, i miei mai menzionati. Nessuna telefonata, nessun indirizzo, niente.

Luca non era più lui. I 15 mesi in comunità l’avevano cambiato, radicalmente. Era tornato pulito, anzi pulitissimo, ma vuoto. Come se gli avessero prosciugato l’anima. Quieto, mansueto, quasi irritante per tanta tranquillità. Un’altra persona. L’immane testa di cazzo che a 16 anni girava l’Europa da solo e tornava dopo mesi devastato e in stati incredibili ero sparito, per sempre. Al suo posto un quasi trentenne immerso nel suo nuvoletta privata e quasi totalmente assente. Lui che prendeva a calci in culo la vita, prima la sua. Lui che era il mio eroe quando ero poco più di un bambino. Passava coi suoi capelli colorati, con le sue magliette con dei nomi assurdi sopra, una specie di santone antagonista. I miei amichetti dell’epoca m’invidiavano, nella loro stupidità. Non immaginavano cosa ci attendeva. I primi viaggi nella grande metropoli. I primi concerti in giro con la sua piccola-grande punk rock band. Le prime delusioni, le sconfitte. L’eroina. Gli anni a seguire. Lo sfascio, il disastro. Il tentativo di riordinare le cose. I sacrifici dei miei. La cascina in campagna, una comune ad una trentina di chilometri da casa nostra. Le mie visite, due volte al mese. Salivo con la panda di mia madre, azzurrina quasi blu. Le prime volte sembrava felice di aver cambiato guidatore. La lanciavo nel pezzo di statale leggermente in discesa. Mettevo la quarta e pian pianino spingevo fino in fondo, toccando tacche del contachilometri mai neanche sfiorate, come a scoprire un mondo nuovo, nuovi territori. Lei rispondeva entusiasta, sfoderando un bel rumorino di marmitta leggermente arrugginita. Prendeva coraggio e negli ultimi chilometri in leggera salita si arrampicava generosa tra una vigna e l’altra. Quando arrivavo lo trovavo sempre in cortile che mi aspettava. Lavato, ordinato, non sembrava neanche lui. Pranzavamo insieme, parlando delle cose di sempre. Mi diceva di essere contento dell’esperienza, di star lavorando sodo e che il “don”, come lo chiamavano loro, era il primo prete con cui avesse scoperto di aver qualcosa da dire. Gli facevo sentire qualche gruppo in ascesa con il mio lettore cd e lasciavo qualche cd nuovo per i quindici giorni a seguire. Poi ci salutavamo, lui ritornava in gruppo per i lavori di manutenzione della azienda agricola. Prima di ripartire mi fermavo dal don nel suo piccolo ufficio per far due parole su mio fratello. “Tuo fratello è una persona fantastica, a volte sai mi tocca avere a che fare con persone che forse non meritano quello che cerchiamo di fare per loro, ma lui è diverso, è buono dentro”. Tutte le volte quei piccoli dialoghi mi scuotevano. Afferravo bene il volante della piccola fiat e mentre le gomme fischiavano per i bruschi inserimenti in curva alcune piccole gocce salate scendevano a valle. Quell’anno passò così. Cd nuovi, cd vecchi. Cambiai le gomme terminate del panda, che col passar del tempo ritornò ad essere la macchina più lenta della provincia, quasi sfinita per quella seconda giovinezza forse eccessiva. Arrivò ottobre e a pochi giorni dalla scarcerazione definitiva ci fu un concerto in cascina per recuperare fondi. Andai su con qualche amico fidato. Non era un vanto avere un fratello tossicodipendente, ma alcuni di loro lo conoscevano da anni e mi sembrò giusto dividere con qualcuno una cosa importante come quella. Gli Africa Unite infilavano i loro pezzi, uno uguale all’altro. Le trecento anime affollavano lo stanzone e il sudore misto vapore appannava qualsiasi vetro. Luca leggermente brillo e felice ballava come un qualunque figlio di Bob Marley. Lui, che avrebbe ucciso pur di non sentire un disco reggae. Lui, in mezzo a noi altri, che faceva piroette e saltava come un invasato ad ogni inutile accordo in levare. Quella sera c’era solo lui.

Due settimane dopo ritornò all’ovile. Trovò un lavoro in un azienda agricola fuori città. Usciva prima delle 7 del mattino, pranzava in cascina da loro e ritornava per ora di cena. Taciturno, sempre con un sorriso d’ordinanza impresso sulla faccia. Con i miei sempre poche parole, come se sia lui sia loro avessero paura di rompere qualcosa parlando. Io provavo a portarlo fuori, qualche concerto, qualche uscita con amici. All’inizio sembrava funzionare, ma qualcosa si inceppò presto. Alle volte bastava una battuta o una sciocchezza qualsiasi e cadeva in una forma di distacco quasi catatonico. Si estraniava. Si autoescludeva da tutto, come se non si sentisse all’altezza di essere lì con noi. Aveva un peso troppo pesante da condividere con qualcuno. Così cominciarono i rifiuti, le scuse. Con me il rapporto diventò un pelo più freddo, continuarono le chiacchierate, i soliti scambi musicali, ma non ci fu più l’occasione di passare una serata insieme ad altra gente. Solo noi due, al massimo. Cercavo di capire se tutto andava per il meglio, se c’era qualche problema, e lo scongiuravo di dirmi sempre tutto, di qualsiasi cosa si trattasse. Le parti si erano invertite. Mio fratello grande che mi difendeva dagli idioti quando ero solo uno sbarbato magro, timido e con la brutta abitudine di parlare poco e a sproposito, adesso era diventato il fratello piccolo, che ha bisogno di qualcuno. Qualcuno che lo informasse che la gente ha la bella abitudine di cercare di inculare il prossimo. Qualcuno che lo proteggesse da un mondo che all’improvviso era diventato troppo grintoso per lui.

Lavora, vendi, compra, consuma. In campagna si trovava a suo agio. Il padrone parlava poco e in dialetto. Dava solo un paio di indicazioni al mattino sui lavori da fare, su quali appezzamenti di terreno dividersi, e poi chiamava la pausa pranzo e al calare del sole rimandava tutti a casa. Luca era il solo italiano. Gli altri 7/8 erano per lo più marocchini e tunisini. Si presentavano al mattino, venti minuti prima dell’orario prestabilito con il loro sacchetto plastica, con qualche bottiglia d’acqua e un maglione di ricambio. Alcuni di loro ogni tanto sembravano sulle spine, come se dovesse succedere qualcosa da un momento all’altro, come se non avessero il permesso di soggiorno. Pranzavano tutti insieme e il dialetto del basso Monferrato si mischiava con quello nord africano. Al secondo bicchiere di vino il padrone ritirava la damigiana e il goccio di grappa per pulire la tazzina del caffè era esclusiva sua e di Luca. “Sti giargianeis chi le mei chel bevu nient di tut, a son già ciuch acsi, e dop, dopdisna a travaiuma ammachi nui ater“.

Lo scontrino rimase su quel tavolo per tutta la notte. Era li, da solo. Il grande sacchetto aveva finito la sua avventura nella pattumiera e lasciava indifeso quel foglio di carta con in fondo una cifra. 356,00 €. Quei grandissimi pezzi di merda avevano fatto spendere mezzo stipendio a mio fratello per tre paia di scarpe, una suoletta e un paio delle loro stupide calze. Passarono un paio di giorni. Al primo turno favorevole, una mattina 6-14, passai dal negozio, erano all’incirca le 5 del pomeriggio. Il negozio era vuoto. Entrai piano, procedendo lentamente sul perimetro facendo finta di curiosare tra le nuove Nike esposte. Saltò fuori, nel vero senso della parola, un piccoletto di carnagione scura, quasi mulatto. Con un balzo inverosimile arrivò a qualche centimetro da me. “Io sono la persona che stai cercando! In che maniera posso aiutarti?”. I miei occhi incrociarono i suoi. La mia risposta mentale preferita sarebbe stata: “Mi potresti aiutare finendo la tua inutile vita sotto un tram, per esempio”. Sorrise, poi rimbalzò dietro di me e poi alla mia destra, girandomi attorno. “Siamo indecisi, non sappiamo ancora che scarpa prendere, con quale nuovo super mezzo di locomozione andare a correre dietro al cimitero, alla sera al tramonto”. La mia bile dava segni di cedimento.

Strinsi il pugno più forte che potevo e mentre mi accorgevo delle 2 telecamere a circuito chiuso del negozio cercai qualcosa che assomigliasse ad una risata. “Niente, davo solo un occhiata, per farmi un idea”. Ri-saltò alle mie spalle a velocità supersonica, ritornando nel mio campo visivo con in mano una Silver. “Dite tutti così poi alla fine la scarpa giusta non vi scappa”. In 26 anni era la cosa più vicina all’odio che non avessi mai provato. Le Silver erano diventate due perché tutto ad un tratto si era materializzato anche il secondo fenomeno a strisce. Più alto, più robusto, con un taglio alla moda tutto pettinato da una parte. “Ehi Lu scommettiamo che la faccio io sta vendita?”. Il palestrato non rispose. Piantò un sorriso che neanche all’isola dei famosi poteva aver un senso. “Coglione, oggi siam 4 a 1 per me, ne devi fare della strada per starmi addosso”. Lo spettacolino delle marionette. Due abbindolatori. Il piccoletto lanciò la sua Nike al suo socio con velocità e lui rispose prontamente con una presa volante. Lo fecero in maniera meccanica, come se fosse la cosa più naturale del mondo. A quel punto mi dedicai a loro.

Fingevo interesse, continuavo a voler vedere modelli diversi. 4-5-6 paia. Visto che mi proponevano le calze ancor prima che scegliessi le scarpe chiedevo cosa era meglio abbinare. Partirono gli abbinamenti. C’era merce dappertutto quando gli lasciai ad un ennesimo gioco di prestigio e la porta mi si apriva su un centro storico pieno di gente. Un ora del loro prezioso tempo buttata nel cesso. Camminai un po’, anche più del previsto. Cominciai a farmi una ragione di quello stramaledetto scontrino. L’avevano fottuto, letteralmente. Si sarà trovato in mezzo alle loro minchiate e frastornato da quei due clown avrà perso il senso delle cose, dei soldi. Ero quasi davanti alla porta di casa quando era chiaro che l’avrebbero pagata, e cara.

Da quel giorno mi informai sulla catena di negozi. Sui metodi che i commessi avevano per vendere e delle loro tecniche circensi. Trovai su Google un paio di forum di discussione sull’argomento. Scoprì che tutti quei loro versi da idioti facevano parte di una pantomima ben precisa. Fish! Una tecnica di vendita inventata dai pescatori di Seattle. In crisi per le scarsi incassi, e per il momento no del mercato del pesce della cittadina americana, i venditori si inventarono una specie di spettacolino per attirare gente e incrementare le vendite. In pratica urlavano a squarciagola tra di loro e soprattutto si lanciavano i pesci da una bancarella all’altra, tra l’incredulità e le risate dei presenti. Gli affari ricominciarono ad andare per il verso giusto e qualche coglione sdoganò quella cazzata in tutto il mondo. Me li immagino il piccoletto e il palestrato ad un fottuto di corso di vendita, con un mascellone che spiega come attirare l’attenzione del cliente, di come farlo sentire tra amici di vecchia data, di come metterglielo nel culo. Per un paio di mesi non pensai ad altro. Poi, per caso, capitò. Una sera come altre. Uno dei pub più frequentati delle mie zone. Una vecchia stamberga in stile vero pub scozzese, riemersa dal buio grazie ad un paio di vecchi capi ultras, ormai prossimi alla mezza età e decisi a monetizzare anni passati in giro a conoscere della gente. Il locale non era affatto male. Più volte a settimana c’era qualcuno che suonava, per lo più gruppi della zona, o qualcuno che metteva dei dischi. Quella sera c’era una serata gotica-new wave. Il tizio, che di vista avevo visto qualche volta in giro per concerti, alternava vecchi hit di Cure e Joy Division a pezzi sconosciuti di Industrial e rock cavernoso. Il nero era il colore dominante, le birre rosse il condimento. La fauna era controversa, musicisti, quasi musicisti, teste di cazzo, hooligan di provincia, nerd, varie & eventuali. Le 2 arrivano a sorpresa. La macchina, parcheggiata miracolosamente vicino, partì al primo colpo, nonostante i gradi vicini allo zero. Un piccolo bussetto al mio finestrino.

Abbassai cercando di eliminare quella patina pre-ghiaccio. Arrivò l’aria e la faccia del “Gigante”. “Gigante” aveva due anni meno di me, ma ne dimostrava abbondantemente 35 ormai. Pluripregiudicato, pluridiffidato, praticamente un’istituzione. “Bomber dammi uno strappo, almeno fino in stazione”. Nessuno tranne un paio di vecchi amici del rione mi chiama più bomber. Un vecchio nomignolo di quando ancora mi illudevo di poter giocare almeno in Promozione. “Gigante” è rimasto 1.60 scarsi, esattamente come quando ci implorava di farlo giocare nelle nostre partitelle all’ultimo respiro, su quella polvere che si attaccava ovunque. Io ero uno dei pochi che spingeva per farlo giocare, mi stava simpatico. Sembrava un piccolo jolly scappato dalle carte di scala 40. Ora, dopo varie fratture e vari abusi, sembra una versione moderna del gobbo di Notredame. Una spalla quasi il doppio della sorella. Il collo gonfio come quei bovini d’allevamento. Quando mi sorrise, sentendo che il passaggio era approvato, una lucina si accese in quel piccolo parcheggio, era il mio uomo.

“Grande Bomber, sei sempre il numero uno”. Aspettò un secondo prima di salire, poi accompagnato da un gesto della testa rasata. “Vieni! Il mio vecchio centravanti ci porta avanti un pezzo”. Lui salì dietro al volo, come se conoscesse la mia Punto da sempre. Davanti, in fianco a me, seduta, una ragazza con meno di vent’anni. Lunghi dread neri. Orecchini dappertutto, un tatuaggio enorme che spuntava dalla manica del giubbotto militare. Si presentò ma non afferrai il nome. Senza che aprissi bocca si mise la cintura e piantò la faccia tra i due poggiatesta per farsi recapitare un bacino dal gladiatore metropolitano. Nella loro insensatezza erano davvero una coppia.

Lei rideva senza alcun motivo, lui anche. Li ascoltavo in silenzio, respirando un po’ del profumo di fumo che i due piccioncini sprigionavano nell’auto. “Bomber e Luca come sta?”. “Non lo so, sai è stato un po’ alla Cascina Bianca poi qui non ci stava più dentro, è andato via, è in giro per l’Europa, di più non so”. Cercai la voce più neutra che avevo, ma non bastò. “Vedrai che se la cava, è sempre stato un duro, massimo rispetto”. Quanti secoli erano che non sentivo qualcuno che diceva “massimo rispetto”. I primi concerti ai centri sociali. Le prime risse. Le trasferte. La polizia.

Luca sempre in mezzo, 50 chili mal contati, che rimbalzava tra i casini, riemergeva nel pogo, si arrampicava per primo sulla rete quando segnavamo sotto la Nord. Ora non c’era più niente. La stazione era li, al buio quasi completamente, con i soliti marocchini assonnati che non spaventavano neanche me. Accostai e i due passeggeri smisero di tenersi per mano, il termine giusto è incredulo. “Grazie sei troppo il numero uno, ha ragione Gigante”. Lui rise mentre a testa bassa cercò lo spiraglio per uscire sul marciapiede. “Buonanotte Bomber”. “Ciao Gigante, volevo chiederti una cosa veloce”. “Dimmi, qualsiasi cosa”. “Dove bazzichi in settimana, vorrei proporti una cosa, ma di persona, zero telefoni”. “Bar Moderno”. Mentre lo diceva uno scintillio negli occhietti piccoli mi rimandò indietro di anni luce.

Ci accordammo in fretta. Non serviva molto. Gigante aveva sempre bisogno di soldi. Io, avevo bisogno di un onesto picchiatore, niente di più. Spiegai la fuga di mio fratello, i due stronzi. Accettò immediatamente e i soldi furono solo un dettaglio. Patteggiammo a 200 euro, semplice. Cominciai tramite E-bay a vendere vari 45 giri e 33 giri di vecchio Punk italiano. Tutti dischi che Luca aveva miracolosamente recuperato in qualche sgombero di centri sociali. Negazione, Raw power, Wretched, Indigesti. Sembrava incredibile che ci fosse ancora gente disposta a pagare 100 euro per un piccolo vinile che gracchiava chitarre distorte. Luca non aveva vissuto quegli anni, solo marginalmente, ma nei suoi deliri a volte raccontava di concerti incredibili, di migliaia di persone al vecchio Leoncavallo, di battaglie vere e proprie sotto il palco. Spedivo i dischi, arrivavamo i soldi. Nel giro di poco 450 euro. Cominciai a frequentare il bar davanti al negozio per prendere l’aperitivo.

Era un posto molto frequentato da fighetti e da commesse dopo la chiusura.

La gente, le chiacchiere e il rumore dei bicchieri mi nascondevano quando i due dementi chiudevano la luce, i conti, e uscivano da quel corridoio pieno zeppo di scarpe da ginnastica. Io, avendo già pagato il mio conto per i 2 o 3 americani bevuti, seguivo a turno l’uno e l’altro per capirne le abitudini, le mosse. Il piccoletto parcheggiava a pagamento nella piazza principale, proprio sotto il municipio. Di macchine a quell’ora ce n’erano ancora molte, metà delle quali appartenenti a quelle facce da culo che sgomitavano per un bicchiere di rosso, o per un negroni. Scartai il piccoletto, quasi immediatamente. Pedinai il palestrato per un paio di settimane. Non si fermava mai, se non per fare il versamento in cassa continua in un vicolo a poche centinaia di metri dal negozio. Parcheggiava quasi sempre in una delle poche piazze non a pagamento rimaste in città. Quasi un chilometro dal centro storico a piedi. Una piazza per metà illuminata con alcuni angoli belli bui, nascosti da qualche pianta e da casermoni tristi che si allungavano minacciosi. Si. Ero pronto.

Lo avremmo seguito e un giorno in cui il posteggio e le condizioni fossero favorevoli avremmo colpito. Quella sera il Gigante partì con un paio di coca & havana al brucio. Ero preoccupato ed emozionato al tempo stesso, sentivo le mascelle farmi male, in preda ad un nervosismo irreale. Quando quel bel ragazzoccio s’incamminò verso la banca eravamo entrambi quasi ubriachi. La paura era diventata pura goduria, ero eccitato a morte. Ci tenevamo a poche centinaia di metri di distanza, sempre pronti ad infilarci in qualche cortile con quelle belle ringhiere di una volta. Entrambi con felpe col cappuccio e con sciarpe anonime ben infilate in giacconi scuri, senza grossi marchi né scritte.

Avevo organizzato tutto. La macchina, una scintillante golf metallizzata, era messa al posto giusto. Non ci fu bisogno di aprir bocca, Gigante mi guardò, poi sfoderò un sorriso monco di un paio di denti e il suo alito dinamitardo riempì la via. L’idiota aprì la portiera con il telecomando, fece appena in tempo a mettere una mano sulla maniglia. Gigante per prima cosa lo colpì da dietro, forte, alla mascella destra. Esterrefatto cercò di girarsi giusto in tempo per farsi spaccare in naso, di netto. Un rumore meraviglioso e lui sulle ginocchia. I miei anfibi rispolverati per l’occasione s’infilarono un paio di volte nel costato. A terra, fermo, cercava di rigirarsi, a fatica. Il piano era semplice.

30 secondi, non di più, nessuna parola, silenzio. Fine.

Per qualche giorno non spuntò alle 7.30 dalla porta del negozio. Riapparve quattro giorni dopo, fasciato, con un braccio immobilizzato e un cerottone a coprire il naso che era. Nel frastuono delle patatine e dei tramezzini io e Gigante brindammo in silenzio, gli amici ci guardavano e senza capire il motivo scoppiò una risata.

L’umore migliorò. Ci presi gusto. Controllai per bene i punti vendita della catena più vicini. Un centro commerciale dell’hinterland torinese, un negozio in pieno centro a Novara. Nei giorni di riposo visitai entrambi i negozi.

Volevo semplicemente colpire ancora. Soldi da parte ne avevo e Gigante mi sembrava motivato come non mai. La storia di Luca che entra indifeso nel negozio e che esce praticamente truffato aveva fatto presa. Gigante era un ragazzo strano. Da piccolo, o meglio, da giovane era un tranquillissimo e quasi timido ragazzino. Più piccolo degli altri di statura, trovava difficoltà a mettersi in mostra, in un campo da pallone, in mezzo ad una compagnia, tra le sue compagne di classe. Poi, all’improvviso, quasi per caso, arrivò la curva. Nuove amicizie, un giro nuovo. I primi scontri, un senso di appartenenza. I primi riconoscimenti, le prime mosse coraggiose, in curva si fece notare più volte e qualcuno notò lui. Comincio a girare coi capi, con chi contava davvero. Con chi decideva come dovevano andare le cose, con chi designava chi era giusto e chi No. Fu diffidato e da quel momento diventò strapopolare. Alcune ragazze che trovavano estremamente interessante passare il proprio tempo con gli ultras se lo contendevano. Era arrivato.

Lo vedevo in centro e non lo riconoscevo più, ma aveva l’espressione di uno che si sente realizzato. Poi, come normale che sia, arrivarono i problemi. La difficoltà di far combaciare il suo stile di vita con un lavoro, con una casa, con una qualsiasi forma famigliare. E senza soldi bisogna procurarseli. Arrivò la galera, poca ma arrivò. Uscì e si notava chiaramente che non era più lui. Lui, che nella nostra trasferta per andare a Novara, insistette che dividessimo il contenuto del portafogli del povero coglione di un commesso.

“Mi paghi già, più che bene, questi li dividiamo, anzi potremmo farci un giro a russe insieme stanotte, la consumazione la porto io che me la danno gratis”.

“No Gigante, ti ringrazio ma non mi va”.

“Ok bomber, volevo solo festeggiare un altro bel nasino che se ne andato”.

Rideva come uno scemo, era tranquillamente alla sesta o settima Becks della giornata.

Il naso era attaccato ad un trentenne biondino che non sapeva di niente. Nella mia visita di controllo lo scemo cercò di rimbambirmi di scemenze, cercando di decidere per me cosa cercavo e cosa volevo. Povero stupido. Stupido con una Polo bianca parcheggiata in una via piccola e buia. Stupido che dopo solo un paio di pugni piangeva come un asino, implorando Gigante di smetterla, togliendosi il portafogli e regalandocelo. Due piccioni con una fava, l’agguato e 70 euro a testa.

A casa le cose andavano sempre alla stessa maniera. Mio fratello ormai era un fantasma che non andava menzionato. Mia madre scappò anche lei, ma mentalmente, lanciatissima nella sua pensione dorata, era totalmente dedicata alla parrocchia ed al suo importantissimo volontariato. Bambini poveri, clochard, disgraziati di ogni parte del mondo, si spendeva per gli altri in maniera encomiabile. Sembrava il suo dazio da pagare per quello che era successo al suo primo figlio. Mio padre stava cercando di batter il record mondiale del gioco del silenzio, e a ben vedere era sicuramente tra le teste di serie. Completamente assorto nel suo nulla, ostentava una indifferenza granitica, ma si vedeva lontano un miglio che ogni giorno senza notizie di Luca asportava via un pezzo del suo cuore. Io, dal canto mio, mi mantenevo in acque putride. Vedevo una persona, Michela. Un paio di anni in meno di me, divedevamo un po’ delle nostre solitudini. Ci vedevamo, le solite cose, uscivamo, cene, cinema, facevamo l’amore, ma la maggior parte delle volte pensavo ad altro. Stavo bene quando c’era lei, stavo altrettanto bene quando non c’era. Lei dal canto suo probabilmente non vedeva solo me, e sinceramente non mi importava. Mi chiamava, andavo, tutto qui.

Le cose su e-bay cominciavano a rallentare. I dischi migliori erano andati, insieme ad un po’ di rimpianti e sensi di colpa. A volte sognavo Luca che rientrava in camera nostra, di sorpresa, come un ladro nella notte, e mi minacciava per aver venduto il suo piccolo tesoro, i suoi unici averi. Mi svegliavo e pochi secondi dopo razionalizzavo che non sarebbe più tornato. Che nessuno mi avrebbe rimproverato di aver svenduto un rarissimo 7 pollici dei c.c.m. Semplicemente mi mancava. Mancava il suo incasinarsi la vita, mancava la preoccupazione che mi dava, che ci dava, il suo trattenere tutti sulla corda, sempre attenti al più piccolo rumore, aspettandosi una chiamata nel cuore della notte. Me lo immaginavo a Camden davanti al Falcon a distribuire biglietti gratis per una serata dub. In pieno centro a Barcellona mentre friggeva qualche stramaledetto spiedino rosso sangue. In qualche obitorio di Berlino, coperto solo di una cerata trasparente. Cominciai ad andare spesso a Moncalieri al centro commerciale. Un posto assurdo, un enorme corridoio con due piani di negozi, cinema, ristoranti, da entrambi i lati.

Un posto di una tristezza assoluta, quasi finta. Famiglie di obesi, a spasso con cani, o figli scodinzolanti come cani. Commesse volgari e pesanti come macigni, le fedeli copie dei propri compagni truzzi. Il negozio era il primo del centro, proprio all’entrata, era enorme, su 2 piani, senza ombra di dubbio il migliore di quelli che avevo visto. Gli stronzi erano 4, avevo ampia scelta.

Dopo un paio di volte, seduto nel solito bar da centro commerciale, puntai un tarchiatello tutto nero. Nella mia visita era stato il più pressante ed aveva, oltre alla solita insopportabile verve e ironia, una specie di ansia nel vendere a tutti i costi. Quando mi stavo per allontanare, dicendo che non c’era niente che mi piaceva, arrivò addirittura a trattenermi per un braccio. In pochi decimi di secondi mi passarono davanti tante immagini e mi calmai solo pensando al male che il Gigante gli avrebbe fatto. Il parcheggio poi era perfetto, enorme, poco illuminato e loro erano tra gli ultimi che lasciavano quella merda di posto. L’unica cosa piacevole era una barista. Piccola, ricciolina, mi ricordava una mia vecchia fidanzata di Pinerolo. Una ballerina che d’estate veniva da noi in collina per uno stage di danza. Sembrava una bambolina con le pile, che sorrideva sempre e ogni tanto dava un colpetto ai capelli che prendevano vita all’improvviso. Dopo un paio di volte ci davamo del tu, chiacchieravamo del tempo e di stronzate simili. Riuscivo a farla ridere, e mi piaceva vedere quelle lentiggini che si muovevano insieme al sorriso. Il suo torinese misto ad una cadenza calabrese era un toccasana dopo un oretta di macchina nella nebbia.

Gigante non parla. Siamo quasi a Villanova e lo vedo che sminchia fuori dal finestrino, con poca convinzione a volte gira la testa, mi guarda, si rigira. Pensieroso. Di solito all’altezza della seconda di Asti mi ha già raccontato tutta la sua vita tre volte, oggi No. “Ue, ti han rubato la lingua?” Rido convinto, ma non ne capisco appieno il motivo, chissà. “No, scemo! La lingua ce l’ho, ma sto pensando, ho un problema, io per ste cose, cazzo! Non so mai che minchia fare”. “Per quali cose?” “Ma si, la tipa, sto cristo di compleanno, e che cazzo le compro? Una volta facevo prima, grattavo un giubbotto ad una tipa di stazza uguale ed ero a posto, ma con le non mi va di regalargli qualcosa di grattato”. Smetto di ridere grosso modo a Santena. “Gigante, visto che lei ha sempre sta roba sportiva tipo anni 70 perché non prendi una bella tuta dell’Adidas di quelle vecchio stile?”. I campi che continuava a fissare vengono sostituiti dalla mia faccia, Gigante mi bacia sulla guancia, e io voglio scomparire.

“Sei sempre stato il più intelligente della gruppida”. “Sì Gigante, non ci voleva molto!”. Seguitiamo a prenderci per il culo finché non parcheggio ad una decina di metri dalla Uno del prescelto e scendiamo. Ci infiliamo in un multimarche sportivo. Non passa neanche un minuto e il mio socio picchiatore sbuca da una gondola con in mano una tuta nera con le tre strisce coi colori giamaicani, praticamente il regalo perfetto. Il suo sorriso monco mi contagia. Chiamo un paio di commesse e chiedo se hanno un sedativo per il mio amico. Una mi guarda malissimo. L’altra si mette a ridere quando vede sto scemo che salta sul posto con in mano 90 euro di tuta da ginnastica. Io compro una replica della classica tshirt anni 80. Stretta, con il collo bello alto, come quelle che andavano di moda anni fa, abbinate al classico taglio corto corto. Passeggiamo per vetrine, e l’uomo mi racconta in maniera leggendaria di alcune spaccate con mattone dei tempi pre penitenziario. “Certo che di minchiate ne hai fatte?”. “Si, all’epoca mi sembrava l’unica cosa da fare, era così e basta”. Cambio discorso e mi infilo al bar. Manca quasi un’ora alla chiusura del centro e dobbiamo festeggiare il regalo. Arriva prima il suo sorriso che lei. Gigante mi vede, mi tira un poderoso calcio negli stinchi, mi spacca quasi una tibia. “Coglione! Cazzo mi fai male”. “E di sta scoiattolina non mi dici niente? Pirla! Hai visto come ti ha salutato? Razza di rimbambito”. Dopo la parola scoiattolina praticamente non ascolto più nulla. Son troppo impegnato a sputare dal ridere il pezzo di arancia che navigava nel cocktail. Lei mi guarda da dietro il bancone, faccio segno che è tutto a posto, indicando con il dito che la colpa è del mio amico. Scrolla la testa, lo fa in maniera dolce e capisco che dovrei fare qualcosa. Il secondo giro arriva presto, i regali, le cazzate, il viaggio, ci han reso felici e assetati. Ricompare. Posando i bicchieri, senza guardarmi. “Mi raccomando, non ti strozzare con l’arancia di nuovo”. In tono malizioso, presumo di diventare viola. “Scusa, ma qui il mio amichetto ha già fatto lo stupidino o no? Te l’ha già chiesto il numero di cellulare?”. In questo preciso istante vorrei la testa di Gigante. Fisso il rosso dentro al bicchiere, aspetto che gli risponda male. “No, anzi, a dir il vero non mi ha neanche mai chiesto come mi chiamo”. Gigante ride, io No. “Scusalo, non so mai se è più timido o più coglione!”. Adesso son costretto a ridere anch’io. Mancano pochi minuti all’azione, ci alziamo, faccio un segno con la mano, pago io. Arrivo coi soldi giusti. Quando sta battendo lo scontrino, e non mi sta guardando, le dico come mi chiamo, che non sono del posto, se posso lasciarle il mio numero, se gli va di vederci qualche volta. La saluto mentre tiene in mano un foglietto del suo piccolo block notes per le ordinazioni con sopra scritta la mia speranza.

Siamo in ritardo, in un fottuto ritardo. In macchina posiamo i pacchi, prendiamo le felpe, le sciarpe, ci cambiamo di giubbotto. Un cespuglio tra la nostra macchina e la sua. La nostra casa base. Il nostro nascondiglio.

Siam pronti, alzo la testa e lo vedo. È già quasi alla macchina, acceleriamo, quasi correndo. A pochi metri, tira fuori la chiave, si passa un sacchetto da una mano all’altra, stiamo praticamente correndo. Parto io, prima volta da quando colpiamo insieme. Un destro. Il rumore delle mie maledette all star sul asfalto sporco lo avverte. Mi scansa. Colpisce duro, nel costato. Mi allontano senza respirare, come rotto in due. Sta per finirmi quando arriva il Gigante. Lo prende, non bene, ma lo prende. Lui, non cade, non indietreggia, non piange, non urla. Niente. Gigante riprova. Lo schiva, colpendo il mio amico di giochi in pieno setto nasale, secco come il rumore di un osso che si spacca. Una parola mi balena nella mente. Arti marziali. Gigante non sì tocca il naso ben sapendo cosa gli è successo. Non da segni di debolezza. Io arranco. Lo attacchiamo entrambi con dei calci, ne esce quasi illeso. Io vedo il fuoco e rantolo invece di prendere aria. È immobile il bastardo. Gigante lo sfida, mettendosi le mani dietro la schiena e facendo ampi gesti di venire, di caricare. Lui parte, e il mio socio estrae una lama. Appena sopra il ginocchio.

Ora voliamo indietro, tra le urla del tipo che coprono il rumore dei 100 all’ora delle macchine nella cintura torinese. Pochi cristi richiamati dal casino fanno qualche passo verso di noi. Li oltrepassiamo correndo, non c’è più tempo. Lei, ferma. Io, di corsa, cappuccio sulla testa, una sciarpa fino al naso, un giubbotto diverso, gli occhi liberi, in bella mostra. Sguardo, un decimo di secondo, è finita. Accendo e tengo il cappuccio fino alla tangenziale. Non parlo, anche volendo non riuscirei. Devo stare seduto quasi di lato per non avere i brividi dal male, che pian piano sta entrando nelle budella. Gigante non si guarda nello specchietto, conosce a memoria la forma del suo naso quando si rompe. Tiene semplicemente la sua sciarpa premuta forte, spinge la testa all’indietro dopo aver sradicato il poggiatesta.Vorrei ucciderlo. Vorrei uccidermi, visto che so perfettamente che è assolutamente ed esclusivamente colpa mia. In 40 minuti percorriamo i 100 chilometri che distano. Lo porto in stazione. Parliamo poco, o meglio parlo per meno di un minuto. Spiego cosa farò, di non preoccuparsi. Dico che non ci scopriranno mai. Mento. Dico di procurarsi un alibi, di organizzarsi bene. Dico che in qualsiasi caso, se dovesse saltar fuori tutto, di dare la colpa a me di tutto, del piano, della coltellata. Ci guardiamo negli occhi.

Metto il cellulare per terra, gli passo sopra con la macchina. Raccolgo i cocci. Li butto sparpagliati in diversi bidoni che incontro per strada. Butto la lama nel Tanaro che nello scuro scorre sotto il ponte a qualche centinaio di metri da casa mia. Salgo. L’ascensore ruota attorno a me, facendo un rumore assordante che solo io posso sentire. Entro. Attraverso la zona giorno non guardando niente, punto la stanza. Tolgo le scarpe e prendo due borsoni. Li riempio. Roba invernale, estiva, di tutto. Tutto quello che riesco, mulinando le mani. Prendo le tre cartoline di Luca, le infilo in una cartellina trasparente con la chiusura a lato. Provo ad immaginare per un secondo da dove comincerò il pellegrinaggio. La parola pellegrinaggio sostituita dalla parola fuga. Ammasso il walkmen e pochi cd nel piccolo spazio rimasto libero nella borsa più piccola. Chiudo e son pronto. Un foglio, a quadretti, una biro.

VADO DA LUCA

Prima di aprire la porta in quella poca luce della lampadina dondolante fisso la parete e la sua enorme fotocopia a colori. Una foto della curva, anno 96. Presa dal basso, dal limite dell’area. In mezzo ai fumogeni, alla foschia, ai brandelli di bandiere che spuntano da quella coltre, spicca un solo piccolo striscione, il nostro. Quadrato. Le quattro lettere che formano il nome del nostro rione ai lati. In mezzo la croce rossa su sfondo bianco, simbolo di sta merda di città. Come se il ragazzo della foto abbia messo a fuoco solo noi, abbia dato importanza solo a noi. Al nostro orgoglio. Via. Arrivo in soggiorno. Il mio vecchio dorme sul divano, raggomitolato in posizione fetale, girato di schiena rispetto alla televisione, russa. Butto un occhio. Un numero di telefono, grandissimo. Una delle star della notte, dei solitari, dei sonnambuli, dei tristi, degli ultimi. Un nome in sovrimpressione. Sofia Gucci. Ansima. Si strofina in maniera esagerata, con una cornetta telefonica ormai in disuso, su un paio di minuscole mutandine rosse. Chi sta dietro la telecamera aziona lo zoom. In primo piano, mima, con la mano libera, di chiamarla. È bellissima, con i suoi capelli scuri del colore della maglia del Casale e gli occhi abbinati, grandissimi che sembran brillare. La camera si avvicina ancora un pelo, sulla bocca. Il labiale è chiaro. Chiama. E penso, che se non dovessi andare, chiamerei davvero.

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"Carni paesane" di Giovanni Matteo


Luciano Pagano
Selvaggio a chi?

su “Carni paesane” di Giovanni Matteo

Nel novembre del 2004 al gennaio del 2006, sulle pagine elettroniche di Musicaos.it, venne pubblicato “Carni paesane” di Giovanni Matteo, una serie di storie disegnate ambientate in Salento negli anni ’80. Perché riproporre il fumetto quest’oggi, a così breve distanza e in un formato differente? Tanto per cominciare perché anche se a soli due anni di distanza e anche se sullo stesso sito, “Carni paesane” è un insieme di storie che vanno lette nel loro insieme, con le duecento tavole in bianco e nero in formato pdf. Giovanni Matteo oltre che a essere pittore e musicista è un artista eclettico che utilizza il suo tratto per raccontare storie. Un altro esempio della sua bravura di sceneggiatore, anche esso scaricabile gratuitamente da Musicaos.it, è “Mignotta“, liberamente ispirato a un soggetto cinematografico scritto da Pier Paolo Pasolini (pubblicato nella raccolta Alì dagli occhi azzurri). Le storie di “Carni Paesane” sono ambientate a Serragliano, comune immaginario della provincia salentina, così simile alle decine e decine di paesini che si affastellano come semi di sesamo sulla crosta di un pane arrugginito. Sono raccontati con realismo e crudeltà i giorni di Pero e Carlo, dove ogni cosa nella vita si rimpicciolisce, così piccola da finire più veloce nello stantuffo di una siringa, piccoli mafiosi, piccoli faccendieri, piccoli politici, piccoli delinquenti. Difficile compiere tentativi di fuga da una realtà simile, dove lo squallore e la desolazione della droga sono niente se paragonati allo squallore circostante. Se proprio un viaggio deve esserci, tanto vale fare il corriere e approfittare dell’occasione. La poesia di Giovanni Matteo e il suo sguardo, tuttavia, sono in ogni luogo, e traducono una storia dove i reietti meritano un posto in paradiso, senza accorgersi di nulla. Il linguaggio è un dialetto basso, mescolato all’italiano, con espressioni che non richiedono difficoltose traduzioni. “Carni Paesane” è una delle tante fotografie che potevano essere scattate da queste parti quando la generazione dei nati negli anni settanta muoveva i primi passi nell’adolescenza. Che dire quindi di un Riccetto che si incontra a braccio con Pompeo? La bravura di Giovanni Matteo sta nell’aver colto quei motivi dell’ambiente del Sud che tanto rischiano di rimanere stereotipi se vissuti passivamente, senza l’energia che può imprimere una narrazione; la parrocchia barocca con le statue infinite, le campagne desolate, i motorini, i video poker, la nonna che prepara la crostata super-calorica, i collassi chimici e i recuperi sul limite dell’overdose, il tutto sotto lo sguardo vigile delle forze dell’ordine che viaggiano nelle campagne del paese alla velocità media di 20 km/h. Buona visione!

l'anaconda


L’anaconda
Bianca Madeccia

La mamma lo tiene prigioniero da quarantacinque anni. Non si può allontanare da lei. Questi sono gli ordini. Allora lui, allora lui, dicevo, allora lui, per sopravvivere si è trasformato in anaconda. Non viaggia molto, anzi per niente. Sta perlopiù fermo, striscia attorno alla casa. Oppure guarda le foto delle bambine discinte attraverso l’oblò sul mondo, la scatola elettronica dei giochi, insomma, lì, dove ci sono le bamboline vive, quelle che puoi circondare e stritolare con un click. A lui piacciono quelle che hanno quella bella luce luminosa attorno. E più sono morbide, più sono “puff”, più sono irragiungibili, diverse da lui, insomma, lontane (è importante che siano lontane), e più desidera stritolarle.
Lui non sa nulla di umanità, è un rettile, sa solo di fame. Quella roba gli è necessaria per vivere. La mamma non vuole che lui si allontani troppo da casa e così lui è costretto a trascinare le prede nella tana e mangiare le vite degli altri sottoterra, anzi, nell’attico, perché lui abita in un appartamentino con vista su una palma.
Per sopravvivere cattura principalmente piccole bestioline di sesso femminile, preferirebbe i maschi, ma i maschi sono troppo grossi, e, in generale più attaccati alla vita, spesso anche violenti e non si lasciano sbranare così facilmente. Poi non hanno l’alone luminoso attorno, non nutrono.
Così, ripiega sulle femmine. Sono stupide, credono in quella cosa sciocca che loro chiamano amore. E’ più facile soppraffarle.
Le segue, le spia, le traccia e quando riesce a portarle nella tana, con un lavaggio subitaneo ma metodico di coscienza, diventa loro per un po’. Così diventa organizzatore di viaggi con la bambina luminosa viaggiatrice, critico d’arte con la bambina di luce pittrice, regista con la bambina attrice, editore con la bambina poetessa e così via. Deve dominarle, avere un potere. Si convince di essere stato loro per un po’, di aver avuto il loro nome, i loro interessi, di averle capite e respirate, persino di esserne stato vittima. Attribuisce a loro la sua fame, la colpa, la violenza, insomma, quella cosa che succede sempre, ogni volta.
È l’unico modo che ha di viaggiare e nutrirsi: attraverso le vite delle bambine luminose. Non è colpa sua. La mamma non lo lascia allontanare.
Scrive anche strane parole gelide e oscure che nessuno capisce, neanche lui. Suoni quasi sempre separati e svincolati tra loro, spesso inframmezzati da parole come “torbido” e “vago”. Tutta la sua vita era stata vagamente torbida. Le parole che scrive le ruba dai libri, oggetti con cui cercava di nutrirsi prima delle bambine luminose. Ma poi aveva letto che le anaconde non si cibano di cellulosa, lo sanno tutti.
Da una vita ruba parole a caso che poi lascia decantare tanto tempo per dimenticare che appartengono ad altri. Lui questo lo chiama “labor limae”. Le parole che ritaglia e mette in una scatola gli servono a costruire storie con cui pesca le bambine luminose nella scatola di vetro.
Ogni tanto si arrabbia, picchia le bambine che è riuscito ad attirare fuori dalla scatola luminosa, soprattutto quando parlano e fanno domande che non dovrebbero fare. Ma questo per lui non è importante.
Ama fare foto, soprattutto alle donne africane svestite e incinte sui marciapiedi. Sono tutte lì lungo la strada, quando torna dal lavoro, prima di andare a pranzo dalla mamma. Pensa anche di farne un cd, con le ragazze svestite lungo la strada, come un vero fotografo. Lui pensa sia arte. Le chiama poesie-oggetto.
Ogni tanto si sposta e va al porto. Vive accanto al mare. Ama sbirciare la risacca mentre parla di prostitute con i suoi amici d’infanzia: il fotografo di cadaveri parenti, l’installatore balbuziente, il cocainomane impotente con i capelli unti.
La mamma è sempre contenta quando le bambine della scatola spariscono e lo aiuta in fretta a farne scomparire i resti e a cambiare le lenzuola del letto. Ora sono di nuovo solo loro due. Possono di nuovo amarsi e incrociarsi con gli occhi e con le parole. Le anaconde vivono così, avvitate nelle loro spire.
Senza muoversi troppo e divorando d’amore (o di quella cosa che loro pensano sia amore) tutto quello che si muove nel raggio della loro breve vita senza luce.
Ma anche i coccodrilli e le loro lacrime, vanno tenuti accuratamente in considerazione nello studio psicologico del poeta-personaggio. Dal nostro studio preparatorio non escluderemmo i documentari sui crotali e sulla loro cecità violenta e assassina ma NECESSARIA, come può esserlo solo la vera poesia.

dalla raccolta “Serial Killer Italiani”

Canzoni tristi


Lorenzo Piantini
Canzoni tristi

Avevano risparmiato per tutto l’anno e finalmente Paolo e Francesca potevano passare i loro quindici giorni in Sardegna.
Siamo in agosto, i due fidanzati sono appena entrati in macchina e si lasciano il traghetto alle spalle. Sta guidando Paolo. I due ragazzi sono stanchi, il sole non è ancora alto nel cielo. I loro occhi sono nascosti dietro due spessi occhiali da sole. Un paio sono di Prada, un paio sono un’imitazione.
Francesca tira fuori il portacassette dal cruscotto. È vecchio e polveroso, come l’autoradio, del resto. Estrae la cassetta che vuole e, dopo averla brevemente esaminata, la infila nello stereo. Prima che cominci la canzone, alza il volume.
Dopo pochi secondi, Zucchero sta cantando di sere d’estate dimenticate e di dondoli che dondolano. A Francesca viene in mente quando, cinque anni prima come minimo, ha doppiato quella cassetta per Paolo. Non stavano ancora insieme. Si sente poco, il motore è rumoroso e ci sono molti scossoni.
“Vai più piano, per piacere”.
Paolo non stacca gli occhi dalla strada dissestata e lascia leggermente il piede dall’acceleratore.
“Sei stanco, caro?”
“Un po’. Un po’”.
Sembra voler aggiungere qualcosa, poi si trattiene. Ma Francesca insiste:
“Vuoi che guidi io?”
Parla con un mezzo sussurro. Paolo la capisce a malapena.
“No. Senti lascia stare”.
Lo dice con brusca dolcezza. Un grande senso di stanchezza avvolge l’abitacolo.
“Io lo so che c’hai, caro”.
“Sì? E che c’ho?”
“C’hai che volevi dormire in macchina e sei incazzato che ti ho chiesto se potevamo stare sul ponte tutta la notte”.
Paolo non risponde. Abbassa la radio.
“Non hai chiuso occhio, vero?”
“No”.
“Vuoi che guidi io, sì?”
“No”.
“Allora fai come ti pare, testone!”
Ha alzato il tono della voce, ma non di molto. Delle nuvole stanno passando davanti al sole. Paolo si tira gli occhiali sulla fronte, poi li rimette giù. Abbassa il finestrino e si accende una sigaretta con la mano destra. Francesca si stringe nel giubbotto di jeans e si rannicchia con la spalla contro la portiera.
La Tipo blu continua a scivolare sotto il sole mattutino. Vista dall’alto sembra un vecchio modellino.
Paolo sta scaricando i bagagli.
“Ti do una mano”, gli dice Francesca. Ma poi si mette a giocherellare al cellulare. Sono appena passati a prendere le chiavi. Paolo apre la porta, che cigola un po’. Spinge i due borsoni all’interno e va ad aprire le persiane.
“Sì, bravo apri. Senti che puzzo di vecchio”.
“Cazzo”.
Mentre stava aprendo, a Paolo è rimasta in mano una persiana.
“Si comincia bene, sì”.
Lei non gli dà retta e va a vedere la camera.
“Almeno siamo vicino al mare, no?”
Si sono avvicinati e provano ad abbracciarsi. Mentre stringe Francesca a sé, Paolo alza gli occhi al soffitto. Ci sono alcune crepe. È il primo piano di un vecchio rustico. Il resto della casa non è abitabile. I due si staccano l’uno dall’altra.
“Nell’annuncio su internet c’era scritto che c’era una camera, bagno con doccia, cucina e soggiorno, no?”
“Sì”.
“Mi sembra che ci siano queste cose, no, caro?”
“Sì, non era specificato che cascasse a pezzi o meno”.
Paolo ride, ma Francesca resta seria. Lui allora decide di star zitto, e ripensa al tempo che lei è stata dietro per l’affitto, il viaggio e tutta l’organizzazione.
“Su, diamoci da fare”, è tutto quello che Paolo sa dire.
Ma per un bel po’ i due ragazzi rimangono fermi, e si guardano intorno.
“Possiamo mettere a posto dopo, e ora andare un po’ sul mare, che ne dici?”
“Sì, è una buona idea. Mentre tu prendi l’asciugamano e il resto, io scarico la bici”.
“Ce la farai a pedalare con una cicciona come me in canna?”
“Ci proverò”, dice Paolo con una voce buffa.
Francesca sorride e Paolo la bacia. Poi esce e va verso la macchina.
La bici è una vecchia bici da città nera, Paolo l’ha comprata da un suo amico che forse l’aveva rubata, ai tempi dell’università. Un paio di mesi dopo ha smesso di studiare ed è stato indeciso se darla indietro o meno. Ma poi se l’è tenuta e l’ha usata ogni santo giorno, con la pioggia o con il sole, per andare al lavoro. Quando in officina non c’è tanto da fare, Paolo sistema la sua bicicletta. Anche se ha qualche anno, è come nuova. Adesso la scarica dal portapacchi. Mentre lo fa, pensa che sia un miracolo che sia arrivata senza staccarsi, durante il viaggio.
“Telefono a mia madre e vengo”, dice Francesca. Si è messa in costume e si è affacciata alla porta.
“A quest’ora dovevamo già essere arrivati da un pezzo, sarà in pensiero”.
Francesca vive da sua madre da un paio d’anni ormai. Si è scoperta molto legata a lei. I genitori si sono separati quando Francesca aveva tre anni. È cresciuta nella casa del padre, fino a quando, sui vent’anni è andata a vivere nell’appartamento di Paolo. La cosa era durata un anno e mezzo, ma non è che funzionasse granché e il riavvicinamento alla madre ha portato Francesca a fare le valigie. Ognuno a casa sua il rapporto è ricominciato a funzionare. Paolo adesso divide l’appartamento con un paio di studenti che nemmeno conosce.
“Eccomi”.
Francesca esce e si mette a sedere, come al solito, sulla canna della bici. Paolo dà le prime pedalate con difficoltà, la bicicletta si muove a zig-zag, poi trova la giusta andatura. Fa caldo, c’è una breve ma ripida salita. Una volta scollinato, si comincia a vedere il mare. Oggi è calmo. Una tavola. Il sentiero si fa sempre più stretto.
“Una macchina mica lo so se ci passa”, dice Paolo. Ma Francesca non sembra ascoltarlo. La discesa la fanno tutta con i freni tirati.
Arrivati sugli scogli, dispongono la loro poca roba. Francesca si sdraia su un grande scoglio piatto, si tira giù gli spallini del bikini e prende il sole, con gli occhi chiusi.
“Vado a fare una nuotata”, dice Paolo, e si immerge nell’acqua. È calda, avverte subito un senso di benessere. Nella piccola caletta, e intorno, poche persone, cinque o sei. L’acqua è limpida e Paolo si vede bene i piedi. A un tratto si ricorda di essersi dimenticato la maschera. Non può neanche prendersela con Francesca, perché ognuno ha pensato a sé stesso. A Francesca non piace nuotare e di certo non si è portato nessun accessorio da nuoto.
Paolo va con la testa sott’acqua e apre gli occhi. Senza maschera è un problema. Dà le prime bracciate con vigore, si allontana un po’ dalla riva. Gruppi di pesci più o meno piccoli nuotano nella corrente, si orientano nel loro traffico. Non si scontrano mai. Paolo si mette a fare il morto. La testa verso il cielo. Non c’è una sola nuvola. Un aereo passa veloce lasciando la scia bianca. Chissà dove va, pensa Paolo.
Paolo procede con colpi di pedale decisi, ma lenti. Nel cielo ci sono un sacco di stelle, una vicina all’altra.
“Guarda, quella è Orione”, dice Francesca.
“Sì, sei sicura?”
“Sì. Me ne intendo, lo sai?”
“Certo. Sono contento che stasera tu stia meglio”.
Paolo distoglie gli occhi dal cielo e li riabbassa sul sentiero illuminato dalla vecchia dinamo.
È il dieci di agosto, la bicicletta sta viaggiando sul solito sentiero di tutti i giorni. Stavolta i due ragazzi vanno in spiaggia a vedere le stelle cadere. Da questi pochi giorni che sono arrivati, Francesca non è che sia mai andata molto in spiaggia. Non si è sentita molto bene. Ma stasera sta meglio e la notte di San Lorenzo bisogna stare fuori e guardare il cielo.
C’è un silenzio tra loro, per qualche secondo. Poi Francesca comincia a intonare È delicato, dall’ultimo album di Zucchero. La sussurra, le sa tutte già a memoria, le canzoni.
“Che bella, eh?”
Paolo non capisce bene, sul primo, a cosa si riferisce. Ha sentito una specie di sibilo. Francesca gira la testa verso di lui, come in attesa. Ha smesso di cantare.
“Sì. È una bella canzone, davvero”.
“Ma come farà a scrivere cose così belle, così poetiche?”
“Francesca, è un cantautore…”
“Sì, ma è come se conoscesse i nostri sentimenti, quello che proviamo. Come se fosse uno di noi”.
Paolo tace, continua a sentire questo sibilo.
“Mi ascolti? Come farà ad avere queste intuizioni. Uno come noi non ci riuscirebbe mai ad avere idee così”.
“Certo l’isolamento e la natura in cui è immersa la sua mega-villa in Toscana lo aiutano”.
“Ecco, comincia a fare l’invidioso? Sei patetico”.
“Zitta!”
“Oh, ma come ti permetti? Sei fuori?”
Paolo ha smesso di pedalare. Ferma la bici e abbassa lo sguardo. Fa scendere Francesca.
“Porca puttana porca!”
“Ma che ti prende?”
“Mi prende che abbiamo bucato, cazzo! Cazzo!”
“E vabbe’, ma ce l’avrai una ruota di scorta, no?”.
Paolo aveva portato una camera d’aria di riserva, ma ha dimenticato di toglierla dal portabagagli e si è mezzo sciolta al sole. Se ne è accorto oggi pomeriggio.
Adesso lo sta spiegando a Francesca.
“Che idiota che sono! E non è neanche che ci si può venire in macchina, in spiaggia”.
“Ci toccherà qualche scarpinata sotto il sole”,dice Francesca, e si avvicina a Paolo. Gli fa una carezza.
Paolo lascia cadere la bici. Si mettono a sedere sull’erba ai lati del sentiero. Il tempo passa lentamente. Nessuna stella cade. Ma nessuno dei due stacca gli occhi dal cielo.
“E se facessimo l’amore?”, dice Francesca nell’orecchio del suo fidanzato.
Paolo la guarda.
“Adesso”.
Si baciano. Paolo sta per salire sopra Francesca, quando si sente il rumore di un motorino. È una vecchia Vespa, passa piano. Quando arriva all’altezza dei due ragazzi, l’uomo si ferma e li guarda.
“Buonasera”, dice Paolo. Il vecchio sulla Vespa non risponde. Poi riparte.
“Che tipo, certo”, dice Francesca. Si guardano per un po’, poi suona un cellulare. È la musica di Un kilo, la suoneria di Francesca.
“Ah, ciao, come stai?”
Paolo non sa con chi sta parlando e non vuole saperlo. Rialza gli occhi verso il cielo. Pensa a che desiderio esprimere nel caso vedesse una stella cadere.
Paolo cerca di girare la chiave nella toppa. Non è facile, la serratura è vecchia.
“Penso che anche se non la chiudessimo, nessuno ci entrerebbe”.
“No, credo di no”.
Non c’è molta luce. È ora di chiudere gli scuri, l’estate comincia già a finire. Paolo accende l’interruttore. La lampada al neon frigge un po’, poi si accende.
È venerdì sera, sono già le otto. I due ragazzi sono stati a vedere un mercatino tipico, oggi.
“Sono un po’ stanca, non ho neanche molta fame”.
“Non ti preoccupare, ci penso io alla cena. Faccio gli spaghetti, ok? Ti vai in camera a riposarti un po’”.
“Tesoro, grazie. C’è una conserva di mamma per condirli”.
“Non ti preoccupare, ti faccio un sugo speciale con quei pomodori e quel tonno affumicato che ho preso alla bancarella”.
“Non esagerare con le dosi per me”.
Francesca gli si avvicina e lo bacia sulla guancia. Poi va verso la camera. Chiude la porta e accende lo stereo portatile, con la stessa cassetta di Zucchero.
Paolo fischietta, è di buonumore, anche se da quando sono arrivati Francesca è sempre stanca, scostante, come se le mancasse qualcosa. Si mette di impegno. È bravo a cucinare. Una bella cena sistema tutto. Mette su l’acqua della pasta nella vecchia pentola. Intanto scalda un po’ d’olio con l’aglio e il peperoncino. Quando il soffritto ha preso colore mette i pomodori, lavati e tagliati fini. Poi si ricorda che Francesca non digerisce le bucce dei pomodori. Toglie la padella dal fuoco e li sbuccia, pezzetto per pezzetto, scottandosi un po’. Fa caldo dentro la cucina, Paolo comincia a sudare. Si toglie la canottiera, poi se la rimette. Prende un po’ di scottex e si asciuga il sudore dalla fronte. Dalla camera si sente il volume dello stereo che si alza. Paolo apparecchia la tavola.
Dalla finestra entra un po’ di fumo: qualcuno sta bruciando qualcosa. Si sente l’odore acre del fuoco. Paolo chiude la finestra. Poi butta gli spaghetti.
“Tesoro, dieci minuti”.
Francesca non risponde. Paolo va verso la camera. Apre la porta. Francesca è sul letto, il cellulare in mano, i piedi e le gambe scalze. Sul volto un sorrisetto ironico. Paolo deve tornare ai fornelli.
“Capito, sì?”
“Sì, sì, arrivo”.
“No, ma c’è ancora un po’”.
Esce dalla stanza.
“Chiudi la porta, per favore”.
Paolo vorrebbe dirle di abbassare il volume, ma poi ci ripensa e non dice niente.
C’è da scolare la pasta, adesso. Otto minuti della loro vita se ne sono già andati. Paolo cerca le presine. Gira intorno alla cucina con lo sguardo. Niente da fare. Allora stacca due pezzi di scottex, li doppia, e scola la pasta. La pentola è bollente. Adesso la pasta è tutta nello scolapasta. Paolo non la scola del tutto e la mette in padella, coi pomodori. Assaggia uno spaghetto: è ancora al dente. Poi, con movimenti decisi del polso, fa saltare la pasta, come i veri cuochi. Per quei pochi secondi, Paolo sente che gli sta riuscendo bene, e non pensa più a niente. Toglie la pasta dal fuoco e ci aggiunge il tonno tagliato a listarelle. Mescola un po’, poi divide le due porzioni nei due piatti, con cura. Il piatto di Francesca ha meno pasta, ma è più condito.
“È pronto”.
Francesca non risponde. Paolo sta per andare in camera, quando la porta si apre.
Francesca esce col cellulare in mano. Sta esaminando un messaggio. Poi si sente la suoneria. La stanno chiamando. Paolo torna in cucina.
“Fai in fretta, che la pasta è nei piatti”.
“Sì, d’accordo”.
Francesca torna in camera, per parlare.
Paolo si siede al tavolo della cucina. La sedia traballa un po’. I due piatti davanti a lui fumano. È abituato a mangiare la pasta a cena. In officina pranza sempre con un panino. Come pranza Francesca, quando lavora al negozio della madre, Paolo neanche lo sa. Di certo quando la sera va in palestra, non cena nemmeno. Paolo ha smesso di andare in palestra. Gli piaceva, ma non poteva permetterselo. Quando, qualche sera, torna dall’officina e non è troppo stanco, e fuori non piove, va a correre sul lungofiume. Ma di solito è troppo stanco.
Paolo continua a fissare i piatti davanti a lui e d’improvviso, si sente una grande stanchezza addosso. Si sente stanco in ogni centimetro quadrato del suo corpo. Gli è anche passata la fame. Cerca di scuotersi: assaggia una forchettata di pasta. Sa che non dovrebbe, ma rischia di asciugarsi troppo. È buona.
“Ma che aspetta? Mi piacerebbe saperlo!”, dice a voce alta.
I piatti continuano a fumare, ma sempre meno. Il tempo sta passando. I gomiti di Paolo sono sul tavolo. La testa, tra le mani.
Paolo arrotola un’altra forchettata di spaghetti controvoglia. Lo sa che non dovrebbe. Ma sa anche che se si fredda non è più così buona. Comincia a masticare. Paolo mastica come mai ha fatto prima, lentamente, sminuzzando il cibo nelle più minime parti, prima di inghiottire. Fa fatica a deglutire.
Dopo un paio di minuti, Francesca esce dalla camera. Entra in cucina col cellulare in mano, senza staccare gli occhi dal display.
“Sai, era Luca, al telefono?”
“Sì?”
“Sì, tanti saluti”.
“Dai, mangiamo che sennò si fredda”.
Francesca mette gli occhi sulla tavola per la prima volta. Posa il cellulare sulla tovaglia.
“Ma che bel lavoro che hai fatto, eh? Chissà che buona”.
“Assaggia, dai”.
Mentre Francesca si porta alla bocca le prime forchettate, Paolo ha quasi finito.
“Bravo, è davvero buono”.
Finge di battere le mani.
“A te si vede che piace, eh? Hai già finito?”
“Senti, Francesca, è mezz’ora che aspetto come un cretino, avevo fame, va bene? Sempre con quel telefonino del…”
Si trattiene.
Francesca continua a mangiare, lentamente. Sembra giocherellare col cibo.
“Ma che voleva, poi?”, Paolo si è alzato per prendere la padella con l’altra pasta.
“No, niente”.
“Come, niente, ci hai parlato un quarto d’ora”.
“Ma niente, lo sai è anche lui in vacanza in Sardegna”.
“Non mi dire!”
“Dai, non fare lo scemo, ora. Voleva chiedermi se avevo intenzione di…”
“Di…”
“Se avevamo intenzione di andare al Billionaire, la sera di Ferragosto. Potrebbe farci avere delle riduzioni. Lui ci va spesso”.
“Ti piace, eh, Luca? Occhiali di Gucci, scarpe di Prada, Porsche e villa in Sardegna? Il meglio che si può avere dalla vita, no?”
“Ma che dici, idiota? Per chi mi hai preso?”
“Eh, lo so io, che se non fossi un poveraccio…”
“Ma che dici?”
“Se anche te e tua madre ci aveste i soldi…”
Paolo non sa più quello che dice.
“Non sai quello che dici, Paolo. Comunque non ti preoccupare, gli ho detto di no”.
“Ah, sì? Gli hai detto che siamo due poveracci e che non abbiamo i soldi per la benzina e il resto, per andare una sera a quel locale da stronzetti?”.
“Come sei stasera! No, gli ho detto che ci avevano invitato a una festa a San Teodoro, e che avevamo accettato. Poi il Billionaire è troppo lontano da noi”.
“Troppo lontano, eh?”
“Sì”.
“Festa a San Teodoro? Ti vergognavi a dirgli la verità?”
“Che verità?”
“Che sono un poveraccio. Che non possiamo permetterci una vacanza decente. Che per stare in questa merda di posto abbiamo fatto i salti mortali, da gennaio”.
“Ma sei impazzito?”, dice Francesca. Ma non lo dice convinta.
I due ragazzi hanno smesso di mangiare da un pezzo.
“Senti, adesso, sono io che non ho più fame. Anzi, ho ancora fame, ma non ho voglia di mangiare qui”.
Paolo prende la padella e il forchettone di legno. Va verso la porta. Mentre esce dice:
“Esco un po’”.
Appena uscito, Paolo appoggia sul cofano dell’auto la padella. Non è che abbia davvero così fame. Si volta per vedere se Francesca l’ha seguito. No. Si incammina, verso il mare. C’è andato un paio di volte a piedi. Da quando la bici è ko, Francesca non ha più messo il piede in spiaggia.
Mentre cammina Paolo vede una stella cadere. Non che sia importante. Abbassa la testa sul sentiero e guarda dove mette i piedi.
Nella casa, Francesca guarda il suo piatto, ormai quasi vuoto. Non ha voglia di finire. Il suo sguardo vaga un po’ per la casa. La porta di camera socchiusa. La luce ancora accesa. Francesca torna a sedere sul letto. Le lacrime cominciano a scendere. Accende lo stereo. Francesca pensa possa farla star meglio. Non migliorare le cose tra lei e Paolo, non far decollare la vacanza, non darle un lavoro da sogno. Ma farla star meglio, sì. Meno male c’è sempre uno che canta e la tristezza ce la fa passare.
La musica parte.
“Ho una canzone triste nel mio cuore”.
“Come mi conosce!”, dice Francesca a voce alta. La voce è un po’ rotta dal pianto. Francesca si sente così sola. Adesso sta proprio singhiozzando.
Da un’altra parte della Sardegna, in quel preciso momento, 850 persone stanno ascoltando una canzone di Zucchero. Hanno pagato mille euro, per cena e concerto. Stanno mangiando aragoste, ostriche, caviale e bevono champagne. Zucchero sta cantando a bordo piscina dell’Hotel Cala di Volpe, il compenso per la serata è di 300 mila euro.
Una signora sta scrivendo un sms sul telefonino. Zucchero se ne accorge, si arrabbia e inizia ad insultarla:
“Lavandino, baraccone, bagascione, cassonetto, sei uno schifo, puzzi come un’aringa”.
Poi il cantante prende una bottiglietta di Gatorade e la lancia in direzione della signora, ma sbaglia mira. L’oggetto sfiora un bambino e cade su un tavolo di miliardari russi. I russi rilanciano verso Zucchero la bottiglietta di plastica, che cade sul palco, poi cominciano a tirare bottiglie di vino e superalcolici. Bloccati al momento del lancio dagli addetti alla sicurezza, tentano allora l’assalto al palco per aggredire il cantante. Spintoni e urla. Zucchero continua a cantare. Solo i pompieri calmano la situazione. Un’altra canzone finisce. Zucchero dice:
“Non sono qui per voi ma per i soldi che mi danno”.
C’è qualche istante di silenzio. Poi, proprio come nello stereo di Francesca, comincia un’altra canzone.

L’uomo del telefono. Un racconto di Marco Montanaro


Marco Montanaro
L’uomo del telefono

-Signor Pezzini, lei è licenziato.
-Ma come?
-Sì, mi spiace, so che qualcuno della direzione le aveva addirittura parlato di una promozione di tipo A, ma sa, con tutto il lavoro che hanno devono aver fatto un po’ di confusione con Pizzini che, detto per inciso, ha avuto quella di tipo B.
-Ma io pensavo…
-Mi spiace.
-Ma perché me lo dice al telefono?
-Oh, questo è un fatto mio. Di persona non riesco mai a licenziare la gente. Voi dipendenti siete di due tipi: ci sono quelli che piagnucolano che hanno moglie e bambini, tutte queste storie sul precariato, e quelli che invece con un paio di giri di parole mi intortano e io non posso fare quello che va fatto.

‘L’uomo del telefono’ ero sempre stato io. Ore al telefono a proporre contratti per lavoro, oppure a convincere le mie donne lontane che avrebbero dovuto sposarmi, prima o poi. Invece questa volta mi toccava di esser licenziato, via telefono. Sempre meglio così, pensai, che via messenger. Ma certe cose sono sempre stato dell’idea che si debbano dire di persona.
Cominciai così un giro per l’Italia, mi misi in testa che dovevo andare a chiarire certe cose vis a vis con gente che non vedevo da anni.
Andò tutto liscio, come al solito passai per quello un po’ strano che fa cose improbabili. Ma sono sicuro che Annachiara, Luigi e Silvio furono davvero contenti di questa mia mossa; Angelo, Piera e Alberto rimasero sostanzialmente impassibili, ma me lo aspettavo; Sandra e Michela ci provarono ripetutamente; e anche Totò, che nel frattempo era diventato gay.
Fu con Elena che andò storto. Ci chiarimmo solo in apparenza. Poi mi fregò, perché nel dirci nuovamente addio lei mi baciò troppo vicino al labbro inferiore e io comunque le avevo tenuto la mano tutto il giorno. Insomma, dopo cinque minuti che ero in treno per tornare qui, fui tentato di chiamarla.
Sicuramente, fu tentata anche lei.
Resistemmo cinque minuti buoni.
Poi composi il suo numero, ma dava occupato.
Squillò il mio cellulare, era lei.

-Ho provato a chiamarti… Era occupato.
-Forse perché anch’io stavo provando a chiamarti?
-Ah… Ecco, come stai?
-Io bene. Tu?
-Sono confuso. Non abbiamo risolto niente.
-Ma io sono sposata.
-Questo, ormai, è un problema tuo.
-Ma perché ne stiamo riparlando al telefono? Ma allora che diavolo sei venuto a fare?
-Ah, tu mi farai impazzire, Elena.
-Senti, brutto stronzo…
-Tu! Mi hai chiamato brutto stronzo..!

Poi cadde la linea, colpa della galleria. In galleria la luce e il suono vanno a farsi benedire.
In quel periodo avevo la fortuna di riuscire a dormire ‘su comando’: se decidevo di farlo, nulla poteva fermarmi. Così dormii per tutto il viaggio di ritorno, col cellulare spento. Sicuramente Elena provava a chiamare e mi odiava per aver spento l’aggeggio. Ma io pure la odiavo, perché mi aveva incasinato il piano.
Quando mi svegliai, all’altezza di Taranto, mi venne in mente un racconto di Campanile in cui in uno scompartimento ne accadono di tutti i colori. Non so perché ci pensai, forse perché quel libro lo avevamo letto insieme, con Elena, o meglio: contemporaneamente. Era un’estate che ci eravamo lasciati e lei stava al mare, però ci sentivamo, di tanto in tanto. Leggevamo e pensavamo le stesse cose. Forse quell’ultima telefonata mi aveva ricordato questo: potenzialmente, sarebbe potuta andare avanti per sempre, e questa cosa mi spaventava, non per suo marito, che era l’anello di congiunzione tra l’uomo e lo space shuttle, non perché anch’io ero stato con lei; anzi, non so perché mi spaventasse, a pensarci bene.
Nei mesi successivi fui ossessionato dal cellulare, così un giorno lo gettai nella pattumiera. Rifiutai molti lavori perché non potevo lasciare il numero, uscii con alcune ragazze più giovani di me che proprio non capivano perché non volessi avere il loro. Allora mi misi a fare cose molto semplici.
Con Giulio ce ne andavamo in giro per le campagne a cercare la ‘perdita della verginità’: è quel preciso istante in cui la poesia diventa ferocia, ben rappresentato da quei gatti che leggiadri scendono dagli alberi con estrema delicatezza, muscoli tesi e pelo svelto, per poi piombare su un topolino che sta tra i cespugli pronti a sbranarlo. Facemmo delle belle indimenticabili.
Con Christian, il mio amico notoriamente misogino, invece, decidemmo di fare la ‘Nazionale delle Piccole Cose’. Se c’era la Nazionale Cantanti, quella Piloti, ecc., noi non vedevamo perché non dovesse esserci quella delle Piccole Cose. Ho ancora la formazione, schierammo un 4-4-2:
Caffè; Sigaretta – Panino con wurstel – Giornata al mare – Birra; Sigaretta a letto (possibilmente dopo l’amore) – Chiacchierata al bar – Passeggiata – Doccia; Una canzone – Bicicletta.
In panchina: Coca Cola; Sorriso di una persona particolare; Solletico; Gelato; Spaghetti col pomodoro fresco e basilico; Radersi; Cena in pizzeria.
Per la verità, Christian non era convinto di mettere in panchina Radersi, ma in attacco doveva per forza starci Bicicletta, secondo me. Più veloce.
Dopo alcuni mesi, incontrai per strada il mio vecchio capo, quello che mi aveva licenziato per telefono.

-Pizzini?
-Pezzini, dottore.
-Come sta? Mi spiace per quell’episodio…
-Oh, si figuri.
-Ha trovato lavoro? Se non sbaglio doveva sposarsi…?
-No, dottore, niente di tutto questo. Mi confonde con Pizzini.
-Ah, senta, io devo andare. Lei è giovane: si rifarà.

‘Lei è giovane, si rifarà’, mi frullò in testa fino al Natale successivo. A Natale io avvertivo sempre la mancanza di Elena, perché non lo avevamo mai passato insieme, ma come al solito ci sentivamo e pensavamo le stesse cose. Tranne che lei si divertiva e io no. Anche quel Natale io mi stavo annoiando, e ripensavo a ‘Lei è giovane, si rifarà’, senza sapere esattamente come rifarmi. Quando scartammo i regali, fui sorpreso perché mia nonna aveva deciso di regalarmi un cellulare. Era un modo, anche quello, per dirmi, ‘sei giovane, ti rifarai’. Ma al momento risi, perché non avrei mai immaginato mia nonna che mi regalava un cellulare, anche se sapevo che lei ne aveva uno e parlava tutto il giorno con le amiche urlando come una pazza, perché era leggermente sorda.
Guardai il cellulare per giorni, spento, sul comodino. Sapevo che c’era qualcosa che non andava. Aveva la videocamera come tutti i suoi simili, ormai, e mi ricordai dei filmati osè che avevamo fatto con Elena. Ecco, quello era un modo creativo per utilizzare questi cosi. Senza metterli in giro per Internet, ovvio.
Oppure quando le mandavo messaggi con dei versi di qualche poeta. O quando la chiamavo per leggerle qualcosa che mi aveva colpito. Certo, tutti modi molto creativi. Ma dirsi addio, o peggio ancora licenziare, via telefono? Durante la guerra qualcuno si sarà detto addio per lettera, sicuramente. Ma quello sì che era un modo molto romantico per dirsi qualcosa.
Insomma, un giorno accesi quel maledetto cellulare, e si mise a trillare.
Ovviamente pensai che fosse Elena.
Ovviamente non poteva essere Elena.
Ovviamente attesi un bel po’, prima di vedere chi fosse.
Ovviamente l’attesa si dilatò nella mia mente oltre i cinque trilli del telefono.
Ovviamente ero di nuovo schiavo della tecnologia.

Era Christian. Voleva farmi gli auguri di Natale con qualche giorno di ritardo. Disse che sapeva che non ero il tipo da auguri, e in fondo pensava di non trovarmi, data la mia idiosincrasia per il telefono. Disse che comunque era contento. Ma il vero motivo della telefonata era un altro: Christian si era messo con una, ed era innamorato. E questa era una notizia, data la sua storica misoginia. E come ogni persona innamorata, voleva condividere con la sua ragazza il suo modo di essere, e quindi anche la nostra amicizia. Sapeva che mi portavo sempre dietro la formazione della Nazionale delle Piccole Cose, e voleva che gliela leggessi al viva voce. Questo era il motivo della telefonata.
Sorrisi, sentii la voce di lei che rideva, contenta, e cominciai a leggere:
‘Caffè, Sigaretta, Panino…’

La morte nascosta negli origami – Un racconto di Riccardo Lionello


Riccardo Lionello
La morte nascosta negli origami

1. Un anonimo fagotto lanuginoso, non più grande d’una piramide di palle da cannone, impercettibilmente più piccolo d’una bomba H di vecchia generazione, giaceva abbandonato tra un centinaio di sacchetti della spazzatura che da almeno un mese impedivano l’ingresso alla magione De Meritis. Un muro di mattoni, edificato con spirito d’emulazione verso la Grande Muraglia Cinese, cingeva la casa innalzandosi a perdita d’occhio, quasi volesse superbamente toccare il cielo. Come al solito i fringuelli se ne infischiavano: l’apice delle mura sembrava il luogo ideale per il prolificare della specie, una panacea assai remota e certo più confortevole degli stomaci di gatti ed esseri umani; tutte le sere, palesavano la loro gratitudine con un tributo in cacchine. Nessun rapinatore di ville si sarebbe mai arrampicato senza correre il rischio di contrarre la morte e nessun parroco zelante si sarebbe mai sognato di benedire la casa. -Codesta è la dimora del demonio!- avrebbe gridato correndo lontano.
-Cip, cip- tubavano i fringuelli graziosi e rossi e gialli, con una continuità che solo un cinico potrebbe definire monotona. Nel mentre, un camioncino della nettezza urbana rallentava un momento davanti alla parete ovest ove era situato il gigantico cancello d’ingresso, per poi ripartire con aritmici borbottii di marmitta e dense volute d’ossido azotato. All’interno dell’abitacolo, dopo pochi minuti, sarebbe iniziata una discussione tra i due occupanti, Lou, veterano pluridecorato e maestro di spazzolone, e Roscoe, cadetto non salariato.
-Ehi Lou-,
-Che c’è Rosky?-,
-Potresti evitare di chiamarmi come un cacciatorpediniere, Lou?-,
-Era questo che volevi chiedermi? Di chiamarti con quel tuo nome da canadese?-, le arcate sopraccigliari di Lou s’erano alzate piene di sospetto, -Sarai mica vittima di una crisi d’identità, Rosky?-,
-Non ti preoccupare per me Lou, ti ricordo che ai test psicoattidudinali sono passato a pieni voti-.
L’unico modo per venire dichiarati inabili alla professione dello spazzino era fallire i test psicoattidudinali. Risposte come “sette tentati suicidi” se non “talvolta mi sento seguito dal sole” a domande aperte come “Quando ti tagli le unghie provi un piacevole senso di sadismo?” oppure “Se lo chef al ristorante spiega che non è possibile preparare la carbonara che desideri a causa della penuria di pepe nero, scegli un altro piatto o massacri lo chef con la forchetta da dolci?” erano sufficienti a guadagnarsi un timbro di rifiuto.
Mentre cercava di sistemarsi sul sedile nella sua postura più seriosa (-forse dovrei accavallare le gambe?-) Roscoe aveva seguitato a disquisire con certo fanatismo professionale,
-In verità volevo sapere di tutta quella immondizia davanti alla villa che non abbiamo raccolto. E se qualcuno del controllo se ne accorgesse? Non pensi sia il caso di tornare indietro?-. Il camioncino della nettezza s’era fermato davanti all’imbocco d’una rotonda. Una dozzina di corsie confluiva in lei eiaculando autovetture che, entrate da una parte, se ne uscivano dall’altra con un matematico criterio da moto centrifugo. Lou, imbarazzato, non badava più a quello che aveva da dirgli il collega, del resto era troppo occupato a capire chi avesse la precedenza.
-Caro Lou, siamo fratelli di tatuaggio, ricordi?- e così dicendo Roscoe s’arrotolò la manica della tuta, mostrando fiero il motto della scuola marchiato a caratteri lapidari romani: “Contro lo sporco e la sozzura, l’indefesso netturbino non ha paura, siamo un diritto e imperituro nume sopra ogni sudiciume”-,
Lou rinsavì mentre due piccole utilitarie lo chiudevano a panino,
-Ti sei ammattito Rosky, quella è una zona no, io non mi fermo mai nelle zone no-, e il compare, pieno di premura,
-Più no del ghetto dei musi meteci Lou?-, il ghetto dei “musi meteci” o zona afrocomunchippangai, era l’unico quartiere a SolfurCity dove i rifiuti venivano considerati sacri e quindi sacrilega la raccolta,
-Sì. Molto più NO, Rosky. Perché non dai una occhiata alla mappa e mi lasci in pace?-. Il camioncino con uno slancio ben al di sopra delle possibilità di un motore a scoppio, s’era infilato nella corsia più ravvicinata.
Il giovane apprendista aveva annuito, del tutto privo di potere decisionale. Non poteva guidare il camioncino, non poteva scegliere il programma radiofonico né scegliere cosa bere nella pausa pranzo, poteva prendersi l’epatite, questo sì; forse un giorno gli avrebbero concesso uno spazzolone grande invece di quel misero spazzoletto con cui puliva i marciapiedi dai rifiuti, ma non prima d’essersi rotolato nel fango e tra montagne di bottiglie di plastica per cinque o sei anni. La logistica nel lavoro dello spazzino richiedeva una certa malleabilità, i pervicaci finivano con l’essere giudicati ed emarginati alla stregua di miopi, femministe e mancini. Pensava a questo Roscoe, mentre guardava la mappa, a quanto era precaria la sua condizione di novellino, a quanto arrovellarsi in domande superflue l’avrebbe condotto tuttalpiù in un vicolo cieco o in qualche scantinato umido a mangiare la sua stessa forfora. La mappa di Lou si stendeva inscotchettata dietro il sedile di guida, monito della stazionaria superiorità intellettuale del veterano. Sarebbe stata una comune mappa cittadina di quelle che si possono comperare per pochi centesimi presso i chioschi turistici, non fosse per certi sì gialli e certi no neri che Lou aveva scritto con intenzione topografica. Lou pensava che in quel modo avrebbe ottenuto qualche premio come impiegato del mese, bruciando sul tempo i colleghi impegolati per le strade di SolfurCity. Per sì, s’intendeva che la zona era abitata dai fedeli contribuenti, una zona no significava invece evasione delle tasse, crimine organizzato o addirittura che i bidoni e i cassonetti erano stati riciclati come spazi abitativi dai rappresentanti più poveri dell’urbe. Questo voleva far credere Lou spazzino. Ma nei reconditi, ventilati spazi della sua cavità cranica le zone sì rappresentavano fonti di lucro, rifiuti interessanti come la morfina scaduta dell’ospedale militare o capi d’abbigliamento invenduti dei grandi magazzini. I no al contrario, segnalavano l’assenza di profitto, al massimo qualche bambola Barbie decapitata, inserita in un profilattico usato e posta capovolta sopra un mobiletto rococò sfasciato. La magione dei De Meritis sostava nel bel mezzo d’una zona NO, anzi, era di per sé stessa una zona NO; il proprietario, all’anagrafe Eraclito DeMeritis, riposava da circa mezz’ora davanti all’ingresso di casa, inconsciamente situato nell’esatto centro di quella O di calligrafia imparaticcia, dentro quella ogiva nera aperta sull’anima di Lou.
Accostando l’orecchio al fagotto tra i rifiuti si sarebbe sentito un russare irrequieto, un respiro scandito da una fervida fase R.E.M. Nelle paludi del subconscio il vecchio narcolettico recitava la parte d’un giovane straccione alla ricerca della verità e della bellezza neorealista, sogni talmente ricorrenti da renderlo, oltre che attore, regista, scenografo e a volte direttore della fotografia.
Lo svegliarono alcuni scarafaggi a cavallo di lacci emostatici; il cielo trascolorava già in tonalità brune, lasciandolo nei panni fin troppo barocchi d’un eccentrico riccone che tutto aveva visto e sperimentato e constatato. Scostò lemme un lembo di mantella che gli copriva la faccia e s’abbandonò ad un profondo, lemme sospiro, accompagnato scrupolosamente da due cisposi occhi di talpa. Prima d’entrare il vecchio si soffermò ancora un poco, giusto nella speranza di percepire qualche segno d’auspicio nel cielo. La stella polare sfavillava nella stessa certezza da punto fermo di sempre, l’unico corpo celeste ad essere uscito vivo dal fagocitante inquinamento luminoso di SolfurCity. -Dove diavolo si saranno cacciati? Che se ne siano dimenticati?-, si domandava il venerando; non si rivolgeva al servizio di nettezza urbana, certo sempre di nettezza si trattava, una nettezza dell’anima.
C’è chi, come Lou, sognava di scovare, dimenticati dentro un sacco della spazzatura, diamanti e rubini, c’è chi, come Roscoe, sperava vivamente in una paga striminzita al minimo sindacale, e c’è chi, come Eraclito De Meritis, riponeva fiducia nell’avvento d’una morte subitanea e salvifica. Se analizziamo l’espressione facciale modello pierrot e la posa da martire che il vecchio assumeva durante una qualsiasi delle sue sporadiche peregrinazioni, facilmente avremmo potuto comprendere quanto avesse smesso di nascondere la propria sofferenza, innanzitutto a se stesso. Stretto nella mano destra come se fosse l’unico arto abile rimastogli, il bastone in abete, stretto nella mano sinistra, come una sfera d’acciaio da portare per penitenza, la busta della spesa. E un fardello ben più grave delle verdure e della pasta di semola schiacciava sotto il suo peso quel poco di tranquillità cui dopo i novanterotti anni ci si arroga il diritto di possedere: era l’odio verso i servizi sanitari e l’industria farmaceutica, che per tanto tempo avevano contrastato il suo legittimo desiderio. A SolfurCity c’erano mille pillole in commercio, metà di queste creavano il male, fornivano la cura l’altra metà. Eraclito rientrava nella fascia dei consumatori platinum, non erano necessarie ricerche di mercato per capire quanto il Nostro fosse un prodigio d’ipocondria repressa, l’ultima vittima sacrificale dell’umanitarismo. Un esempio lampante: la sua pressione, talmente bassa che lo sfigmomanometro si rifiutava di misurarla, doveva essere frequentemente mitigata da dodici gocce di medicina. Spesso gli effetti straripavano fuori dalle indicazioni del foglio illustrativo così da costringerlo a prendere altre dodici gocce di un’altra medicina, per l’aumento della pressione. Che ovviamente diventava troppo alta e così via, su e giù, la pressione di Eraclito era come un ottovolante con i passeggeri che si lasciano trasportare indifferenti e un po’ annoiati, tanto quel giorno non c’era nulla di meglio da fare.
Eraclito aveva sfogliato le pagine dei necrologi e non gli erano sembrate affatto confortanti: Marisa Dubiase, anni 101; Daniela Fustanghi, anni 103; Benito Duillio, anni 112, morire pareva difficile; il libero arbitrio come la facoltà del suicidio, appariva materia plasmabile solo tra le mani dei coraggiosi. O dei disperati.
L’esistenza era diventata qualcosa di scomodo, di superfluo: in Eraclito non sussisteva nemmeno quel minimo di curiosità nella vita, tipica nei vecchi, quell’interesse morboso nell’assistere al consumarsi delle forze. La saggezza sarebbe tornata utile negli anni dell’infanzia, allora sì che se la sarebbe goduta con Marta e il suo gioco del dottore.
-Che gusto c’è a disporne senza potersene servire, che c’è di glorioso a fare i saggi standosene seduti in poltrona a titillarsi il deretano con una bacchetta non magica?-.

2. Dopo essersi destato tra la spazzatura, dopo aver varcato il cancello di casa e camminato per pochi metri sul viottolo, Eraclito s’addormentò di nuovo. L’unica vera malattia di Eraclito era la depressione, così affermava il suo analista. -Lei s’annoia a tal punto che il suo organismo non tollera oltre e così, per evitare di sorbire ancora la quotidiana monotonia, si spegne come si spengono le radio, quando danno i dibattiti politici-.
Certo era impossibile imputargli quei globuli rossi ammirabili nei vecchietti televisivi scavalca fossati per lungo, niente sorrisi di ceramica in primo piano né capelli d’argento, solo un po’ di pizzicorio alla prostata di tanto in tanto. La seggiola da studiolo sopra di cui per anni aveva appoggiato sedere e relativa saccoccia dei gioielli non presentava l’accoglienza ergonomica dei sedili d’oggi, intagliata nell’ebano com’era. Così, oltre a consumare i pantaloni, un’altra cosa ben più preziosa s’era col tempo rovinata.
Eraclito si destò che era immerso dentro la fontana di casa, tra le torbide e limacciose acque di una vasca profonda tre metri. Emerse fuori gonfiando le sue guance come un trombonista negro, ma il fiato non gli mancava, il suo organismo non aveva subito alcun danno da affogamento. Ruttò e dalla sua bocca uscirono sette litri d’acqua, alghe assortite e una grossa rana toro. -Che cosa diavolo stava cercando?- disse rivolgendosi all’anfibio. Dalla cima di una colonna che s’innalzava al centro della fontana, un gargoyle gli stava pisciando addosso. -Tu che hai come unico compito quello di proteggermi dai visitatori indesiderati, osi dunque ghermirmi e spaventarmi con la tua aria sardonica e la tua miasmatica orina?!- urlò. In effetti agli occhi d’un cieco, le interpretazioni prescindono il rivelante; Eraclito amava credere che in fondo non si trattasse solo d’un pezzo di pietra lavorata pedissequamente in stile gotico, piuttosto d’un servo triviale e fannullone uscito di peso da una commedia plautina con cui inveire occasionalmente. Uscito a fatica dalla vasca, s’incamminò alfine per il viottolo che portava al portone di casa. Conquistato un po’ di terreno con grande sacrificio, nemmeno fosse sul campo d’una partita di football, finì con l’inciampare sopra un gomitolo di gramigna, rotolò per una decina di metri per venire poi placato tra le spine d’una grossa pianta grassa messicana. Accadeva, delle volte. Da quando il giardiniere era morto, il giardino s’era trasformato in una trappola piena d’insidie, da rappresentare un pericolo pure per gli avventurieri di professione. Come valvola di sfogo, il vecchio padrone aveva preparato un prontuario di bestemmie talmente atroci che le sue labbra incartapecorite parevano allora rimpolparsi di vigore. Ahimè, il nobile parco aveva controvertito le proprie funzioni fino a mutarsi in giungla selvatica; non gli apparteneva più: dopo numerose lamentele, aveva ammutinato e infine abbandonato casa e padrone che sprofondavano. Gli unici ad avere ancora un controllo indiscusso sul territorio, nella più armonica delle convivenze, erano cinque cani: due setter inglesi, due pastori maremmani, un lurido bastardo. Un conflitto caotico si stava invece consumando sopra un altro territorio, quello cutaneo, imbastito da legioni di zecche bramose del loro sangue. Eraclito amava i suoi cinque quadrupedi, i cinque quadrupedi amavano le scatole di manzo e fagiolini della dispensa di Eraclito; per pascersi del contenuto di quelle scatole avevano imparato che bastava levare un orecchio, mettere in azione la coda o, nel caso il loro padrone a causa dell’arteriosclerosi dimenticasse di servir loro il rancio, diffondere latrati raccapriccianti al chiaro di luna. Dopodiché se ne tornavano alla loro attività preferita, fare la guardia al proprio sonno. Troppo pigri anche per salutare il padrone, in genere si limitavano a sillabare un woof. -Cartapesta, Ammorbo, Lazo, Sottana, Ieratico!- chiamò il padrone. Anche in questo caso la risposta non fu affatto confortante: -“wh”, “wh”, “wh”-.
Davanti al portone tarmato di casa provò una delle numerose chiavi del mazzo; armeggiò con una lunga chiave colore bronzo, con la dentellatura 4xxs 22/y, poi con un’altra chiave, una 2m 21/x, e ancora un’altra chiave, una enorme 3xxxl 22/z, e un’altra e un’altra ancora fino a notte inoltrata quando finalmente il vecchio udì il click della serratura. Ogni mese la faceva cambiare per fobia di intrusi e ladri di serrature. L’anello teneva il peso di tutte le sessanta chiavi che avevano aperto le toppe precedenti. -Perché?-, è una domanda plausibile ma agli anziani dobbiamo pur concedere un po’ di stravaganza, giusto?
Sedutosi sul divano del soggiorno, esausto, si versò un cicchetto, dimentico dell’allarme antifurto che suonava a poco meno di tre milioni di decibel.
-Mezzo litro di cognac, per stendere i nervi, e un paio di sigari per ravvivarli- disse tra sé. Da giovane era convinto che mai e poi mai sarebbe caduto nella facile tentazione degli stravizi; la sola vista degli uomini avvinazzati che incontrava agli angoli delle strade o nei pulpiti del clero, lo turbava profondamente. Ahimè l’avanzare degli anni aveva provveduto a un sistematico volta faccia, ringraziando il buon senso datogli dall’esperienza era di sicuro la soluzione migliore.
Eraclito non poteva sentire il rumore di passi proveniente dal primo piano, i passi di un mostro subumano a quattro tentacoli: la sua unica figlia, occupata dagli ultimi preparativi per il trasloco. La vide scendere con un grosso scatolone tra le mani e i suoi quaranta anni portati bene, seguita da un goffo ragazzetto in canottiera con i restanti due tentacoli, anch’esso con un grosso scatolone che ne celava il viso. La figlia cantava la musica di un famoso film per famiglie che Eraclito non poteva ricordare, impudentemente seguita dal controcanto del ragazzo. Eraclito dal suo canto, non tollerava che i pochi affetti che gli rimanevano, fossero ripartiti con ragazzetti in canottiera. Il nuovo marito. Questo è quello giusto, aveva soffiato la figlia nelle sue orecchie pelose. Poi il divorzio. Questo è quello giusto, aveva ripetuto l’anno seguente. Ad Eraclito quello nuovo sembrava tale e quale a quello vecchio, stessa insopportabile baldanza di yuppie fricchettone, stesso stile da parassita compiacente.
Si sarebbero trasferiti in una casetta modesta dove, a conti fatti, avrebbero copulato senza porsi più scrupoli. -Ho come l’impressione che tuo padre ci spii durante il coito- aveva affermato Marlo, parassita fricchettone, -A volte mi sembra addirittura di sentire il suo alito che esce dalla serratura della porta-.
Marlo non aveva un soldo, Eraclito lo sapeva: s’erano limitatati a spiegare che viveva ancora un’età prematura ai sacrifici del guadagno. Il vecchio avrebbe replicato che a sedici anni, verso la fine del primo conflitto mondiale, s’era genuflesso fino a divenir gobbo, solo per lucidare gli stivali di terribili ufficiali russi, ma qualcosa nel delicato meccanismo delle sue arrabbiature s’era inceppato. Un tempo sì, che si sarebbe arrabbiato sul serio. Avrebbe protestato con veemenza, si sarebbe opposto, avrebbe messo il suo bastone d’abete tra le ruote del carro nuziale, un tempo… Quel bastone che aveva usato come scettro del potere patriarcale ora serviva solo a reggere la sua stessa carcassa.
Il vecchio si limitò ad arrossire. -Beh questo è l’ultimo- constatò la ragazza appoggiando la scatola a terra. Eraclito provò a urlare ma ne uscì un suono di kazoo. Almeno una decina di scatoloni di medie e piccole dimensioni ingombravano il soggiorno, dandogli l’aspetto di un magazzino improvvisato. -Guarda quante cianfrusaglie-, pensava, -Tutti soldi che ho gettato al vento-. La donna avvicinò le labbra alla sua fronte rugosa per schioccarvi sopra un bacio, Eraclito lasciò fare.
-Pipino caro, non dovresti fumare il sigaro, lo sai meglio di me che ti fa venire il cancro-, -Il cancro- echeggiò il marito in canottiera. Il vecchio lanciò il sigaro contro il ragazzo ma la gittata fu breve, gli cadde tra le babbucce. -Cancro- osservò perplesso, -magari fosse facile-. Ma i due non avevano il tempo per ascoltarlo, si sarebbero persi la prima vera scopata dell’anno; -ciao ciao, ci sentiamo per telefono-, il camion traslochi suonò ammazza il vecchio col cric, i cani risposero sputando tonsille, furono necessari sessanta secondi circa prima del ritorno alla quiete. In modo indirettamente proporzionale, le cromie del rosso arrabbiatura sulla faccia del vecchio diminuirono con l’aumentare del silenzio, fino a che fu completo. E giunse orribile. In quei momenti di lucidità Eraclito sentiva il delicato sciabordio della dentiera applicata sommariamente col mastice, il suo stesso respiro rifluire tra i polmoni particella dopo particella, il sintomatico brontolio di stomaco diarroico d’imminente fuga che, insieme al naturale dispiegarsi delle altre sue funzioni elementari, lo faceva sentire vivo, maledettamente vivo!, quanto lo può essere una gomma masticante o un fungo champignon; solo un minuscolo pezzetto di quel puzzle che è l’universo, non troppo dissimile dal sigaro che stava fumando, un corpo animato finché il braciere è vivido, ma le cui cellule si sarebbero presto o tardi riorganizzate in un imprecisato mucchietto di cenere.
Solo un paio d’anni prima, vicino al nucleo della terra, un impiegato nell’ufficio morti naturali di nome Urguls Rara Domingos, aveva ottenuto alcuni stupendi origami che gli erano valsi i complimenti del caporeparto in persona. Peccato che l’orchidea selvaggia e il porcellino d’india nascondessero tra le proprie pieghe proprio la documentazione dell’idoneità di Eraclito De Meritis, esemplare maschio n°3499848839990040499078828, al decesso per decrepitezza.
Eraclito spense il secondo sigaro e cercò il telecomando; accesa la tivù, portò il volume al massimo. Nel telegiornale delle undici e mezza veniva trasmessa una catastrofe a 68.000 colori: il marrone prevaleva, complice un inondazione. -Quale ostentazione di beatitudine-, pensò Eraclito guardando i cadaveri trascinati dalla corrente. Guardò l’alto soffitto e s’augurò che un terremoto improvviso glielo facesse all’improvviso cadere addosso. Ma non successe nulla, il vetusto abitava in una zona piena di sedimenti sabbiosi, un quartiere relativamente tranquillo dove mai t’aspetteresti d’essere spazzato via da un meteorite. Poi, lo sguardo caustico, prese a parlare verso la platea di pixel dei morti indocinesi: -Se solo potessi assaporare ciò che state assaporando, abbandonarmi tranquillo alla corrente, lasciarmi trasportare fino ad avere i polmoni pieni di melma ed esalare il mio ultimo respiro tra le vostre grida brutali-. Il servizio terminò, era l’ora dei consigli sugli acquisti. Da bravo consumatore Eraclito si recò in bagno. Ivi, si tirò indietro gli zigomi per poi vederli ricadere; la forza di gravità implacabile spingeva l’ormai datato tegumento verso il suolo. Un sentimento di tristezza, ovvio, verso la natura ciclica dell’essere, si temperava nel compatimento; purtroppo non esisteva trattamento dermo-estetico in grado d’aiutarlo. Il vecchio si spogliò per guardarsi il torso, le membra rinsecchite, il pube canuto. Un facocero, una mummia egizia senza deificazione, un pupazzo di neve dopo l’inverno; la mente adombrata da ricordi passati, un virgulto e speranzoso imberbe diventato un gobbo dimenticato da tutti, costretto a dipingersi di malevolenza quanto lo stregone di un horror movie di serie b. Le gioie, poche, e le sofferenze, tante, avevano lasciato segni indelebili, vicoli ciechi e superstrade sulla valle del suo macrocefalo, avvallamenti talmente profondi che per rimuovere i residui di polvere e sporcizia sui generis che così spesso vi si depositano, Eraclito doveva usare una piccola spugna d’acciaio. Sul collo aveva fatto d’un difetto una qualità imprescindibile, utilizzando la pelle morta come portamonete.
Nonostante tutto Eraclito era un vecchio dall’eleganza ricercata, il classico Anzianotti cui non cederemo mai il nostro sedile sull’autobus, tanto il suo aspetto è sfarzosamente benestante; i suoi dodici completi da ricevimento, dodici completi da gran gala, dodici completi da gran gagà, una giubba da pesca alla trota, sette cappotti invernali con impunture di piume di struzzo, otto impermeabili con interno iridescente, le sue ventidue vestaglie di flanella a quadri ocra e bordeaux , tredici pantaloni di velluto a coste fitte, ventuno gilet ricamati da artigiani di Lilliput, un paio di rarissimi blue jeans slavati e stracciati, centoventuno paia di calzini di lana d’angora, ottantadue mutandoni di lana merinos, dieci copricapo d’alpaca e due di castoro imbalsamato, sei mantelle di pelliccia di yak, un centinaio di canottiere della salute di cotone in filo di Scozia, tre paia di babbucce antiscivolo elettronicamente riscaldate e infine la sua preziosa sciarpa in pelle di coccodrillo albino, riposavano dentro un grande armadio a due ante, pronti a ricoprire il macilento padrone, oltre che dei pregiati tessuti, del loro caratteristico odore di naftalina. Nel cassettone sottostante giaceva in un sacchetto di nylon ciò che potremmo chiamare un toupet, ad essere riduttivi; i capelli erano appartenuti a un fruttivendolo magrebino in bancarotta, all’anagrafe Abdel Fayyad. Dopo aver ipotecato il negozio, la casa e tutto il parentado con pappagalli domestici inclusi nel pacchetto, s’era deciso a cedere il proprio fulgido cuoio presso un centro di innesti cibernetici a Casablanca. In cambio ricevette un sacco di farina. -Datemene due-, aveva chiesto il fruttivendolo. -Ti dovrai accontentare-, gli fu risposto dal chirurgo, mentre un bisturi affilato lavorava di fino. Abdel Fayyad, uovo di palla da bowling, si stancò presto dei nomignoli che gli affibbiavano per le vie del suo paese natale; risolse il problema con colla industriale e pelo di cammello. Quanto prima, nel deserto sud-sahariano, un camelide da soma sarebbe morto sotto le zoccolate degli amici causa l’aspetto antiestetico.
Il prodotto di questa filippica è un oggetto delicato, richiedeva quotidiane cure e manutenzione. Ma Eraclito non badava più a certi dettagli. Niente aveva più senso. Con le balle a fior di pavimento e il parruccone messo al contrario, invocava la grazia tutti i giorni innanzi al cristo in legno appeso nella camera da letto. Sperava in una manna, o in qualche invito ad un party. Nella stanza risiedeva il letto, un consunto baldacchino, vuoto da troppo tempo. -A che serve poi pregare, Dio non sembra sufficiente a riempire il vuoto, nemmeno il vuoto che intercorre tra le unghie-, si rammentò Eraclito infilandosi sotto le coperte; -dicono che sia ovunque, che può fare qualsiasi cosa, basterebbe uno solo schiocco di dita, un fischio, eppure-. Mandato un bacio alla foto sul comodino, il vecchio aveva provato a chiudere gli occhi ma la narcolessia s’era presentata fulminea. Calava il sipario del letto a baldacchino e insieme calava il sipario sopra un tedioso spettacolo quotidiano.
Il folklore di SolfurCity aveva maturato strane idee sulla presunta scomparsa dei coniugi DeMeritis. Si pensava fossero deceduti senza scalpore, entrambi inghiottiti dall’ombra di un funerale privato, lontano dalla trivialità di apologie e dalla ipocrisia di orazioni funebri come dalla rapacità degli interessi notarili. Del resto le poche apparizioni pubbliche del vegliardo non destavano alcun sospetto: avvolto com’era, veniva scambiato per un monaco di qualche strano ordine desueto, se non per il partecipante di qualche gioco di ruolo persosi momentaneamente. Dopo il sorpasso dell’ottuagenaria età, Eraclito aveva osservato impotente, mentre un colpo apoplettico si portava via la moglie. Sarebbe bastata una telefonata o una lettera, invece non s’era più fatta viva. Da quando l’aveva lasciato solo, l’immaginazione aveva subito provato a rimpiazzarla; poche ma vivide immagini lo perseguitavano, immagini d’una signora piacente e un po’ vamp, al largo di qualche molo bianco acceso, mentre una gragnola di fischi emessi da prestanti giovanotti dalla fronte bassa pioveva sopra il suo corpo vestito d’un laccio da scarpe. Urgeva un sostituto, qualcuno cui redirigere le dosi di frusta. Eraclito s’era quindi recato presso un sexyshop per l’acquisto di Luisa, la bambola gonfiabile. Aveva poi guidato in direzione del comune. Non se ne parlò, fu costretto ad accontentarsi d’un mero concubinato.
Rammenda la fodera del cuscino! Lustrami i talloni! Prepara una torta di mirtilli! Togli le fottute ragnatele dall’ingresso! Niente, Luisa non ne voleva sapere. Lo guardava a bocca spalancata in un misto di piacere e paura. Eraclito l’aveva subito riposta nella scatola e gettata nella spazzatura. -Spero non mi mettano in galera per questo-, pensò tornandosene in casa. Poi, sfogliando la pubblicità di biancheria intima, si disse che mai avrebbe capito le donne. Avrebbe anche fatto a meno di capirle se solo fosse stato occupato. Un pomeriggio poggiò le sue mani di bibliofilo sul telefono e chiamò un numero verde. Alle sedici in punto del giorno dopo, un’abitante del sud-est del mondo si presentò all’ingresso. Una pianta carnivora in giardino per poco non l’aveva divorata.
Taglia le carotine! Usa l’antiossidante per quei rubinetti! Ho detto il New Yorker, non il New York Times! Sintonizzami i canali della tivù sulle reti regionali! No, ho cambiato idea, va a comprarmi una parabola, m’è venuta voglia d’un po’ di roba straniera! Installami la parabola! No! Cosa credi, che i soldi escano dal mio deretano insieme a quelle schifezze che mi prepari? Non ho voglia di pagare un tecnico, quindi installami quella parabola prima dell’inizio del campionato femminile di ping pong, o ti faccio assaggiare la suola delle mie ciabatte! No! No! No!
La povera abitante del sud-est del mondo fece il possibile. La corrente elettrica percorse il suo corpo per quarantacinque minuti. Vinse la Mongolia. Poi il canale divenne disturbato. Un piccolo cumulo di cenere, vestito di capi falsati, esalava il suo ultimo afflato. -Dove diavolo è andata a finire?- si domandò Eraclito. -Poco male, non gli avevo ancora pagato il mensile-.

3. Eraclito fu un indiscusso collezionista di libri rari. Rimpiangeva i tempi in cui percorreva migliaia di chilometri, via mare e via cielo, solo per annusare la muffa d’una copertina rilegata. A causa della narcolessia non poteva più servirsi né di aeroplani né di navi né di treni né di paracadute. L’ultima volta che aveva viaggiato aveva perduto la coincidenza per Vienna e s’era ritrovato a Addis Abeba, in Etiopia.
-Credo che ritarderò un poco-, aveva sibilato in una chiamata internazionale presso l’ambasciata, poi s’era addormentato con la cornetta in mano. Le imprecazioni di Odon Von Hoffmann, procacciatore di libri rari austriaco, durarono anche dopo il termine della telefonata, riempiendo di sospetto certi animisti autoctoni che, dopo una riunione approssimativa, diedero fuoco all’intero locale. Odon, da lì a poco, avrebbe gettato manciate di sabbia sull’intera carriera del Nostro. -Non solo non si presenta agli appuntamenti, addirittura mi chiama tutto contrito e poi fa le pernacchie al telefono. Un atteggiamento deplorevole-. Eraclito s’era già cimentato a contrastare quei pericolosi disturbi: ginnastica, pinzette sulle palpebre, la cuccuma del caffè sempre sul fuoco del camino. Niente da fare, era come vivere nella plancia cortocircuitata d’un robot.
Una piccola botola posta nel bel mezzo del giardino inselvatichito di Eraclito, chiudeva l’accesso ad una lunga spirale di pietra arenaria, scavata sottoterra per sedici metri. Dopo due portoni blindati e controllati a vista da un balestriere stipendiato, si trovava la grande libreria privata. Eraclito voleva bene più ai libri che alle persone, se la gente si fosse potuta sfogliare sarebbe andato direttamente alle note di copertina. Per il vecchio la letteratura era sempre stata una campana di vetro. Verso i trenta, dopo aver letto “Alice nel paese delle meraviglie”, si immedesimò nel personaggio protagonista a tal punto che volle inghiottire dell’amanita muscaria. -Voglio essere alto, altissimo!-. Purtroppo l’unica cosa ad aumentare d’altezza furono i conati di vomito e i valori di colesterolo.

4. Una mattina. Sarebbe scorretto definirla LA mattina, difatti niente è più determinativo nella piatta esistenza del Nostro. UNA mattina quindi Eraclito si svegliò di malumore, come al solito. -Come faccio a indossare la ciabatta destra col piede destro e la ciabatta sinistra col piede sinistro con queste serrande abbassate?!- disse. Da vedovo, Eraclito girava per casa indossando metà del suo guardaroba e lavandosi i denti con le dita. Il tubetto del dentifricio era esploso a causa del freddo. Il vecchio sembrava il campionario d’una fiera dei tessuti o il diario vivente di un blasfemo. Non aveva avuto la forza di recarsi alle poste per pagare le bollette del gas, così addio fornitura. -Se nel medioevo non si facevano scrupoli, non capisco perché dovrei farmene io-. Il luogo più caldo della casa, un caminetto acceso, misurava sette gradi sotto lo zero. Eraclito salì sopra uno sgabello, legò una corda al lampadario del soggiorno, s’accertò d’aver annodato saldamente l’asola, e vi infilò la testa dentro. Fece un passo verso il vuoto di trenta centimetri, l’altezza dello sgabello, e sentì la corda stringersi al collo con un violento strattone. Attese per sette giorni. Nell’ottavo giorno un postino entrò dalla finestra. -Oh no, noo!!- gridò l’uomo costernato. Poi, sentendo che l’uomo stava lì lì per svegliarsi tirò un sospiro di sollievo. -Dovrebbe firmarmi questa- disse tendendogli un cartoncino. Eraclito firmò la raccomandata, una multa presa in autobus, e si riaddormentò.
La goccia cadde da un cielo piovoso d’inizio inverno, entrando dalle tegole bisognose di riparazioni per scivolare poi nel vaso da notte di Eraclito. E il vaso traboccò, di liquami puzzolenti. Eraclito fu svegliato da un gorgoglio orribile, e subito costretto ad ingaggiare un combattimento ravvicinato con i suoi stessi escrementi che, grazie alla temperatura glaciale della casa, s’erano solidificati in forma antropomorfa. -Forse dovrei cambiare alloggio-, sospettava tra uno schizzo di diarrea schivato e un flutto di orina parato. -All’occorrenza un posto più piccolo, uno di quei ultramoderni miniappartamenti con le lampadine che si accendono e i rubinetti in ferro battuto-. Venne l’alba e il mostro si rifugiò in qualche fessura sul pavimento del solario. Non passò molto prima che Eraclito decidesse di scrivere “In Vendita” sopra un cartello di truciolato. Lo piantò nel giardino col martello e sedette sopra una sedia a dondolo a destra della porta d’ingresso. -Aspetterò qui fino a quando arriveranno-. Il citofono suonò una dozzina di secondi dopo. Lesto, Eraclito si rifugiò al sicuro. In lontananza, nascosto dalle tendine dell’ingresso, già poteva scorgere due sagome. -Dove sono i cani?-, si chiese battendo i piedi per terra, -perché non escono ad azzannarli?-. La sveglia dei cani coincideva con il suono dell’apriscatole, la possibilità d’altre sveglie, come, per esempio, il suono dei rivoltosi durante la presa della Bastiglia non veniva minimamente considerata.
Il campanello si fece insistente. I due giovani guardavano l’inferno tropicale appena dietro le inferriata del cancello, metri e metri d’arbusti intrecciati a oscurare il sole.
-Uiih che bello, potremmo farci una piscina qui, e lì un gazebo per prendere l’assenzio-. Eraclito guardò la sua vecchia casa pensando a come fosse cambiata negli anni. Di sicuro un colpo di straccio con acqua e disinfestante gli avrebbe ridato il passato splendore, eppure chi mai si sarebbe preso quella responsabilità senza avanzare incalcolabili pretese?
I due acquirenti portavano i jeans dalla vita in su e il maglione dalla vita in giù, era la moda e niente più.
-Pazzi sciroccati-, asserì Eraclito mentre questi invadevano il suo spazio vitale.
-Come?- fece la ragazza.
-Siete i benvenuti- si corresse Eraclito con un sorriso stentato, -prego accomodatevi in soggiorno, vi preparo una tisana-. -Dove ho messo il veleno per topi?- si chiese sbattocchiando tra i ripiani del mobiletto in cucina.
Intanto sentiva il vocio dalla stanza accanto,
-Abbattere, rimodernare, open space, quando scopiamo, carta da parati tipo mitologia greca o tucani azzurri, vecchio pazzo e odore di merda- fu tutto quello che riuscì a sentire. Portando due tazze d’acqua piovana, Eraclito fece il suo ingresso già con un prezzo in mente. Allora sarebbe stato Acapulco, whisky doppi ed allegria. I giovinotti tenevano ben alti i loro nasi da membri della razza ariana, scuotendo la testa di tanto in tanto come biondi metronomi.
-Per i costi di ristrutturazione ci vorrà una fortuna- disse il maschio, -e poi cos’è quell’affare nell’interstizio? Un nido di pipistrelli? E i cani? Bisognerà mandarli in un canile. E il giardino? Ci toccherà chiamare l’esercito-.
Iniziò la trattativa. Il prezzo di base stabilito dal vecchio era -denaro, molto denaro-. Il giovane scribacchiò veloce sopra un foglietto. -Stak!- fece il foglietto, il suono del ring, l’incontro era già volto al termine. Eraclito stava a terra per k.o. tecnico. I due lo scavalcarono e guadagnarono verso l’uscita.
-Avidi schifosi-, borbottò tra sé.
-Come ha detto?- la ragazza allungò il collo di gallina.
-Giovini deliziosi-, tossicchiò il vecchio. -Avete l’aspetto dei tempi futuri. Un giorno ero anch’io..-.
I giovani erano già schizzati via a bordo del loro sidecar color vinaccia. Il sole componeva strani giochi di luce tra i loro bellissimi capelli al vento: -Speriamo di non diventare mai come quel reduce dei tempi remoti- esclamarono.
Venne fissata una data per la cessione e tutto il resto, i giovani tornarono la settimana dopo, vennero firmate le carte, gli assegni. Eraclito doveva lasciare la casa entro 48 ore. Successe tutto così in fretta che non s’era potuto nemmeno preoccupare di trovarsi una nuova dimora.

5. Nel vecchio la percezione del tempo, fino ad allora costipata, veniva finalmente espletata come un missile al fulmicotone. Una lampadina s’accese, flebile. -I giovinastri non sanno della mia libreria sotterranea, potrei..-, sì Eraclito, potresti, solo coi tuoi libri, solo tra centinaia d’anni di sapere, la morte perfetta, la tua morte privata. Eraclito avrebbe licenziato il balestriere a difesa della libreria, avrebbe cacciato il gargoyle. A poche ore dall’arrivo dei nuovi inquilini Eraclito avrebbe fatto dispensa per un anno, pane di semola, acciughe in agrodolce e cognac, una dieta completa. Sarebbe sceso nel sottosuolo a circa 2.000.000 di km dal nucleo ardente del mondo. Nel kit di sopravvivenza, il suo parrucchino, la televisione e un fascio di legna da ardere. Ovviamente si sarebbe rifugiato con Cartapesta, Ammorbo, Lazo, Sottana, e sì, pure con quel lurido bastardo di Ieratico.
-Nemmeno le S.S. mi troverebbero quaggiù- avrebbe sghignazzato sfregandosi le mani. Ma quella lampadina che s’era accesa per un attimo veniva alimentata dal fuoco della fantasia. Finché la documentazione restava celata agli occhi degli addetti mortiferi Eraclito sarebbe campato in eterno. La vecchia dimora dei DeMeritis avrebbe presto assunto l’aspetto di un pretenzioso night club per astronauti.

6. Eraclito s’era visto costretto a trasferirsi nel quartiere artistoide di SolfurCity dove gli affitti erano ancora bassi. Spartiva un seminterrato di quindici metri quadrati con un collettivo di pittori veristi che avevano il vizio di mettere le anfetamine nel soffritto.
-Molto vero- dicevano al vecchio, mentre ne dipingevano le impudicizie. I pittori adoravano il vecchio, un’adorazione dettata non certo dalla simpatia e dalle qualità intrinseche al vecchio, ma dal fatto che presto, grazie a quei nudi straripanti, sarebbero diventati tutti ricchi sfondati, aspetto che avrebbe permesso loro di dedicarsi esclusivamente alle anfetamine. Eraclito si sentiva felice. Non gli importava il motivo per cui era al centro dell’attenzione di quel trio di squinternati, gli bastava esserlo e basta. Vivere tra la gioventù aveva instillato in lui il tassello mancante, la voglia di divertimenti e di fichi fichi e di inutilità mascherata da storia occhei supergiusta. Ma ahimè e ahituttiquanti, Urguls Rara Domingos, impiegato all’ufficio morti naturali nel caldo nucleo terrestre, era stato licenziato e spedito a dirigere il traffico d’anime, piano terra. Gli origami, una volta smontate le complesse architetture, avevano rivelato la loro reale natura davanti allo sguardo allibito del capoufficio. -Mr. Eraclito De Meritis (che razza di nome è?), esemplare maschio n°3499848839990040499078828… qui all’ufficio morti naturali ci sbagliamo una volta ogni mille anni. Tu sei stato l’ultimo-. E furono anche le ultime parole pronunciate dal capoufficio morti naturali prima del mandato esecutivo.
Eraclito uscendo dal seminterrato per annusare le margherite, accarezzare i capelli dei bimbi, sorseggiare un bicchiere di latte caldo al tramonto e pulirsi le orecchie con dei bastoncini cotonati al supermercato, per poi riporli nella confezione senza acquistarli, fu investito da un piccolo camioncino della nettezza urbana. -Ma come?- aveva detto, mentre l’ambulanza lo portava via,
-Stia fermo- un paramedico gli teneva la mano sulla fronte, -ogni movimento inconsulto potrebbe risultarle fatale-, Eraclito scoppiò a ridere, -Ma io non posso morire caro signore. Non posso proprio-. Ma non s’accorse il povero vecchio, che un sottile filo di sangue stava scendendo dalla sua bocca, come un verme che dopo essersi saziato del tutto, avesse deciso d’uscire, portandosi appresso la vita. Eraclito si portò le dita alla bocca e guardò il rosso di quel sangue, incredulo. E fu il buio o la luce, non lo so.
Ancora un giorno e sarebbe entrato nei primati come l’uomo più vecchio del mondo. Maria Gioveffa Sontuoza, la donna più vecchia del mondo, ebbe una strana sensazione quel meriggio. Girò la manovella d’un antiquato grammofono e, per quanto le gambe glielo potevano permettere, ballò un gioioso ballo di San Vito.

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Il sosia


Il giorno successivo mi fermai al solito posto. Con una differenza. Anziché proseguire nel mio cammino decisi di attendere l’arrivo del sosia. O meglio. L’arrivo della persona che secondo me aveva deciso di recitare la parte del mio sosia. Vedere con i miei occhi era l’unico modo che avevo di accorgermi se quello che diceva la gente era vero. Non ci crederete. Non ci ho creduto nemmeno io. Se qualcuno venisse a dirmi oggi “ciò che hai visto era verità” allora sarei il primo a non credere a me stesso. Così è stato. Il sosia entra dalla parte sinistra dell’inquadratura passando davanti all’edicolante dove mi rifornisco ogni settimana. Il sosia saluta l’edicolante che ricambia il saluto in modo affettuoso, come mai aveva fatto con me. Il sosia prosegue nel suo cammino, penso, forse si sta dirigendo verso la mia auto. Invece no. Il sosia attraversa la strada per entrare nella ricevitoria dove tre volte alla settimana vado a giocare la mia schedina del superenalotto, senza vincere nulla. Il sosia esce fuori con un sorriso sornione stampato sul viso, come se avesse in tasca un’ipoteca sulla vittoria. Incredibile a dirsi. Non riesco a capacitarmi di quello che vedono i miei occhi. Continuo a non credere. L’unico sistema filosofico che potrebbe venirmi in soccorso in questo momento è quello si Berkeley, ma sì, quello che coniò il motto esse est percipi, che tanto odiavo – perché non lo comprendevo – al liceo, e che adesso mi si manifesta in tutto il suo nitore. Il sosia esiste. Da quel momento non decido nemmeno più di seguirlo. Se c’è un sosia che mi assomiglia e che viene scambiato per me quando giunge in determinati luoghi, tanto vale incrociare le dita e sperare che il mio sosia si comporti bene. Da quel giorno ho preso a considerare il mio sosia come un padre può considerare un figlio disgraziato, “va bene, è nato, speriamo che non vada in giro per il mondo a far troppo danno”. Il sosia da quel giorno diviene la scusa della mia negligenza galoppante. Quando il telefono mi squilla e non mi va di rispondere chiamo in causa il Sosia, mi dico, “forse è di lui che cercano”. Certe volte mi arrivano dei messaggi in una delle mie caselle postale dove alcuni collaboratori stretti o addirittura semplici conoscenti, cercano notizie, all’inizio credo che siano interessati a me, soltanto ad una lettura attenta mi accorgo che non posso rispondere alle loro richieste perché mi mancano i frammenti di raccordo tra i discorsi che mi accennano. Come se un Sosia si sia messo tra me e loro incontrandosi in modo del tutto autonomo. Il sosia è quieto. Non mi perseguita. Si limita ad esserci. Il telefonino vibra sul tavolo. Il brusio è inconfondibile. “Numero privato”, deve essere lui. Finalmente è giunta l’ora della resa dei conti. È vero “possiamo incontrarci?”, “chi è lei, che cosa vuole?”, “ma come, ti sembra questo il modo di rispondermi? Non aspettavi anche tu questo momento?”.

[continua]

Al mare con la vittima


Fedor Mihajlovic Dostoevskij al marePubblico qui il racconto uscito ieri, Domenica 8 Luglio sul “Corriere del Mezzogiorno”, per l’iniziativa “I racconti dell’estate”.
Nel racconto proseguo (a modo mio) l’incipit – in rosso nel testo – di “Delitto e castigo” di Fëdor Mihajlovič Dostoevskij. Siete tutti invitati a leggere gli altri racconti di tutti gli scrittori che nel corso dell’estate si passeranno il testimone di questa bella iniziativa.

Al principio di luglio, con tempo caldissimo, verso sera, un giovane scese dalla sua stanzuccia, che aveva in subaffitto nel vicolo di S., sulla strada e lentamente, come irresoluto, si diresse verso il ponte di K.
Egli scansò felicemente l’incontro con la sua padrona per la scala. La sua stanzuccia riusciva proprio sotto il tetto di un alto casamento a cinque piani e somigliava ad un armadio più che a un’abitazione. La sua padrona di casa, invece, dalla quale aveva in affitto questa cameretta con desinare e servizio compreso, abitava una scala più in basso, in un quartierino a sé; ogni volta che egli usciva sulla via, gli toccava inevitabilmente passar davanti alla cucina della padrona, la cui porta era quasi sempre spalancata sulla scala.

Quando pensò di aver scampato l’incontro con la vecchina, che di sicuro gli avrebbe ricordato il prossimo scadere dell’affitto mensile, sentì un sibilo che lo richiamava alle spalle “pssh, psssh, ehi, dico a te”, si trattava di Anastasia, la nipote della donna, una ragazzina di diciotto anni, studentessa modello che aveva appena sostenuto l’orale dell’esame di maturità classica, “ma com’è che in luglio in città rimangono soltanto gli studenti che devono sostenere gli esami orali? E tutti gli altri…che fine fanno?”, si voltò verso Asia – questo il suo diminutivo – e con un cenno del mento le chiese che cosa volesse “se ti do questi cinque euro mi vai a comprare le sigarette? Se vuoi puoi tenerti il resto”.
Accettare l’elemosina da una ragazzina avrebbe significato toccare il fondo, si disse tra i denti, rifece i gradini per raggiungere la mano tesa di Asia, facendo attenzione a non sbucare dalla porta con la testa e senza fare rumore, ad eccezione di un rapido “va bene”, afferrò i cinque euro e corse giù per le scale. La vecchia non si accorse di nulla.
Quando provò ad aprire il grosso portone di legno fece più forza del dovuto, girò la maniglia verso il basso mentre questa risaliva su da sola, a scatti, per un attimo credette che la vecchina, dal piano di sopra, stesse muovendo la maniglia in giù e su con le sue doti telecinetiche, così, per costringerlo a rimanere in casa, invece no, dall’altro lato del portone c’era qualcuno, si trattava di un medico che cercava con la stessa ostinazione di fare il contrario, cioè entrare nel condominio, pensò che era medico perché quando lo vide notò il suo paio di occhialetti piccoli piccoli. “Potrebbe dirmi dove abita la vecchia …”, e pronunciò il cognome della padrona di casa sillabando, “prenda quella scala e salga fino in cima, non si può sbagliare, ma lei chi è, sarà mica venuto per l’appartamento dell’ultimo piano…”, “no, sono venuto per la nonna della signorina Asia, sono qui per somministrarle la sua ultima ricetta, ahi noi”, “ahi noi…cosa?!?! Non capisco”, “mi scusi, forse non era al corrente, ma lei per caso non è Raskolnikov, il ragazzo di Asia?”, macché…magari. Non era mai riuscito a stabilire un contatto con quella ragazzina, i suoi trent’anni lo proiettavano fuori da una fetta di mondo a lui incomprensibile, motociclette, fumetti, sigarette fumate di nascosto dalla nonna, droghe leggere, 3msc, discoteche, mms, riduzioni per discoteche, sms, aperitivi, cose per cui avrebbe tanto voluto trovare il tempo e il modo, se solo non fosse stato uno studente fuori corso da oramai troppo tempo; i soldi che gli passavano i genitori, la stessa quota ogni mese, erano appena sufficienti per pagarsi un armadio a forma di stanza. Povera vecchia, chissà cosa aveva, stava male e non dava ad intendere nulla del suo stato, d’altronde chi si sarebbe mai potuto preoccupare di lei oltre ad Asia?
E pensare che un giorno gli era quasi venuto il desiderio di farla finita e ucciderla, se soltanto ne avesse avuto il coraggio quel giorno sarebbe stato capace di farla a pezzi con una scure per poi segarla in mille frammenti e infine mettere i lacerti di vecchia in un sacco e gettarlo dal ponte di K. fin giù. Il fatto è che lui non aveva motivi per odiare la vecchina, nessun motivo ad eccezione dell’affitto in nero che in barba a tutti gli indici Istat del paese cresceva di venti euro ogni sei mesi, di lì a qualche anno sarebbe di certo raddoppiato. Invece niente, il tempo aveva deciso per lui in anticipo, alla vecchina restavano pochi mesi di vita e sua nipote sapeva tutto, e se ci fosse di mezzo un’eredità?
Mise il piede fuori dal portone, doveva fare in fretta, la biblioteca chiudeva alle sette e mezza e si erano fatte già le sette, “tra poco più di un’ora incomincia la partita”, tirò fuori il suo paio di occhiali da sole con le lenti marrone scuro, li indossò anche se non ce ne sarebbe stato bisogno, gli capitò di vedere il sole riflesso sulla vetrina di un negozio, un disco giallo & pigro, avvolto dall’afa, si diresse verso la biblioteca in cerca di un romanzo da prendere a prestito per riuscire a trascorrere il suo, di tempo. Il suo pensiero era rivolto al numero di probabilità rimaste alla nazionale per una possibile qualificazione ai Campionati Europei del 2008. D’improvviso gli venne in mente un’idea geniale, “cos’è che ti piacerebbe regalare ad una persona se sapessi in anticipo che non la rivedrai mai più? Felicità! Momenti felici e indimenticabili!” Decise che avrebbe convinto la vecchina a vedere con lui la partita Italia-Ucraina, magari davanti ad una pizza margherita e una doppia bionda media, ma sì, tutti e due sul tavolaccio del cucinino (la compresenza di Asia non gli sarebbe affatto dispiaciuta), con la finestra spalancata e il ventilatore acceso, più di così non poteva fare, era il massimo di gioia condivisibile che gli veniva in mente di donare, accelerò il passo fino alla biblioteca comunale, entrò nell’atrio, si fermò per cinque secondi a godere la frescura di quel luogo, salì al primo piano, appena davanti davanti al bibliotecario disse “stavo cercando un libro, la Trilogia di Samuel Beckett”. Sono mesi che cercava di trovare quel libro, scomparso dalle librerie e dai cataloghi delle case editrici.
Dopo cinque minuti uscì con la sua copia in prestito della Trilogia. Entrò in una ricevitoria, comprò le sigarette di Asia e tre gratta&vinci da un euro, “ritenta sarai più fortunato”, “ritenta sarai più fortunato”, “hai vinto 20€”. Fece ritorno a casa. Toc Toc. “Cosa vuole? È successo qualcosa? Se è per l’affitto non deve preoccuparsi…c’è ancora tempo”, sentì un brusio, era lo stesso rumore che faceva il silkepil di sua sorella, immaginò Asia in piedi con un tallone sul bidet mentre ‘finiva’ un polpaccio, “No, nulla, mi chiedevo soltanto se, si insomma, questa sera c’è l’Italia che gioca contro i russi, le andrebbe di vedere con me la partita?”, “siiiiiiiii, nonna devi dire di siii”, era Asia che concedeva il permesso e si invitava da sola, sfacciatamente.

spiaggia.jpg Ed eccoli lì tutti e tre, seduti davanti ad un televisore a tubo catodico da sedici pollici per vedere una partita della nazionale, fuori c’è un caldo infernale, il ventilatore ruota con la sua perfezione approssimativa facendo ondeggiare la copertina appoggiata sulla sedia a sdraio della vecchina. Chissà se si ricorderà di questa serata. Lui si. Fatto è che il giorno dopo lo studente invaghito, Asia e sua nonna, erano tutti e tre sulla spiaggia di Torre Perlina, con l’ombrellone spalancato, a prendere il sole; lui alternava un tuffo nell’acqua tiepida alla lettura della Trilogia di Beckett, mentre il vento scompigliava i capelli di Asia, quelli che uscivano dal cappello di paglia; “se qualcuno nell’inverno scorso, mentre preparavo il mio penultimo esame, mi avesse detto che in luglio sarei stato steso sulla spiaggia al tuo fianco, Asia, mentre tua nonna, ovvero la mia padrona di casa, termina un cruciverba seduta su una sedia pieghevole, ebbene, non ci avrei creduto, ma tant’è, soltanto gli stupidi possono credere che l’inizio di una storia contenga in maniera irrevocabile la sua fine”, “ma stai zitto stupido”.

Spermatozone. 3


126_p4.jpgCosa sono i ricordi. I ricordi sono ciò che resta di noi, dentro noi, quando ancora ci siamo. I ricordi sono ciò che riusciamo a trattenere sempre, almeno così crediamo. Poi ti succede che cerchi, ti sforzi di ricordare un nome, ma come si chiamava quella lì, giusto perché magari sei in giro con la macchina, hai appena parcheggiato, vedi un volto conosciuto, magari una giovane impiegata che ti sembra di averla vista un’altra volta, in un altro tempo, in una vita così distante da non crederci, da non riuscire ad immaginare come possa essere successo che la tua vita fosse divisa in frammenti così minuscoli e distanti, come una nebulosa, come nei modelli di descrizione della rete e dei link che vanno tanto di moda nella blogosfera, dove si vedono micropuntini che sono collegati gli uni agli altri da fili sottilissimi e ognuno di quei micropuntini altri non è che un blog, una vita, una persona. Punte di spillo, capocchie di un eczema che comincia con una piccola macchia sulla pelle e si estende a ricoprire tutto quanto il corpo, ne esistono di due tipi, esogeni e endogeni; i ricordi sono eczemi endogeni procurati da cause esterne. E allora la giovane impiegata altri non è che una ragazza della quale ti eri invaghito una decina di anni prima, appena finita la scuola superiore, quando frequentavi i centri sociali e andavi a tutti i concerti, tutte le dance-hall, tutti i rave e gli happening che evenivano nella provincia. I ricordi. La cosa migliore sarebbe tenere un diario. Ma chi è che diceva così. Ti ricordi?

“Harakiri” da Musicaos.it, Anno 4 Numero 24


Stiamo finendo la raccolta e l’impaginazione dei materiali per il prossimo numero di Musicaos.it, in uscita nel mese di marzo (inviate i vostri materiali, interventi, racconti all’indirizzo musicaos[at]gmail.com), il numero 24 è stato scaricato 563 volte nel primo mese di pubblicazione, chi non lo avesse scaricato lo può trovare qui. Pubblico qui un estratto dall’ultimo numero, il mio racconto intitolato Harakiri.

Harakiri

piazzaleautobus_padova.jpg

Da Termini a Cornelia, oltrepassato il lago di Tiberiade. Uno spiazzo, un parcheggio, tre bianche Mercedes sterzate una di fianco all’altra disegnano uno spartiacque sghembo nel piazzale, dall’interno dell’auto più nuova viene una canzone smorzata, è Mile end dei Pulp. Davanti c’è il vuoto mentre dietro, appena a dieci metri, c’è il via vai di autobus che sciàmano nel parcheggio-stazione, sono le corse delle autolinee in arrivo dal Sud del paese, dalla Calabria, dalla Sicilia, dalla vicina Campania e dalla Puglia, scaricano migliaia di passeggeri ad ogni ora, arrivano qui prendendo meno di trenta euro a persona per un viaggio di sola andata, il sedere incollato contro il sedile, le ginocchia striminzite in pochi centimetri e una, al massimo due pause per scendere a pisciare approfittando della sosta in Autogrill, prendere un caffè che odora di polistirolo, lasciare cinquanta centesimi nel cestino di un inserviente che ci indica dove possiamo fare la pipì, uscire. Chiunque direbbe che queste corse sono pericolose e scomode, perfino un ex guardia giurata di trentadue anni in pensione anticipata come te. Gli autobus in alcuni tratti vicino Candela sfiorano i centosessanta chilometri orari in discesa, sorpassano le auto anche con la nebbia, un pericolo che si potrebbe evitare se non fosse che prendere un treno e arrivare dal Sud dei Sud a Milano costa almeno il doppio, per arrivare in aereo a Roma o Milano bisogna spendere centoventi euri e presentarsi ad un aeroporto alle sei del mattino, il che equivale a non dormire nella notte precedente per riuscire a prendere un autobus che da Brindisi porta a Bari in un’ora e mezza, merda. Davanti ai musi delle Mercedes freschi di autolavaggio ci sono una decina di ragazzotti che attendono. Sei arrivato qui grazie ad una email – una soffiata digitale – un circolo privato di Roma ha allestito la realizzazione di un film in Ungheria, a quanto pare tra le attrici c’è anche … … … … …, si parte oggi stesso, sono mesi che ti arrampichi sugli specchi di una vita finta, in un mondo che non conosci, un mese fa hai ricevuto un invito simile, non ti sentivi pronto per l’espatrio. Osservi gli altri, siete qui per lo stesso motivo, guadagno facile in poco tempo, azzardo, rischio, carriera, non riesci a capire se sono i costumisti che impongono la moda a ragazzi che vengono presentati come oggetti prodotti in serie, manichini che fanno da interno e riempiono il contorno di vestiti, vuoto con il buco intorno, oppure se sono loro, ragazzi come questi che vedi, simulatori di un comportamento da accattoni in arrivo dalle periferie del sud italia, sigle spettrali, 167a,b,xn. Vengono qui per trasmettersi in modo incosciente un’idea di stile ante video, jeans a vita bassa, vestiti di lino bianco o gessati blu, maglioncini di cotone con il collo a V, senza canotta, scarpe di pelle dorata o argentata, braccialetti di argento, anelli di acciaio. Guardi l’orologio, sei arrivato con un ritardo di due minuti, l’atmosfera che cogli è quella di qualcosa che è appena incominciato senza di te, “cocco, vié ‘qqua, nummero..:”, un energumeno abbronzato di fresco ti consegna un 8 scritto malamente su un post-it, devi portarlo sul petto. Fai la conta da sinistra verso destra, ti metti al terzultimo posto. “Ma nooo, noooo, e mèttete lì…ma chi ce l’ha mannato questo?“. Avevi contato da sinistra verso destra ma a quanto pare dovevi partire da destra, la voce rotta che ti intima di spostarti veniva da dentro una delle macchine. Un tizio vestito di nero, con occhiali scuri, esce dall’auto, la suola della sua Hogan nera aderisce all’asfalto come il piede di Amstrong sulla superficie della Luna. L’aria è tersa, nessuna nuvola in cielo, ogni respiro che dai è un respiro d’aria fresca, quando sei partito credevi che avresti trovato una Roma nebbiosa, non è stato così, è un giorno di primavera capitato per sbaglio nel mese di gennaio. Con Michela hai inventato una scusa, approfittando di una sua visita al dermatologo hai detto che dovevi partire per controllare una fornitura di marmo per il mese di marzo, da quando ti hanno licenziato Michela ti ha costretto a lavorare nella cava di tufo del padre. “Tu non puoi”. Salti sul posto, hai aspettato fino a questo momento senza riuscire a tradire il nervosismo, tu DEVI riuscire ad ottenere ciò per cui sei venuto fin qui, ti sei rotto i coglioni di sentire l’alito di Michela addosso, devi farcela, e questo è l’unico modo che sei riuscito ad escogitare per riuscire nella tua impresa di sganciarti da lei una volta per tutte, soldi, tanti, suuuuuu—-bi—–to. Cos’è che dà il permesso a Michela di dominarti e considerarti sempre al di sotto di lei? Cosa permette a Michela di imporre la sua volontà in ogni situazione, asservendoti come un maggiordomo a tavola, come un autista quando siete in auto e come un facchino quando siete alla stazione? Il denaro, nient’altro che quello. Michela è una che risparmia sul brodo, non ne puoi più. Ci giri attorno da mesi e alla fine hai raggiunto una conclusione, l’unico posto da lavoratore indipendente che ti offri prima di finire tra due lastre di travertino è quello di attore porno. “Tu non puoi”. Resisti ancora, dura poco, su giù su su, scoppi. “Perché no, ma cazzo, ho inviato tutto in tempo, le foto, il video, proprio tutto, cazzo, non potete farmi questo, io spacco…spacco tutto!”, non perdi mai le staffe, chi ti è amico non esita a dirtelo come se ciò costituisse una saliente nota del tuo carattere di cretino “non ti ho mai visto perdere la calma“. “Ce dispiace bono, semo completi“, crollo del cielo sopra il capo, ti viene in mente il cartello rosso con la scritta bianca che viene appeso sulle impalcature del cantiere “Personale al Completo“. “Ma come cazzo è? Come cazzo può essere, non potete farmi questo, mi sono fatto seicento chilometri, ho fatto anche una cazzo di doccia nel cesso della stazione, non (attendi 1 secondo) potete (2secondi) non (1secondo) prendermi (5secondi)”. “Invece sì cocco, sei HIV+”. (10secondi durante i quali il pianeta terra termina la sua orbita attorno al sole, sulla superficie di Plutone la temperatura si alza di tre gradi dallo zero assoluto, la macchia rossa di Giove continua a turbinare senza modifiche di rilievo sulla grandezza minima del suo diametro) HIVPiù. Più. Più. Più. Più. Più. Più. Più. Latte Più. Più. Più. Pi…….ù. P……. Resti immobile in piedi mentre gli altri sei che sono stati scelti stanno lasciando i loro passaporti e le carte di identità ad un’aiutante in minigonna, forse una comparsa ungherese, la osservi bene, indossa un paio di Alviero Martini, vorresti-vomitare-il-mondo-ora, tutto qui ha il nero colore dell’inferno e dovunque è il freddo gelo (ti sfugge questa frase che nemmeno ricordi – dove l’hai letta?), domani la sminigonnata sarà infreddolita e avvolta da una pelliccia, se la toglierà, rivelando un corpo bianchissimo, le Mercedes per arrivare in Ungheria impiegheranno un giorno, il set è in un albergo di lusso, Budapest accoglierà i presenti, tutti tranne te, non si improvvisa nulla al mondo, “se proprio voi te posso dà due nummeri dove nu’tte chiedono er teste, dovevi sta attento“. I ragazzi salgono in macchina insieme all’aiutante, le Mercedes si riempiono, sgommano sul piazzale in direzione dell’uscita, lasciano striscie d’asfalto e puzza di copertoni, per un attimo è come se fossero scomparsi i man in black. Ti piacerebbe che fosse così, con te che non ricordi nulla di ciò che è successo, del motivo per il quale sei qui, di nascosto, senza che Michela sappia nulla. Questo è infatti il tuo dramma solitario. Palestra, è successo in palestra. C’era una ragazza bionda, Katia, che ogni venerdì restava per ultima alla Elektra Gym (che nome del cazzo) fino all’orario di chiusura, soltanto il venerdì, se volevi rovinarti la vita con le tue mani il timer della follia che chiamano cervello ce l’ha messa tutta, assistendoti nell’attesa del momento buono per saltarle addosso. Per tutta la durata degli esercizi non faceva altro che sbuffare e sorriderti, correva sul tapis roulant, ti guardava mentre ti rivestivi e sorrideva. Quando vi incontravate al bar del secondo piano ti parlava sempre del suo ragazzo, un campione di body building impegnato in Giappone per una gara, impegnato a Como per una dimostrazione, impegnato negli Stati Uniti d’America per girare lo spot di un bilanciere, finché un giorno Katia non si fa prestare le chiavi della palestra dalla sua amica e tu non resti solo con lei ad un minuto dalla chiusura “che tipo strano che sei, vieni qui da più di un anno e ancora non mi hai detto come ti chiami, ci troviamo spesso, no?“. Non avresti mai immaginato un approccio più diretto e asintoto al tuo desiderio. Preservativo: oggetto richiuso nel cassetto del comodino di fianco al letto, si utilizza nel momento del bisogno, si controlla la confezione per assicurarsi che ne siano rimasti, almeno due, uno alla fragola e uno alla menta. “Tu ce l’hai?“. “No, figurati“, ti risponde Katia con una mano che ti sfila i pantaloncini, “dovremmo chiedere di farli mettere nella macchinetta degli integratori, così, non si sa mai, a qualcuno un giorno potrebbero servire“. E’ stata la prima volta in cui hai penetrato una donna, dal 1992 a oggi, senza utilizzare un preservativo. Coito maledetto e scellerato. “Tu non puoi più, più più più più più più più più più più più più più”. “Tu non puoi“. Sono passate tre ore, il fresco pomeriggio ha lasciato il posto ad una serata gelida, sei ancora in piedi in mezzo al parcheggio, gli autobus arrivano, scaricano turisti che abbandonano il grande piazzale su taxi bianchi, multiple, maree, brave, punto. La gran parte dei passeggeri, a quest’ora, è composta di religiosi che vengono accolti da confraternite di suore e monaci, pronti per accompagnare gli adepti laici nelle sistemazioni di una notte, dove si ritempreranno in attesa di partire, alle sei del mattino successivo, per Lourdes o Santiago di Compostela. Dopo tre ore non sei ancora riuscito a muoverti di un passo. Quando le corse degli autobus in partenza e in arrivo hanno cominciato a diradarsi qualcosa ha ripreso a funzionare nella tua testa, forse il silenzio e la quiete della sera, per quanto sia tragica la situazione, ti aiutano a realizzare cosa è successo. Ogni mese ti sottoponevi ad un prelievo di sangue consegnando il risultato delle analisi alla sede di un’agenzia matrimoniale nella tua città, l’agenzia copre il recruiting di attori e attrici sexy, è l’agenzia che fa da garante per la qualità della merce, ovvero la perfetta integrità fisica e morale degli iscritti. L’occasione questa volta ti era arrivata troppo in fretta – inaspettata – così hai lasciato le tue consegne alla dottoressa del laboratorio Cinelli, si sarebbe occupata di recapitare le analisi del sangue all’agenzia che le avrebbe trasmesse via fax o via email mentre eri sul treno. Saresti arrivato a Roma e ti avrebbero accolto come un conquistatore barbaro, dal Sud del mondo portavi un verbo crudo, fatto di forza e prestanza, ti avrebbero preso all’istante. Che lingua avresti parlato in Ungheria? “La lingua che lecca una fica“. Invece no. Ti avvicini ad un taxi, “Roma-Termini“. Arrivi alla stazione, paghi la corsa. Convalidi il biglietto del treno a due ore dalla partenza. Ti siedi su una panca di pietra pensando a Katia, Michela, finirà tutto, non c’è più posto per niente, i tuoi pochi amici che ti abbandonano, i sorrisi di cortesia, gli incoraggiamenti dei medici, la costernazione dei parenti, il dispiacere per tua madre e tuo padre che non sanno nulla, i figli che non conoscerai perché non ne avrai, ti stupisci di non esserti ancora gettato tra le ruote di un Eurostar che si è fermato davanti a te, non ti ammazzeresti mai sotto alle ruote di un Eurostar, quei cazzo di pendolini sono fatti in un modo che nemmeno si vedono, le ruote, sbatteresti contro il suo muso smussato, ti ucciderai a casa, sempre che tu abbia le palle. Mancano dieci minuti alla partenza. Ti squilla il cellulare in tasca. Non rispondi. Non ti va di fare nulla. Il treno corre nella spina dorsale del paese e attraversa le gallerie, senza ombra di certezza il tuo immediato futuro, cosa farai? Il cellulare continua a vibrare. Si tratta di Michela, forse, vorrà sapere quando torno, dovrò darle delle spiegazioni, non sono in grado. Arrivi a destinazione. Dieci chiamate senza risposta. Privato. Michela dal posto di lavoro? Privato. Katia da una cabina del telefono? Abbiamo continuato a frequentarci, ci piacciamo di nascosto. Privato. Privato. Privato. Privato. Privato. Privato. Privato. Privato. Un Messaggio da Leggere. SIAMO DAVVERO SPIACENTI x QUANTO ACCADUTO LUNEDì POTRà RITIRARE L’ESITO CORRETTO DELLE SUE ANALISI. HIV NEGATIVO. 60€. La prima cosa che ti viene in mente quando il treno oltrepassa la stazione di Surbo, l’ultima prima di Lecce, è il verso di una delle più belle poesie che hai letto nella tua vita “SI PREGA DI NON ATTRAVERSARE I BINARI”.

Luciano Pagano