ringrazio Gianfranco Recchia per avermi segnalato la presenza, sul suo sito, di un inedito del poeta Giuseppe Ungaretti, lo trovate qui, si tratta di “Una poesia inedita di Giuseppe Ungaretti, del 1916, dal fronte (Dolina dei Pidocchi). Inviata a questo sito da Maurizio Casalena.”
Archivio mensile:giugno 2006
no blog for oil
Tam-tam
Ogni giorno ricordo il mio tempo.
Sembra ieri la scomparsa del mio vecchio.
E poi riprendo la solita metro,
alle 8 precise dopo il bacio frettoloso.
Viene voglia di uscire con gli occhi,
la prossima fermata è uguale alla successiva
e il frastuono dei passi tormenta la superficie dell’asfalto.
Sotto gli odori ti riconducono all’origine
e il chiuso non è poi così male.
Quella telecamera continua a fissarmi,
mi rimprovera perché vivo, Vivo?,
il tam-luci tam-rumori abbatte le voci ,
fuoriescono esili dalle ante scrostate,
luride dagli sputi dello scempio,
spoglie dal soffio che fugge.
Così ricordo il mio tempo.
Marco Saya è nato a Buenos Aires il 3 aprile 1953 dove ha trascorso i suoi primi tre anni per poi trasferirsi a Rio de Janeiro per circa 7 anni. Dal 63′ risiede a Milano. a questo indirizzo il suo blog Fuori dal coro
[photo by Kockas]
Vale tanto oro (in) quanto p(o)es(i)a
Questa sera sarò al FondoVerri, a Lecce per presentare il libro e discutere di poesia a partire dall’ultima raccolta di Enzo Mansueto, Ultracorpi [edizioni d’if].
Who is Enzo Mansueto? Enzo oltre ad essere un valentissimo giornalista è anche bravo poeta e profondo conoscitore della musica e della poesia contemporanee. Chi ancora non lo conosce può leggerlo periodicamente e sul Corriere della sera – Corriere del Mezzogiorno, oltre che sul suo blog personale. La prima volta che ho letto di Enzo Mansueto è stato su Poesia ’95, si trattava della recensione del suo primo libro di versi [Descrizione di una battaglia, Scheiwiller ed.]. Sono passati undici anni. Enzo è anche stato maestro di cerimonie al Poetry Slam dell’anno scorso, tenutosi a Campi Salentina in occasione della Fiera del Libro del 2004, concorso al quale sono arrivato settimo o ottavo o non ricordo. Last but not least Enzo Mansueto è la prima persona non-redattore non-collaboratore di Musicaos.it ad aver utilizzato in pubblico l’aggettivo musicaotico (“In Salento alcuni “ragazzi” si stanno dando un gran da fare. Non solo pizzica, non solo lu regghe, ma nuove estreme musicaotiche escursioni letterarie.”), insomma poeti, fatevi avanti!
Giovedì 29 giugno 2006, dalle ore 20.00
Enzo Mansueto presenta e legge da Ultracorpi [edizioni d’if]
Giocando sul topos abusato de l’invasione degli ultracorpi, Enzo Mansueto apparecchia un paesaggio poetico inquietante e rovinosamente allegorico. Il “programma”, che sia quello televisivo o un softtware o la parola stessa ritornellata, entra dentro di noi, sostituendoci a mano a mano. Il metro trito si piega infine allo spasmo galvanico delle nostre esistenze.
Scrive di Ultracorpi Antonio Prete: “…un equilibrio misuratissimo e sapiente di musica e ironia, di allucinata rappresentazione postumana. Corpo che mirabilmente diventa corpo poetico: anch’esso postlirico, inclusivo però di un gioco delle rime e di uso abilissimo dell’endecasillabo che disloca la poesia in un punto neutro (contemporaneo?) consapevole della sua storia e tradizione diventata detrito, citazione, maniera, fossile.
PaginaZero-Letterature di frontiera
È uscito il 9° numero della rivista “PaginaZero-Letterature di frontiera” – Quadrimestrale di letteratura, arte e cultura (www.rivistapaginazero.net).
Il numero ha come tematica quella della “migrazione delle culture”: scrittori, poeti e artisti si interrogano su questa problematica dal punto di vista sociale, civile e letterario. In allegato potete leggere l’editoriale di Mauro Daltin che apre il numero e introduce la tematica.
Se vuoi sapere chi sono se vuoi che ti insegni ciò che so
cessa momentaneamente di essere ciò che sei e dimentica ciò che sai
Bakar Salif (Mali)
L’Editoriale di Mauro Daltin introduce la tematica del numero, la migrazione delle culture, con l’analisi del fenomeno delle letterature prodotte dagli scrittori migranti. Nella sezione Saggi Persida Lazarevic´ Di Giacomo ci parla del connubio tra l’arte tipografica veneziana e la letteratura serba tra la fine del ’700 e l’inizio dell’800; mentre Marinko Lazzarich compie un’analisi dell’influenza dei rapporti italo-croati nella letteratura italiana. Nella rubrica Storie Paolo Fichera e Mauro Daltin riportano le loro impressioni nate durante il soggiorno a Sarajevo nei giorni del Festival internazionale di poesia 2004. Federico Federici nelle pagine di Poesia presenta la poetessa russa Nika Georgievna Turbina, talento precoce e prematuramente scomparso, con la pubblicazione di molti testi in un’inedita traduzione, oltre a un’ampia scheda bio-bibliografica della poetessa bambina. Paolo Galvagni, che cura il Forum, ci parla di poesia russofona in Uzbekistan con la presentazione della scuola di Fergana in un interessante dialogo con gli autori Šamsad Abdullaev e Chamdam Zakirov oltre alla pubblicazione di molti loro testi inediti in Italia. Infine la rubrica Letture è dedicata alle recensioni di Massimo Orgiazzi, Katia Paoletti, Vincenzo Della Mea, Luciano Pagano.
Editoriale
“La migrazione delle culture” di Mauro Daltin
Saggi
“La letteratura serba in “esilio” a Venezia fra la fine del ‘700 e l’inizio dell’800″ di Persida Lazarevic Di Giacomo
“La frontiera letteraria: rapporti al di qua e al di là del confine” di Marinko Lazzarich
Storie
“Goodbye Sarajevo” di Paolo Fichera e Mauro Daltin
Poesia
“Poesia senza eroe? Nika Georgievna Turbina” di Federico Federici – Francesco Marotta (da: Hairesis, 2005/06;XV) – Simone Giorgino (poesie tratte dalla raccolta Venenum)
Forum
“Šamsam Abdullaev e Chamdam Zakirov: poesia russofona in Uzbekistan” a cura di Paolo Galvagni con testi inediti dei due poeti
“Dialogo fra Paolo Galvagni e Šamsam Abdullaev”
“Dialogo fra Paolo Galvagni e Chamdam Zakirov”
Letture. Libri e autori
Recensioni di Massimo Orgiazzi, Katia Paoletti, Vincenzo Della Mea, Luciano Pagano
Un saluto e buona lettura,
Ilaria Prati (direttore responsabile); Mauro Daltin (direttore); Paolo Fichera (co-direttore); Maurizio Mattiuzza – Paolo Patui – Angelo Floramo – Giorgia Kapatsoris – Pietro Spirito – Pedrag Matvejevic – Melita Richter – Barbara Ronca – Bozidar Stanisic (redazione).
“Canto Blues alla Deriva”, presto nelle librerie
L’idea di un poema collettivo, di per sé, è dissonante dalle idee cui ci abitua la collaborazione in rete, già è difficile scrivere un articolo, elaborare un progetto comune, difficile o semplice che sia, figuriamoci un poema. Partire con un presupposto del genere potrebbe significare essere destinati ad un rapido arenamento, il rischio è di finire in una secca facile, credere di possedere l’equipaggio adatto e accorgersi di non disporre di un’imbarcazione adeguata ad affrontare tempeste e tempi avversi. Poi ci capita di scoprire, in certi documentari notturni, che egizi e fenici solcavano l’Oceano Atlantico su imbarcazioni mosse dal vento, costruite con giunchi, canne, fibre, papiri. Immaginare che lo stesso materiale con il quale è stata resa più facile la prima diffusione della scrittura individuale sia anche il materiale che facilitava la navigazione rende una delle idee centrali e implicite nel “Canto Blues alla Deriva”: partire da un’idea semplice, leggera, per costruire qualcosa di composito. Andare alla deriva, come nel discorrere lento di chi parla, ma come fanno i marinai a passare le giornate, e la razza di quelli che restano a terra, quelli che tessono reti? Il “Canto Blues alla Deriva” è stata una jam session di poesia on-line che ha coinvolto dodoci scrittori, da marzo all’ottobre del 2005, su Musicaos.it.
Il punto di partenza è stato il frammento di Francesco Sasso, lettore critico, attento, umorale di tutto il materiale che si è susseguito. L’idea di una jam session di poesia, dove una voce prosegue ciò che la voce precedente ha scritto, replica del procedimento dei cantastorie, dei cunti popolari, dove su un ritmo si improvvisano strofe differenti, un quadrumano gorilla digitale. Un ritmo in levare, quello del Canto Blues alla Deriva, che è riuscito a distendersi nel tempo che chiede la poesia, quello del silenzio e dell’attesa. Il Canto Blues alla Deriva si è sedimentato in quattro fasi, una iniziale, preparatoria, dove io e Francesco abbiamo discusso confrontandoci sul ‘come’, tecnico-pratico e poetico, sulla dinamica da scegliere, sull’accordatura degli strumenti, almeno di due degli autori coinvolti. Dopodiché si sono succedute due fasi (marzo-luglio, settembre-novembre 2005) di stesura e completamento. Dall’inizio della prima stesura del Canto Blues alla Deriva e per tutta la durata della scrittura, fino a settembre, è stata disponibile online la pagina per l’inserimento dei frammenti, che era libero e aperto a tutti, purché venisse rispettato l’impegno di leggere ciò che gli altri avevano scritto prima di proseguire. L’ultima sezione è stata scritta invitando gli autori a partecipare con il loro ‘ultimo’ frammento. La chiusura del “Canto Blues alla Deriva” è stata scritta da Irene Leo, giovane autrice esordiente. Buon ascolto.
dalla nota al testo di Luciano Pagano
Canto Blues alla Deriva
con una nota introduttiva di Vittorino Curci
a cura di Francesco Sasso e Luciano Pagano
ISBN 88-497-0391-0 – Prezzo: euro 5,00 – Pagine: 80 – Besa Editrice
presto in libreria
con testi di (Francesco Sasso, Luciano Pagano, Vito Antonio Conte, Irene Leo, Gioia Perrone, Matteo Chiarello, Stefano Donno, Rossano Astremo, Davide D’Elia, Angelo Ciciriello, Tiziano Serra, Paolo Simoncini)
su “Testamento di sangue” di Dario Bellezza
Su AbsolutePoetry.org (a questo link) è possibile trovare e scaricare un mio intervento, in formato PDF, dedicato a “Testamento di sangue“, poema drammatico/opera di teatro in versi, pubblicato da Dario Bellezza nel 1992. “Testamento di sangue” offre, nell’insolita forma del poema drammatico, una riflessione sofferta e ricca di pathos sul ruolo e sul destino della poesia.
nella foto Dario Bellezza legge il ‘suo’ Arthur Rimbaud.
“La gru”, crescita di una rivista.
Ho conosciuto Davide Nota qualche mese prima della pubblicazione del suo esordio poetico, "Battesimo", con Lietocolle. Tramite la sua conoscenza ho avuto modo di apprezzare "La gru", il sito e la rivista della quale lui, insieme ad altri validi redattori, si occupa. Attualmente oltre allo stesso Davide ci sono Daniele De Angelis, Riccardo Fabiani, Loris Ferri, Gianluca Pulsoni e Stefano Sanchini. Il fatto che qualche tempo fa Giulio Mozzi, abbia addirittura lanciato un'asta 'elettronica' di libri per pagare i costi di gestione di VibrisseBollettino, è indicativo di come oltre alla gratuita passione molte altre opere e giorni restino gratuiti – a tutti i livelli – dalla realtà di una fanzine al sito o rivista organizzati in redazione. Ne faccio esperienza quotidiana da due anni con Musicaos.it, i cui costi di gestione sono autosupportati al 98%, oltre il tempo, è naturale. La premessa è lunga e il messaggio finale sollecito, diamo una mano, chi può e chi vuole, alla redazione de "La gru" per fare crescere la loro rivista. Potete accorgervi della qualità del loro percorso da soli, leggendo gli interventi postati qui.
Io qui di seguito incollo la lettera che accompagna il loro ultimo numero.
Lettera allegata alla versione cartacea del n.3 de "La Gru", maggio 2006
Cari amici,
con questo numero si conclude il primo anno di lavoro de "La gru".
Abbiamo tentato di dare vita ad un foglio di poesia, consultabile in rete e distribuito gratuitamente per librerie ed università, in cui la ricerca artistica individuale mantenesse un legame con il materiale visivo, linguistico, storico e reale.
Partendo da un'esigenza espressiva frustrata dalle estetiche dominanti il panorama letterario italiano, abbiamo avanzato ipotesi e intuizioni dialoganti, proponendo sin dal primo numero di questo ciclo una poesia che sperimentasse il parlato senza inventariarlo con freddezza programmatica.
Nonostante gli scarsissimi fondi ricevuti dalle istituzioni locali, e nonostante l'isolamento geografico di una realtà come quella della città di Ascoli Piceno, questa esperienza ha coinvolto e raccolto a sé parecchi autori e studiosi, molti dei quali giovani nati tra gli anni '70 ed '80.
Ora siamo ad un punto di svolta: la trasformazione de "La gru" da foglio di intuizione e provocazione a vera e propria rivista di studio ed approfondimento.
La redazione si è allargata e continuerà a farlo. Dal prossimo numero cambierà il formato stesso della rivista.
Crediamo sia essenziale mantenere in vita questo luogo di diversità estetica e teorica, che possa dare voce a tutti quei nuovi autori che altrimenti rimarrebbero schiacciati tra una scuola e un'altra.
Noi non ci proponiamo di formare un gruppo letterario omogeneo ma di unire a sé i singoli poeti che sentono la necessità di superare definitivamente le griglie estetiche intimiste o anticomunicative, in nome di una sperimentazione espressiva che condivida con il mondo gli stessi materiali.
Per fare tutto questo abbiamo bisogno del vostro aiuto.
I fondi dalle istituzioni tardano, e temiamo non bastino per portare a termine il nostro progetto.
Vi chiediamo quindi un libero contributo effettuando una ricarica
sul conto Postepay n° 4023 6004 2511 4552 intestato a Daniele De Angelis.
Sperando in un vostro cordiale gesto di solidarietà,
vi ringraziamo per l'attenzione
I redattori de "La Gru"
Daniele De Angelis, Riccardo Fabiani, Loris Ferri, Davide Nota, Gianluca Pulsoni, Stefano Sanchini
su “Dies Irae” di Giuseppe Genna
Nel lancio di “Dies Irae” è contenuto un riferimento ad Underworld, romanzo al quale l’opera di Giuseppe Genna si ispira per un modo di osservare i fatti e la storia del nostro paese e, come doppio di uno stesso binario, l’evoluzione dell’attore principale della vicenda, in questo caso lo stesso Giuseppe Genna. Potremmo scrivere di quest’opera come di un romanzo che prende con tutto uno sguardo la nostra storia recente, per restituirci un giudizio amaro e cinico, in tempi oscuri come questi si tratterebbe quasi di una luce, anche flebile, di cui necessita il lettore che si sente di appartenere ad una comunità civile. La tensione iniziale di “Dies Irae” è tutta qui, in questo compito così alto che l’autore, Giuseppe Genna, assume alla scrittura dell’opera. Se ne accorge subito il lettore, che nell’incipit rinviene il cadavere doppiamente vilipeso di una Repubblica che giunge in diretta dai versi di un’altra coscienza poetica, quella di Mario Luzi, che scrisse nel 1977 con riferimento agli anni di piombo “muore ignominiosamente la repubblica/Ignominiosamente la spiano/i suoi molti bastardi nei suoi ultimi tormenti/[…] E l’udienza è tolta.”. Qui tuttavia non si parla degli anni di piombo, il colore che qui predomina non è né il rosso acceso né il cupo nero, bensì il grigio, il grigio di un’atmosfera greve, una cappa che preme sui diaframmi, il griogio nel quale i colori si mescolano senza nitidezza, la zona grigia dell’oblio dove l’intellettuale perde la facoltà di parola, smarrita da non avere nessun ascoltatore: “Lo scrittore, non l’intellettuale, poiché da anni non si accenna minimamente a questa figura vetusta e generalista che fu l’intellettuale”. Eppure è testimone, l’autore, proprio di una trasformazione sociale di questa figura, per parlare di certe cose e scrivere, appunto, bisogna essere scrittori, il che suona come un’ultima chance e concessione, mi vengono in mente stralci della trasmissione di Carlo Lucarelli sui misteri d’Italia, l’orazione civile e l’invettiva ci sono tutti, in questo modo di mettere in sequenza le cose, con la lucida e autoironica consapevolezza (ma solo verso il finale del romanzo) che tutto ciò che resta da narrare non sia fiction, ma faction, quel che le persone desiderano, la realtà non è reale se non viene filtrata da un obiettivo. Somigliante al Lunar Park di Bret Easton Ellis nei tratti in cui il cinismo e la crudezza fanno emergere il personaggio Giuseppe Genna, in un paragrafo dove alla velocità della luce enumera un pantheon di scrittori dello scetticismo contemporaneo (DeLillo, Lobo Antunes, Saramago) e proprio in una ‘scena’ girata in un bagno, con la cocaina sul lavabo che ha il sapore di una citazione. Il bagno in questione è a casa di Monica. Suo marito lavora all’ideazione di format televisivi. Il format terribile e rivoluzionario al quale sta lavorando in questo momento avrà conseguenze politiche, il materiale a disposizione farà tremare, il titolo della nuova trasmissione è “Dies Irae”, avviene qui uno slittamento dal quale un poco alla volta scopriamo che tutti i personaggi coinvolti nel romanzo sono strettamente legati da un filo, un urlo silenzioso proveniente da un pozzo profondo sessanta centimetri e largo trenta, come in Underworld il gruppo di artisti resta sconvolto dalla visione del video di Zapruder dove si assiste all’uccisione di JFK qui, in “Dies Irae” la morte del piccolo Alfredino diviene un avvenimento centrale che travalica il tempo e la storia, dei personaggi, di un paese, di un pianeta. Un esempio di letteratura in cerca di riflessi continui, specchi di rimandi, un’opera scritta della quale Genna poco prima ha ribadito l’”affidabilità” sulla lunga durata, rispetto all’opera filmica, che qui diviene pretesto e appoggio.
La vita e i ricordi personali dell’autore sono l’altro filo che seguiamo nell’evoluzione della vicenda. Le riflessioni sullo statuto della stessa scrittura sono molteplici. E’ interessante notare che dette riflessioni non vengono presentate come elucubrazioni stilistiche nelle quali viene studiato il rapporto tra autore e lettore (e c’è anche questo) oppure tra autore e mercato; le riflessioni di Giuseppe Genna sono radicali e originarie del rapporto tra scrittore e società. L’Italia, il paese che ha vissuto l’ignominia di questi ultimi 25 anni, merita una Storia, e se sì, essa viene scritta da ognuno di noi? C’è luce in tutto questo, può esserci scrittura a ridosso di questa catastrofe dove ognuno ha giocato la sua partita di comodo per fuggire in tempo da una nave che affondava? “Gli archivi sono corrotti”. Massimo e Giuseppe hanno qualcosa in comune, entrambi elaborano a modo loro la risoluzione di equazioni delicatissime conoscendo un dieci, massimo undici percento delle variabili in gioco, i format, il romanzo. “La scena evolve rapidamente, è una scena notturna, viene estratto dal cunicolo il corpo in stato cadaverico del bambino”. Giuseppe da bambino scriveva già, la prima cosa che scrisse era un dossier finto-scientifico, così come lo poteva raccogliere un bambino lavorando d’invenzione e copiando notizie da libri e sussidiari, il dossier descriveva il piano di colonizzazione di Marte da parte dell’uomo. Questo elemento diventerà un elemento narrativo, il dossier DIES IRAE, relativo allo sbarco su Marte e in seguito e numerose missioni di esplorazione intergalattica conterrà inquietanti collegamenti alla vicenda di Alfredino e alla vita personale di Giuseppe Genna. Paola, invece, attraverserà la Storia, dalla Berlino dell’89, la città dove mescolerà droga e sesso fino al suo limite di sopportazione, per poi finire ad Amsterdam, dove ripercorrerà esattamente lo stesso percorso, per poi liberarsi definitivamente ed essere pronta, a Milano e a distanza di anni, a liberare un’altra persona bisognosa di aiuto, una mente sovrumana e ossessiva chiusa in un corpo limitante. Fanno parte del paesaggio, in tutta la prima parte, gli anni ’80, in descrizioni e particolari che non hanno nulla di nostalgico. Non c’è innocenza nel “Dies Irae” di Giuseppe Genna, c’è redenzione, è il romanzo dove ogni nodo temporale si trasforma nel travaso di bile del corpo-romanzo, tragedia psichiatrica, tragedia del suicidio, tragedia del complotto politico, a tratti una eco delle narrazioni semivisionarie e realissime di Giampaolo Pansa (L’intrigo, Il regime), dove ogni politico era attore di una farsa con il suo nomignolo. C’è un’altra caratteristica, lovecraftiana, di aderenza del mito al particolare di alcuni personaggi, il bambino nel pozzo, il puer, il bambino cosmico che ricongiunge la storia del pianeta a distanza di milioni di anni incalcolabili. Il ritmo è sostenuto fino all’ultimo, finché non matura nel lettore la consapevolezza che il tutto sta per colmare in una fine dal risvolto incredibile, degna dell’anno del contatto. C’è redenzione in tutto questo. A me sembra di si.
per leggerne ancora Giuseppe Genna Centraal Station
Elio Coriano: poesia senza maestri.
“Umanità schierata dinnanzi a bocche di fuoco,
rullio di tamburi, fronti di oscuri guerrieri,
passi nella nebbia di sangue; nero ferro tintinna;
disperazione, notte in tristi cervelli:
qui l’ombra di Eva, caccia e rosso denaro.
Nuvole che una luce attraversa, la Cena.
Dimora in pane e vino un soave silenzio.
E quelli sono raccolti in numero di dodici.
Di notte gridano nel sonno sotto i rami di olivo;
San Tommaso immerge la mano nelle piaghe”
Georg Trakl, Umanità
Nietzsche sosteneva di diffidare degli autori di un solo libro. Questo criterio, se va bene per i lettori non sempre può essere applicato agli scrittori. Applicando questo metro alla poesia ci accorgiamo che più poeti, dopo aver compilato differenti raccolte, hanno cercato di compiere un passo ulteriore, dichiarando la propria opera come facente parte di un corpus, una summa, un opus magnum del quale le differenti raccolte formano singole porzioni. Affermazioni del genere possono essere rintracciate in poeti con Walt Whitman, Eugenio Montale, oppure Giuseppe Ungaretti.
La prima domanda che rivolgiamo ad Elio Coriano è proprio tesa a scoprire, nel connubio autore/opera, quale importanza ricopre nella sua vita la continuità della sua opera. “Come diceva Sartre ‘ogni giorno una pagina’, nella fissità quotidiana la mia è quella che amo definire ‘numerazione delle sabbie’, un tentativo, un esorcismo teso a fissare il contatto di ciò che sai di poter perdere”.
Le poesie di Elio Coriano sono riconoscibili a causa del loro titolo dalla forma costante, quasi algebrica, riassumibile nella formula alchemica HX (ad es. H6131, H39450 etc).
Siamo abituati a numeri elevati, continui, testimoni di una produzione sterminata e assidua. Chiediamo quindi a Elio di rintracciare per noi la genesi di questa forma seriale, qual è, dove si trova la genesi dei suoi ‘H’? “All’origine della mia scrittura c’erano normali poesie, ad un certo momento ho voluto sperimentare la forma degli haiku giapponesi, e in alcuni nonsense mascheravo me stesso e il mio essere autore senza nemmeno inserire i titoli ai miei componimenti, ottenendo così un haiku1, haiku2 e via dicendo. In seguito, con naturalezza, la forma dell’haiku è divenuta stretta, ho continuato a descrivere la quotidianità e gli haiku sono divenute poesie, versi liberi, conservando del titolo la ‘H’, che poi è la consonante muta. La numerazione si è resa necessaria per imporre una regola, l’unica possibile a questo punto, sulla produzione caotica di versi. Quest’ordine apparente, incarnato da questa forma di titolazione cui riesco a dare continuità, al di là del caos e del disordine di scrittore”.
Entriamo nel merito di uno dei motivi ricorrenti delle poesie di Elio Coriano, ovvero la natura, i suoi animali, i suoi respiri. Chiediamo quale rapporto lega, nell’autore, la poesia e la natura. ”Ho eliminato la punteggiatura, ho eliminato nei miei versi la rima, i classicismi, i miei versi sono liberi da tutto questo, in essi entra la natura con il suo fiato e respiro, esiste un ritmo inconscio, il ritmo del battito cardiaco, il ritmo che regola la circolazione sanguigna, questo è il ritmo dei miei versi”. Elio Coriano sostiene di provare un senso di vergogna e ribrezzo nei confronti del lessico ‘poetico’, il suo lessico è volutamente legato al quotidiano, le sue poesie sono costruzioni misurate che eccedono la normalità del linguaggio quotidiano pur attenendosi alle sue regole. E’ una questione cruciale di rispetto nei confronti della lingua e di empatia “per chi non ha potuto studiare, per chi avrebbe potuto studiare e non ne ha avuto le possibilità, io sono un ladro, e rubo le esperienze di chi altrimenti non avrebbe voce in capitolo, né all’interno della poesia, né all’esterno dei libri, nella vita”. Quella dell’autore è una riconoscenza nei confronti del linguaggio poetico, capace di destare l’emozione e la comprensione di chiunque sia in grado di provare (ancora) un’emozione. Attualmente Elio Coriano è giunto a H44280, un’opera la sua di immane intensità, cominciata quasi per gioco, divenuta un organismo simbiotico al proprio.
“A volte la verità nella sua semplicità non viene mai creduta, la verità è semplicissima”.
Elio Coriano preferisce essere paragonato ad un artigiano, un ‘fabbro della parola’ direbbe Rimbaud, piuttosto che un poeta. “Quando un falegname costruisce un mobile, se utilizza materiali scadenti, o solo apparentemente di qualità, prima o poi verrà il tempo in cui verrà smascherato dallo scorrere stesso del tempo, dall’usura inevitabile cui verranno sottoposti i materiali: lo stesso accade al poeta. Se il poeta fa uso di trucchi e falsità, malgrado le sue poesie possano ad un primo sguardo risultare accettabili, sarà il tempo a smentirle, a cancellarle. Il poeta, questo dovrebbe essere il suo obiettivo, deve creare poesie stabili, inattaccabili, costruzioni che resistono all’attacco del tempo, oneste”.
La poesia non può essere frutto della sola tecnica, chi si occupa di parole deve stare a contatto diretto con la realtà, non ci si può fare scudo con i libri, la poesia non è mai uno svago. La poesia è lucida e crudele, sempre. La poesia è anche salvezza, secondo l’autore “siamo carne tenera, quando ci confrontiamo, noi ed il nostro stile, con i più grandi, questi ci lasciano sempre le loro cicatrici; uno dei complimenti più belli che hanno fato ai miei versi è stato ‘nella tua poesia non ho visto maestri’..”.
Esistono dei canali sotterranei, una parte di noi è percorribile, c’è del sangue nascosto, il sangue sotterraneo, alieno alle sovrastrutture. Quando un poeta si occupa di queste cose si occupa dell’universale, poi vengono le differenze, l’Occidente, l’Oriente, vengono dopo, il sangue è sempre costituito dello stesso ‘materiale poetico’.
Elio Coriano è ottimo lettore dei propri versi, con molta attenzione dosa le parole e i gesti, facendo intendere che quanto non viene colto nel senso, può essere colto nel corpo, tutto concorre a stabilire un’immagine, facendo ampio uso di metafore per rendere sempre più comprensibile il proprio lavoro, una metafora cara al poeta è quella del nuotatore. Chi deve imparare a nuotare può andare da un istruttore, e allora i gesti si fanno meccanici e difficoltosi, si impara difficilmente qualcosa che l’uomo possiede nel suo dna. Oppure si può essere scagliati nell’acqua. Il cerchio si chiude, ritorniamo agli haiku e all’utilizzo sotteso di un pensiero zen. Il tutto è misurato e mai ostentato “trovare questi linguaggi essenziali, la mia non è una poesia così facile, come appare, potenzialmente tutti sono dotati di possibilità espressive, ognuno utilizza i propri strumenti, la mia poesia è un continuo risarcimento al mondo di mio padre, la mia poesia, quando è complessa, lo è perché la vita è complessa”.
Elio Coriano, cos’è per te il deserto? “Mi sono definito col fatto che scrivo quotidianamente, numeratore di sabbie, descrittore di realtà, se noi dovessimo numerare il deserto, non è terribile il deserto iconografico, risolvibile, questo deserto è controllabile: il vero deserto è la nostra incomunicabilità, abbiamo un desiderio immane di comunicare, ci danno l’illusione di poter comunicare, la comunicazione vera è assente, c’è un sottofondo di menzogna. Il deserto di sabbia è uno scherzo rispetto alla chiusura nei confronti degli altri, come se cercassi di proteggere qualcosa di nostro, il desiderio di arrivare, trovo più compagnia nel deserto che tra gli esseri umani. Ci sarà gente, non ci sarà gente, pensare alla fortuna di essere qui in totale tranquillità, con la possibilità di dialogare. Raggiungere all’estremo della sala gli occhi dell’altro. Durante le mie performance, il contatto con il corpo, il rapporto carnale, il buio, la candela passata da uno spettatore all’altro per cercare di creare l’unità. Più il potere ci circonda e più il potere desidera, il potere desidera potere, il potere ci vuole obbedienti, e i poeti non sono mai stati obbedienti, il potere ci spiega il ‘giusto’ perché di ogni cosa, di una guerra, della fame. A questo punto va sfruttata la lucidità, noi stiamo correndo rischi incredibili, c’è un disagio tremendo, adolescenti devastati da pubblicità, fragilità travestire di disobbedienza, quando osservo gli adulti questi si affannano nel cercare di complicare le cose semplici, sembriamo persone che inseguono un pifferaio magico, il potere è potere di potere, la gente, gli uomini, le persone, sono usciti fuori dalle loro agende, dallo scadenziario dei loro taccuini”.
Tutto ciò si riconnette, nel discorso, all’onestà intellettuale di chi decide per il mestiere di poeta “il problema è che non c’è niente di eroico in questo, non si tratta di prendere una bandiera, basterebbe saper districarci e capire cosa scelgono per noi e cosa ci viene inculcato, le parole sono puttane, vanno con tutti, bisogna capire chi le usa per svuotarti, derubarti. Non posso tollerare che chi usa la testa si rifugi nei libri, bisogna smascherare il disagio, quel che non funziona. Guai a immaginare il poeta come la fanciulla che va in casa dell’orco, il poeta è lucido, a volte anche quando non è consapevole. Non c’è un luogo sulla faccia della terra dove non ci sia un interesse, noi dovremmo scrollarci di dosso il torpore e la rassegnazione”.
Il cerchio si chiude nuovamente, il poeta è l’uomo, la sua opera, la sua vita che diviene verso e le sue poesie che incalzano nel verso della vita.
da leggere:
Elio Coriano – Le pianure del silenzio – Conte Editore (E800. European Literature a cura di Francesco Saverio Dodaro) – prezzo € 14.98 – ISBN 888714330-7
il testo è un’edizione particolarmente curata, al testo in italiano si affiancano traduzioni in quattro lingue, francese, inglese, tedesco e spagnolo.
Elio Coriano – Dolorosa impotenza il mestiere delle parole – Con una nota di Antonio Errico e i disegni di Maurizio Leo, I Quaderni del Bardo, in 300 copie numerate, dicembre 2004
Elio Coriano – Haiku.
H46001 (11 febbraio 2005), H984 (8 settembre 1996), H10291 (4 ottobre 1996, H10731 (7 novembre 1996), H13986, H14047, H14074, H14191 (agosto 1997), H14404, H14411 (settembre 1997), H27448, H27749, H27450, H27451 (24 febbraio 2000), H27515, H27516, H27517 (28 febbraio 2000), H30693, H30695 (15 novembre 2000), H33108 (7 aprile 2001), H34000, H34001, H34002, H34003, H34004, H34005, H34006 (26 maggio 2001), H34078, H34079, H34080 (30 maggio 2001), H36704, H36708 (29 settembre 2001), H36831, H36833, H36897, H36898, H36889 (9 ottobre 2001), H36900 (10 ottobre 2001), H36930 (12 ottobre 2001), H37030 (20 ottobre 2001), H37117, H37118, H37119, H37120 (27 ottobre 2001),H37568, H37569, H37570 (30 novembre 2001), H37571, H37572, H37573, H37574, H37575, H37576, H37577, H37578, H37579, H37580, H37581, H37582, H37583, H37584, H37585, H37586 (1 dicembre 2001), H37587, H37588, H37589, H37590, H37591, H37592, H37593 (2 dicembre 2001), H37594, H37595, H37596 (3 dicembre 2001), H37826, H37827, H37828, H37829 (25 dicembre 2001) in Tabula Rasa 04 (autunno/inverno 2005/06), Besa Editrice
Elio Coriano – Scritture randage, prefazione di Sergio Vuskovic Rojo, postfazione di Maurizio Nocera, Luca Pensa Editore, gennaio 2006
I visitatori al confine
“[…] Non è forse scritto ‘Rallegratevi ed esultate,
perché vicino è il suo regno?’ [1024.a]
Non è forse scritto ‘Non disperate, perché il suo
regno è eterno’? [1025.bc]
Non vi era bisogno di alcun segno
eppure veduti i segni avete creduto, [1026ac(d)]
non vi era bisogno di parole
eppure una Parola vi ha salvati [1027a]”
dai testi detti “Dei Territori Occupati”,
versione 2.0a
I.
Malgrado fossero trascorsi secoli di battaglie le parti sul campo non erano ancora giunte ad una soluzione del conflitto. I diplomatici e gli ambasciatori dei paesi interessati non riuscivano a trovare un accordo, mesi di trattative erano vanificati da episodi minuscoli, scaramucce sul confine, spari di mitra dimostrativi durante i controlli ai posti di blocco che sfociavano in episodi di guerriglia, defezioni di elementi chiave all’interno degli schieramenti politici di una delle due parti poco prima della firma di un trattato. Erano poche le persone ancora convinte che una pace fosse possibile, c’era qualche famiglia convinta della possibilità concreta di costruire una vita per sé e per i propri figli al margine delle lotte e delle esplosioni e dei cadaveri lasciati insepolti nelle strade. C’era ancora chi aveva voglia di di trasformare le terre oltre in confine in promesse da mantenere. Jasapphah aveva ventiquattro anni e faceva il mestiere più umile in Palestina, un paese martire come dicevano tutti e come dicevano di Israele i suoi vecchi colleghi di studio del corso superiore in Lingua Ebraica e Analisi dei Testi Sacri della Tradizione Talmudica. I suoi amici erano martiri impegnati nella lotta quotidiana contro il nemico, al di là della striscia di terra che univa i due paesi da millenni, dai tempi di Abramo e Isacco, Esaù e Giacobbe, fino a Davide e poi Salomone, queste terre tremavano sotto il soffio del vento spirituale che le attraversava dalla notte dei tempi, vento che soltanto di recente era stato squarciato dai tuoni dei velocissimi fuochi notturni e delle navi del cielo.
Jasapphah aveva finalmente deciso da che parte stare, lui e sua moglie avrebbero varcato il confine durante la notte, avrebbero abbandonato il proprio paese, nonostante le pressioni della famiglia di lei, nonostante il cielo nero che pesava sulle loro teste premendo il fiato sui loro quattro polmoni. Shariney era la donna più bella del mondo, e l’uomo più felice del mondo era uno, Jasapphah. Nel cuore dell’uomo, tuttavia, si agitavano mille pensieri, dalla mattina alla sera Jasapphah era schiavo delle sue ossessioni. A peggiorare la situazione, da otto lune a questa parte, c’erano i visitatori, come li chiamava. Una notte Jasapphah si era coricato di buon ora, stanco come un mulo che avesse tirato in un giorno venti carri contenenti un carico di buoi addormentati. La città non era scossa da alcun rumore, nessuna pietra si era ancora infranta contro i vetri delle case, quella notte nessun coccio era stato frantumato ed intinto nel sangue dei giusti. Lo spazio aereo era interdetto ad ogni oggetto volante, da dieci anni tutto ciò che sorvolava i confini dei due territori era da ritenersi un oggetto volante OOL (out of law), come tale poteva essere abbattuto da un momento all’altro. Ecco perché il cuore di Jasapphah era turbato. Come aveva fatto la nave ad oltrepassare il confine? C’era soltanto una spiegazione plausibile, quella cioè che la nave era in grado di decollare alzandosi così in alto e rapidamente nel cielo, così da eludere ogni capacità di osservazione da parte delle truppe stanziate ai confini. Solo a quel modo la nave era in grado di atterrare in qualunque luogo del paese senza destare sospetti. Secondo Jasapphah la nave proveniva dall’Africa, l’uomo ebbe questo pensiero la seconda volta che vide la nave, non gli sembrava simile a nessun modello di fabbricazione palestinese, né israeliana. La nave non somigliava a nulla che avesse solcato gli spazi aerei del Mediterraneo, né che avesse varcato l’Oceano prima di giungere in quel remoto angolo del Medio Oriente. Soltanto per un attimo gli sfiorò la mente il pensiero che la nave fosse stata prodotta nei laboratori sotterranei della Penisola Araba, gli unici dotati delle tecnologie adeguate, in questi anni, per permettere ad un oggetto costruito dall’uomo di sollevarsi nel cielo e spostarsi da un luogo ad un altro. L’indole di Jasapphah era dubbiosa, tutti questi pensieri lo sconcertavano. Malgrado tutto si fidò dei visitatori, che si erano subito presentati parlando la sua lingua e, soprattutto, che lo avevano rassicurato promettendogli un futuro rigoglioso, al riparo dalle lotte che laceravano il suo paese e quello immediatamente confinante. Gli incontri con i visitatori erano divenuti il suo passatempo preferito, gli argomenti che venivano trattati riguardavano la strategia militare, la natura delle forze palestinesi o israeliane, il numero dei soldati regolari e la quantità di componenti delle forze mercenarie, la loro provenienza e il tipo di armi di cui disponevano, soltanto per riprendere fiato tra un discorso e l’altro parlavano tra di loro dei testi sacri, il pretesto per cui Jasapphah era stato contattato, ciò secondo quanto detto da uno dei visitatori. Questo argomentare non lo infastidiva, i visitatori si dimostravano all’altezza di ogni discorso. Da quando si erano sposati, lui e Shariney vivevano ai margini della città, avevano abbandonato entrambi gli studi e lui era tornato a praticare il mestiere di suo padre. Uno dei visitatori, durante una visita interruppe un loro discorso con una lunga pausa, al termine della quale si rivolse a Jasapphah dicendogli
sei stato un ospite meraviglioso, non ci hai temuti per un solo attimo, non hai avuto paura e ci hai trattati come fratelli…Potevamo essere spie inviate dalle truppe oltre il confine, oppure potevamo essere soldati provenienti dalla Penisola Araba, soldati venuti a controllare che tu non fossi un collaborazionista, venuti a vedere come rispettavi il tuo popolo con le parole e i fatti, cercando di carpire i tuoi segreti per accorgerci, come è stato, che il tuo cuore è simile ad uno scrigno di nero marmo, che nulla fuoriesce dalle tue labbra che non sia verità…
Potevamo ucciderti nel giorno della nostra prima visita,
potevamo uccidere te e Shariney
sentendo questa frase un brivido percorse il suo corpo dagli alluci fino alla nuca, un brivido gelido che quasi lo fece svenire, non poteva permettersi di perdere la coscienza in quell’istante, i visitatori avrebbero ucciso lui e sua moglie, abbandonandoli in casa loro o gettandoli in una della cave alla periferia della Città,
il visitatore intuì il suo pensiero e sorrise
no, non devi preoccuparti, non vogliamo ucciderti, non sei in pericolo, anzi. Abbiamo deciso di farti un dono, Jasapphah, tu hai deciso di partire ed oltrepassare il confine. Questa notte non ti consegneremo l’arma che permetterà a te e al tuo popolo, oltrepassato il confine, di vincere ogni battaglia, anzi, di vincere la guerra, questa promessa sancirà la nostra alleanza
II.
“Un soldato potentissimo, il più potente soldato che avrebbero veduto i tempi, una forza della natura, un mirabile concentrato di astuzia, tecnica di combattimento, strategia e forza, al servizio del popolo di Palestinia”. Lo schermo mostrava distese di campi, un tempo deserti, ora coltivati. Le immagini si succedevano velocemente, un miscuglio di frammenti presi da registrazioni di notiziari degli anni precedenti, a ritroso fino agli anni in cui tutto era iniziato, gli anni delle lotte quotidiane, dei morti, dei massacri e delle esplosioni. Era difficile sostenere lo sguardo dello schermo senza provare vergogna per il solo fatto di appartenere al genere umano. Shariney dormiva dentro casa, Jasapphah osservava in silenzio, meno male che il volume dello schermo non era alto, ogni tanto uno dei visitatori, quello che sembrava il più anziano tra i quattro, diceva qualcosa nell’orecchio di Jasapphah, o almeno così sembrava all’uomo, che sentiva una voce rimbombargli nella testa senza alcun suono tangibile. Vedi, questo è quello che potrà accadere ai popoli, in futuro, grazie a quello che ti stai accingendo a fare, sarai l’alfiere della nostra battaglia, entrerai nel territorio nemico come un insetto entra nel corpo del grasso bove e depone all’interno della sua pelle la covata di uova destinata a schiudersi nel giorno seguente, uccidendo l’organismo ospite e proliferando per il bene della sua specie. Jasapphah continuava a non capire, non riusciva a collegare ciò che vedevano i suoi occhi alle parole del visitatore e, sopra ogni cosa, non riusciva a collegare la doppia serie di avvenimenti, quelli presenti a quelli futuri che vedeva impressi nelle immagini dello schermo. Queste tre parole rimasero impresse nella sua mente un-soldato-potentissimo. Dunque i visitatori avevano escogitato il modo per dotare l’esercito palestinese di un’arma fuori del comune, forse il suo compito era quello di oltrepassare il confine con i piani per lo sviluppo di questa nuova arma, gli sarebbe bastato consegnarli a chi di dovere nel giorno del suo arrivo oltre il confine, no, forse meglio attendere qualche ora per non destare alcun sospetto. Jasapphah, ti sbagli, tu sarai veicolo di questa ultima missione, spetta a te l’onore di condurre Shariney sana e salva oltre il confine. L’uomo non capì. Fu allora che due dei visitatori lo atterrarono con lo sguardo, non riusciva a muoversi, lo schermo continuava a mandare immagini dall’imminente futuro, pace e prosperità erano le condizioni in cui sarebbero vissute le popolazioni dei due paesi in eterno conflitto reciproco. Il nuovo soldato avrebbe sbaragliato le truppe di combattenti ostili con ‘la sola parola’, questo particolare gelava il sangue nelle vene di Jasapphah, costretto immobile a terra. Il quarto visitatore nel frattempo era scomparso. La nave continuava a librarsi al di sopra dell’abitazione dell’uomo, il rumore oscillante e continuo che facevano le sue lamiere rotanti era paragonabile al ronzio che fanno le api. Due giorni dopo l’ultima visita Jasapphah e sua moglie oltrepassarono il Confine.
III
Jasapphah non credeva alle sue orecchie. La notizia che sua moglie gli aveva dato la sera precedente lo aveva sconvolto a tal punto che questa mattina quando lo perquisirono in un posto di blocco nel tragitto che faceva per arrivare sul posto di lavoro gli sembrò la cosa più naturale del mondo alzare le braccia, quasi come se stesse nascondendo un segreto. In effetti il segreto c’era, Jasapphah, non poteva intuirne la portata devastatoria. Shariney aspettava un bambino. Sua moglie gli aveva dato questa notizia con le lacrime agli occhi. Gli sembrò normale fare quache calcolo per cercare di capire il giorno in cui fosse avvenuto il concepimento, la data con una certa approssimazione, poteva coincidere con i giorni degli ultimi colloqui fatti con i visitatori, forse addirittura con l’ultimo, quello in cui gli mostrarono lo schermo e gli chiesero il suo aiuto. Un soldato potentissimo – con la sola parola. Quella mattina gli capitò di leggere il giornale. Ogni giorno sfogliava distrattamente le pagine, saltava direttamente a pagina dodici, si soffermava sullo sport, sulle rubriche culturali e sulle previsioni del tempo. Le prime dodici pagine erano normalmente dedicate agli scontri, al numero delle vittime, alla quantità di ostaggi che erano stati scambiati durante la notte, agli accordi che venivano stipulati sotto banco dai rappresentanti delle fazioni in lotta, c’era poi una sezione dedicata alle opinioni che i capi di stato stranieri avevano espresso, nella giornata precedente, in merito alla possibilità o all’impossibilità di porre fine al conflitto, oramai entrato in una fase ‘cronica’ di sussistenza. Jasapphah poteva reggere la lettura delle prime dodici pagine una volta, al massimo due volte alla settimana. Oggi una notizia lo colpì, non fosse altro perché era riportata, seppure con parole diverse, nella dodicesima e nella tredicesima pagina, il che significava che questa notizia rivestiva un’importanza che, in un certo senso, interessava le due sezioni del giornale. A quanto pare, in alcuni stanziamenti nomadi presso il confine del paese, si era diffusa una strana malattia, una sorta di psicosi collettiva che aveva colpito un migliaio di persone. Il ritmo del contagio era in crescita, né gli scienziati israeliani, né tanto meno quelli palestinesi sembravano essere in grado di trovare un rimedio. L’articolo presentava un punto di vista interessante ed era scritto come se i contenuti della psicosi fossero ormai di dominio pubblico, come se non ci fosse bisogno di darne spiegazione, Jasapphah pensò di aver perso qualche articolo, impossibile, leggo questo giornale ogni giorno. La spiegazione di questo ‘salto’, per quanto strana, poteva essere questa, l’autore dell’articolo era egli stesso affetto dalla psicosi di cui parlava. Jasapphah corse con lo sguardo in fondo alla colonna, il caldo lo opprimeva, con un gesto rapido e consueto si passò un fazzoletto sulla fronte, lesse in fondo all’articolo, non c’era nessuna firma.
IV
La psicosi era centrata sulla necessità di riscatto da parte delle tribù nomadi stanziate sui confini del paese. Dopo otto mesi da quando Jasapphah aveva letto quell’articolo, il numero dei soggetti colpiti dalla psicosi era salito vertiginosamente, adesso erano circa sassantamila gli abitanti dei territori occupati affetti dalla “Sindrome di Jeoshua”. La sindrome venne definita così dai due psichiatri che ne avevano individuato le caratteristiche per primi. Chi veniva colpito dai segni della sindrome si suicidava dopo tre giorni, cinque al massimo. La sindrome si manifestava con il pensiero ossessivo dell’imminente venuta di un Messia. L’arrivo di un Messia sarebbe stato provvidenziale per entrambe le popolazioni, quella ebrea e quella palestinese, alcuni politici davano credito a queste voci, i giornali continuavano a diffondere un bollettino riguardante la diffusione della Sindrome, senza specificare mai l’attendibilità scientifica della notizia, politici e giornalisti riuscivano così ad ottenere credito presso la popolazione di una delle due parti avverse. Succede spesso che quando non ci siano avvenimenti particolari di cui parlare ci si confronti su eventi fittizi, Jasapphah era convinto che la Sindrome fosse un pretesto per schermaglie politiche. Le tribù nomadi che vivevano occupando i territori di confine credevano che il Messia sarebbe giunto per dare loro una terra, per trasformare in nazione i territori di confine. Questa terra non sarebbe mai cambiata, nessuna distesa verde sarebbe mai comparsa nel deserto, nessuna oasi di pace in mezzo alle bombe e alle pietre infuocate.
Jasapphah era deluso, dopo l’oltrepassamento del confine l’unico cambiamento nella sua vita era rappresentato dall’attesa di un figlio, il primo pensiero collegato a questa nascita imminente era la cognizione che quello non fosse il luogo migliore per mettere alla luce nuove vite.
Quel giorno stava ritornando a casa a piedi, era uno dei giorni in cui nessuno poteva circolare né sui mezzi pubblici né tantomeno con la propria auto, qualche giorno prima infatti un autobus imbottito di esplosivo era saltato in aria, c’erano stati in tutto trecentodue morti. La tensione in città saliva come la piena notturna di un fiume, alcune ricorrenze – il primo secolo di Coprifuoco Totale – venivano celebrate come avvenimenti. Erano le sette di sera, c’era un caldo opprimente, il videotelefono di Jasapphah squillò. Si trattava di Shariney, sullo schermo non comparve nessuna immagine, si sentiva un rumore ritmico, un rumore di sassi contro altri sassi, una nenia di cui era difficile riconoscere una parola soltanto. Era successo qualcosa, Jasapphah venne preso dal panico, fermò l’immagine sullo schermo e corse verso casa, doveva assolutamente capire da dove stava chiamando sua moglie, fu preso dal panico, è successo qualcosa. Arrivato davanti alla porta del garage si ricordò che non poteva prendere la macchina. Osservò lo schermo d’istinto, la stazione di rifornimento d’ossigeno, gli accampamenti, le capanne, l’antenna,il confine. Cominciò a correre in direzione degli accampamenti.
V.
Arrivò agli accampamenti, non riusciva più a correre, l’affanno lo stava schiantando al suolo. Si fermò sotto la pensilina di un’abitazione per prendere un po’ di respiro, impossibile, a quell’ora la temperatura sfiorava i trentacinque gradi centigradi. Jasapphah voleva raggiungere lo spiazzo da cui sua moglie aveva chiamato, e se qualcuno le avesse semplicemente rubato il telefono e lo avesse acceso per sbaglio? Il rumore che aveva ascoltato durante la telefonata era un brusio diffuso nell’aria, aveva fatto in tempo, qualunque cosa fosse accaduta durante il collegamento telefonico era ancora lì, da qualche parte. Cominciò a camminare lasciandosi guidare dall’udito, il rumore dei sassi contro i sassi si trasformava lentamente in un suono ritmico, dotato di senso, ciò che sentiva non erano più parole confuse, ma un’unica parola scandita dalle persone nel mezzo della piazza ‘Jeo-shu-a! Jeo-shu-a! Jeo-shu-a!’. Adesso Jasapphah era nel mezzo di queste persone, cercava di farsi spazio nella folla per raggiungere il centro di quella massa di persone, c’era qualcosa nel mezzo della piazza, tutti stavano urlando, lui continuava a dirigersi verso il centro della piazza, più si avvicinava e più il gruppo di persone si faceva compatto, finchè Jasapphah, quasi giunto al centro, non potè più andare avanti, c’erano un gruppo di persone che componevano uno sbarramento umano, come per salvaguardare il centro della piazza dalle intrusioni di sconosciuti, erano invasati, avevano gli occhi rossi. Jasapphah fece il possibile per oltrepassare quello sbarramento, un uomo più grosso e più alto di lui ad un certo punto gli diede un pugno nella faccia, Jasapphah non vide più, si sentì mancare, cadde sanguinante per terra, il suo corpo…
VI.
“[..] Il suo corpo esanime fu preso dai nostri
e trasportato fino al centro della piazza [24a]
dove la Donna dell’Uomo partorisce dormendo,
entrambi la folla rianima, ciba, [25ab]
lavandoli e profumando i piedi con olii
recandoli in trionfo, come si conviene ai re [26ab]
Shariney e Jasapphah, messaggeri dei padri,
venuti dal confine, figli del cielo, [27a]
veicoli della prosperità, pace per le genti.
[…]
Il salvatore dei popoli, il grande soldato, [38b]
colui che frantumerà gli eserciti
con la sola forza della parola: [39ba]
tuona Jeoshua tra i regnanti del mondo,
il suo verbo non trova riposo tra le mura [40ab]
confini tra le nazioni
le capanne sono colme di doni [41ab]
preziosi, coi proiettili intrecciano collane,
i deserti si trasformano in campi coltivati [42a]
il suo tuono è sorriso di bimbo
il suo tuono è parola [43a]
nessuno perisce, risorgono i morti in tre giorni
nessuno oltrepassa il confine, guerra alla guerra [44b]
pace per la pace
[…]
amen [66]
[…]
Dai testi di Jeoshua, versione 3.7b, [diffuso nel sesto anno dopo la nascita], terza revisione condotta sulle trascrizioni originali dette ‘dei Territori Occupati’.
Kyoto mon amour
Kyoto mon amour
Giovedì 11 febbraio 2005, ore 9.00, Times Square, New York, 37 gradi fahreneit.
[1] Non fa neanche tanto freddo, non quanto pensavo che potesse fare qui a New York, mi avevano avvertito, 'a New York fa sempre freddo', forse perché i miei amici sono stati a New York per pasquetta e lì non fa ancora caldo, febbraio, marzo. Non importa. Poco meno di dieci gradi e ad essere sincero non li sento nemmeno. L'aria è secca, ha smesso di nevicare da una settimana abbondante e la neve ha fatto in tempo a sciogliersi tutta. Siamo atterrati in piena tranquillità, senza turbolenze. New York. Il cuore pulsante dell'impero, l'impero del male. 'Vai a New York e prova a certificare quel che accade, se ti riesce cerca di individuare i germi del male'. Non è per nulla facile. Forse i miei amici sono un po' prevenuti. Sono prevenuto anch'io, prima di partire ho letto qualche libro ed ho visto troppi, troppi film. Le casse della redazione non scoppiano di denaro, mi hanno mandato per due giorni soltanto. Ho fatto i conti in tasca ed ho deciso di godermi il più possibile queste poche ore di permanenza, non sono stupido. Il paragone peggiore è questo 'New York è la Roma dei nostri tempi', ovvero, NY non è paragonabile al resto dei paesini degli States, NY è tutt'altra faccenda, come Roma ai tempi dell'impero romano, oggi, NY. Non mi importa. Secondo me i luoghi si somigliano tutti, forse perché le persone sono le prime ad assomigliarsi, ad esclusione del manager seduto di fianco a me sull'aereo, un tipo che coltivava a pastiglie l'ansia d'atterraggio 'io non volevo venirci, proprio non volevo' come se dovesse accaderci qualcosa, da un momento all'altro. Figuriamoci se volevo venirci io. Fare un reportage da New York era soltanto una scusa, niente di più, fare finta di essere malato per due giorni, sputtanare un po' di soldi, fare nuove esperienze, vedere quel che accade dall'altra parte dell'oceano atlantico in un giorno qualunque di febbraio.
Tanto per cominciare una considerazione: soltanto a Londra un cittadino viene monitorato, volente o nolente, da circa trecento telecamere a circuito chiuso al giorno. Terribile. Inquietante. Forse utile per le forze dell'ordine, con una piccola constatazione, se mi è concessa, io non sono un criminale, il mio redattore non è un criminale, i miei collaboratori non sono criminali, o meglio, per alcuni di essi sarei pronto a testimoniare davanti ad un giudice, forse anche una corte suprema, 'sì, non ho a che fare con uno scrittore o collaboratori criminali, al massimo alcuni amici si macchiano di peccati veniali, nulla di più' quindi mi chiedo, tornando a questo concetto di supervisione, da dove giunga la necessità di essere costantemente monitorato da una telecamera a circuito chiuso. Ci stiamo cadendo tutti. La trappola e lì per essere serrata, il nostro piede scalzo, assieme alla caviglia, verrà chiuso nella tagliola, non potremo farci a meno. Il telefono è utile, il video telefono è inquietante. Mi spiego, se non esistono problemi (tecnici) ad intercettare una telefonata allora vuol dire che in futuro (oggi) una videotelefonata sarà naturalmente intercettabile. Mi chiedo se l'industria del porno sia pronta ad affrontare la rivoluzione dell'UMTS. Immagino quale differenza può esserci tra una telefonata ad una normale segreteria erotica ed un’altra ad un telefono di nuova generazione (archeozoico: 166 – xxx xx xx, paleozoico: 188 – xxx xx xx, mesozoico: 899 – xxx xx xx, cenozoico: http://www.xxx.xx.xx, evo moderno: telefono privato, pubblicazione di annuncio su giornale quotidiano, operatrice/ore che ti risponde al videotelefono e ti intrattiene); quanto meno non si porranno spiacevoli equivoci, come in quel film di Altman dove l’attrice della chat-line dava appuntamenti telefonici e rispondeva mentre il marito guardava le partite e il bambino frignava. Ma cosa c'entra tutto questo con New York? C'entra, c'entra…Se non mi ricordo male avevo cominciato dicendovi che non c'erano abbastanza soldi per mandarmi in viaggio per almeno una settimana, abbiamo dovuto rosicare le casse fino al limite per potermi permettere un viaggio aereo di andata e ritorno, come se non bastasse lo scorno abbiamo dovuto approfittare delle offerte che si fanno per San Valentino, che scadevano, puntualmente, il 12 febbraio. Ebbene, la notte di San Valentino (precisamente alle 4 di notte) ero su un aereo diretto negli Stati Uniti d'America. Un viaggio così allucinante può essere soltanto paragonabile all'ipotetica realizzazione del mio sogno più assurdo, quello di trascorrere il Capodanno su un treno, partire alle otto di sera, facciamo da Lecce, e svegliarsi a Milano l'uno a mattina, o a Bologna, a Roma no, non ci penso, arriverei quando la festa è ancora in corso, non ci penso proprio, metà degli ubriachi che stanno quasi per andare a coricarsi e l'altra metà ipertonici a rompermi i coglioni. Meglio arrivare in stazione a Milano o Bologna, fra le sei o le otto di mattina, il primo giorno dell'anno.
Quindi su un aereo per New York, arriverò la notte di San Valentino, mi sveglierò il quindici febbraio in città. Mi hanno detto che ha smesso di nevicare e mi hanno anche detto che sarà il viaggio meno complicato della mia vita: aeroporto-taxi-albergo-un giorno e mezzo scarso a passeggiare costeggiando un isolato perché non c'è tempo, perché non ne vale la pena, perché non ti abbiamo dato abbastanza libertà (Y€$, freedom)-taxi-aeroporto-milano-roma-brindisi-lecce.
Mi sono abbarbicato su un pensiero, 'sarò in grado, o meglio, che tipo di reportage posso scrivere? Non sarebbe stato meglio spendere quei soldi in un altro modo? Magari per stampare un libercolo in tiratura limitata da dare in regalo ai lettori della rivista? Beh, ad essere sincero mi andava di prendere una pausa, quindi, eccomi.'
C'è il ricordo di un film che continua a frullarmi nella testa mentre il taxi mi porta in albergo, saranno le luci multicolore, il film è Strange Days, non potrò fare a meno di visitare Times Square, questo mi dico, è impossibile, affanculo le Avenues, affanculo anche Central Park, ad essere sincero affanculo i ponti, tutti e quattro, non posso venire a New York senza visitare Times Square. Dico al tassista di passarci, anche solo per cinque minuti, anche se non è di strada per andare in albergo, figuratevi se la redazione di Musicaos.It poteva permettersi una stanza vicino a Times Square, se avessimo avuto così tanti soldi di sicuro avremmo mandato qualche altro sfigato a fare questo reportage, e invece no, il tassista mi dice che Times Square non è affatto sulla rotta del mio albergo, tuttavia se proprio insisto…ed eccoci qui. Sul palazzone che fa da scenografia naturale a tutti i film con cui ci hanno bombardato nell'infanzia, non ultimo proprio Strange Days, c'è incollata una pubblicità mastodontica. Mi viene in mente l'Italia, forse la Spagna. Soltanto in Europa saremmo in grado di concepire qualcosa di così eccessivo, dal palazzo fuoriesce il muso di un camioncino, sarà alto almeno cinque metri, una specie di furgone tedesco, non nomino la marca in questione perché questo reportage è quasi totalmente anonimo, ve la faccio intuire con una domanda, del genere che dovete memorizzare nel caso di smarrimento della vostra password di casella postale, la domanda è "qual'è quella marca di automobile tedesca dal cui paraurti, negli anni '90, andava molto di moda svellere il circolo di lega/alluminio, molto somigliante al simbolo della pace, un po' amputato, tuttavia?". Ecco la risposta, sì, la marca è quella. Il camioncino fuoriesce completamente dalla facciata dell'edificio e se non fosse già San Valentino e quindi the Ash Wednesday non fosse già passato da quasi una settimana mi verrebbe spontaneo pensare che si tratta di un residuato del carnevale, un carro newyorkese. Ma perché non mi hanno spedito in Brasile? Dimenticavo, non c'erano abbastanza soldi. L'effetto è comunque posticcio, nulla che non si sarebbe potuto risolvere meglio con l'utilizzo di uno schermo gigante rutilante di immagini multicolori, peccato, credevo di arrivare per imparare, il mio sogno era di tornarmene con idee fresche fresche di design, e invece mi tocca di certificare il kitsch. Non sono poi così sfortunato come credevo, avrò qualche patrono nascosto perchè il mio albergo è proprio qui vicino, fa un freddo tremendo, regalo una mancia al tassista, una leggenda vorrebbe i turisti newyorkesi molto sprovveduti in materia di mance, e tutto questo perché i tagli dei dollari sono differenti ma la carta è identica, questo non mi succede, non mi sarebbe successo in Italia, figuriamoci negli States, oh Y€$, do all'autista quanto gli spetta di mancia, prendo la mia valigia da solo ed entro nell'albergo.
Non mi attende nessuno, intuisco che al piano terra dell'albergo/pensione c'è un bar, si tratta di un'agnizione bella e buona, vado nel bar al piano terra, il bar fa da reception, ristorante, sala intrattenimento, il tutto senza soluzione di continuità all'infuori del fumo di sigaretta, ma qui non era vietato fumare dovunque? A quanto pare ho scelto un albergo malsano, poco male, fumo parecchio anche io, mi troverò bene, comincio già a rimpiangere la partenza di dopodomani. C'è soltanto una persona, un uomo, potrà avere una sessantina d'anni, ne dimostra di più, sta seduto su una poltrona davanti al televisore, fuma una sigaretta. Chiedo nel mio inglese da liceo se mi è possibile raggiungere la stanza che mi ha prenotato la redazione, sì, mi è possibile, soltanto un minuto. Finalmente sono a letto. Prometto a me stesso che domattina mi dedicherò all'osservazione del popolo americano, a partire da Times Square. Sempre che qualcosa non me lo impedisca, sempre che io non cominci a provare repulsione per qualcosa che vedo o per qualche persona che incontro, e così è.
In figura 1 e in figura 2, proprio vicino agli oggetti in bella mostra del negozio di souvenir c'è una donna con la pelliccia, da qui non sembra vera, credo che lo sia. Da più vicino mi accorgo che è ben tenuta, intendo la pelliccia, è proprio originale. Le pellicce non mi piacciono, o come dico sempre, non mi 'piaciono'. La redazione in realtà mi ha spedito qui per parlare di Christo e dei suoi Gates a Central Park, ma a me non importa, non mi importa prenderli in giro, non mi importa di far sapere loro che con la cifra che mi hanno dato non posso nemmeno permettermi un pranzo decente al ristorante dell'albergo/pensione/sala da biliardo e che quindi rimarrò qui tutto il giorno (mi bastano venti minuti per capire tutto) ad osservare la gente che passa.
Ecco infatti la mia attenzione catturata dall'uomo col cappello che in figura 7 sta portando una valigia. La sua descrizione corrisponde esattamente ai disegni che ho in tasca, prima di partire mi hanno consegnato un plico di foglio, diversi disegni raffiguranti americani tipici che avrei dovuto individuare tra la folla, questo uomo appartiene ad uno di quelli, devo marcarlo ed attenderne il ritorno, il resto andrà da sé. Non si è accorto di nulla, bene. Non si è accorto che il suo paese non ha sottoscritto il protocollo di Kyoto. Non so se siete stati mai nello studio di un avvocato o se ne conoscete uno oppure semplicemente se vi è mai capitato di andare in tribunale, anche soltanto per una causa civile, oppure per un sinistro, sapete che gli avvocati interpretano la legge. Ogni legge possiede cavilli che possono tramutarsi in capestri, basta un gesto d'interpretazione. Con la sottoscrizione del protocollo di Kyoto ci si impegna a non oltrepassare nei prossimi anni una soglia, stabilita a due gradi centigradi, per la temperatura terrestre. Non che la terra disponga di un termostato, no, se ne accorge la signora con la pelliccia e se ne accorge perfino l'uomo con la valigia ed il cappello, 'the weather is clear', trentasette gradi fahreneit, c'è il sole. Il problema è tutto nell'immondizia che stiamo sparando nell'atmosfera, ebbene, l'uomo col cappello, confuso nella folla, possiede la cittadinanza del paese che produce più inquinanti nell'atmosfera su questo pianeta, e insieme agli inquinanti e ad altre faccende questo signore possiede i documenti che certificano la sua appartenenza ad un paese che non intende impegnarsi, in sede internazionale, a pompare meno inquinanti (sei le sostanze specificate) nell'atmosfera per alzarne la temperatura, anzi, se oggi invece di 37 gradi fahreneit ce ne fossero 39 il signore col cappello sarebbe più contento, e la signora con la pelliccia forse mostrerebbe di più la sua scollatura. E qui dobbiamo fare nuovamente riferimento alla figura 2 e nella fattispecie all'uomo in basso a destra, anch'egli tipico abitante di questo paese. Notate la sua maglietta, quest'uomo non ha freddo, indossa una magliettina che penzola grazie alla sporgenza del suo addome, un giubbotto leggero, scarpe da ginnastica. Se la temperatura salisse di due gradi potrebbe tranquillamente camminare sul marciapiede indossando una maglietta a maniche corte. Il problema non sembra toccarlo, attraversa il mio campo visivo in un attimo, scompare. Come faremo tutti del resto, verremmo spazzati via da ciò che noi stessi abbiamo provocato. E' interessante chiedersi il perché della mancata ratifica del protocollo da parte di Zio Sam, facciamo finta che non si stia parlando di Pianeta Terra, ma di un appartamento dove abitano trenta persone, alcuni di essi sono disoccupati, spendono tutto il giorno in giro nella ricerca di un lavoro, l'immondizia che producono all'interno dell'appartamento è giusto pari al filtro del caffè (che scaricano nel lavandino senza che nessuno se ne accorga), a qualche quintale di carta, plastica e rifiuti organici, senza contare la normale produzione delle scorie corporee. Ebbene, facciamo finta che per qualche giorno la nettezza urbana si dimentichi di passare da quell'appartamento, anzi, facciamo finta che fuori abbia cominciato a nevicare, proprio a causa dell'effetto serra. Allora, ci sono queste trenta persone bloccate in casa con tutto il necessario per vivere ad eccezione del fatto che la loro merda viene prodotta e stipata continuativamente nell'appartamento, per qualche giorno, tanto poi finisce di nevicare. E invece non finisce di nevicare e la merda si accumula, tra di loro cominciano i primi screzi, alcuni infatti ne producono talmente tanta, di immondizia, da stimolare le occhiatacce cagnesche dei coinquilini. Finché a qualcuno non viene un'idea per smaltire la merda, perché, cribbio, non si può più respirare, l'aria diviene malsana, già abbiamo deciso di fumare a turni, vicini al camino. Le tre coppie che compaiono in figura 16, figura 17 e figura 18 si fanno accese promotrici della discussione. Non cambia nulla. Chi produce più immondizia di tutti non ne vuole sapere. Kyoto. Gli Stati Uniti d'America partecipano di più di un terzo del totale delle emissioni nell'atmosfera. Venendo qui a New York ho provato a discutere di questi argomenti con le persone che incontravo per strada, per me è stato abbastanza difficile, non ero premunito, ho fatto un po' la figura dello scemo, una persona che ti ferma per strada e ti chiede se sei a conoscenza del protocollo di Kyoto, sul marciapiede di Times Square, fa un po' la figura di quelle persone che escono nelle interviste del TG5, quando magari si celebra la Giornata della Memoria (27 scorso mese) e l'intervistatore chiede "Ma sa che cosa si festeggia oggi?" e questi rispondono, in serie romana, "Ma 'cche ne soo, so stati li nazisti, oggi se ricorda de li campi de sterminio", oppure "Sì, cioè, oggi se ricorda la fine de la seconda guera mondiale, lo sbarco in normandia…" per culminare in "'cchè non è per caso che BBenigni c'ha fatto su un documentario pure su questa cosa", ma io stavo parlando di Kyoto e nessuno mi rispondeva, anzi, camminavano dritti, dicono che a Central Park oggi inaugurano la mostra di un artista impacchettatore, o una rappresentazione teatrale, non si capisce bene, si chiama come il Messia. Ecco, ecco cosa ci vorrebbe, una redenzione interplanetaria, qualcosa che coglie tutti impreparati, come se trovassero un libro del Vangelo successivo all'Apocalisse e lì dentro si parlasse del protocollo di Kyoto. In figura 41 una madre cammina tenendo per mano un bambino, in che genere di mondo vivrà questo pupo nel futuro? La risposta è difficile, una cosa è certa, se il pupo è americano e comincerà a fumare sigarette vivrà in un paese dove per fumare una sigaretta dovrà nascondersi ed il cielo sarà nero. Ora capisco, ecco perché gli Stati Uniti non hanno firmato il protocollo di Kyoto…credono in quel documento ci siano ancora degli errori, che i dati presentati in appendice non siano completamente esatti, sono convinti, ad esempio, che la grande quantità di americani che fuma sui marciapiedi, nei prossimi anni contribuirà sensibilmente all'incremento delle polveri sospese nell'atmosfera, quindi, facendo un rapido calcolo il protocollo va riveduto e corretto, il calcolo reso più semplice dal fatto che nel frattempo IBM, Toshiba e Sony hanno elaborato Cell, il microprocessore più veloce di tutti, dieci volte più veloce del più veloce microprocessore esistente e con molta probabilità cinquantavolte più veloce del trabiccolo che state utilizzando in questo istante per leggere questo racconto. Spero che almeno stiate riuscendo a vedere tutte quante le immagini, anche perché altrimenti mi sono fatto un viaggio inutilmente. Ed è così che comincio a pensare che sia, seriamente, finché un evento non attira la mia attenzione, qualcuno si è accorto di me, della mia presenza. Mi ero messo in disparte a pensare di trovare un modo per convincere lo zio Sam di limitare le sue emissioni di gas inquinanti, di riconvertire il suo sistema industriale, ed ecco che qualcuno si accorge di me. E' una storia lunga, comincia dalla figura 34. Finalmente sembra che qualcuno sia interessato al mio discorso. Una ragazza, quella con lo zainetto rosso, si avvicina ad una cabina telefonica, compone il numero, chiama, dall'altra parte sembra che nessuno risponda. La ragazza tenta diverse volte, ne conto almeno tre, si scoraggia, non vuole più chiamare. Il fiume della gente che passa qui vicino a Times Square è inarrestabile, anche se alle nove di mattina mi aspettavo più persone, a quanto pare qui l'impressione è data più dalla quantità della costanza, sarebbe a dire che se passate da questo incrocio alle tre di notte vedrete scorrere lo stesso quantitativo di automobili, taxi, camion, pedoni, no, i pedoni sono un po' di meno, perché qui lavorano tutti, anche di notte, e se uno di notte lavora se ne sta al chiuso, sul luogo di lavoro, oppure fa il tassista. Insomma succede questa cosa strana, succede che questi quattro ragazzi mi notano, chiedo se sono infastiditi dalla presenza della mia telecamera, mi rispondono che non gli frega un cazzo della mia telecamera. E' la figura 49 che sancisce questa mia nuova alleanza con il popolo americano, questi ragazzetti sembrano svegli, potrò usarli per i miei esperimenti, potrò chiedere loro di rispondere alle mie domande, finalmente farò ritorno a Lecce senza le solite mani vuote, anche se ripeto che la redazione poteva farmi stare qui almeno una settimana, succede sempre che per ambientarsi in un luogo ci vogliano almeno quattro giorni.
La prima domanda che faccio ai ragazzi è semplice, diretta, serve per catturare la loro attenzione, chiedo loro se conoscono l'Italia, ed in particolare se conoscono Lecce. Mi dicono che conoscono l'Italia e Berlusconi, Milan, Sheva, sanno che l'Italia è un paese amico, fedele, che appoggia ogni loro scelta politica, però non conoscono Lecce. Evito la solita lezione di geografia che si fa all'estero, quando si incontra qualcuno e per spiegargli dov'è la nostra regione si deve più o meno fare così "you know that Italy has the form of a boot, Lecce is the end of the boot" a cui si aggiunge il gesto molto poco comprensibile di toccarsi il tallone della scarpa. Dopo una spiegazione del genere diciamo che l'ottanta percento degli interlocutori ha capito da dove venite ed ha capito che siamo un popolo di giocherelloni, a meno che non ve la caviate dicendo, semplicemente, che venite dal sud est dell’Italia. Dopo aver sciolto il ghiaccio chiedo se sanno qualcosa in più del nostro paese. "Conosciamo alcuni italiani, in effetti non è difficile, qui ce n'è tanti davvero, tutti abbiamo amici italiani o italo-americani, a scuola insegnano lo spagnolo, lo spagnolo è simile, prova a dire qualcosa in italiano", accenno ad una frase "l'utilizzo dell'ossimoro in certe poesie di Cosimo Ortesta è sicuramente inusuale…", fanno finta di non capire, mi lasciano perdere, non mi considerano più loro amico, forse volevo prenderli in giro, si fanno le facce tra di loro come se avessero capito contemporaneamente che volevo prenderli in giro. In figura 53 due di loro indicano un negozio dall'altro lato della strada, da quel momento in poi la comunicazione è interrotta, è bastato pochissimo per dilaniare un filo così sottile come la comunicazione tra culture differenti, ed io ho fatto davvero una pessima figura. Non so cosa fare, non mi resta che improvvisare. Potrei far visita ad una biblioteca pubblica, oppure ad una libreria, potrei vedere quali sono i libri sugli scaffali delle novità, comprarne uno, tornare in Italia e scriverci sopra due righe, sarebbe un gesto interessante. Non ne ho voglia. Non voglia di pensare ad altro. Times Square, non ho nemmeno la più pallida idea di quante volte ho pensato di visitare questi luoghi, ho addirittura cominciato a scrivere un libro, da più di un anno, la cui parte iniziale è quasi tutta ambientata a New York, una sorta di fantathriller politico, ebbene, tutta questa preparazione sciupata in una presentazione e in una domanda di cazzo agli indigeni del luogo. Già, gli indigeni americani. Se appartenessi ad una popolazione extraterrestre, se provenissi ad esempio dal pianeta Monod, e sbarcassi sul pianeta terra, qual'è la prima città dove andrei? Forse proprio New York, facciamo finta che invece io non sia atterrato qui in virtù di un piano prestabilito, facciamo finta che io sia giunto qui, a Times Square per caso, come il Marziano a Roma di Flaiano (non quello di Pippo Franco, drugat!). La prima cosa che noterei di questo luogo e la totale dissimiglianza con le visioni che ne avevo avuto sui miei visori, mentre mi avvicinavo al vostro pianeta. Il risvolto più inquietante è che questi visori non mi mandavano indietro un'immagine con la differenza di un anno luce, o anche di più, sui miei schermi le immagini arrivavano con una differita di appena cinque minuti. Come ha fatto il mondo a stravolgersi in così poco tempo? Questo luogo mi era stato favoleggiato come capitale di un impero, e invece? E invece se leggo i libri e i romanzi mi convinco che questa è realmente la capitale di un impero, se invece sto fermo a Times Square per un quarto d'ora non mi succede nulla. Non succede davvero nulla. New York è un paravento, è una copertura, è un telo che nasconde qualche altro marchingegno, questa mi sembra essere una spiegazione plausibile. Gli indigeni newyorkesi percorrono i marciapiedi senza pensare di avere una testa sopra le spalle, sanno dove vanno e basta, si muovono per moto inerziale, guardate la figura 87, ogni tanto qualcuno si accorge della mia presenza e si diverte a fare un gestaccio. Siamo tutti fondamentalmente uguali. Ecco perché i popoli provenienti da un altro pianeta hanno definitivamente abbandonato l'idea di porre fine alla nostra vita, ci stiamo pensando da soli. Avevo cominciato questo reportage da Times Square intitolandolo "La fine del mondo", poi ho cambiato idea, come sempre la prima idea è la più tracontante e meno ricca di possibili sviluppi, come sempre cambio traccia per poi accorgermi che la seconda scelta è forse peggio e che la prima rendeva il senso.
[2] Questo servizio costituisce la mia forma di protesta nei confronti dell'obbligo di scrivere qualcosa di interessante, che tocchi argomenti interessanti, che svolga un percorso interessante, e tutto con i pochi mezzi a disposizione dalla redazione, me la pagheranno. Una cosa è certa, da qui non passano mai le stesse persone, chiudo gli occhi a causa della brezza fresca, li riapro e non vedo le stesse persone. La mia esperienza newyorkese non può finire così, senza la visione di Christo, accompagnata alla paranoia di Christo. La paranoia è questa. [segue Paranoia di Christo]
[3][Paranoia di Christo] Tu sei l'artista più rivoluzionario di tutti i tempi, altro che Andy Wahrol, tu non hai cambiato colore alla Monroe, che forse ci vuole genio ma trent'anni dopo basta il Paint, e tu non hai neppure ripreso l'Empire State Building per ore e ore consecutive, che poi se vuoi diffonderne un solo fotogramma devi pagare persino i diritti d'autore, no, tu Christo hai fatto di più, tu hai impacchettato l'impossibile, a Parigi, a Berlino, dovunque, hai impacchettato la natura e hai impacchettato l'architettura, un oggetto lo hai reso più importante e visibile con un gesto naturale, un gesto di nascondimento, tu Christo sei eccezionale, ed occupi la mia paranoia, e adesso stai per compiere il tuo gesto più alto, una tua opera nella capitale dell'impero, a Central Park. Il tuo è un messaggio epifanico, caro Christo, perché forse il polmone verde nel centro del cuore dell'impero non può essere impacchettato, perché probabilmente il polmone verde deve respirare ed essere attraversato dalla vita, dal sangue, dal respiro, dalle persone. La mia paranoia epifanica, Christo mi porta a concludere che hai approfittato dell'occasione per dare un messaggio che non è più in messaggio sull'occultamento della verità, il tuo è un invito a percorrere la vita, settemila volte, col vento che svolazza ed invita a ricostruite là dove Bush distrugge, dove Bush non ratifica, dove l'antico mercimonio si mescola in matrimonio con il delirio dell'antimonio, dove tu Christo getti la moneta nello stagno invitandoci a riflettere, tutti abbiamo un polmone verde da preservare, un cielo sotto il quale essere identici, l'epifania di Christo dice, in una parola, non distruggere! [fine della paranoia di Christo]
[4] E' qualche tempo che ho cominciato a rileggere libri che non leggevo da anni, a vedere film che non vedevo da tempo, frequentare persone e indigeni americani, ebbene, mi sono reso conto che ne ho basta. Mi sono rotto le scatole di vedere servizi telegiornalistici dove si accusano gli abitanti del sud est asiatico di speculare sulla catastrofe del terremoto e poi, recandomi dopo nemmeno due mesi – un giorno come gli altri – in edicola, vedere un libro intitolato pressappoco così "Tsunami – il fenomeno delle onde anomale". Ma non sono un extraterrestre, ho mescolato troppo i piani, confondo il sogno con la realtà; la realtà è che sono stato a due giorni a New York nel mese scorso, la seconda realtà è che sono bastati due giorni trascorsi a New York per desiderare di tornare indietro e non fare in tempo a provare un po' di nostalgia che già sentivo dentro la ripulsa per alcuni aspetti del mio vivere quotidiano. Nel frattempo c'è una donna che è andata a lavorare come giornalista in Iraq ed è stata rapita davvero, mentre io al massimo sono stato catturato da quattro immagini stronze osservate e congelate in un pomeriggio di pigrizia. Per poi accorgermi che il mondo sembra essere uguale da dovunque lo si osservi.
Un terremoto è diverso se la casa in riva al mare è la tua, un servizio in una zona disastrata dall'importazione di democrazia è più pericoloso, se avete una fotocamera in mano e non sapete chi si nasconde dietro l'angolo, un milione di posti di lavoro lo abbiamo visto, scommetto che nel vostro condominio tutti sono stati assunti, almeno tre volte nell'ultimo anno. Nel frattempo, se siete anche voi dell'opinione che nel titolo dell'ultimo libro di Vespa sia inspiegabilmente nascosto il germe di un suo possibile fallimento (da Mussolini a Berlusconi) e se siete riusciti a leggere fino in fondo questo racconto allora potrete anche leggere questo documento qui sotto, sono soltanto trentanove pagine, anche per un lettore non troppo allenato possono sembrare poche, non vi fate sviare dal gergo, dai numeri e dal linguaggio troppo simile a quello che si trova nei codici, in fondo si tratta sempre di un documento ufficiale, insomma, se ne avete l'intenzione leggetelo attentamente, prima che qualcuno vi dica che era un sogno, un'ipotesi impossibile, uno specchio per le allodole, divertente da ricordare quando la linea di desertificazione avrà oltrepassato la linea gotica.
scarica e leggi qui il Protocollo di Kyoto
Undici Nove Zero Uno
[1] Ogni sera, appena finisco di cenare, vado sul balcone per fumare una sigaretta. Mi capita di alzare la testa per aria, torcere il collo vistosamente ed osservare le stelle. Certe volte ne becco una, lampeggia, si muove più velocemente di altre. Non si tratta di una stella, è un aereo. Continuo ad osservarlo finchè non mi annoio. Nel panorama delle stelle fisse gli aerei sono subito riconoscibili. Capita, in certe serta, che di aerei ce ne siano molti. La fissità di tutte le stelle viene turbata da questi punti in movimento. Sono più di uno, sono due, sono tre. Le stelle fisse sono lo sfondo, gli aerei in movimento rappresentano il distacco dalla noia che può essere procurata dall’osservazione di tanta fissità. Ci sono giorni in cui il quadro del cielo è complicato, molto più complicato di quanto non può sembrare da qui, da questo balcone, dopo cena, con una sigaretta in bocca.
[2] Nell’anno duemila di nostro signore la produzione della mia scrittura era ferma su ritmi poetici e abulici non indifferenti, scrivevo da anni oramai, forse troppo, troppe poesie, nonostante fossero tutte quante belle, a mio parere. Dopo aver sperimentato diverse forme di pubblicazione estemporanea mi assestai nella querula forma rappresentata dal bussar porta agli editori. Non servì a nulla. Conobbi alcuni amici che si dedicavano da tempo al teatro, mi sembrò intelligente regalare i miei versi affinchè i loro spettacoli sembrassero più intelligenti. E così feci. non foss’altro per evacuare dalla noia, ‘maledetta noia’. I miei giorni da poeta scribacchino, chiuso in camera, cesellatore di versi erano finiti. Andavamo da una parte all’altra della provincia a stilare programmi, a proporre spettacoli, ad intavolare serate di discussione nei locali sull’eventualità di essere più o meno influenzati da Saint Antonin Artaud o Monsieur Alfred Jarry e tutto il sancta fino a Strindberg del quale non avevo ancora letto Autodifesa di un Folle, grazie al quale capii fin troppe cose. Ne uscì fuori uno spettacolo di versi recitati, mescolato ad alcune riprese video e suoni in differita/diretta. Cose dell’altro mondo. Non eravamo mai sazi. Chi ci vedeva aveva l’impressione che stessimo facendo qualcosa di buono, a noi ne veniva un po’ di effimera euforia, io, come scrittore, nemmeno quella, né tantomeno il palliativo rappresentato dall’incrocio con donne varie e differenti, prima o dopo gli spettacoli, insomma un fiasco. Solitudine si addice al poeta. Il nostro guitto, l’amico recitante, conosceva una compagnia fuori provincia, con loro avremmo potuto collaborare, la loro compagnia era più conosciuta, operava nel capoluogo di regione quindi possedeva più contatti, bisognava assolutamente organizzare qualche cosa con loro. E così facemmo. Dopo nemmeno due mesi avevamo due date nel teatro di questa compagnia. Due date nel fine settimana, totale spettatori: nove. Nove è un buon numero, moltiplicato per cinquemilalire fanno quarantacinque mila lire.
[3] Nemmeno due mesi dopo ce ne sarebbero state offerte cinquantamila, a persona, per una piccola prestazione. Città di Fasano, Scamiciata, ovvero: rappresentazione teatrale itinerante nel giorno della festa di paese con la quale si commemora la resistenza ai turchi dei cittadini di Fasano. La nostra compagnia doveva rappresentare questa mitica resistenza, erano richieste quindi comparse ed attori vari, esperti e meno esperti. Tra i meno esperti convocati per quell’occasione c’ero anche io. La rappresentazione era semplice, fissata per il sabato pomeriggio alle cinque. Si arrivava nella masseria di proprietà della compagnia teatrale alle cinque del pomeriggio del venerdì. Convenevoli, saluti e conoscenza con i diversi partecipanti, divisione delle parti, a sera, inizio delle prove. Non scorderò mai Katia, che passava in mezzo a noi, seduti in circolo attorno ad un tavolo, cantando a fioca voce il canto che avrebbe accompagnato la nostra rappresentazione. Perché stavo lì? Amore per il teatro? Aspettative per la poesia? Non lavoravo, con lo studio ero ad un passo dalla laurea, non mi lamentavo, a casa giustificavo queste scampagnate con frasi del tipo ‘guarda la poesia dove mi porta’ e, soprattutto, avevo appena troncato un rapporto durato circa due anni, quindi per i fatti miei stavo abbastanza bene. Il sabato sera si inscena la Scamiciata. Va così bene che vengo invitato anche l’anno dopo. Il mio amico attore cominciava a fare cilecca, non lo avevo mai reputato un buon cantante, né io né il regista della compagnia, il suo astro in calo era ormai in crollo inaudito.
[4] Al termine della nostra seconda Scamiciata veniamo accompagnati alla stazione. Il regista, Antonio, si gira verso di noi e dice, ‘ci sarebbe una cosa interessante da fare, in settembre, dovremmo andare in Toscana, ci sono un po’ di soldi, poi vi chiamo’. Apoteosi. Ma siamo così bravi da meritare tutto ciò? Non avevamo capito ancora nulla, forse troppo ingenui. Non avevamo capito qual è la dote che deve possedere ogni buon regista, ovvero quella di riuscire a stillare nell’interlocutore il suo volere come desiderio del malcapitato, cosicchè il bisogno impellente del regista sgorga sulle labbra del malcapitato con uno spontaneo ‘quanto mi piacerebbe…’. Ebbene fu così, andare in Toscana, dieci giorni in settembre, certo certo, non vediamo l’ora, quando sarà il momento chiamaci, saremo felici di accorrere. E così fu.
[5] settembre duemilauno, o, come meglio mi piace ricordare, nove zero uno.
Avremmo dovuto trascorrere circa una decina di giorni in Toscana, mentre nella masseria della compagnia avremmo trascorso una altra mezza settimana per le prove, in tutto un periodo di due settimane dal cinque al diciannove settembre del duemilauno. Ero eccitato. Mi avevano scelto come attore per una trasferta pagata di due settimane. Sarei tornato a casa con un po’ di soldi guadagnati re-ci-ta-n-do. Incredibile, tutto a causa delle poesie che scrivevo. Non a causa della bontà delle poesie, questo sia chiaro, semplicemente come punta dell’iceberg di una concatenazione di cause ed effetti che dalle poesie erano scaturiti. Ero molto ottimista. Nel frattempo mi ero messo con un’altra ragazza, molto possessiva, alla quale fu difficile giustificare un’assenza così lunga. Scampai ogni problema perché stavamo insieme da poco più di sei mesi, quindi nessun problema, non eravamo ancora troppo incollati l’uno all’altra.
Il cinque settembre arrivammo presso la compagnia. Le cose si presentarono subito più difficili di come le avevo previste. Negli spettacoli precedenti, infatti, mi limitavo a correre, fuggire, fare finta di cadere, prendere finti calci. A questo giro avrei dovuto maneggiare una spada. Speravo che almeno fosse finta, niente di tutto ciò, era una spada di rame e bronzo del peso di circa cinque chili. Pesante, molto pesante. Mi dissi, dov’è il problema, tanto ci sono abituato, lo sapevo che quando si mett epiede qui dentro si mette piede per sudare, l’importante sono i soldi, i soldi e la gloria, alla fine mi sarei anche divertito. Passammo da una fase iniziale di allenamento sul fisico ad un ulteriore fase di apprendimento della parte recitata. E qui venne il bello. Lo spettacolo in questione si intitolava Deus Le Volt, la trama era semplice. Un’armata brancaleone con al seguito monaco arabo si muoveva con motivazioni buone e motivazioni di figlie dell’opportunismo alla volta della Terra Santa, obiettivo: rispondere all’appello del primo papa e muovere crociata contro gli infedeli. Fin qui tutto bene. Passammo la prima settimana ad imparare le varie parti, la parte recitata, la parte cantata e la parte, per quanto riguardava me ed il mio amico, del duello. Il duello era toccato in sorte a noi due per diversi motivi. Il primo, semplice, e cioè perché ci conoscevamo, non avremmo potuto litigare se qualcosa andava storto e quindi potevamo provare a darci spadate e ferirci e far capriole senza arrestarci mai. Il secondo, più evoluto, e cioè perché se qualcuno di noi si fosse fatto male dandosi una spadata di bronzo in fronte allora dalla faccia delle terra sarebbe stato eliminato, a sorte, un cattivo poeta o un cattivo attore. Fin qui tutto bene.
[6] Le giornate procedevano più o meno così. Sveglia verso le undici del mattino, colazione, prove, pranzo verso le due del pomeriggio. Riposo. Giornata assolata. Inizio prove alle sei, sette di sera. Così fino alle undici di sera con una pausa, poi doccia per tutti, cena a mezzanotte, anche l’una, tutti a letto verso le due e così, dormendo, fino al giorno dopo. Cinque, sei, sette, otto, nove, dieci, undici settembre duemila uno. Una giornata come tutte le altre. Finiamo di mangiare verso le due e mezza. Siamo tutti seduti attorno al tavolo, qualcuno è già andato a farsi la pennichella. Io, il mio amico, il regista, le due aiutanti residenti, l’attore della compagnia, abbiamo appena finito di bere il caffè. Sto fumando una sigaretta. Stiamo guardando un film di Totò in televisione. D’un tratto una banda rossa scorre in fondo allo schermo. Edizione straordinaria. Attentato. RaiDue. Non facciamo nemmeno in tempo a leggere la banda, cambiamo canale, Canale5, un palazzo in fiamme. Torre in fiamme. Inquadratura da più lati della torre in fiamme. Incredibile, non possiamo credere ai nostri occhi. Come aerei nel cielo di notte vengono confusi con le stelle. Dopo nemmeno dieci minuti di questa visione un’ombra si avvicina alla torre, un aereo, si abbatte. Esplosione, frammenti in volo. Le torri gemelle di new york, attacco terroristico. Notizie di un altro aereo che si sta per schiantare sul pentagono, un altro ancora sulla casa bianca. Prendo il cellulare e scendo nel cortile della masseria. Chiamo mia madre, o meglio, faccio uno squillo a mia madre per farmi richiamare. Mia madre mi chiama, le chiedo di spiegarmi che cosa sta succedendo, le spiego cosa vedo e le chiedo se quello che vedo è quello che vedo e se anche loro, a casa mia, stanno assistendo allo stesso spettacolo. Chiamo anche mia sorella, a quell’ora sta prendendo il treno per andare a lavorare, non è davanti al televisore, non vede nulla, non assiste all’apocalisse, mi tocca raccontarle tutto in diretta. L’evento diviene già racconti differito dell’evento, condito di considerazione. ‘E adesso? Cosa accadrà? Comincerà la guerra?’. Mi vengono in mente, solo in modo fugace, il mio compagno di stanza, al servizio civile, che aveva ritagliato una foto di binladen da una copia di panorama per appenderla in camera, l’occasione di quell’articolo ritagliato per leggere la biografia del ricco sceicco ingegnere. Eccetera eccetera. L’ipotesi che serpeggia, e poi la rivendicazione dell’attentato. Undici nove zero uno. E io dov’ero? Ero in una masseria nel mezzo delle campagne baresi a provare uno spettacolo teatrale incentrato sulla partenza per la prima crociata in terrasanta da parte di un gruppo di non meglio identificati avanzi di mondo. Eccezionale. Non è finita.
[7] La fase più tragica del mio undici nove zero uno è tutta racchiuso nella trama dello spettacolo che eravamo ormai pronti a portare in Toscana, Deus Le Volt, scritto prima, molto prima dell’attacco alla torri gemelle e già rappresentato a Genova, Milano, un po’ dappertutto nel nostro paese.La trama, in sostanza, era semplice, un’armatabrancaleone si avvicenda per un viaggio in terrasanta raccogliendo tutti gli elementi che costituiscono un’armata che si rispetta: il prete che vende le indulgenze (io), il malandrino spadaccino (il mio amico), la maga, la donna generica, l’uomo generico, il tessitore della faccenda, comparse e poi lui, il mitico arabo-al-seguito-dei-cristiani, che, nello spettacolo in questione si chiamava Osama di Shaizar. Le coincidenze cominciano ad accumularsi vorticosamente. A certe cose ero abituato, il mio coinquilino di quel periodo, che adesso sta a Londra o non so dove, era visceralmente antiamericano, dopo nove mesi di convivenza mi aveva trasmesso alcuni dei suoi geni, tanto che io non mi stupii di quando una mattina, svegliandomi, ritrovai la faccia di Bin Laden fotocopiata e incollata sulla porta di camera nostra, era come per dire che di lì non si passava, attenti, morde. Ma questo era troppo. Portavamo lo spettacolo in replica quattro volte in sette giorni, la prima era quattro giorni dopo l’undici settembre, che nel frattempo era già assurto agli onori della cronaca come l’11 SETTEMBRE.
[8] Alla prima replica non accadde quasi nulla, gli altri spettacoli erano rappresentazioni statiche in costume, oppure duelli con spade di cartoalluminio. La compagnia con cui stavo io utilizzava soltanto spade vere, in rame e metallo veri, che pesavano più di due chili e che ogni sera andavano pulite perché sembrassero luccicanti, ‘ma non troppo, altrimenti sembra che le avete comprate adesso’. Alla prima non accadde nulla perché lo spettacolo era davvero molto molto movimentato, preceduto da una processione nella quale cantavamo una canzone in latino. Poi arrivavamo nella piazza scelta per la rappresentazione e lì cominciavano i duelli e le botte da orbi, era previsto anche un apologo recitato da Osama di Shaizar, alla seconda replica le persone cominciavano a capire, non si trattava di una coincidenza, nelle cene medievali dove si mangiava con le mani ogni cosa (compresa la zuppa di farro e il pinzimonio) si parlava soltanto di quella coincidenza. Non ebbi il tempo materiale per pensare l’undici settembre. Mi ricordo che quando tornavamo ai nostri bungalow, nel deserto toscano, la notte ci sintonizzavamo sulle tv arabe con il satellite, mi ricordo di un ragazzo che doveva partire militare in kosovo e che stava con una della compagna, mi ricordo le discussioni, lunghissime, per convincere questo ragazzo che la guerra non sana la guerra.
[9] Tornammo alla masseria. La mia ragazza mi aspettava lì da due giorni. Prendemmo un treno scalcagnato e tornammo a casa. Nessuno a prenderci in stazione.
La pace di(s)sentire
e allora apparecchiammo i nostri carri
Zeus stesso diede ordine i cui capelli
marroni crespi non hanno che una
spiga bianca ma è nascosta e nel terzo libro
dicemmo degli eserciti e le navi e i valorosi che con noi
si accompagnarono per l’esattezza
centoquarantamila uomini e donne
come mai si erano vedute
guerrieri rivestiti di oro tra il più fine
e corazze di goretex, e insieme a loro duecento elicotteri apache
conducemmo l’assedio per dieci anni, o non fossi mai nato
o per lo meno fossi morto senza nozze, così diceva
mentre pelle epidermidi e carmi
si scioglievano
in feritoie di proiettili ben vestiti di neutroni
io camminavo
ed il cielo pioveva barili di fumo
io camminavo
ed i cadaveri di quelli non si potevano contare
il mio vice portava in tasca una foto, suo figlio
mai nato, un bel feto ricordava
l’infinità del generare così l’aggiunsi al seguito
e il vice divenne il capo, mio figlio e mio fratello
ramsey ogni sera alle ventitrè in punto
faceva una doccia
indossava un abito di seta finemente lavorato
duemila marchi
o duemila cinquecento
in ginocchio di fronte ad un altare di vetro
– tu dici così, ma io non possiedo altari –
il libro aperto e leggeva prima di dormire,
“ogni notte una morte ogni giorno un risveglio”
fu così che inventammo uno stratagemma
appena uscirà dalla mercedes-benz avrà
il progetto per erigere una torre fino al cielo
e lui specificava – non il cielo/paradiso, ma quello appena sotto, quello blu –
su questa torre discuteremo insieme
no ramsey, ho inventato un fucile, ho scoperto
un nuovo modo di sparare nascosti
le mie frecce traversano il petto
con avida furia, i nemici crollano bocconi,
all’inizio il nemico era grande poi divenne uno dei nostri
infine come una lucertola era seduto al nostro tavolo
dov’è il nemico?
e ancora le nostre navi che tra di noi
chiamavamo legni, i nostri legni
saldati all’acciaio, ricolmi di locuste
per loro che attendevano e greggio
che noi attendevamo, 25 a barile,
poi 28 poi 36 e 25 fino a 40,
la misura è colma ci accampammo al limitare dei deserti
senza limite, sabbia soltanto
e il re fece costruire il suo palazzo per l’occasione
ed ogni mattonella recava il suo nome “re boato, re fuga,
re sosia” ma il nome più bello era “trucida figli
contro voi che ammazzerete i vostri”
e sotto un segnale “macelleria pace”
nel decimo anno fu avviato un proficuo
ricambio di carne del padre col figlio
le donne dalle lunghe braccia bianche
attesero invano ricoperte di veli
finché tutte le opinioni non furono sazie
ed alcune ripetevano sto aspettando la metropolitana,
ci vorrà poco, un minuto, suo marito,
suo marito si è unito ai soldati? Il mio non c’è più
tra un attimo sarò con lui, vede? Mio figlio
è piccolo, serve già la causa si chiama Jeoushua-Bomb
conosce arabo ed inglese, lingue nate apposta per la poesia, ne vuole un pezzo?
Abbiamo utilizzato ogni mezzo, per ridurvi
alla pace, ogni mezzo se si eccettua la persuasione
tombe e ovvii scambi di carni
nelle carceri andavano ben lavati
e così fecero lavando con sifoni e coltelli analizzando
tutti i lombi del problema reso in piedi
Wall Street chiude a ribasso ogni sera
meno uno, meno uno e mezzo,
e questi sono gli amici, lasciatemeli salutare questi amici
dalla pancia panciuta delle mia nava di latta
vedo il carro del sole
e un albergo inquadrato nel mirino
una pellicola cucita nei miei sandali
porta impresse le prove, quelle di domani
il figlio, il figlio/padre ripeteva continuamente
domani avrete la certezza a domani rimandiamo le prove
nel frattempo tracciando
una linea da washington a d.c. passando per l’equatore
non ci sarebbe stato un punto nel quale
il tumore della pace si fosse estinto
ma va bene, capita, costruiamo affinché
il morbo pestifero sia estinto
o quanto meno venga assolto
o ricoperto di opinione.
Nella serie degli assedi c’è chi eresse un muro
a dimostrazione
che i buoni risultati di un secolo scorso
il nuovo li migliora di una tacca.
Ma noi questo assedio Zeus ce lo impone
non mammona, neppure conosciamo
questi re che li lasciarono all’asciutto
duemila anni all’asciutto
Zeus allora impose agli dei di non portarci
alcun soccorso
”Iraki bepol” sosteneva Ammar
su questa moneta è già scritta ogni cosa,
guarda questa moneta nascondeva la moneta in tasca
e dava un sorso di birra tedesca in un luogo all’aperto
al riparo da ogni pace molesta ‘guarda questa moneta’
con questa puoi comprare del pane al prezzo conveniente di una battaglia
io nascondevo una lancia lui riportava fedelmente la demagogia dei miei discorsi
al suo creatore, mi disse, ‘sai abbiamo tutti un creatore differente’
‘conosceremo i rispettivi quando sarà il momento’
fu quello che risposi
nel frattempo su un altro canale tra i mille
a disposizione Nettuno ripeteva che era buono
offrendo oro contro oro a peso d’oro
pagando cadaveri di guerrieri offeso
perché utilizzava il medesimo fornitore
“macelleria pace”
dietro la sua tenda due dei nostri
gettavano i dadi per terra, uno solo può vincere o nessuno
e finalmente giunse il mese in cui
confondemmo l’assedio alla rocca per una
passeggiata, tanti davvero schierati su due linee
con gli dei dappresso e gli schermi
fluorescenti alle spalle nessun segno di parte nessun tuono.
La pace finalmente debellata, salvi siamo
tutti quanti, la mia armatura
per terra al suo fianco un fax con le prove
“sei luglio duemila uno”, siamo nell’occhio del ciclone
agire tempestivamente.
maggio 2004, inedito letto domenica 23 maggio in occasione del GRAN BAZAR 2004, ex-convento dei Teatini, Lecce
ora in "Poesie del Sol Levante" (I quaderni di Vertigine, 2004)
Materiali uno, la città.
[MT 0] I luoghi: Roma, Lecce.
[MT 1] Se uuàrdau ‘nnàura fiàta allu specchiu mentre ca si ‘ssucava li mani cu ‘nnu fazzulettu de carta te cessu. La giacca paria cussì lucida ca malgradu la sciurnata cussì pallida e smunta ca lu culure era biancu nettu. Mesciu Buroni spicciau cu ‘ssi ‘ssuca li mani e piiàu li fogli ca tenìa ‘mpuggiati subbra lu mobile te lu specchiu. Dese ‘nnaura letta alli foji e pijàu lu corridoiu te coste allu bagnu. Passau dinanzi a ‘nnu corazzieri. Poi ‘nannzi a ‘nnauru corazzieri. Alla fine trasìu ‘ntra ‘lla camera te li deputati, versu lu scrannu sou. Prima cu ‘ttrasa l’era parsu cu ‘ssente n’applausu pe ‘qquarcunu. Osce se parla de alimenti adulterati. Nu ‘sta ‘ssuccedìa nienti e paria ca nu ‘ccera nuddhu dibbattitu. L’ipotesi cu ‘sse minte ‘ntra lu cuerpu qualche cosa de stranu è stràusa ipotesi assula e de spaventu. ‘Ncera chiu de unu, da ‘ddhintra ca stia alteratu pe ‘ccuntu sou. Buroni stia cullu stomaco vacante e nu ghigno fra li dienti. Tenìa quarantacinque anni, l’età ‘bbona cu’eddhra istu de tuttu ca l’ha ‘ppassatu annanzi e cu ‘nu eddhra pijatu posizione subbra de nienzi. Lu parlamentu era ‘nu pretestu comu ‘nnauru cu stèscia luntanu de casa, possibbilmente largu de mujèresa. Mesciu Buroni, inattaccabbile cristianu.
Merculedia ’’bbespera, alle quattro spaccate, Buroni si settau subbra la seddhra soa, cacciau te pauda ‘na caramella alla frutta, aprìu l’involucro e ‘ncignau ‘sse fazza la ùcca.
Mesciu Buroni ìa pijatu lu izio te le caramelle cu ‘sse ‘llea ‘nnu iziu e tanti auri tic ca l’erane enuti ‘ntra sti anni.
Se ‘sta ‘nvicinava lu mumentu cu pija uce cullu discorsu sou, pijàu ‘nnu spiru largu. Alcuni pariane attenti, autri nu ‘sta ‘sse ne futtinne. Buroni fice ‘ddo cunti mentali de tiempi ‘ncapu a poi ‘ncignau cu ‘llegge. Senza paura cu ‘llu cacciane via te lu partitu, anzi peccene ormai stia cu ‘sse ne torna a casa per sempre. Lu cibu ète vita. La vita nu ‘fface nienti. La vita eta ‘na menzogna e nui ‘nci simu intra ogne ‘ggiurnu cu ‘nnipocrisia assurda. Cu ‘lle parole, cu ‘lla politica, cu ‘lli muerti ‘ccisi. E ciueddhri se còtula contru sta merda. “La vie est en merde uncroyable” fose l’ultima frase te lu Buroni. Pigghiàu li fogli e se ‘nde scìu per sempre.
[MT 2] – Certu ca marìtuta ete propriu nu cujune, ma de quiddhri ‘bboni. Anzi ete propriu ‘nnu pampasciune. Ma a istu ? – Otellu tenìa ancora ‘nnu pede de fora ‘lle mutande, ‘nterra. Sta ‘sse le ‘nfilava. Na sigaretta ‘ddumata ‘ntra ‘lla ucca l’unfumicava tutti li musi. Sta ‘rredìa e nu ‘ssapìa se ‘sta risata era ‘nnu residuo istericu pe ‘lla situazione. La Clelìa, e l’Otellu ìane ‘ppena spicciatu cu ‘ffanne l’amore. La Clelia era mujere de Mesciu Buroni, lu parlamentare, pe ‘ccirca ‘ddo fiate e ddhre ‘ddo fiate pe ‘ddo ure alla semana erano maritu e mujere. Chiui ca ‘nnamante, l’Otellu era nu maritu officiosu e ‘ngarbatu. Almenu cussì se decìanu quannu se scangianne li regali pe ‘ppasca e pe ‘nnatali. Lu Buroni nu ‘ssospettava nienzi. La Clelia tenìa trent’anni ed era propriu beddhra. Se tenìa allenata. Maritusa nu ‘lli mancava tantu e quarche fiata riuscìa puru ‘llu fazza curnutu quannu essìa alla televisione. L’Otellu grazie alla Clelia s’ia sistematu ‘bbonu ‘bbonu. ‘Na decina te anni prima ìa enutu a Roma cu studia e ‘ncìa rimastu tra na fatìa e ‘llaura e tra ‘nna laurea e ‘nnu ministeru, de amore s’intende.
[MT 3] Ma l’ha isti ‘ddhri doi? Nòne, quali ‘ddoi? Addhài, la seconda fenescia a sinistra, allu terzo pianu, lu quagnòne e la fìmmena, ‘ntra ‘llu liettu. Pecciène, ‘nc’è quarcosa te stranu? Nòne, nienzi. L’addhru uardàti pe ‘nna trentina de secondi, ma nun’c’è nienzi te stranu. Turnamu alla fatìa. Buenu, turnamu alla fatìa. Allora, la portiera a ‘bbessuta a menzatìa e menza e ha ‘tturnata all’una e nu quartu. – Tenìa quarchecosa?
– 'nce 'ssensu ?
– Portava ‘na ‘bbusta, quar cosa, ce ‘ssacciu, nu cappieddhru a ‘mmanu.
– Sìne, portava sortantu nu cappieddhru a ’mmanu e quannu ha ‘bbessùta nu ‘llu purtava filu. Guarda, guarda, ancora ‘ddhri doi. Pare ca tenenu intenzioni serie. Quiddhre ca mancane a ‘ttìe. Ci sape a ‘cce ura spìcciane osce. Suntu le tre menu cinque. S’ha ‘ffermatu ‘nnu taxi ‘nnanzi lu purtune.
– Ma comu fanne cu ‘ssapenu ca ha stata la portiera?
– Perché era l’unica ca putìa trasire e ‘bbessìre quannu olìa.
– E lu cappieddhru ce ‘c’entra?
– Peccène, ‘ddhri doi ca spiavi ce ‘ccentrànne ?
– Nu ‘bbusàre cchiùi ‘ddhru verbu.
– ‘Nde pàganu cu ‘uuardamu? Allora cittu e uàrda.
[MT 4] Moira ragioniera impiegata comu portiera. Attualmente pe ‘nnienti stabile ‘ntra ‘nnu palazzu quartiere centru. Sta ‘ccerca sistemazione non necessita quantu mujere. Aspira non come sopra cu ‘ggentilezza cu ‘bbèssa pijata. Cussì succede ca Moira puru osce ha spicciatu cu ‘ffatìa. Ovveru ha spicciatu cu ‘sse ‘ssetta e cu compila nu giornale enigmistico a casu o cu ‘sse lassa cullare te la musica de ‘nna radio. L’erane portatu nu computer, ultimamente, e iddha, ogne tantu lu usava cu ‘sciòca. Stìa ancora nervosa pe ‘llu furtu de ‘ddo semàne prima.
[MT 5] ‘ntorna matina.
se ‘llea li causi de sonnu e scinde de lu liettu. Cussì se pote fare. Minte la moka subbra lu fuecu e ‘ntra ‘ddhru tiempu se minte la maja. Cussì se pote fare. Lu cafè è prontu. Vistu ca ’ncete se ‘dduma ‘na sigaretta e ‘ntra lu tiempu se la fuma e piensa a ‘cce ha ‘ssuccessu la sira prima.
Nu ‘bbulìa ‘nci piensa mutu, tant’è ca li tocca cu ‘n ci piensa.
[MT 6] none none none, nienzi veru, pe 'mmie a fattu bonu, cussì s'erane 'ffare tutti e cussì meju pe 'tutti ca mancu 'nci cridi, meju cu scappi de susu cu scivoli sutta e 'ccu rimmani, meju cussine. none none none La vie est en merde uncroyable e non è il primo a dirlo si figuri, c'è stato qualcun'altro prima di lei, è una questione di ciclicità, tutto è reversibile, entropia, accidenti, ne ha sentito mai parlare lei, lei, queste mutande cosa fa ancora, guardi che è finita da un pezzo, chiudiamo tutto qui, si, è in vendita, nient'altro, entro fine mese ci saremo liberati di tutto, una cosa alla volta, c'è posto per lei, pure.
[MT7] 'ntorna matina. sta fiata pija la machina e portandilappressu fincha pueti, filu buenu sai, nun ci simu, t'essi dittu ca lu carrozzieri ulia centucinquanta, 'nda purtati ottanta, ce'bboi cui tieni la machina, none none, vidi cu 'tte liei de nanzi, sannutu ca nu'ssì auru, sine, sannutu de zanche tie e dd'hra fessa ca te puerti deretu, de sutta lul liettu cu nunci iessi chiui, filu alla lammia cu 'nnu 'tte ide. sannutu senza nienti ca do' dienti.
[MT 8] anche perché con lei mi sembra di essere stato chiaro in fondo si trattava di amicizia finchè ce n'è stata abbastanza bene anche da parte sua poi basta, avanti indietro indietro avanti, avanti dentro, stop. lei era d'accordo e a quanto pare perfino suo marito, per quanto distante, per quanto nella capitale, tre giorni alla settimana sembrano molti o sembrano pochi a seconda di come vengono riempiti, ci ho provato, ci sono riuscito, la prossima volta con chi potrebbe essere? sempre che non succeda come con lei, insomma sì, chi dei due fosse il sotto scorta proprio non si capiva.
[MT 9] e queste cosa sono, foto, no, no, aCCiDeNTI.
La fine del poeta
Cosa ci fate qui, siete venuti a constatare il decesso? Volete essere sicuri che sono io, volete accertarvi che non si tratta di uno scherzo? Non è uno scherzo, purtroppo, o grazie a dio, dipende dal punto di vista. Alla fine ce l'ho fatta. Sono morto. Mi aspettavo di vedere più gente, forse è ancora presto. Più commozione, una musica di sottofondo, qualcosa che mi piacesse ascoltare, e invece niente. Neanche adesso che sono morto avete capito un cazzo. Fino all'ultimo non siete stati capaci di realizzare quel che mi passava per la testa. Sono problemi che non mi toccano, cose di cui tra una settimana non parlerete più. La scena del dolore è tutta qui, adesso, e poi non si ricordi. Ma guarda chi si vede! Ti pare ora di arrivare, ti pare il momento? Saranno dieci anni che aspettavo un segnale, una telefonata, anche un segno di scarpe infangate sulla soglia di casa il giorno dopo una pioggia, e invece niente. E adesso che sono morto ti presenti, purtroppo non ti conosce nessuno, non puoi riscuotere. Eri l'amante nascosta soltanto nei miei pensieri, amante di che? Forse non ci siamo dati nemmeno un bacio, e adesso pretendi di riscuotere commiserazione, come se fosse morta una parte di te, ma va a quel paese una volta per tutte, il morto sono io, posso permettermi ogni cosa, poi non si ricordi. Sei arrivata troppo tardi, non so nemmeno come hanno fatto a raggiungerti. Se non sbaglio tra noi non ci fu nulla perché stavi con un altro, eri legata, belle figure quelle che mi hai fatto fare. Almeno abbi un po' di contegno per la mia ragazza, non presentarti nemmeno, ti prenderebbe a schiaffi, ne ha passate di tutte e le ha viste tutte. L'ho presa in giro per una vita promettendole un futuro ricco, fatto di conti e fatture, ad intascare i miei diritti d'autore. La scrittura ad una certa età era diventata la mia unica ed improficua occupazione, mi hanno dato troppa corda ed io mi sono fatto prendere la mano, non ho colpa, dovevo pensarci prima, dovevo sistemare le cose per il meglio ed ho pensato a sistemare le virgole e i punti. Le ho lasciato soltanto un lavoraccio che nessuno si farebbe avanti per aiutarla. Non l'avessi mai fatto, per chi poi? Per lei? È probabile che lo facessi soltanto per lei, dato che anche da morto mi accorgo che in questa stanza non c'è un filo di nerbo, non c'è più energia. Magari foste in grado di prendere le mie idee e di farci dei libri, almeno di farci libri dai testi già pronti, alcuni li ho addirittura impaginati per essere pronto alla stampa, sempre pronto, da vivo. Non sono stato capace io, figuriamoci voi. Se cominciate oggi avete la speranza di raccogliere qualche risultato tra un secolo, e dovreste vivere abbastanza. Io qui steso, invece, sono la morta dimostrazione del fatto che la vita è corta, il tempo non basta mai e se ne vanno sempre i migliori. Potessi almeno ridere. Scommetto che sulla faccia ho stampata un'espressione impassibile. Chi è che decide qual è l'espressione del morto? Forse succede come nei film in cui al cattivo, quando muore, vengono almeno chiusi gli occhi con un passaggio della mano. Anche quelli dell'agenzia funebre devono aver capito con che razza di persona avevano a che fare. Ma guarda tu, ci sono proprio tutti. Non è possibile che io abbia avuto a che fare con così tante persone. Ora che ci penso ognuna si è presa un pezzetto di energia, ad ognuno ho regalato un frammento della mia macchina catalizzatrice ed ora tutti qua. Con la mia ragazza sono stato tassativo, le ho detto fino a ieri come si sarebbe dovuta comportare. le ho detto 'leggi bene il mio diario, leggilo in fretta e ricorda', soltanto così avrebbe saputo come comportarsi con tutti quanti, uno ad uno. Scommetto che non mi ha preso in parola, neanche a lei forse piaceva la mia scrittura. Sono stato petulante fino all'ultimo con lei, è la persona a cui ho rotto di più le scatole, in assoluto. Le ho fatto conoscere persone che io stesso non avrei mai voluto averci nulla a che spartire. Sono stato crudele. Ogni volta mi buttavo in un progetto, anche quando era scettica. Mi dava consigli ed io non la stavo a sentire, finchè poi non sbattevo la testa contro il muro. In certe occasioni per convincermi non le restava che ricorrere alle minacce fisiche. Minacciava anche di lasciarmi 'se tutto va come ho previsto allora ti lascio'. Ci azzeccava sempre, però non mi lasciava. Non è stata mai capace. Mi dispiace non essere più qui a parlare con lei di tutte queste persone, appena saranno uscite e tornate a casa. Sto qui steso e finalmente mi hanno messo un vestito decente, di quelli che ho sempre voluto comprare e di cui sempre ho dovuto rimandare l'acquisto. Troppo costosi, sempre troppo costosi, c'è sempre qualcosa di più urgente per cui spendere soldi. Lei questo lo ha capito subito. Magari non ho comprato una giacca pur di partecipare ad un concorso di poesia, fino all'ultimo non ne ho vinto nemmeno uno. Ci deve essere qualcosa di così terribile, nelle cose che scrivo, così orrido che le persone scappano via, se non mi hanno mai conosciuto di persona. E poi se anche ne avessi vinto uno con che vestito mi sarei potuto presentare. Se mi dessero un premio dopo morto avrei di che mettermi, però. Toh, mia madre. Mia madre è l'unica che sta piangendo senza interruzioni. non le ho dato niente, così starà pensando, mi sono preso tutto e non le ho lasciato nulla. E per di più me ne sono andato senza salutare, senza chiarire alcunchè. Non c'era nulla da chiarire, questa è la mia opinione. La mia ragazza è stata sempre d'accordo con me, anche su questa cosa. So già che troverà qualcuno migliore di me da mettere in croce. No, non posso pensare che siate tutti qui. Con alcuni di voi ho davvero spaccato in due la montagna, e adesso è tardi, a voi non è importato mai nulla. Mi avete assunto nelle dosi consiglite, avete seguito le ricette e di volta in volta vi ho fatti sentire più giovani, più intelligenti, più autori, più attori, più sportivi, più registi, sempre di più. Sempre di più, stavate nei miei paraggi e vi caricavate come batterie, finché le pile, le mie, non le avete esaurite. E adesso sto qui morto con il mio vestito nuovo. Con quest'orrida teoria di bacetti sulla guancia, io che i diminutivi li ho sempre odiati. Vi ho visti piangere per motivi migliori e ad essere sincero non ho mai sopportato il contatto dei vostri corpi, ma forse ve ne siete accorti anche voi, sempre pochi abbracci, poche strette di mano e pochi baci sulle guance delle vostre ragazze, in saluto. Ma guarda cosa doveva capitarmi, crepare, crepare, con tutte le cose che avevo ancora da fare. meno male, è andata bene, la morte era l'unica cosa che poteva arrestare il mio consumo infinito di risorse. Mi da fastidio soltanto una cosa, a questa non c'è rimedio; non ho visto tutti i luoghi che avrei voluto visitare e sono destinato a rimanere in un buco per sempre, almeno per quei dieci anni prima che mi tolgano fuori per vedere in che condizioni mi avranno ridotto gli agenti atmosferici. Ma andate a quel paese, con tutti i bei discorso, c'è sempre tempo nei bei discorsi e poi non resta un cazzo. Quando ero più giovane vi rompevo sempre le palle, dicevo che da morto mi sarebbe piaciuta una sepoltura dignitosa, avrei voluto che il mio corpo fosse conservato nel cuore di una piaramide di marmo fatta costruire apposta per l'occasione, e dentro ci avrei fatto mettere tutti quanti gli oggetti che avevo accumulato in vita, e del cibo per il viaggio. È per questo che c'è stato un periodo in cui mi facevo sempre regalare anelli e bracciali, tutti in argento, già da allora mi immaginavo morto e steso, con le braccia incrociate e questi anelli, poco vistosi ma belli, ornamento delle mie mani finchè non mi sigillavano nella cassa. Ma guarda, me ne hanno tolto uno. Deve essere stato uno di loro, qualcuno si è avvicinato per darmi il bacino e mi ha fregato un anello, bastardi, magari tra qualche hanno racconterà l'occasione in cui l'ho regalato io, quest'anello di merda, vatti a fidare degli amici, nemmeno da morto. Mi piacerebbe rimanere in questo stato per l'eternità, non ci ho mai creduto e invece guarda in che stato sono ridotto, sono morto e ragiono come quando ero vivo, con gli stessi metri. Forse mi posso anche spostare dove voglio, sarebbe il massimo. Mi piacerebbe divertirmi, forse posso anche possedere qualcuno, posso parlare attraverso la bocca di qualcuno ancora in vita. No, esagero, forse non ho tante cose da dire. Una volta immaginavo che se fossi morto e avessi avuto questa possibilità avrei lasciato disposizioni minuziose ai miei familiari, li avrei costretti a lasciare una lavagna in camera mia, poi ogni tanto avrei costretto qualcuno sotto possessione a scrivere per conto mio. Adesso che ci penso potrei direttamente sfruttare qualcuno che sta davanti ad un computer, basta mettere la mia firma alla fine. Sulle disposizioni testamentarie si può inventare ogni tipo di clausola. Non ho fatto in tempo, cribbio. Che stupido, non ho fatto nemmeno in tempo a scrivere un pezzetino di carta, ho scritto tanto e non ho pensato al mio testamento. Pensavo che la mia scrittura fosse sufficiente e invece no. Non se ne fregheranno nulla, mi metterano come un santino nel portafoglio e non faranno nulla per la cosa che mi stava più a cuore. Che fine di merda, neanche da morto la soddisfazione. Non mi hanno nemmeno messo la musica che volevo io, maledetti, lo sapevano tutti che avrei voluto la banda che suonava arrangiamenti di Rino Gaetano, nemmeno quello. Non mi sto ricordando nemmeno una canzone in questo momento. Una, una sì, cavoli, ma la sta fischiettando qualcuno, lui! Lo sapevo che almeno lui si sarebbe ricordato, ma guarda come si è ridotto, pesa meno lui da vivo che io da morto. Ma a proposito, di che cosa sono morto? Non ricordo, anche questo è uno dei miei non ricordi. ma cosa sta facendo? Fischietta una canzone di Rino Gaetano alla mia veglia funebre, grazie, almeno te ti sei ricordato. Mi hanno messo anche l'orologio d'oro, farò una figura di merda con chi non mi vede da dieci anni e non sa che sono dieci anni che non porto l'orologio. Deve essere stata un'idea di mia madre, mi ha messo l'orologio della cresima, d'oro. Tutte le volte che l'ho chiesto per indossarlo non me lo ha mai dato, sempre questa scusa che rovino tutte le cose che indosso e che porto. E adesso invece mi ha messo l'orologio. Speriamo che non mi freghino anche quello, e poi a che cosa mi serve sapere che ore sono. Devo misurarmi con l'eternità e mi danno un orologio con le lancette. Speriamo che almeno non ci sia differenza di trattamento tra inferno e paradiso, quelli mi sembra che non esistano, altrimenti avrebbero già scelto per me. Forse questo è il limbo, forse è uno stadio che dura poco, sto pensando all'eternità e invece tra un quarto d'ora sarò definitivamente spento. Peccato. Un quarto d'ora di riflessione e poi starà tutto a voi che rimanete a guardare. Quando mi porterete in giro con la macchina non sarò nemmeno più energia. Cosa farete? Starete meglio. Ogni tanto potreste leggermi, non vi farebbe male. Penso che il sindaco potrebbe organizzarsi per intitolarmi un premio, una piazzetta, una stradina, in fondo i miracoli miei in vita li ho fatti, ho provato a stampare libri, a far circolare le mie idee e le mie s(a)critture, più di così non posso far nulla. Se solo sapessero cosa penso davvero dei premi, ma, speriamo che non succeda. E ora, che sta succedendo, no, non allontanatevi, no, voglio restare in casa, dove sto andando, cos'è questa, questo è il mio paese, no, più in alto, dove sto andando, ancora giù, ancora giù, come si guida questa cosa? Dove sto andando, cribbio, un ospedale, l'ospedale della mi città, che ci faccio in ospedale, pediatria, odio i bambini, ancora l'ospedale, puzza di cloroformio nei corridoi, quello sono io. Allora non sono morto, ma cosa sta succedendo? Non sono morto, evviva non sono morto, quello sono io, guarda quante macchine, guarda come pulso, ma cosa sta succedendo, cosa succede, noooo! Non voglio tornare, mi va bene così, preferisco morire. Mi rassegno. Ancora vita. Vediamo che succede.
“La ballata dell’uomo morto” di Mario Riviello
Mario Riviello è nato nel 1962, e con “La ballata dell’uomo morto” è alla sua seconda prova narrativa, un noir atipico incentrato sull’idea molto accattivante che la realtà non è mai quella che sembra. Giuliano De Santis lavora per una compagnia di assicurazioni, in particolare si occupa – grazie alle sue competenze – di scoprire eventuali truffe o addirittura cavilli legali che in sede di pagamento dei premi assicurativi permettano alla suddetta compagnia di pagare il meno possibile, o addirittura di procrastinare i pagamenti dei premi assicurativi al più lungo possibile. Giuliano è sposato a Marta, conducono una vita tranquilla, apparentemente e nel corso delle primissime pagine il lettore potrebbe dire che ai due non manca nulla. Entrambi sono cresciuti insieme, sposandosi e andando a vivere insieme da subito, in una casa modesta e confortevole che sono riusciti a comperare. Ad un certo momento della sua vita, tuttavia, Giuliano vive un’impennata improvvisa nella sua carriera, dovuta alla vicinanza di un faccendiere, Romani, che entra a far parte della dirigenza della compagnia e, quasi per una sottile legge transitiva, entra anche nella vita quotidiana di De Santis, per via della conoscenza e affinità che legherà le rispettive mogli. Più passa il tempo e più le cose da nascondere crescono, il mestiere di Giuliano, quello di scoprire gli imbrogli di chi vuole riscuotere i premi di assicurazione, diventa invece un mestiere inconsapevole teso al nascondimento di ciò che intende celare Romani, un delitto alla base di tutta l’immensa fortuna che ha cambiato rotta. Giuliano De Santis si trova ad essere testimone e burattino inconsapevole in una recita che volge al termine con una successione di colpi di scena narrativi, fino al colpo di scena finale che anche il lettore smaliziato difficilmente può prevedere. Mario Riviello, con il suo modo di trasmettere il più profondo cinismo che anima tutti i protagonisti all’infuori di De Santis, porta il lettore fino alle estreme conseguenze di una tragedia che esige una catarsi irredimibile. “La ballata dell’uomo morto” è un romanzo animato da un profondo senso di giustizia, un thriller che si interroga in maniera ossessiva e allo stesso tempo con leggerezza di tocco, su quanto sia impossibile condurre una vita incessantemente all’ombra di qualcun altro, quasi rimpiazzati dall’autorevolezza di chi ha condotto il protagonista davanti alla ribalta della sua vita professionale, fino al disprezzo della stessa stima di chi lo circonda. Il protagonista cercherà di coltivare un sentimento sincero nei confronti di una donna-ragazza molto più giovan edi lui, cercando di riuscire a rivivere le stesse emozioni che viveva assieme alla moglie, prima che tutti e due cominciassero a intraprendere una brillante carriera, anche questa parentesi, tuttavia, prenderà un corso imprevedibile. Un centinaio di pagine, queste, nelle quali vengono messe a dura prova tutte le nostre certezze. Fin dall’inizio, infatti, abbiamo il sentore che verrà messo a dura prova il nostro principio di realtà e il conseguente accordo di veridicità che diamo alle cose, non solo come lettori chiusi nelle pagine di un buon esempio di fiction, ma anche come abitanti di un paese dove l’arte del nascondimento e della dissimulazione vengono praticate alla luce del sole, allo stesso modo di come alcuni e pochi scrivono per svelare un segreto.
“La ballata dell’uomo morto” di Mario Riviello
pp. 103, Costellazione 85, € 10,00
Allunaggio di un immigrato innamorato – Mihai Mircea Butcovan
Un esercizio che il lettore (e soprattutto l’aspirante scrittore) dovrebbe essere in grado di condurre a piacimento senza il timore di fare la figura dell’acrobata che cammina sospeso ad un palmo da terra dovrebbe essere l’esercizio più ovvio, quello di mettersi nei panni di qualcun altro, cambiare identità, vedere la realtà con occhi differenti, riuscire ad osservare ciò che è consueto e cade sotto i nostri occhi, come se d’improvviso si rivelasse inconsueto; una pratica che richiede esercizio per l’appunto, ed esige la fuga da quelle che non sono abitudini di lettura, quanto piuttosto preferenze e punti di vista abusati. Prendiamo ad esempio Milano, la città fulcro, simbolo dell’economia, così come attecchisce nell’immaginario del lettore. Per fare un esempio di quanto la nostra terra sia stata nel decennio scorso il punto di passaggio degli immigrati, basti pensare che questo transito era labile a tal punto che per incontrare i nuovi immigrati bisognava spingersi al nord. Vedere oggi l’Italia e Milano con gli occhi di Mihai, immigrato rumeno, ci fa cogliere uno sguardo inedito, di cui non possiamo che avere bisogno, per meglio comprendere i paradossi e alcune nostre contraddizioni. Fatta questa premessa, ecco ottenuto il permesso per addentrarci nel racconto spassoso, disilluso e ironico della storia d’amore tra l’”immigrato innamorato” del titolo e una giovane ragazza milanese, padana come ripete il protagonista. Mihai Mircea Butcovan è in realtà un rumeno italianizzato, giunto in Italia all’età di ventidue anni. Non c’è punto migliore per descrivere l’ambientazione nella lingua da parte di Butcovan dei brani rap presenti nel contest di una delle scene che si approssimano alla fine del romanzo, l’autore è infatti anche un bravo poeta nella nostra lingua. La scrittura si assesta da subito su un tono ironico, ai margini del sarcasmo, si presenta come ottimo documento per copgliere quell’immagine di “Padanìa” che negli anni novanta sembrava quasi aver fornito supporti teorici alle ansie e irrazionali paure di una parte di popolazione che vedeva nell’immigrazione un pericolo, anziché una risorsa, presupposti che lasciavano il tempo che trovavano. L’”Allunaggio di un immigrato innamorato” a scanso di equivoci, pur nella descrizione delle situazioni e dei paradossi è una storia spassosa, fin dall’inizio Mihai, appena allunato, è compiacente di fronte a questo nuovo inesplorato satellite. Mihai frequenta il Moon, l’unico locale dove si è sentito subito a casa sua, forse perché nessuno gli ha fatto la radiografia appena entrato, è lì che lavora Daisy, la ragazza della quale si innamorerà. Il romanzo contiene gli stralci di una piccola storia d’amore e allo stesso tempo il seme del suo fallimento. Sono molteplici le contraddizioni, non solo italiane, che vengono evidenziate, ci sono gli immigrati che vogliono esprimere un’immagine di avvenuta realizzazione e successo, lo fanno nel modo più semplice, cioè quello di esteriorizzare. Mihai e Daisy preferiscono parlare d’altro, l’interesse di lei nei suoi confronti però è superficiale, si preoccupa della figura che potrà fare la prima volta che lo porterà a pranzo in casa sua
In sintesi: cena padana nella Grande Famiglia Padana, madre padana, padre padano, figlia padana, figlio maggiore padano, figlio minore padano, zio padano, zia padana e nipote padano, nonno padano e nonna padana. “Papà padano, esco con la mia fidanzata padana, mi dai le chiavi padane della macchina padana e la mancia padana?”
C’è la passione per la musica e la scrittura, Mihai parla di un altro Mircea, Eliade, e poi di Eugene Ionesco di cui il brano citato altri non è se non un rifacimento calato nell’assurdo contemporaneo, reale, e quindi ancora più sfacciatamente assurdo. Sarà proprio la sottile di questo effetto straniato/stralunato a rendere la cifra costante di questo romanzo, la cui postfazione è affidata a Mia Lecomte, che è anche curatrice di Ai confini del verso. Poesia della migrazione in italiano (Firenze, 2006).
“Allunaggio di un immigrato innamorato” di Mihai Mircea Butcovan
Lune Nuove 121, pp. 109, €10,00
About that New Thing
Notte di un giorno che si approssima al Natale. Macchine in strada per fare compere all’impazzata, suoni di clacson, trombe. New Thing è nelle librerie da mesi. Divorare libri e pensarci continuamente, ritornare alla struttura dell’opera, pensare di scriverci sopra qualcosa che somigli ad una recensione, un’impresa (se così posso chiamarla) che posso affrontare a distanza non più ravvicinata dall’uscita del libro di Wu Ming 1, in una notte che mi vede in casa, sul letto, quasi sul punto di prendere sonno. In televisione stanno dando Android, un film con Klaus Kinski, di certo non uno dei film che preferisco, ma preferisco dei film in particolare?
Il film comincia con l’inquadratura di un foglio da disegno, un progetto o forse l’architettura di un’astronave, no, si tratta di un progetto, il progetto “Cassandra”, lo scienziato è nei paraggi della soluzione, siamo nel 2036, il picchiettare senza sosta delle dita sul tavolo ricorda quello delle dita sulle corde di un contrabbasso. In quell’anno (2036) i personaggi di New Thing non esistono più, forse. Osservando l’inizio di questo film, tassello della carriera superbamente senza coordinazione di Klaus Kinski mi accorgo che a volte apprezzo meglio i libri che leggo, quando li paragono a quelli che non mi piacciono, non è il caso. Klaus, e mi viene in mente KK, e poi KKK, un film che mi fecero vedere ad un’assemblea di istituto, Mississipi Burning. Ma perché mi vengono in mente dei film? Questo romanzo, ad un film, ci somiglia. Se allora avessi veduto la versione in lingua del film in questione avrei sentito pronunciare più volte la parola “nigger”. Da bambino “negro” non si diceva, mia madre mi aveva detto così. Non ne avevo mai visti, soltanto in televisione, oppure d’estate al mare, ma anche quando li incontravo sotto la pineta per me erano quelli da cui compravo orologi con le suonerie, che poi puntualmente scassavo, oggi non porto più l’orologio.
Nei “titoli di coda”, sezione che compare sempre nei romanzi di Wu Ming, c’è un appunto a riguardo. Si pensa che i titoli di coda non abbiano importanza, che siano giusto una forma di saluto, invece leggendoli si capiscono le ragioni che hanno portato ad affrontare un tema seguendo la direzione che ci siamo voluti dare. Per parlare di un nero oggi si dice “una persona di colore”, però mi accorgo che quando mio padre che è in pensione dice questa parola non lo fa con cattiveria, perché nella sua mente non ancora in pensione il politically correct non ha fatto in tempo ad attecchire. Quindi se voglio sentirla pronunciare da qualcuno come se fosse “nigger”, devo necessariamente fare fede a mio padre. Ciò mi fa trarre una conclusione da New Thing, ovvero che si tratta di un romanzo in cui l’impianto da documentario si esplica con mezzi che trascendono l’utilizzo che se ne fa normalmente, e che la scrittura di quest’opera racchiude una sfida, cerca di fare i conti con un pensiero che è anche un pensiero sulla lingua. Scrivere significa produrre narrazione e far fare un passo avanti alla sperimentazione e all’utilizzo dei vocaboli, o un passo indietro, come nel caso della traduzione di “nigger”. Mi viene in mente un articolo sull’utilizzo della locuzione “valore simbolico”. C’è bisogno di fare chiarezza sulle parole, c’è bisogno di narrazioni come il romanzo di cui sto scrivendo, opere che mettano in discussione gli epicentri della narrazione. Si può scrivere sperimentando un linguaggio che parli di diversità senza il rischio di non narrare scorrevolmente e tenendo la tensione a mille. La presenza della tensione è un merito dei romanzi e dei “momenti” della scrittura di Wu Ming, che rintraccio anche negli articoli, nei racconti, nei saggi che questo gruppo di narratori mette in condivisione. Quanto più ci avviciniamo alla fine della lettura, quanto più i nodi vengono al pettine, ci accorgiamo della presenza di una persona che è dietro all’esecuzione degli omicidi, senza averne la memoria. La “cosa” del tempo futuro fa posto alla “cosa” del tempo passato, il tempo presente languisce sotto i colpi di una pistola, entrando nell’oblio e appoggiandosi come polvere sui mobili. La musica e l’arte diventano ragioni di riscatto sociale possibile, dopo la battaglia questa lotta si sposta altrove.
Forse perché questa notte non riesco a prendere sonno, si avvicina la fine del 2004, sono a letto e non riesco a crollare, cambio canale, RaiTre, repertorio, un’orchestra sta suonando, Cappella degli Scrovegni, Padova, sotto il mio appartamento comincio a sentire un rumore, sembra quasi di ascoltare un tamburo percosso da una bacchetta, è colpa del muro che attutisce i rumori, il ritmo aumenta sempre di più, oggi non dormirò, scrivo, è meglio così, il regista del concerto è niente di meno che Olmi, si sprecano le inquadrature, il direttore d’orchestra, particolari di strumenti, le dita sulla tastiera del pianoforte, immagini che si spezzettano per ricomporsi sugli affreschi, lo stridere di un flauto che fa il controcanto ad un’immagine piuttosto che ad un viso, non c’era movimento che non provenisse dalle pitture di Giotto che affollano l’edificio; il dinamismo è quello delle due dimensioni che diventano tre grazie al colore blu, lo spazio e lo spessore erompono dal suono della musica, come accade in New Thing, dove le parti del romanzo sono costruite per frammenti, scene, sezioni, percorsi che evolvono in parallelo e poi si ricongiungono attraversando più tempi. Le scene sono lì, l’edificio nel quale si trovano queste pitture è un pretesto perché si esprima la maturità di Giotto. Allo stesso modo in cui anche New York è un pretesto. La pittura di Giotto era la narrazione di allora, parte che si connettava ad un discorso sull’architettura e l’edificio che la conteneva.
La narrazione di oggi riuscirà a rendere l’unità dal frammento, dalla testimonianza su nastro, dai ricordi di musicisti che adesso hanno qualche anno in più? Secondo me sì. Entrando in New Thing ci accorgiamo subito di come Wu Ming 1 disponga frammento per frammento una vicenda che altrimenti sarebbe senza soluzione, con un linguaggio cui questo romanzo fa da stele di Rosetta nell’interpretazione delle vicende di Sonia Langmut, e, insieme a lei, dei personaggi.
La cosa che mi ho in mente di più, alla fine della lettura del libro, è lo swing. Mesi fa lessi un articolo sulle “Pantere Nere”, andai a visitare il sito (dove si parlava, ad esempio, della forma di assistenza sviluppata tra gli abitanti del quartiere), ci arrivai tramite link da wumingfoundation, materiali di lavorazione, bibliografia in corso d’opera, dopo il romanzo, resta, il melodiare di Coltrane, il rap nella sala di un barbiere, un suono, un riverbero, un sapore, questo romanzo non appartiene ad un genere. La batteria comincia subito a suonare, dall’inizio, in realtà lo strumento che suona è la voce, sottoforma di canto. Una chiave di lettura per il romanzo potrebbe essere: lo scontro del passato con il presente. Nella categoria del passato possiamo infilarci senza sbagliare: la musica e la comunicazione. La sregolatezza che espande i limiti, (e mi viene in mente A Love Supreme), ed il sassofono portato all’estremo delle potenzialità e degli hertz, mi viene in mente il registratore di Sonia Langmut, la polizia che ha dei dubbi sul da farsi per risolvere i casi di uccisione che si presentano nel corso della narrazione, i testimoni parlano ma non vengono ascoltati e nel frattempo c’è questa ragazzina che raccoglie “testimonianze” da una fetta di mondo che sta cambiando.
Il rumore sotto la camera da letto dove vorrei dormire intanto aumenta di ritmo, adesso mi sembra di ascoltare una grancassa, qualcuno ha deciso di festeggiare l’approssimarsi del natale, nella notte, facendo l’amore. Non me ne sarei mai accorto se non avessi spento il televisore e non fossi rimasto a leggere. In New Thing accade qualcosa che mi ricorda la situazione di stasera, soltanto che nella scena nel romanzo l’uomo dei fantasmi è alle prese con il frastuono di un aspirapolvere che come risultato darà pulizia, mentre qui sotto al limite come risultato otterranno la produzione di secrezioni bianchicce, qualcosa che somiglierà per aspetto allo zibetto, meno profumato del muscone e avvolto da un odore che ricorderà il lattice.
Hanno finito. Forse no. Forse stanno continuando a fare l’amore però adesso i movimenti dei corpi qui sotto imitano il mantice che si utilizza per ravvivare il fuoco, gli scricchiolii del letto prima ricordavano lo stridere di un violino mentre adesso siamo tornati alla norma, posso alzare il volume del televisore, fine di Ermanno Olmi, inizio di Alberto Sordi, “gorilla k2 della international security ai comandi prego”…, stasera proprio no, suona il gong, ora posso dormire.
pubblicato su Carmilla
Ritratto dell’artista da giovane. Artista e intellettuale nella società temporanea.
[1] Nell’affrontare un tema così vasto bisogna avere presenti diversi piani e mescolarli tra loro ammettendo onestamente l’impossibilità di raccogliere in poco spazio un’incredibile collezione di pensieri a riguardo di quest’argomento. Quanto maggiore è l’ampiezza di campo della traccia tanto maggiore e proporzionale è il desiderio di ascrivere il discorso alla mia esperienza personale.
Un discorso infatti che rimanesse legato ai tre concetti di ruolo, intellettuale e società, può darsi solo in un tempo ed un luogo storicamente dati, nell’ambito di un excursus storico, che comunque, per quanto ‘passato’, apparterrebbe ad una ‘contemporaneità’ altra. Quale, ad esempio, il ruolo dell’intellettuale e artista ebreo nella società viennese tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento?
[2] Non si dà intellettuale senza contemporaneità. Non si danno costruzioni dell’intelletto che non siano ancorate ben salde alle loro origini pulsanti, i nervi, il cervello, la vita di ogni giorno nelle costruzioni che prima di essere pensiero sono vita.
[3] Ecco perché in questo intervento non potrò scindere il mio vissuto personale di aspirante scrittore in Salento. Gli ultimi anni, qui in Puglia, hanno veduto una crescita di tutti i movimenti che sono legati sotto ogni aspetto alla scrittura. Una critica di superficie (non superficiale) desume questo fenomeno da un’accresciuta visibilità nazionale che hanno ricevuto questi luoghi. Questo processo sarebbe quindi figlio di una deriva mediatica e la letteratura raccoglierebbe le briciole di un banchetto al cui tavolo hanno già abbondantemente mangiato altri attori sociali di ruolo.
[4] La figura dell’intellettuale, avulsa dalla vita reale e gettata nel circo dei media rischia di essere confusa con quella del tuttologo. Un nome che deve comparire/apparire e comparendo si accompagna ad una qualifica, rende vano ogni tentativo di fuga dalle catalogazioni. Il tuttologo non può essere sfuggente. Tuttavia, ancora oggi, sembra che la categoria dell’intellettuale sia una metacategoria, nella quale lo scrittore, il filosofo e il poeta cadono in modo quasi ovvio. Il problema sorge quando in questa categoria, per fare numero e sopperire ad una momentanea carenza di tuttologi, viene archiviato chi ‘fa’ lo scrittore, ‘fa’ il poeta, ‘fa’ il filosofo.
[5] L’intellettuale deve esprimere la sua opinione anche quando non è richiesta.
[6] Gli ostacoli che si frappongono tra l’intellettuale e la società sono differenti e si moltiplicano se l’intellettuale è giovane. Lavoro, occupazione, arte, difficilmente riescono ad essere in accordo.
[7] Oppure, situazione ancora più confusa, si può essere scambiati per intellettuali solo per aver scelto di occuparsi di un determinato numero di argomenti con la scrittura. La forza di un intellettuale, nei confronti della società, dovrebbe essere mutuata da un carattere sporadico, dal riuscire a non affezionarsi troppo ad un modo, ad un veicolo, ad un apparato di metodi e metodologie. Il che non significa che l’intellettuale artista debba costantemente mutare le proprie idee, sono le sue strategie che devono continuamente adattarsi al mutamento come condizione.
[8] L’intellettuale, così, potrà essere un disadattato; ogni suo adattamento ad una condizione segna il momentaneo arresto della sua maturazione di ruolo, il suo ruolo di intellettuale scade in funzionalità cerebrale.
[9] Condizione essenziale affinché l’intelletto possa esprimere e filtrare la conoscenza per poi creare nuovi tasselli di conoscenza è la libertà. La libertà di espressione non è però da intendersi come libertà di parola su un tema piuttosto che un altro quanto nella sicurezza di poter disporre e vivere nelle migliori condizioni in cui la libertà possa essere esercitata. L’intellettuale che fa i conti con la società fa inevitabilmente i conti con l’economia. Il passaggio da un’economia della sopravvivenza ad un’economia dell’esistenza possibile è necessario, fondamentale. Per il momento mi considero intellettuale e artista nella misura in cui tento, attraverso la scrittura, di comunicare delle idee, e quindi di ricambiare con idee le idee che ricevo ogni giorno, vivendo la contemporaneità della mia contingenza. Mi piacerebbe essere di supporto e aiuto a chi magari le idee le possiede ugualmente ma non vive nelle condizioni di esprimerle.
[10] Negli input per la stesura di questo articolo c’era la posizione di J. P. Sartre dove si accennava alla figura dell’artista come parassita della società, è inevitabile che questo rimanga uno spunto. Per cominciare, è chiaro che una posizione antitetica a quella sartriana presuppone che la presenza di intellettuali costituisca un patrimonio comune. Di recente si è riaperto il dibattito sulla possibilità della scrittura dal fronte ‘meridionale’. A questo proposito mi sembra interessante segnalare i due interventi che aprono l’antologia Best Off, edita da Minimumfax, e curata da Antonio Pascale. Gli interventi/racconti/reportage di Maurizio Braucci e di Roberto Saviano toccano argomenti di spinosa attualità in modo dettagliato, e, senza mezzi termini, affrontano una delle tante realtà del sud Italia, quella di Napoli. Quello di cui si ha l’impressione è che non si possa parlare, per grandi linee, di problematica della scrittura su questi argomenti, quanto di problematiche delle scritture. Lo scrittore, l’artista, dovrebbe essere in grado di ricevere gli stimoli dal territorio in cui opera, riuscendo ad individuare un veicolo che sia il più diretto possibile per l’espressione di questi stimoli. È difficile parlare di un sud perché di sud ne esistono tanti. La città in cui vivo, Lecce, grazie alla sua università, è divenuta un polo di attrazione non indifferente. Una recente statistica diffusa da tutti i quotidiani, dimostrava come la percentuale dei laureati effettivi sul numero degli iscritti sia comunque bassa. Deve necessariamente esistere un anello della catena in cui alcune premesse non vengono mantenute. Il centro della città diviene una cittadella universitaria, vengono costruite nuove sedi, periodicamente per alcune facoltà si presenta il problema della mancanza di aule, le sedi vengono diffuse sul territorio. In sostanza si crea un indotto economico che coinvolge la città, per la costruzione di nuove strade, l’adeguamento delle infrastrutture e degli appartamenti, l’università che è un cantiere aperto trecentosessantacinque giorni all’anno. Tutto ciò non ha una ricaduta diretta sulla formazione delle ‘risorse umane’. L’economia riesce a risucchiare la vita per poi espellerla. Se l’economia funziona allora non sembrano esserci problemi, gli investimenti vengono fatti fruttare, i fondi stanziati vengono messi in circolazione, il numero dei laureati non aumenta in modo vertiginoso. “Una società che crede nel futuro delle proprie risorse intellettuali non può non investire concretamente in esse” questo aforisma sarà passato sulla bocca di diversi esponenti della società, della cultura, dell’economia e della politica.
Le risorse intellettuali sono persone. Il giovane intellettuale e artista deve maturare in assoluta libertà di mezzi. Gli intellettuali e gli artisti che ho modo di frequentare quotidianamente appartengono alla categoria degli intellettuali della società temporanea, la loro formazione è prevalentemente umanistica, la laurea, se c’è, è ottenuta con i massimi voti, lo sbocco sul mercato del lavoro è difficilissimo. Ne consegue che riuscire a studiare, scrivere e intervenire con azioni in un dibattito che ambisca ad ottenere un riconoscimento del dialogo continuo con l’esterno, diviene una lotta quotidiana. C’è un’altra categoria, cui appartiene una schiera di scrittori, tra i trenta e cinquanta anni sempre in Salento, e cioè la categoria degli intellettuali e artisti insegnanti. La loro condizione è apparentemente più felice perché meno afflitta da problemi economici e il tempo libero di cui dispongono permetterebbe loro di dedicarsi di più alla scrittura e alle attività di operatori culturali, cosa che in parte accade. In effetti è impossibile ridurre un fenomeno così complesso a due semplici categorie. Esistono operatori culturali che organizzano eventi culturali con un minimo dispendio economico e un massimo dispendio di energie, inizialmente senza il supporto delle amministrazioni, che giungono a patrocinare economicamente un’iniziativa quando questa è già divenuta un evento culturale. Esistono situazioni di confine, compagnie che vanno a fare teatro e veicolano discorsi nelle scuole di periferia. A volte il sostegno economico che un’amministrazione può fornire è così basso da risultare quasi imbarazzante e, naturalmente, tra gli artisti e gli intellettuali si crea un cortocircuito che fa perdere di vista ogni nobile ragione intellettuale e fa pensare unicamente in termini di concorrenza sul territorio.
[11] La cultura, in Salento, è resistente. Si producevano interventi e dibattiti venti anni fa, dopo che la stagione poetica dei Comi, Bodini e Pagano si era conclusa, in luoghi e occasioni che non erano ancora collocati in un immaginario collettivo. Il fenomeno più interessante, a cavallo tra gli anni ottanta e i novanta, è forse costituito dal fatto che buona parte della produzione intellettuale e forse alcuni degli stimoli più interessanti, sono provenuti da persone che non lavoravano nell’Università, il che vuol dire che è possibile avviare discorsi dotati di senso anche al di fuori dell’ambito accademico, magari (come succede di recente nell’organizzazione di convegni) riuscendo ad affiancare questi due modelli e questi ambiti differenti (e persone) di provenienza. La cultura oltre che ad essere resistente non è cultura del sottosuolo, importante in proposito dovrebbe essere un processo di apertura degli archivi, catalogazione delle carte, approfondimento storico di quanto è accaduto in letteratura, opposto ad un processo di costruzione degli altari ed estenuazione di nomi sempre identici, il che vuol dire, in una parola, aprire gli innumerevoli ‘fondi’ prima che se ne smarriscano le chiavi.
[12] Al termine della stesura di questi appunti è come se avessi dimenticato qualcosa, mi sento come se non fossi riuscito ad esprimere nella totalità quello che avevo in mente. Ne approfitto per suggerire la lettura di un articolo, che ho scritto nello scorso mese di marzo e ho pubblicato sulla nostra rivista (trova qui), ne approfitto semplicemente perché il sottotitolo di quell’intervento era “Le ragioni del lavoro intellettuale” e mi sembra che alcuni temi che non ho affrontato in questa sede, non sono stati affrontati per non dare una replica degli stessi. Era impossibile, lo sapevo, parlare di intellettuale e società, un argomento davvero ampio. Da questi frammenti traggo un possibile bilancio; difficilmente l’intellettuale o l’artista potranno essere solo intellettuali o solo artisti, il mondo in cui viviamo non ci permette di occupare lo spazio come ipostasi o epifanie; altrettanto difficile è pensare che il percorso formativo possa essere racchiuso all’interno dell’università e dei corsi di specializzazione. Questo soggetto così difficilmente proponibile, così evanescente come l’intellettuale, deve essere in grado di comprendere ed agire nel mondo, anche nel mondo del lavoro, per non esserne fagocitato o assommato a scrittore di contenuti, non più attore sociale, utile solo a riempire delle caselle rimaste vuote.
pubblicato in “Ulisse n.4“
Luci e ombre da una vita che è sogno. Su “L’oratorio della peste” di Raffaele Gorgoni
“L’oratorio della peste.” è il secondo romanzo di Raffaele Gorgoni, pubblicato dopo poco meno di due anni dal suo esordio, “Lo scriba di Casole” (sempre per i tipi di Besa Editrice). In questo nuovo romanzo, il cui sottotitolo è “Il segreto di Lecce”, la visuale si sposta, rispetto al precedente, sulla città di Lecce, che diviene il fulcro dell’intero “oratorio”, come rimarca lo stesso autore, Lecce non aveva ancora un suo romanzo, che, nelle intenzioni di Gorgoni, potrebbe essere questo. Cosa intende l’autore con questa affermazione? L’esistenza di un ‘immaginario’ letterario che va sempre più addensandosi attorno questa terra – il Salento – senza rendere conto dell’origine, se c’è stata, di un mito. Ecco quindi Raffaele Gorgoni partire da un momento ben preciso – l’anno 1656 – anno in cui la peste, dopo aver imperversato nella penisola, giunge fino alle soglie della città, che non ne viene colpita. I diversi capitoli, disposti come ‘atti’, ‘quadri’ e ‘corali’ di un ‘oratorio’, nascono per l’appunto come momenti di un dialogo corale e teatrale senza musica – così vorrebbe l’ascendenza con il genere musicale – per divenire narrazione in cui musica, suoni, colori, sono dati dalla materia linguistica assai ricca utilizzata dall’autore, in questa prova con più maestria di dosaggio rispetto al romanzo precedente. Perché la peste? La peste come regolatore sociale motivo di ripopolamento a ridosso del secolo in esame, a causa delle innumerevoli morti subite dalla popolazione nei secoli immediatamente precedenti (si contavano allora in Europa circa centomilioni di abitanti contro gli 80 del 1500). Per chi abbia letto “Lo scriba di Casole”, dove la ricerca storica e la lingua, erano fuse in un unico, che (in alcune dettagliatissime descrizioni) si sbilanciava sul prospetto del documento, ebbene, per chi abbia avuto un’impressione simile ecco che il risultato dell’Oratorio, dal punto di vista della lingua è ancora più felice, il romanzo, dopo un prologo storico nel quale l’autore apparecchia la scena del gran teatro storico, filosofico ed economico, da il seguito ad un primo capitolo dove i colori, i suoni e i sapori irrompono prepotentemente, in una tavolozza che non è dispiegata per ‘colpire’, dato che la troveremo in ogni pagina, con densità e numero di sfaccettature impressionante; non solo tramite la ricostruzione storica, ma anche grazie a questi elementi, Raffaele Gorgoni ricostruisce un’epoca. Quando la peste si arresta alle soglie della Terra d’Otranto la popolazione grida al miracolo. Ma la storia non ha oltrepassato nemmeno una cinquantina di pagine, cosa ci attende? Cosa lega le vicende di Lecce a quelle del resto d’Europa?
I personaggi di Diego, Angelina, Don Lorenzo, Don Ottavio, Don Palma, Monsignor Pappacoda, si stagliano con autonomia, soprattutto Diego, per vastità d’esperienza, oltre per il fatto di essere attore pieno e anche interprete più attento e consapevole di ciò che stiamo leggendo. Aleggia sulla narrazione l’attesa per la riunione dell’Oratorio, scena corale che muoverà e regolerà i destini dei protagonisti. C’è poi Amelia, femme savante che conosce la scherma e Cartesio, e discorre dell’horror vacui dei devoti nei confronti della rivoluzione scientifica che si sta per apparecchiare (Galileo, Torricelli, Pascal) che prima ancora è rivoluzione dei rapporti di potere.
Las Meninas – Velasquez – 1656. Il secondo atto è proprio dedicato a Diego e ai suoi viaggi e conoscenze in Europa, tra il 1647 e il 1656, Diego, “un leccese mezzo spagnolo e mezzo ebreo allevato da una vecchia cinese e da tre femmine, una francese, una tedesca e una spagnola e, per sopramercato, un vescovo. Bel futuro!”. Lo stesso protagonista, per sua ammissione, è crogiolo di razze ed estrazioni, simbolo di quel crogiolo che da secoli è stato ed è il Salento, dove è bandita, dirà un altro personaggio, ogni limpieza de sangre. In questo atto, come nel suo romanzo precedente, Raffaele Gorgoni approfitta di un itinerario nello spazio per fare compiere al lettore un viaggio nel tempo delle opere d’arte, della letteratura, dei retroscena di episodi storici cruciali, come le trattative in corso nella città di Münster. I tumulti che in quegli anni hanno visto il sollevamento del popolo, guidato da Masaniello, non arriveranno a Lecce, verranno sedati dal buon senno del Pappacoda, buon senno che ricorre come caratteristica mediatrice di questo personaggio, associabile forse a quella di un Mazzarino un po’ benevolo che tiene più alla stabilità politica di una città che alla sua ricchezza, o quanto meno che il fasto si accordi alla quiete.
Prima ancora della diffusione di una letterarietà salentina, ecco un romanzo che ne elabora una visione sistemica che non è cartolina, né immagine cristallizzata e scollegata dalla storia, a partire dalla decostruzione di miti, come quello del Barocco, che in Puglia e in Italia, parlando di Lecce, rasentano l’uso di concetti da guida turistica, e quelli soltanto. Le descrizioni della peste, così come provengono dal nord della penisola, dimostrano l’utilizzo delle fonti letterarie dirette, oltre che storie, come ad esempio il Manzoni. Il genere di partenza, quello del romanzo storico, diviene strumento per analizzare la realtà dell’oggi, sfrondandola di false sovrapposizioni, miti infondati, dicerie, turismi dell’essere, che dalla Terra d’Otranto hanno fin troppo spesso attecchito (basti pensare a quel “Castle of Otranto” di Walpole che, pur non ispirato a Otranto è libro da sempre vendutissimo in quella località), fino a quello più autorevole, quello del Barocco, nel quale l’autore riesce a trovare – con acuta osservazione su ciò che pertiene all’opera di scalpellini nel prospetto di Santa Croce – una buona dose di oscurità e tenebra che bilanciano la presenza, in questi luoghi, di così tanta luce, ben oltre alle vicende che portarono Sant’Oronzo a ‘spodestare’ Sant’Irene e divenire patrono della città. Un momento colto con maestria di narrazione, l’ultimo in cui tutta la città, insieme ai protagonisti del romanzo, al popolo e alla storia sono riusciti a specchiarsi e guardare se stessi, un’unica e un’ultima volta, come lo sguardo di Velasquez che si cattura ne Las meninas (dipinta proprio in quel 1656), che non a caso, per la sua unicità, è stato scelto da Foucault per descrivere un momento storico di transizione epistemica. Nota finale e scelta importante, quella di Raffaele Gorgoni, di dotare di un prologo ‘storico’ che consenta a chiunque di assorbire l’importanza di un anno, e di lasciare invece alle sonorità onomatopeiche di alcuni termini della lingua leccese – e non ad un glossario sterile di lemmi in ordine alfabetico – la pittura dei suoi ambienti multicolore, motivo che fa di questo romanzo il documento di un’attitudine, quella per cui si può trasmettere un dettato senza tradirlo.
Quel che ci lascia questa lettura, sta qui il merito, è la visione di un mondo, l’era è quella in cui l’Io irrompe sulla scena filosofica, questo quid composto da umori intangibili e appena accennati, sensazioni non meglio localizzate (ancora non storicamente o filologicamente localizzate) nelle opere di filosofi che aspirano alla libertà, anche religiosa degli individui. Tema che attecchisce nel racconto di quel periodo della storia di Lecce, percorsa da tutte le confessioni in quasi tutte le declinazioni che l’età moderna offriva, dall’asceta al secolare, teatini, olivetani, francescani, chiese ortodosse e bizantine, monasteri, nomi che compongono ancora oggi la storia e la geografia di una Città, qui anticipata.
I “Diecimila e cento giorni” di Claudio Martini
Claudio Martini, con “Diecimila e cento giorni” è al suo esordio di respiro, con un romanzo la cui storia abbraccia un arco di tempo di ventisette anni – i diecimila e cento giorni cui fa riferimento il titolo del romanzo – snodandosi tra l’Italia (Bologna) e il Perù, la Bolivia e poi il Nicaragua e il Kosovo. Martini aveva pubblicato (oltre ai testi inerenti il suo lavoro di psicologo) un libro di racconti e diari di viaggio, intitolato Sguardi (raggioverde edizioni, 2004); già in quella prova aveva dimostrato un’acutezza rara nel riuscire a descrivere emozioni e situazioni germinali, in maniera analitica, scrupolosa, senza risultare ridondante, una chiarezza di stile, la sua, che il lettore percepisce fin dalle prime pagine, i suoi ‘sguardi’ sono spaccati di situazioni, carati sull’oggetto, i rapporti tra uomini e donne, le storie che si incrociano e cercano di uscire dall’ambiguità per far ritorno ad una limpidezza di vita presunta o quantomeno sognata. L’esatto, nell’indagine del razionale e irrazionale, è il limite di Claudio Martini, il confine che l’autore percorre con prosa asciutt. In questo suo primo romanzo le storie si intrecciano in parallelo, un botta risposta essenziale in cui la narrazione è lo specchio dei tempi, lo scenario è la mutazione politica e sociale del nostro paese, dagli anni ’70 a oggi, con un inedito punto di vista esterno, dall’America Latina, dove la vitalità dei protagonisti ‘impegnati’ in quella zona stride con l’abulia di Riccardo, il primo personaggio che fa comparsa sulla scena del romanzo, bulimico, in piedi su una bilancia elettronica. Si badi bene, non siamo alle prese con un romanzo che approfitta di piccole storie individuali per riflettere il mutamento, la freschezza (nonostante tutto verrebbe da dire) di personaggi come Consuelo o Fatima, denotano un interesse identico per i caratteri e per il contesto. E’ difficile non immedesimarsi nei personaggi. La prima scena, come accennato, vede Riccardo, insoddisfatto della routine, pesarsi: la bilancia è implacabile, 112.4kg, metafora che certifica la pesantezza di un’esistenza che raggiungerà il suo culmine negativo a Napoli, nella stanza di un hotel di lusso, con un tentativo di suicidio ridicolo per gli esiti ma altrettanto denso di significato per gli esiti in termini di svolta esistenziale. Al termine della prima parte, dove Riccardo e Fatima saranno in osmosi, ognuno avrà fatto entrare un po’ di luce nella vita dell’altro, lei non riconosce subito l’amore, perché non sa che cosa sia, mentre lui, alleggerito, avverte al lavoro che “farà un po’ di ritardo”. Brevi scatti su storie che evolvono, cercando di mitigare l’impatto dei sentimenti e dei desideri sulla vita. Diversi gli spunti interessanti che provengono dalla professione e gli interessi di Claudio Martini, che trasfonde in uno dei personaggi (l’unico che parla in prima persona) elementi autobiografici (l’interesse per l’emancipazione politica ed economica di zone potenzialmente ricche di risorse in America Latina, l’EZLN). Emersione, Immersione, Navigazione, Approdo, i titoli delle quattro sezioni del romanzo, infine, rimandano ad una costante, quella di un ‘viaggio’ che tutti i personaggi coinvolti nella narrazione sperimenteranno su sé stessi, fino al capodanno del 1994, giorno nel quale ognuno di loro verrà colto, nel bene o nel male, in un momento di vita nel quale la scelta personale è divenuta un punto fermo, contro l’incertezza e l’instabilità della vita vissuta in precedenza.
Angelo Petrelli: farsi di un’elegia esordio.
Angelo Petrelli, dopo essere approdato nel 2003 sulle pagine di Vertigine, il periodico di letteratura curato da Rossano Astremo, ha esordito nel gennaio del 2004 su musicaos.it. Archi di tempo che potrebbero sembrare brevi come potrebbero, invece, fornire il tempo ragionevole per la riflessione sulla maturazione di un pensiero poetico, su un esordio di un poeta poco più che ventenne. Questo breve scritto raccoglie spunti di lettura, brevi annotazioni sulla densità dei testi poetici contenuti in Elegia, esordio importante dal punto di vista della produzione di Angelo Petrelli, che nel frattempo ha avuto modo di riflettere anch’egli su questi testi e meditare altre direzioni, alcune simili ai testi contenuti in questo libro, altre totalmente differenti. L’esordio di una voce reclama il suo status con prepotenza, irruzione, frattura. Nell’esordio di un poeta finiscono le poesie che hanno chiuso, a giudizio dell’autore, la fase di apprendistato necessario alla scrittura di versi. L’esordio in tal senso costituisce uno iato sul piano delle scritture possibili. Angelo Petrelli è di sicuro un (giovane) poeta. Del giovane poeta possiede una delle caratteristiche fondanti, l’incoscienza, quel sentimento che si mescola all’irruenza che i giovani coltivano al margine delle estenuanti letture, e che si concretizza nel possedere un’idea certa, un pensiero manifesto di ciò che comporta scrivere, anzi, di ciò che è la propria scrittura. E’ come se in assenza di maturità ogni giovane poeta se ne costruisse una propria da sé, e in questa si specchiasse per trovare i motivi della propria scrittura. Le poesie di Elegia dimostrano come questa prima maturità sia stata costruita e raggiunta.
Costruzione di situazioni ed ambienti che riescono ad essere delineati e sfocati insieme, delineati nella presentazione del verso, localizzati, compatti, e sfocati nell’intenzione del resoconto, fumosi, sfuggenti. C’è una tendenza, diffusa in questi versi, nell’assumere su sé i contorni dei paesaggi notturni, del tempo in cui ci si svolge come pensiero (“quando ancora buio disperavo”, “quel tempo ero da poco immaginario”). Questi modi presuppongono un estraniamento, voluto, del poeta da sé come oggetto del canto e del poeta dai suoi stessi versi. In sostanza, Angelo Petrelli, tra le varie condizioni che va via via costruendo come proprie, instaura un rapporto di supervisione del reale, supervisione che, certamente, è portatrice di un giudizio. Ciò ci fa intuire, a lato, la genesi di un carattere. Allo stesso modo l’esperienza del vissuto, amoroso elegiaco diviene oggetto di continua riflessione, dominata da costante amarezza.
Il poeta muove i suoi passi all’interno di una città, Lecce, “sonora/di dozzine di piccole orchestre/all’aperto[…]” e nella ripetizione di..di si sente il distacco nei confronti di questi luoghi, della “gente fottuta”, nell’”insidia sull’oscura/pietra”. Una città dominata dalla propria ansia di mettersi in scena, all’interno della quale si consuma il dramma del poeta, insofferente ad ogni convenzione.
Tema ricorrente è la morte, il distacco, vissuto per lo più come terrore del distacco dalla persona amata che si traduce in amara considerazione di irreparabile perdita, a prescindere che questa sia reale o puro appoggio di finzione. L’amore è questa cosa su cui si è costruito l’episodio, l’antecedente, che si risolve nei versi di Angelo Petrelli come assoluzione (“che tutta la fatica risarcirai/…/la mia soluzione”). Continuo il richiamo ad un ‘non morire’ presunto, culmine negativo di un amore epico, se con questo aggettivo traduce il sovraccarico tensionale del quale il poeta investe ogni situazione raccontata. La vita e la morte sembrano volersi scontrare in questi versi, lente di ingrandimento voltata all’indietro, sulla coscienza del poeta, che ingigantisce ogni piccolo avvenimento, fino a farlo divenire un appuntamento con il nulla, una partita di scacchi con la morte (“you are to kill me today -/(,…)/as though me drowning/within your last play”), trasformandosi da lente di ingrandimento in specchio ustorio. Questa vena sotterranea, figlia dei crepuscolari e del D’Annunzio di Alcyone affiora poche volte, ma è presente, anche tenuto conto del fatto che i riferimenti più vicini di Angelo Petrelli giungono fino alle soglie della poesia del novecento, senza sconfinare nella contemporaneità più dichiarata e qui è necessaria una precisazione: lo stile della propria poesia, la scelta di seguire alcuni suggerimenti e alcune letture, tutte queste sono le componenti che fanno un esordio differente rispetto ad un altro, e qui potremmo inserire, senza timore di inferire ai versi del Petrelli soluzioni non sue, autori come Pavese o Rilke. Sono i versi questi, dove si riconoscerà l’ordito delle letture, l’utilizzo di soluzioni culturalmente mediate, di sicuro effetto, nonostante siano esse esenti da ogni ricercatezza (“dove dolgono le mani suonare, m’è morta tutta/intorno la risposta”, “noi tale fu la voglia che un’invenzione, et forma d’una fredda”). E’ nell’apparente tortuosità di certe soluzioni che vanno rinvenute le tracce di influenze letterarie. A proposito dell’idea di soluzione, va aggiunto che proprio in contrapposizione di questo discorso poetico, la cui dominante cromatica è il nero, nel testo che da il titolo a tutta quanta la raccolta è contenuta la soluzione, il perché di una luce assente a questi versi.
In questi versi si delinea la forma di una religiosità aliena da ogni divino, se non come simulacro di parole (“nel nome del suo nome”, “da Dio stesso capirò la storia ridicola/della genesi[..]”,”la breve croce”), non v’è alcun conflitto con il divino, che non si pone in alcun modo come alter nel discorso poetico di Angelo Petrelli, chiuso tra il sé del poeta, con se stesso, e la donna alimento d’elegia.
Rien Nul è la silloge, all’interno di Elegia, nella quale si ritaglia lo spazio di un breve canzoniere, il cui pretesto è dato da una relazione d’amore interrotta. Va notato che Angelo Petrelli riesce a non incappare in un errore comune agli esordienti, quello cioè di riempire con filosofemi le proprie poesie. Il suo non può certo dirsi un dialogo a due voci. Il poeta prende spunto da quanto accaduto con la sua (reale e distante) interlocutrice, per ri-versare in poesia l’astio nei confronti delle convenzioni sociali e dell’amore concluso. Queste poesie sono dense del rimpianto di ciò che è stato, al punto che per brevi attimi l’aderenza tra l’immagine di sé che il poeta ha costruito in altri luoghi della raccolta cede il passo all’immagine reale, all’autore in carne ed ossa, carico del suo vissuto sentimentale ed emotivo. Certo, la bravura dell’autore consiste nel non cedere il passo ad alcun sentimentalismo, nonostante uno scarto linguistico evidente. La realtà diviene esploso dell’intimità (“[…] come/alla finestra ansiosa, pronta”), fino a tendersi in forme volutamente piane (“giocavamo all’amore senza/fuggire – e sincero ti chiesi/puerile d’amarmi per sempre,…”). Se in questo verso non ci fosse stato quel “puerile” difficilmente avremmo potuto considerare seriamente come poesia il resto della costruzione. Qui si riconnette, semplicemente, la condizione biografica da cui la silloge è scaturita, il poeta, almeno in ciò che gli compete, i versi, cerca di recuperare lo scarto sulla vita vissuta, terreno sul quale l’interlocutrice (assente) si è dimostrata sicuramente più abile.
Il tempo, in Rien Nul è luogo della disfatta, nel quale si consuma l’amarezza del vivere il leit motiv del “ho ingoiato” come quello delle ripetute negazioni: “[…] tutto l’amaro/che non importa deve essere una/via del cuore”, “[…] il tempo/feroce che non finisce” e ancora “[…] del giorno che pensai/un domani e l’avevo già visto”
Il poeta si assesta nel mezzo del tempo con forme di completa di negazione, “non posso più credere” diviene, in sostanza, la formula di queste poesie. Il poeta non può “morire tra le tue braccia”. La silloge si chiude, nuovamente come si era aperta, su quell’”amaro”, altra chiave di questa sezione di versi.
Si è parlato dello specchio che viene costruito utilizzando i richiami ad esperienze poetiche complete (Thomas, Celan), in alcuni luoghi il poeta sembra disporre di mezzi inaspettati, basti leggere questa strofa, una delle più riuscite e che vale la pena di riportare:
Mi lamento per ogni grazia ricevuta
perché la breve croce sotto muta – la donna
che sembra disciolta nel mio seme
è donna perché mi cresca come radice
assai più profonda del mio cancro
di questo Dio dal cuore troppo inesauribile.
Ma c’è un altro elemento che affiora da questi versi, sia che esso voglia solversi in un estetismo reiterato e onirico, con l’utilizzo di immagini prese dalla poesia macabra, con riferimenti chiari a Baudelaire, dove il macabro è inteso come autocompiacimento nell’osservazione del male, della cattività generata dal distacco e dalla perdita, miste ad un’ammirazione della propria, crescente, angoscia. Questa influenza, che può ascriversi a buona parte della raccolta, costituisce un elemento dal quale, il lento distacco è già presente nell’ultima produzione di Angelo Petrelli. Avere posto il proprio io e la propria esperienza al centro di tutte le tematiche di questa raccolta è il motivo per cui Elegia, nell’equilibrio degli elementi fin qui esposti, si presenta come esordio notevole. La città, le persone, Dio, sono figure lontane, fanno da sfondo; la morte, il distacco, l’amore, anche se a volte tradito da un amore di sé più spiccato, sono tutte sfaccettature di un unico piano.
Cosa resta dunque, al termine della lettura di questa raccolta? La prima domanda, legittima, è quella relativa al titolo/genere scelto dall’autore per il suo esordio, un’indicazione chiara. Elegia, se intesa come ‘lamento funebre’ in senso lato, non sostiene nel caso di Angelo Petrelli una poesia che centra il proprio fulcro sul tema della morte. Rifiuto dell’eros d’essere elegia può forse voler significare il contrario, l’eros, in tal senso, può salvarsi, può essere la variabile che non dipende da tutto quanto detto riguardo l’angoscia, il desiderio di non morire, l’amarezza dell’esistenza. E’ proprio l’ansia di elegia, “questa mia sete d’angoscia t’ha fatto morire”.
Angelo Petrelli riesce, riesce nel tentativo di non affrontare le tematiche dell’amore e del distacco senza essere scontato, si pensi ad esempio alla breve sezione intitolata Death and love song, il cui titolo potrebbe essere tranquillamente posto come sottotitolo ad Elegia.
Riesce, nonostante la giovanissima età, a non essere affetto da giovanilismo del verso, e quindi a poter interloquire con la materia che si è scelta senza soccombere ad essa.
Quello che adesso necessitano, le poesie qui contenute è il dialogo con i lettori.
Certo, è presto per cogliere tutte le coordinate di questo esordio. Una nuova silloge, già in lavorazione racchiude ulteriori soluzioni a questi quesiti e questa introduzione sarebbe capziosa ed ingannevole se non fosse riuscita a racchiudere, anche marginalmente, quanto c’è di Angelo Petrelli in Elegia.
Pubblico in questo post l’introduzione scritta per i versi di Elegia, l’esordio di Angelo Petrelli; il volume, edito da Besa Editrice nella collana Poet Bar, diretta da Mauro Marino, contiene inoltre interventi di Michelangelo Zizzi, Giuliana Coppola e Serena Mauro.
Elegia, Angelo Petrelli, euro 5,00, pp. 48.
Gli “Sguardi” di Claudio Martini
Claudio Martini compirà cinquanta anni tra tre settimane, gestisce i progetti di valutazione della qualità dei servizi tossicodipendenze presso la ASL n°3 di Torino, nella nota riportata qui sopra potrete leggere altre informazioni biografiche sulla sua (densità) di vita. Claudio Martini è uno scrittore, la sua scrittura e le sue modalità di espressione artistica non sono disgiunte dalla sua presenza sulla rete, il suo sito personale ospita racconti, spunti e riflessioni; lo pseudo-nimo che ha scelto è writer, dove con write si deve intende chi scrive sui muri.
Il suo ultimo libro ‘Sguardi’ è uscito con Raggio Verde, la casa editrice leccese legata all’omonima associazione artistico-culturale, dalla quale sono emersi alcuni dei talenti della scena nazionale e salentina, un luogo dove si sono organizzati centinaia di eventi.
Cominciamo parlando di ‘Solitudine’, uno dei racconti contenuti nella seconda parte del libro, intitolata ‘Ordinarie Patologie’. Un vecchio professore di filosofia accarezza il sogno di (ri)scrivere in un libro (al massimo di mille pagine) la storia del mondo, una storia apocrifa che parta da Atlantide e arrivi ai giorni nostri. La scrittura dovrà essere fantasiosa ma realistica, supportata da valide (seppure inventate) documentazioni; la riscrittura della storia si arresta non appena il professore giunge alle soglie della modernità, all’invenzione della stampa e al 1476. Claudio Martini costruisce e annienta nel giro di poche pagine un mondo compiuto. Il suo personaggio si ripega su se stesso, il mondo cui vorrebbe dare una nuova storia non gli piace, sprofonda in una solitudine che gli da un breve sollievo, “anche le energie investite (che noi chiamiamo impropriamente emozioni o affetti) sono rette da leggi idraucliche, da una meccanica di apertura e chiusura simile a quella di un rubinetto che regola il volume dell’acqua […] Se io aiuto qualcuno, lo faccio in base ad un calcolo preciso, ad un’equazione matematica. Assecondare le sue richieste è meno faticoso, che negarle”.
Nella scrittura di Martini si avverte un senso profondo del cinismo, un ciniscmo dettato da constatazioni minuziose e realistiche della vita quotidiana. Nella seconda ‘patologia’ Martini scrive il discorso di uno scrittore che è in procinto di ritirare il Nobel per la letteratura, creando un distacco e una sorpresa tra quello che c’è prima (ferree considerazioni morali sulla necessità del mantenimento di un ordine costituito), e il dopo (scoprire che queste considerazioni sono il frutto di una mente che in teoria dovrebbe essere illuminata da un pluralismo culturale), al di là di ogni paragone, per rendere più facile l’esempio, sembra di ascoltare Celine mentre sta per andare a ritirare l’ambito riconoscimento.
Questo è uno dei modi utilizzati da Martini per creare disagio e sorpresa nel lettore, presentare meticolosamente una situazione, per poi farci crollare addosso il suo esatto opposto.
La prosa di “Sguardi” è limpida, senza pesantezze né compiacimenti, scorre veloce e al termine di ogni racconto ci lascia una domanda, vaga, terrificante; se le prime due storie possono essere frutto di fantasia su cui si innestano pensieri reali, in “Flame Sperimentale” siamo a contatto con la più cruda realtà, una chat erotica, pretesto per un rapporto a tre, una lei e due lui, il protagonista diviene succube psicologico del suo ‘maestro’ di giochi, i tre si perdono di vista, lo ‘sguardo’ dell’autore è vigile, l’incontro del protagonista con il suo ‘maestro’: “Cammina insieme ad una ragazza alta e bella, parlano con tranquillità ed indolenza”.
Questi “Sguardi” sono l’esatto contrario, il ciniscmo è dettato dalla partecipazione e non dall’indifferenza. Il racconto è costruito in due movimenti, nella conclusione del secondo Flame viene approfondita la vicenda del ‘gioco’, naturalmente con finale a sorpresa. Uno dei temi che affiorano più spesso è l’attrito tra l’uomo e la città, descritto con spietatezza, il ritmo che va mantenuto per affrontare la giornata, le mille contraddizioni che nascono nella mente, perché i protagonisti di Martini è come se non agissero, bensì ‘svolgessere’, secondo un principio morale dettato dall’ineluttabilità di una vita che non piace. Questa sezione del testo si contrappone alla prima, dove l’Autore fa un resoconto di luoghi (Lisbona, Praga, Edimburgo, Torino, Fez, L’Avana, Stann Creek, Città del Messico), viaggi, incontri ed esperienze. La vividezza dei suoi incontri fa da contrappeso alla spietatezza del mondo descritta nelle due parti seguenti.
C’è un racconto, ‘L’odio’, che racchiude gli atteggiamenti del personaggio nei confronti della realtà. Lo stesso accade nella terza ed ultima sezione, intitolata “Frammenti”, dove Martini conduce una disamina delle ‘repulsioni’. Un gioco ed una narrazione che risulterebbero sfiancanti se non condotti, come fa l’Autore, con precisione nella ingua e misura nel dosaggio degli effetti, la prosa di Martini non è mai superflua, si gioca sullo spiazzamento, sulla presentazione di ‘orrendi’ luoghi comuni, nei quali irrompe uno scarto ‘sorprendente’, un deragliamento finale. In ciò alcuni momenti di ‘Sguardi’ ricordano la prosa dell’esistenzialismo colto nei suoi esperimenti meno noti e più cerebrali (vedi “Il solitario” di Ionesco o i primi romanzi di Gombrowicz).
Claudio Martini nasce a Taranto il 28 Gennaio del 1954. La sua famiglia si trasferisce a Torino nel 1956. Si laurea in Psicologia Clinica, presso l’Università “La Sapienza” di Roma nel 1976, con 110/110 e lode.
Tra il 1978 ed il 1979 lavora come psicologo nel servizio socio-psico-pedagogico rivolti ai minori disabili presso l’Unità Sanitaria del Casentino (Arezzo).
A 26 anni si trasferisce in America Latina dove, tra il 1981 ed il 1984, assume il ruolo di coordinatore della ricerca e docente ordinario di Psicologia dello Sviluppo, Consulenza Educativa e Metodologia della Ricerca Psicologica nella Facoltà di Psicologia della Università di Guanajuato (Messico). Tra il 1984 ed il 1986 entra nella Direzione Generale del Ministero della Pubblica Istruzione del Messico, come ricercatore nel campo della psico-matematica.
Nel 1986 rientra in Italia e fino al 1993 svolge attività di ricerca, formazione e supervisione con una pluralità di organizzazioni ed istituzioni, tra le quali occorre menzionare il Comune di Torino, le cooperative di servizio alla persona di Torino e Collegno, la Asl 24 di Collegno, i C.E.M.E.A di Torino, il Centro per l’Educazione di Torino. Nel 1999 ottiene il Master in “Metodologie Epidemiologiche applicate alle Tossicodipendenze” presso l’Osservatorio Epidemiologico della Regione Lazio.
Claudio Martini – Sguardi – Il Raggio Verde Edizioni – Aprile 2004, pp. 120, prezzo € 10,00, raggioverde_lecce@hotmail.com, clicca qui per il sito
Neuropa, Gillioz, orbis tertius.
All’inizio il nulla. Prima che la pagina sia aperta. Neuropa. Poi la genesi, la genesi di IO, tramite indizi, ricordi, citazioni. Ma IO può permettersi di essere tale? La nascita della coscienza, non più solo DIO, pneuma che soffia il comando alla mente, ma IO. A colloquio con il padre, con il prete. Ricordi. Da subito la scrittura di Neuropa si crea come la ‘lingua’ di Neuropa. IO tenta di compiere buone azioni, non importa che siano geocentristi o eliocentristi, l’importante è ricordarsi di essere buoni…una parola! Più facile a dirsi. Neuropa è un romanzo inedito, definito dal suo autore, Gillioz (Gianluca Gigliozzi) ‘poema epicomico in prosa’, dalla lettura risulterà essere, anche, un romanzo filosofico. Un lavoro estenuante condotto sulla coscienza e sulla lingua, passando attraverso il pensiero filosofico e i dilemmi della storia, tra il diciassettesimo ed il diciottesimo secolo, a cavallo di Francia, Spagna, Germania, Italia e Inghilterra. Il tempo impiegato è sicuramente giustificato dal lavorio condotto sulla lingua, estenuato con leggerezza in ogni pagina di quest’opera. Ecco perché, forse, Neuropa merita di essere chiamato poema, nonostante durante la lettura venga in mente un richiamo costante al teatro del mondo, le scene/paragrafi infatti vengono presentati come quadri, situazioni, ai quali si aggiungono i resoconti, i documenti, le lettere che IO semina attraverso i secoli. IO si trova rinchiuso nella ‘montagna’ della Bastiglia, a dividere lo spazio della cella insieme al marchese (Sade), la lingua si fa genetica dello spazio e del tempo, altri indizi, altri luoghi, Sade che gli propone di diventare l’Attore delle sue opere. La confidenza tra i due, malgrado lo scorno di Sade che non vede in IO un interprete consono, è amichevole, IO propone a Sade di raccontare una trama nuova, la sua storia, dove c’è tutto ‘dettagli, teogonie, domande, visioni’. Un’opera, questa, che si costruisce con un susseguirsi spontaneo di genesi, prima la genesi dell’IO, in seguito una genesi dell’opera, che nasce dall’abisso del terrore storico ‘perché dal vuoto si possa ripartire’; questo percorso di genesi va al passo con la descrizione della scena, bisogna che la lingua, una volta riacquisita la propria verginità di accordo con le cose cominci a raccontare, proprio dall’inizio, dalla ‘creazione’.
Obiettivo di questa narrazione, dare ‘senso, spessore, corposità’ alla parola LIBERTA’ ed alla coscienza, un compito così alto e nobile da richiedere l’intervento del Divino (Marchese) e non solo. L’autore decide di cominciare, dopo questo prologo, a narrare le vicende a partire dal 1671, Anno del Signore, Spagna. IO viene allontanato dalla Facoltà di Teologia di Tolosa, in Francia, ed inviato in pellegrinaggio riparatore a Santiago de Compostela. Dopodichè davanti ai nostri occhi scorrono le persone, i secoli, i pensieri e le vicende che hanno tormentato il vecchio continente. Il pellegrinare di IO continuerà a svolgersi attraverso due linee discontinue, quella spaziale e quella temporale, per tutto il corso della vicenda.
Nella narrazione la presenza costante della natura, sottoforma di tassonomia vegetale che viene dispiegata riconducendo così IO al mondo, il soggetto al circostante. Le dispute religiose, i mondi possibili, Leibniz l’unno vs. Pascal il gesuita, e poi Newton, Marat, Danton.
La scrittura filosofica costruisce i suoi oggetti tramite le parole, scrivere un romanzo filosofico imponme quindi un rigore ed uno stile sempre ‘veglianti’. Ai limiti della veglia sta il delirio e, un romanzo filosofico non è detto che conservi lo stesso rigore di un libro di filosofia. Non è il caso di Neuropa, scritto in uno stato di veglia autoriale impressionante, la presenza di IO vigila con cura sulla narrazione, ciò che ne deriva è una lettura solo apparentemente frammentata, il monologo di Isaac Newton, ad esempio, o la descrizione della vita cortigiana di Leibniz.
Gillioz-Gianluca-Gigliozzi crea una sospensione, e ciò avviene nelle prime pagine del romanzo, grazie alle quali il lettore si crea il dubbio sulla veridicità dei personaggi, sarà il vero Sade, a parlare, il vero Newton, l’invenzione narrativa eccede la ricostruzione storica ‘fedele’? Non sembra, tutto ricalca gli avvenimenti, dimostrando la presenza di una cospicua e sotterranea bibliografia(filia?) del testo.
Neuropa è un poema, per quanto riguarda l’utilizzo della lingua e un romanzo per la vicenda, un “poema di carne in libero affiorare e imporsi agli spazi” per utilizzare le parole con il quale l’autore descrive una popolana. Nel romanzo storico, l’autore fa agire sulla scena i personaggi, presi dal loro contesto e ai quali vengono assegnate nuove parti, dentro le cui vite ci si intrufola addensandole di nuovi episodi. In Neuropa vengono messe a confronto, oltre alle vite, le vite delle opere filosofiche, i dubbi sollevati dai temi della libertà, della giustizia, del libero corso di ricerca di una scienza nuova. IO, il mondo e dio rimangono i tre interlocutori sotterranei, laddove il mondo è, a tratti, sostituito con ‘ìl gran libro del mondo’, cioè con la somma delle versioni fisico-filosofiche e scientifiche che del mondo sono state fornite attraverso due secoli dell’era moderna.
Esempi sparsi di questo ‘modo’, nella narrazione, sono, oltre a Sade, le opere di Leibniz, quelle di Newton (arricchite nelle conversazioni con i suoi assistenti) e di un Galilei rivisitato (del Dialogo).
La struttura del poema di Gillioz ricorda quella del Jacques di Diderot, esempio che non tardiamo a rinvenire più in avanti sotto forma di citazione/situazione.
Gli autori menzionati, sono colti nel vivo della loro opera e accostati a furfanti, finti medici, truffatori o semplici contadini, con sapienza e dosaggio di momenti. La bravura dell’autore consiste, su questo versante, nel non appesantire in modo didascalico questo complesso apparato di continue citazioni, rimandi e incontri illustri, anche perché sembra essere una delle intenzioni quella di comunicare che il pensiero dei filosofi contenesse in nuce il pensiero del secolo e non il contrario (vedi parallelo tra Sade/assenza di morale nei ricercatori-dissezionatori-torturatori).
Neuropa è un testo godibile, un teatro costruito, un pluriverso di concezioni. Il linguaggio è sempre ‘alto’, cioè sostenuto, cangiante a seconda dell’epoca e della ‘voce’ che entra sulla scena, il tutto giustificato dal presupposto dichiarato che Neuropa sia (anche) un poema. Esistono infatti diversi piani dai quali può essere affrontata la materia di romanzo storico. Qui ne vengono presentati, in successione, decine e decine di diversi (la nascita del linguaggio simbolico? il mito del buon selvaggio? la nascita della scienza? il diritto? la repubblica? gli infinitesimali? l’atomo? gli studi sulla circolazione sanguigna? le vecchie concezioni? il flogisto e l’etere?).
Neuropa è un’opera enciclopedicamente barocca che riesce a non essere manierista o retorica, rendendo la successione di fasi del pensiero storico e filosofico durante le quali si sono posti i limiti di demarcazione fra IO e DIO E MONDO, limiti ancora avvolti da una foschia che tende a diradarsi con la stessa velocità con la quale le teste dei regnanti vengono mozzate ed il capitale comincia ad affacciarsi sulla scena. Neuropa è un romanzo pervaso dal cambiamento e dalle vicende del percorso tortuoso che la ragione compie per affermarsi tra il XVII e il XVIII secolo.
Sul finire della narrazione, quasi a chiusura di un discorso iniziale, l’Autore torna ad ‘inquadrare’ Sade, che muove i suoi passi a Parigi, una volta libero dalla prigionia della Bastiglia, “non ho più voglia di scrivere né di domandarmi perché tutto questo sia successo”. Il romanzo inizia e si chiude dialetticamente sul cortocircuito dell’idea di Soggetto, vi è una parte di esso, la “Ciclopaedia Singolaris”, dedicata all’esplicazione dei concetti/figure/persone notevoli (tutti e tre si equivalgono nella narrazione), come ogni pensiero fondante, anche Neuropa racchiude un (breve) lessico, ammiccante dello spirito enciclopedico.
Quest’opera ha i piedi affondati nella terra, nel sangue e nella filosofia di quei secoli, che riesce ad evocare, ed è debitrice solvente di Calvino e Borges e Sade (per quanto riguarda la ragione fantastica dell’inventarsi) anche se queste suggestioni possono rimanere suggestioni personali, data la compiutezza sistematica di Neuropa.
Dove può dirigersi l’occulto di una narrazione così serrata? L’enigma è svelato dall’Autore: “IO scelgo – IO determino – IO penso – IO voglio […] IO eleggo l’odio come fulcro della mia testa”. IO diviene individuale/singolare, smarrisce la sua terza persona, il sentimento non è presente nell’accezione cui siamo abituato dal linguaggio comune ma solo in termini di sentire e non di patire. Tutto ciò che accade è riflesso dell’IO, l’intera realtà, per esistere, diviene materia cerebrale, finché non esplode in una autoaffermazione di sé, sempre altra da sé, distante dal proprio baricentro, ‘scentrata’.
NEUROPA è opera di Gillioz (Gianluca Gigliozzi),
nato a L’Aquila, adesso a Milano, scritta tra il 1996 e il 2001,
riveduta nel 2003 e tuttora, ad eccezione di alcuni frammenti, inedita.
Dicembre 2004
ora su [neuropa.splinder.com]
la lingua della rete. “La notte dei Blogger” a cura di Loredana Lipperini
Per parlarvi di questo libro salterò velocemente tutti i preamboli rimandandovi alla rete, rimandandovi dunque al sito ufficiale del libro, dove troverete tutte quante le notizie che cercate su chi ha preso parte a quest’antologia “la prima dei nuovi narratori della rete” e dove troverete le foto delle presentazioni e delle blog-fest. Ho avuto il piacere di presentare questo libro insieme a Loredana Lipperini e a Princess Proserpina (manilabenedetto) quindi racconterò un po’ delle mie impressioni, aggiungendo qualche impressione di lettura, dico ‘qualche’ perché quando leggo un’antologia vado a salti, non sono metodico e ci torno a tratti, a distanza di settimane o mesi. Partiamo da lontano e cioè dal sopratitolo “la prima antologia”, in effetti ci voleva, il tempo era maturo, molti degli autori presenti nel volume anche, quindi perchè non fotografare un attimo come questo? In effetti ognuno può crearsi la sua biblioteca virtuale navigando su internet, ognuno può leggere racconti di scrittori esordienti e affermati, una delle possibilità più belle offerte dalla rete è proprio questa, Loredana Lipperini in questo senso è un’esperta, conosce e visita centinaia di blog, e come tutte le esperte in qualche materia ha appena aperto un blog proprio, suppongo, dopo che le sarà stata rivolta un milione di volte una domanda simile “ma com’è che proprio tu non ne tieni uno?”.
La prima cosa interessante di questo libro è proprio lo spirito con il quale sono stati scritti i racconti, questi infatti non sono post ripubblicati su carta, questa non è un’antologia di materiali già comparsi sulla rete, bensì un libro ‘a tema’ – la notte – dove gli autori compaiono con un inedito confrontandosi con la scrittura “classica”. E già per parlare di un libro del genere sorge un problema semantico, legato forse alla considerazione che la scrittura di un post sia differente dalla scrittura di un racconto. Ciò è vero in parte. Il blogger può parlare dei fatti suoi, può essere un giornalista che parla solo di un determinato argomento, oppure può essere un appassionato di subbuteo. Ciò che differenzia chi scrive post su un blog da chi scrive racconti è proprio il linguaggio, l’utilizzo di una forma nuova e ibrida di comunicazione. Questo libro si situa nel mezzo. I giovani autori di questi racconti, grazie alla loro costante palestra di scrittura costituita dal blog, sono smaliziati e per nulla pesanti, come capita invece con certi autori esordienti, ed in più riescono a trattare la quotidianità con una dose costante di autoironia e cinismo. Leggendo alcuni di questi racconti si nota la provenienza da questa palestra elettronica, per quanto riguarda l’utilizzo del linguaggio è diffuso l’utilizzo di un tono di autoconfessione, l’autore, o meglio, il personaggio inscenato dall’autore nel racconto, parla di sè e di ciò che fa come se stesse parlando, per l’appunto, ad un diario e non alla propria coscienza. Questo, però, è un effetto voluto. L’altro punto a favore di questa antologia è costituito dalla serie di descrizioni della realtà che vengono restituite, realtà urbane, notturne e non, fitte di comunicazioni cellulari “di quel cazzo di telefonino che non riesce a prendere la linea perchè i ponti sono occupati”.
“La notte dei blogger” è un libro trasversale dove si mescolano generi differenti, dal pulp al fumetto, dal noir all’horror fantasy, oltre ad essere un’antologia di autori si cimentano con un nuovo media, la carta, dopo essersi continuamente applicati nella costruzione del proprio personaggio digitale. Infatti è proprio su questo argomento che si giocano le possibili, e diverse, interpretazioni di questo testo. Molti pensano che la scrittura di un blog apra possibilità sconociute alla letteratura, come la crezione di personaggi aleatori e sconosciuti, personaggi/maschera dietro cui si nasconde l’autore. Cose di questo tipo avvengono quotidianamente nel mondo della carta stampata, le critiche o anche gli elogi che nascono su questo terreno sono destinati a durare poco perchè non rendono merito alla dedizione e al tempo del blog. Io visito molti blog, ve ne sono di molto interessanti, riviste elettroniche, miniere di spunti e creatività. Loredana Lipperini nella sua introduzione cita Luther Blissett, a proposito dell’utilizzo del concetto di con-dividuo. Il blog è indizio leggibile e confrontabile di identità diffuse che divengono rizomaticamente fruibili. Il blog è un incrocio di esistenze virtuali e reali allo stesso tempo. Sarà interessante rileggere questo libro tra qualche mese, utilizzarlo come punto di partenza per visitare i vari blog degli autori in esso presenti e attendere un’altra prova (individuale o condividuale) di scrittura, per confermare gli ottimi spunti che quest’antologia ci regala.
Brevi considerazioni sull’editoria salentina (lo stato dell’arte). (2004)
Lo spunto di questo intervento è dato dalla serata del 28 ottobre scorso, trascorsa a Galatina, dove si sono dati appuntamento per discutere di giovane editoria e giovane scrittura G. Morozzi, D. Goffredo (Coolclub), Mauro Marino (FondoVerri, Tabula Rasa), Livio Romano, G. Greco (Manni Editori) Rossano Astremo (Vertigine, Tabula Rasa) ed Elio Coriano. Queste considerazioni spontanee raccolgono i pensieri che mi sono venuti in mente ascoltando i diversi interventi e mettendoli in relazione a quel che faccio e vedo giorno per giorno.
Il primo punto che è emerso, mi sembra, è che ogni esperienza autoriale ed editoriale è differente e significativa. Ognuno di noi ha avuto le sue esperienze nel campo della scrittura e dell’editoria. Esperienze simili divergono su pochi punti; avere pubblicato o meno un’opera d’esordio con il tale editore, avere frequentato o frequentare abitualmente le pianure dell’underground salentino, conoscere diversi autori ed essersi relazionato con altre situazioni di scrittura, diverse dalle mie. Quando mi confronto con l’editoria il campo, parlando di Salento, si restringe. Senza parlare, per il momento, di ambiti regionali o nazionali, gli editori cui un autore può rivolgersi per pubblicare un’opera, qui in Salento, sono diversi. Concentro la mia attenzione su tre di essi, due dei quali, Besa Editrice e Manni Editori, vantano molti più anni e catalogo, ‘Storia’, rispetto all’editore più recente (se parliamo di narrativa e poesia) e cioè Luca Pensa Editore. Da questo mio inizio di analisi lascio momentaneamente fuori Raggio Verde Edizioni per un motivo puramente personale, non ho avuto mai (ancora?) rapporti di tipo editoriale con le edizioni collegate all’associazione Raggio Verde, ne conosco i pregi e ne leggo i prodotti ma, almeno per il momento, il mio discorso ha a che fare con altre dinamiche, lo stesso vale per Kurumuny, d’altronde queste considerazioni perderebbero il loro valore se intendessi abbracciare, con esse, tutto ciò che accade; il limite del mio ragionamento intende renderne i risultati meno confusi, ragiono ad alta voce.
La qualità del rapporto con l’editoria, credo, dipende dalla misura in cui gli editori interpellati si comportino o meno come editori, rispettando l’immagine che un autore maturo ha dell’editoria, sottolineo maturo. Un autore maturo sa benissimo che il presupposto di una pubblicazione non consiste (solamente) nella bontà della propria opera. Sia Besa che Manni, nei confronti di un autore esordiente, applicano normalmente una politica del tutto trasparente di proposta editoriale a pagamento. A differenza di Manni, l’editore Besa, ha una finestra aperta, almeno per quanto riguarda la poesia, sulla produzione editoriale di esordienti e non, mi riferisco al PoetBar. Questo contenitore permette ad un esordiente di essere tale con una spesa che, in termini editoriali, può dirsi irrisoria. Il resto è affidato all’autore, alla sua capacità di autopromozione, organizzazione e relazione, supportato dalla redazione. Se dalla poesia passiamo alla narrativa gli spazi di esordio svaniscono, Besa dispone di Tabula Rasa, rivista semestrale, mentre Manni de L’Immaginazione, rivista ventennale, dove compaiono estratti e anticipazioni e critiche su quanto la Casa Editrice è in procinto di pubblicare o ha appena pubblicato.
Qui faccio una breve digressione, accogliendo uno spunto da un intervento di Giulio Mozzi che nel suo blog (www.giuliomozzi.com) ha definito quelle che gli sembrano essere le attuali linee di tendenza (produzione manoscritti) della letteratura italiana che-non-è-ancora e quindi, ipoteticamente, di-là-da-venire. Di quell’intervento, cui rimando la lettura, accolgo questo altro spunto: posto che debba essere deciso se l’attuale produzione di manoscritti sia influenzata da ciò che viene pubblicato, oppure, al contrario, posto che il pubblicato rispecchi una tendenza reale o una tendenza imposta su di un tavolo editoriale (quindi anche economico, quindi anche basato su ciò che fa tendenza), quanto l’editoria salentina, o nicchie di essa, rispecchiano l’attuale produzione letteraria del nostro territorio? E, in seconda istanza, quanto c’è di non ancora pubblicato/espresso che merita/non merita di essere portato a conoscenza di un pubblico più ampio, dall’underground in su? Oppure, ancora, quante opere possono essere affiancate a opere inedite di identico valore? La delineazione di questi tre quesiti è utile, fra le altre cose, perché potrebbe fornire un indice dell’allineamento attuale tra quanta e quale scrittura si produce e quanto di essa emerge, tra la qualità degli autori e la qualità degli editori. La qualità di un autore si misura, anche, con la qualità delle sue posizioni, negli interventi che egli produce. Una delle impressioni che ho avuto, dall’intervento del 28 ottobre, è che il collegamento tra i seguenti settori della produzione letteraria salentina, collegamento cruciale, è imminente come può essere imminente un accordo di pace tra popoli che lottano fianco a fianco da anni, clandestinamente, e che in questi anni di lotta abbiano raggiunto un unico risultato: le loro armi (la scrittura, lo stile) sono quasi rodate alla perfezione e, tuttavia, sono dirette contro un cielo vuoto. Il bene, o un bene, della letteratura salentina (categoria discutibile a torto o a ragione) può essere stato, fino ad oggi, proprio il collegamento/scollegamento la connessione/sconnesione allegra e consapevole tra produzione, accademia, editoria, autoproduzione,critica e pubblico, ufficiale e ufficioso, tradizione orale e tradizione scritta.
Il direttore editoriale sostiene che l’editore, quando è doveroso, interviene sostenendo un’opera che merita di essere pubblicata. Una professoressa interviene sostenendo che i lettori sono stanchi di eterni dibattiti, loro vogliono la ‘voce dei poeti, loro stessi’. Mi chiedo a che cosa siano serviti appuntamenti, reading, spettacoli e pubblicazioni, dove erano i professor, quelli che in teoria trasmettono (come è successo a me) la passione per la scrittura. E dire che queste occasioni di incontro non avvengono in scantinati bui cui bisogna accedere tramite lasciapassare, ma in luoghi aperti, accessibili, ad ogni ora della giornata, molto spesso nei fine settimana (in ragione della condizione, per molti, di autore-lavoratore). Il corpo docente è estraneo al corpo letterario, l’estraneità è paradossale se si pensa che di lì ad un quarto d’ora ci sarebbe stata proprio una lettura di versi con elettronica musicazione. Questo è un appunto al volo, esistendo diversi scrittori professori in Salento a partire proprio da Elio Coriano o Livio Romano.
Torniamo a noi. Durante la serata sono tornati ad affacciarsi i fantasmi della letteratura, i malanni che affliggono l’editoria, tra questi fantasmi ve ne sono due che ricorrono in tutti gli incubi:
1. In Italia si pubblicano troppi libri, più di quanti possono essere smaltiti e dal mercato e dai lettori,
2. In Italia se ogni autore leggesse=acquistasse un libro il mercato sarebbe in costante espansione.
A questi due fantasmi vengono spesso affiancate le esangui tirature/vendite, specie dei libri di poesia.
Intanto mi preoccuperei se vivessi sul suolo di uno dei paesi più ricchi del mondo e venissero pubblicati in questo paese un migliaio di libri all’anno. Il secondo fantasma, anche, è reale fino ad un certo punto, in Italia ci sono poche persone che acquistano libri? Perché allora le grandi librerie diventano sempre più grandi? Forse perché i forti lettori si chiudono tutti lì dentro a fare trincea contro una quarantina di milioni di analfabeti? E i supermercati?
Ecco un suggerimento agli editori locali, mettete i vostri libri nei supermercati, se c’è un modo, cercate convenzioni, offrite denaro, stipulate contratti di favore, investiteci e perdeteci del vostro, tanto se è per una buona causa siete pronti, sono convinto che ne sareste capaci. Se è vero che chi acquista un romanzo in un supermercato nella maggior parte dei casi non è un critico letterario ma una persona che vuole leggere e basta, per svagarsi e basta, scegliendo tra quel (poco) che trova e basta, allora è proprio sul terreno puro della merce che i vostri discorsi su come ottimizzare la resa merceologica di un libro possono avere riscontro. Esempio pratico: se mi consigliate di modificare il titolo troppo fumoso di un romanzo, se coi vostri suggerimenti e col supporto dei vostri uffici riuniti i nostri libri sono più appetitosi allora è vero che, messi in un supermercato, nel regno indistinto della merce, i nostri romanzi esordienti saranno armi pari con autori già conosciuti e, anche voi, editori medi, sarete alla pari con Feltrinelli ed Einaudi.
Se l’editore è saggio nel produrre buoni packaging di sé allora un lettore non abituale non s’accorgerà di nulla, prescinderà dalla Storia dell’Editoria e dall’Economia Editoriale per acquistare.
Svaniti i fantasmi, parliamo d’altro continuando a parlare di noi, autori o presunti tali. Sono sempre stato critico con me stesso. Ad eccezione dei grandi editori dai quali non ho ricevuto risposte positive, mi sono state fatte proposte di pubblicazione. Quando non ho accettato queste proposte mi sono sempre chiesto ‘e se la mia opera fosse stata migliore? Tale da indurre l’editore in tentazione, magari così andava bene, era buona, ma di cose buone in giro ce ne sono davvero tante, se fosse stata migliore forse per l’editore non ci sarebbero stati aut aut, mi avrebbe pubblicato di suo, ma allora sono io, sì, ora ne sono convinto, è ancora presto, scriverò meglio, così da indurre nell’editore una crisi di coscienza’.
L’impressione era questa, la risposta sta nel fatto che per uno scrittore che smette di accanirsi e dedicarsi alla propria scrittura ce ne sono altri al suo posto, l’editore è salvo.
In ogni caso bisogna applicarsi per superare se stessi.
E qui entra in gioco Elio Coriano, con il candore che gli è proprio, ‘come solo lui sa fare’. Interviene dicendo ‘io se volessi potrei stampare cinquemila volumi di poesie, e tutti eccellenti, sotto ogni punto di vista ma…è proprio necessario pubblicare?’. Quando la realtà (dell’editoria) risulta essere paradossale soltanto la forza del paradosso riporta i piedi per terra e connota i limiti del reale.
Elio Coriano ha ragione. Da un lato abbiamo autori ansiosi, dall’altro editori che non tastano il territorio. Da un lato abbiamo autori che non tastano il polso dell’editoria nel proporsi e dall’altro editori ansiosi di non fare buchi nell’acqua pubblicando autori privi di spessore, semplicemente autori in cerca di un libro, non di opere. Mauro Marino accenna una soluzione. La rete è alla portata di tutti, costituisce un’opportunità ed un’apertura al dialogo entusiasmanti. Se un’opera è inconsistente lo è tanto sulla carta che sulla rete. Se un’operatività è consistente lo è tanto sulla carta che sulla rete.
Attualmente, in Salento, esistono circa una quarantina di autori emergenti, chi con pubblicazioni e autoproduzioni, chi con performance, riviste letterarie, chi con commistioni di generi, stili e supporti. E’ possibile tirare le somme di questo coacervo di manifestazioni? Il Salento è un continuum laboratoriale a cielo aperto dove le autoproduzioni stanno accanto alle edizioni, dove la rete dà supporto alla circolazione delle idee, senza passare per le problematiche dell’edizione, dove tutto può dirsi, tranne che mancano autori e scritture. Sarebbe bello che l’età di un ‘autore giovane’ non fosse superiore ai trent’anni, sarebbe bello definire cosa vuol dire giovane e cosa vuol dire esordiente. Sarebbe bello che gli editori potessero permettersi di sbagliare senza rischiare ogni giorno la pelle, così come spiegano agli autori, che a loro volta investono in se stessi il tutto per tutto. Sarebbe bello, allo stesso modo, che la critica non fosse solo patrimonio orale ma divenisse circolo di scrittura, circolo virtuoso.
Manuale per principianti. su “Occidente per principianti” di Nicola Lagioia
A scanso di ogni equivoco chiarisco da subito il senso del titolo di questa recensione, secondo me, da un buon libro si può sempre imparare qualcosa, ci si può confrontare con la realtà e con la scrittura di un’altra persona, si apprende e si critica, in questo senso l’ultimo romanzo di Nicola Lagioia, “Occidente per Principianti”, è un ottimo esempio di scrittura, un ottimo esempio di come si possano mescolare più generi, dal punto di vista dello stile e dell’intreccio, e, infine, di come si possa descrivere il conflitto tra invididuo e realtà, nella fattispecie il grande circo che ruota attorno all’informazione. Difatti, insieme ai personaggi sembrano essere protagonisti di questo romanzo le “situazioni”, ovvero i nuovi stereotipi del quotidiano contemporaneo, la redazione fluttuante di un giornale, che in realtà non viene nemmeno nominata dato che il mondo del giornalismo viene spaccato in due, e una parte di esso, quella che noi vediamo, è in realtà il risultato di molteplici attriti che di nascosto fanno in modo che gli eventi accadano (l’informazione crea l’evento) , mentre nel frattempo alcune persone, di nascosto, danno vita alla materia grezza dell’evento, agli pseudo-fatti e alle parole. Il grande studio di avvocati a Milano, dove allo stesso modo con cui si fabbricano gli eventi/notizie si fabbricano le leggi/escamotage, la professoressa di Cinema, il famosissimo latitante che si scioglie come un bambino al ricordo del suo passato da avanspettacolo, il tutto nel torrido luglio del duemila uno. Il mondo della scrittura (anche di quella filmica) diviene ciò che è, per l’appunto un crocevia di distorsioni, affollato di profittatori e ricattatori, dove i pochi puri (Materia, forse) vengono colti costantemente da pensieri paranoici. Lo scrittore, questa volta come artigiano, malgrado sia un ghost writer sembra per una volta appassionarsi all’evento che deve creare, da un indizio all’altro sembra davvero interessato a scoprire il passato di Rodolfo Valentino, forse vorrebbe somigliare a quest’attore, quanto meno vorrebbe come lui sfondare quella linea di demarcazione tra l’anonimato e lo spettacolo, così come il latitante per l’appunto sta rinchiuso in un bunker a masterizzare cd&dvd e viene presentato anche lui come uno che fa gesti d’attore, per poi rivelarsi davvero un ex-cabarettista. Tutto si gioca sulla metafora dello spettacolo, ed il reale è reale nella misura in cui più di una persona, ma forse basterebbe l’articolo di un giornale, lo certificano, e quindi è probabile che ti rifilino un chilo di pesce puzzolente spacciandolo per elisir di giovinezza, purchè lo facciano nel retro bottega del laboratorio di una maga fattucchiera cocotte. Il tutto, nel romanzo, avviene con una leggerezza ed una scrittura che scorrono in un soffio, la storia è divisa in due parti, nella prima il protagonista si prepara al suo viaggio sulle tracce di Rodolfo Valentino, nella seconda questo viaggio prende il suo corso. La forza della prima parte è proprio nella descrizione di Roma che ne fa Nicola Lagioia, più che altro nella descrizione di questa cultura supermarket dove ognuno sceglie da se quali sono le sue bussole per orientarsi nella discussioni da cocktail, Foucault? Foucault. Camus? Camus; per poi dare spazio ad una delle sensazioni che più sono presenti in questa parte del romanzo, la malinconia, da Fitzgerald a Celine (“C’è un’inerzia in tutto questo, una pesantezza, una tristezza”). Il mondo nel frattempo scorre velocemente, luglio, Genova, le notizie si inseguono come veline mentre i protagonisti inseguono una velina che deve divenire fatto concreto. I linguaggi si mescolano, il fumetto, il film, la comunicazione ossessiva degli sms di Zelda e quella delle telefonate oltreoceano, l’oltreoceano viene presentato quasi come un anomalo e distante paradiso in telefonate gracchianti. In parallelo si sviluppa la vicenda di Materia, il cineasta che il cinema ha redento ed espulso come una particella di antimateria intento nella produzione del capolavoro intitolato “Occidente per principianti”, con cineprese e pellicole d’annata (se Kubrick fosse ancora vivo sceglierebbe sicuramente Materia come direttore della fotografia) e tagli e montaggi computerizzati, in fuga, forse semplicemente in ricerca costante della compagnia di un amico. Il finale? Il finale è a sorpresa, ne vale la pena. Nel frattempo è finita l’estate, è arrivato il settembre del duemilauno, senza un grammo di retorica l’autore si allontana dalla scena per finire in un ristorante, non è più un fantasma come recita la quarta di copertina, non lo sono più nemmeno i personaggi che ha creato, soltanto che adesso tra il virtuale ed il reale si è creato un ulteriore scarto, quello dell’iperreale, ripreso, rivisto, riproposto centinaia di volte, con cui il protagonista fa i conti per non soccombere. Mi viene in mente che per un protagonista uscito dal mondo sommerso dei ghosts, forse, da qualche parte, un altro ha preso il suo posto.
fuga dalla babele della storia. “Lo Scriba di Càsole” di Raffaele Gorgoni
1. Il romanzo narra la vicenda di Marco, figlio di ricchi mercanti, avviato alla vita monastica del convento di Casole dai genitori, ad Otranto. L’evento del martirio di Otranto declina la vicenda facendo da spartiacque temporale ed ideale, su questo evento si concentreranno le riflessioni del protagonista, diviso tra l’amore per la cultura ed il mondo della scrittura e le lotte politiche che si avvicendano attorno ad una penisola minacciata più dall’indifferenza dei potenti che dalle forze ostili al di là del Mediterraneo. La vita di Marco, nel convento, comincia all’insegna della regola, che per lui è unione di lavoro manuale e studio sui testi, pratica della scrittura, decifrazione. Otranto, è in quel tempo un’isola greca, un’isola felice il concento di Casole, almeno così sembra a Marco. Nella prima parte del romanzo assistiamo alla presentazione di una serie di ‘condizione antropologiche’ necessarie a trasmetterci la cultura di quel tempo, condizioni che ancora oggi si possono rintracciare nei racconti ancora vivi, racconti di macarie e tarantate, visti con il filtro dell’epoca in cui si svolge il romanzo e quindi carichi di significati magici, connessi anche al loro essere contrapposti alla religiosità ufficiale. In questa parte della narrazione si concentra l’apprendistato che trasformerà Marco da novizio a uomo. Grazie alla sua cultura il protagonista ha modo di mettersi in luce di fronte a Bessarione, un cardinale. Comincia qui il suo periodo di viaggi attraverso l’Italia e l’Europa. Le considerazioni sulla cultura e sulla lingua, le disquisizioni sulla ‘babele delle lingue’ e sulla ‘babele religiosa’ cedono il passo all’inferno delle babele politica. Marco ha fino a questo momento assorbito il meglio delle culture del suo tempo, ebraica e araba, cristiana e greca. Adesso deve fare i conti con la politica, fatta di sottili equilibri, dove l’operazione di trascrizione dei manoscritti e di trasmissione della cultura diventa anche esso un fattore di rischio per la vita del Monastero.
Un modo di affrontare un mito senza farsene risucchiare è cartesiano, scomporre il mito in ogni sua parte, presentarne tutte le sfaccettature fino a renderlo vicino alla nostra comprensione, analizzando i fattori, presentando le condizioni nelle quali il mito si è svolto, spiegarne gli antecedenti, infine giungere ad una descrizione, in una pagina, di quel che è accaduto e ricomporlo. In questo modo il mito del martirio viene presentato come risultante dell’attrito tra cultura araba e cultura cristiana, come abbandono al loro destino dei martiri da parte delle autorità. In questo romanzo il mito viene vissuto sulla propria pelle dal protagonista che si sente ‘portatore di una memoria’ cioè testimone del mito . In alcuni passaggi viene descritto l’arrivo dei Turchi a Otranto, i soldati cominciano ad accamparsi, e costruiscono il loro assedio nella tranquillità più completa, tanto da credere che gli ‘otrantini’ stiano preparando un’imboscata. Poi il passaggio alla fase dell’assedio vero e proprio e breve, e le lame delle spade turche escono vittoriose. Marco si salva da un agguato, fugge nella boscaglia, per poi tornare al suo convento, che troverà rogo, in serata; sarà costretto a dare il suo addio a Otranto.
“La distruzione di Càsole fu generata da una ben calcolata macchinazione politica e così la strage dei miei confratelli. Per gli otrantini che morirono in battaglia non resta che la gloria e l’onore, ma per tutti quelli che si fecero massacrare sul Colle della Minerva porto ancopra oggi nel cuore il peso di un mistero, il piombo di una sorta di follia”
Di fronte alle componenti puramente storiche dell’accaduto restiamo in sospeso, il protagonista non è voce d’autore onnisciente, e prende posizione contro ogni guerra, ogni eccidio.
Da qui in poi la vicenda prende un altro respiro, Marco continua a ribadire a se stesso e al mondo che la vicenda non può essere ‘solo’ una vicenda politica, egli viaggia per l’Italia ed ha modo di conoscere il fior fiore della cultura di quel periodo, sulle prime battute ha già un ricordo di una sua visita nella bottega dei Bellini, in seguito alloggerà presso i Medici, presso le scuole neoplatiniche, con Marsilio Ficino e Niccolò, che diventerà suo segretario prima di divenire in seguito Niccolo Machiavelli, senza dimenticare che il romanzo, prima di prendere il largo della vicenda, ha il suo prestesto iniziale in una lettera che il protagonista scrive ad Aldo Manuzio. In questo modo la scrittura acquista valore non tanto per il fatto che alcuni protagonisti siano persone importanti del tempo, quanto per il fatto di rendere ‘moderno’ il mito, di metterlo in dialogo con le idee di allora e di oggi, forse per questo motivo l’esperimento mi sembra riuscito, perché non risulta affettato. Le tematiche presenti nel romanzo sono diverse, c’è ad esempio il conflitto tra mondo arabo e mondo cristiano. L’autore sostiene l’idea secondo cui dietro le guerre mosse da principi religiosi esistono sempre motivazioni politiche, e che di fronte all’amore per la scrittura tutti sono uguali. Quest’idea, calata sulla vicenda di Otranto si carica di contemporaneità.
“Empietà dell’Islam? Empietà dell’Islam, dite, messer Marco? Forse avete dimenticato le pagine delle Gesta Dei per Francos, gli orrori narrati da Fulcherio:stupri, omicidi, stragi, saccheggi […]
“Tutti furono spinti sulla radura alla sommità del Colle della Minerva dove su un palco, circondato dalle sue guardie, c’era Ahmed Pascià e un altro che mi parve abbigliato come un ulema. Quest’ultimo parlava e parlava ma la distanza era troppa perché potessi capire le parole […] Un tappeto di corpi si stendeva ai piedi del palco, intorno a una pietra che brillava rossa di sangue ancora fresco”
2. Cosa resta dopo la lettura di questo romanzo? “Lo Scriba di Càsole” è un esempio di romanzo storico nel quale la materia non è appesantita e la narrazione scorrevole. Chi cerchi però nella lettura di questo romanzo un spunto per chiarire storicamente le vicende di Otranto devia dal bersaglio dell’Autore, che, a mio parere, non è stato quello di proporre l’ennesima ‘versione dei fatti’, anzi, questo romanzo si rivela, alla fine della lettura, interessante, proprio perché il sottotitolo ‘Il segreto di Otranto’, sembra essere più una chiarificazione redazionale, mi si passi il termine; nel senso che le parti più coinvolgenti ed anche portanti, sono proprio quelle relative alle macchinazioni politiche, agli incontri diplomatici, allo scambio di pareri sulla cultura e la vita del tempo. Del segreto di Otranto, resta forse svelato come la città idruntina fosse stata passibile di un dramma simile senza alcuna resistenza. Ed anche in questo caso è meglio affidarsi alla narrazione che riesce a dipingere bene delle scene come quella che si svolge nella Cattedrale, dove tutti i fedeli, di ogni confessione contraria alla turca, ebrei, greci, cristiani romani, preferiscono attendere la morte raccogliendosi in preghiera. La Cattedrale è oggetto di descrizione, immancabile, del mosaico sul quale il protagonista bambino gioca. L’equilibrio è sottile, questo romanzo riesce a staccarsi dai clichè di cui è intriso l’immaginario collettivo idruntino gravitando il centro dell’attenzione altrove, nel momento giusto, facendoci intuire altri possibili sviluppi, dicendoci in sostanza che questo non è un romanzo su Otranto ma una metafora storica dei rapporti/conflitti tra culture, tra classico (la scrittura amanuense, la gerarchia dei saperi, i libri proibiti) e moderno (le opere consultabili, le biblioteche che si accrescono, la stampa a caratteri mobili) chiusa in una vicenda ben narrata, tanto è vero che leggendo questo romanzo restano insolute alcune domande, che il protagonista porta via con sé.
Lo Scriba di Càsole – Besa Editrice
Giugno 04 – Euro 13,00 – ISBN 88-497-0248-5
Webook 2004
1. 0 Prologo
Libro, rete, libriamo. Questo intervento contiene sommarie considerazioni sul rapporto tra libro, rete, autore ed editore. Il tutto all’insegna delle feritoie dentro le quali un pensiero poetico può essere veicolato al giorno d’oggi per (r)esistere.
2. 0 Internet, autoproduzioni, editori, autori.
Sono cambiati i rapporti tra autore e libro, autore ed editore, libro ed editore, con la rete?
La diffusione dell’editoria è capillare, il numero degli editori nel nostro paese supera il migliaio. I volumi pubblicati ogni anno tendono all’infinito. La maggior parte dei piccoli/medi editori che si occupano di narrativa e poesia sono editori a pagamento. Questi editori decidono di pubblicare un manoscritto, nella migliore delle ipotesi, proponendo l’acquisto di un numero di copie del libro all’autore. Alcuni di essi si occupano in seguito di tutto ciò che concerne la diffusione e la distribuzione del libro, altri non seguono il libro dopo la stampa ed affidano all’autore la promozione di se stesso. Gli autori che non possono permettersi di pubblicare (per svariati motivi) il proprio libro da un editore hanno due alternative. Una si chiama autoproduzione, l’altra si chiama sconforto. All’autore spetta tutto il lavoro che normalmente sbriga un editore, cioè la cura dell’edizione, la sua diffusione, la sua presentazione.
La nascita dell’e-commerce ha naturalmente dato una spinta all’editoria, nella misura in cui il libro è merce. Sono nati diversi tipi di siti dedicati all’editoria e alla scrittura. Ci sono i siti ufficiali degli editori. Alcuni di questi sono semplici vetrine online, potrete trovarci anticipazioni, interviste agli autori, pagine dedicate a questi ultimi. Esistono siti che offrono facilitazioni agli scrittori esordienti, ad esempio la possibilità di pubblicare i propri racconti e di farli votare ai lettori, i vincitori possono finire eventualmente in un libro. Esistono opere disponibili sulla rete, opere classiche e opere nuove. Alcune opere trovano spazio soltanto sulla rete. Quindi, per un certo tipo di editori, la rete ha rappresentato semplicemente un ulteriore mezzo di trasmissione dei propri prodotti. Alcune ospitano dei forum, sui quali si discute di letteratura. La rete accomuna e mette sullo stesso piano i lettori, gli scrittori e gli editori. Il mestiere dell’editore non avrebbe senso se non ci fossero nuovi autori da proporre ed esordienti che inviano nuovo materiale. Il libro sarebbe defunto con l’avvento della rete se non avesse mantenuto le sue caratteristiche di ‘oggetto del desiderio’ anche da parte dell’autore. La passione della scrittura diventa concreta quando dispone dei suoi tangibili risultati.
Grazie ad internet i libri possono essere venduti in tutto il mondo, possono raggiungere ogni paese ed ogni latitudine. I libri pubblicati possono essere ordinati, pagati e ricevuti grazie alla rete. Ma succede così per tutti i libri. Evidentemente ciò accade soltanto per i libri pubblicati presso case editrici. Per fare in modo che ciò accada anche con i testi autoprodotti bisogna compiere un passo ulteriore. Bisogna trovare il modo di distribuire testi, utilizzando la normale posta, senza incappare nei problemi organizzativi dovuti alla protezione dei diritti d’autore e simili.
Alcune domande —> Il concetto di autoproduzione delle idee è evoluto, o semplicemente si è spostato (anche) su un altro mezzo di comunicazione? Internet aiuta l’autore o lo soffoca? Sulla rete succede esattamente quanto accade per gli altri mezzi di comunicazione, cioè che (soltanto) chi può permettersi uno ‘spazio’ può emettere la sua voce oppure la rete è plurale? La rete è plurale? È più semplice stampare un libro o realizzare un sito internet? Quale dei due sarà più facilmente leggibile? Da chi? I libri non verranno mai soppiantati dalla rete.
Queste sono le prime domande che mi sono venute in mente pensando di scrivere su questi argomenti. Alcune di esse troveranno abbozzi di risposte, altre rimarranno in sospeso. L’idea di scrivere questo testo mi è venuta pensando alla mia esperienza personale di scrittore/non scrittore. Nella definizione di scrittore/non scrittore intendo coniugare un artista che crede fortemente nella passione che lo anima, la scrittura, e che non si scoraggia delle difficoltà che essa comporta, in termini di organizzazione dei tempi, delle spese e dei risultati che desidero ottenere. I risultati. Il primo risultato è quello di scrivere bene. Il secondo risultato è quello di essere letto da sconosciuti. Il terzo di riuscire a scrivere sempre meglio, di opera in opera. Il quarto è che attraverso ciò che scrivo emerga, anche soltanto per un barlume di attimo, ciò che sono o che credo di essere. Poste queste premesse è chiaro che l’autoproduzione è stato il mio primo incontro sulla strada della scrittura. L’evoluzione dei mezzi tecnici ha accompagnato il miglioramento di presentazione delle cose che scrivevo e che proponevo. Con esclusione della macchina da scrivere, che non ho mai esattamente ‘congedato’, ho sempre cercato di dare una forma tangibile e riproducibile alle cose che scrivevo. Ciò mi ha portato ad elaborare bozze sempre più perfette dei miei libri, manoscritti che non avevano nulla da invidiare, nella composizione tipografica, ad un libro, se si eccettuava la loro forma esterna. Finché non feci visita a qualche editore e, di conseguenza, finché non feci il giro di alcune tipografie. Ho scritto queste ultime considerazioni per un motivo. Ritengo che sia importante, anche se per me è stata inizialmente una forzatura, che uno scrittore conosca i procedimenti che portano alla nascita di un libro. Uno scrittore non può ignorare queste cose. Magari può essere esente da ogni comprensione di discorsi intorno alla quadricromia, alla composizione di una pellicola o alla filatura, alla legatura e simili. Può non conoscere l’esatta tecnica di tutti i procedimenti necessari affinché nasca l’oggetto libro. Tuttavia non può non sapere che cosa c’è dietro. Perché è importante? È importante, all’interno di questo discorso, per una serie di conseguenze che comporta all’interno dei rapporti tra editore e autore. Rapporti mutati dopo l’avvento della rete. L’editore pone su un piatto della bilancia tutti i costi che vanno sostenuti perché non muoia la letteratura. L’autore crede di dover accettare questi compromessi perché altrimenti è difficile avere un posto nella letteratura. L’autore che si autoproduce demanda al tempo ogni discorso sulla letteratura e si preoccupa di cercare lettori. Gli editori assicurano ad un libro una durata di vita media che può andare da qualche settimana a qualche secolo, a seconda della distribuzione e del marketing, così intuisce l’autore.
3.0 Scrittore non scrittore.
La prima volta che ho pubblicato una poesia su un libro è stato a diciotto anni. Scrivevo da diversi anni ma soltanto a quell’età credevo di stare scrivendo qualcosa che valeva la pena far uscire da camera mia. Lessi su un quotidiano nazionale l’annuncio di una casa editrice che intendeva pubblicare raccolte di autori esordienti. Spedii i miei lavori e ricevetti, dopo un mese, un contratto di edizione. Dovevo pagare centoquarantamila lire per assicurarmi due copie del libro sul quale sarei comparso. In quegli anni con settantamila lira si poteva tranquillamente acquistare un Meridiano (è per rendere l’idea del rapporto costo/edizione). Dopo altri due mesi mi arrivarono a casa due volumi mal impaginati, rilegati a colla e con copertina in carta 120grammi. Ogni autore una poesia, in ordine alfabetico. Coincidenza la mia pagina era l’unica impaginata male del libro, a sinistra pagina 200 e a destra pagina 199. Lasciamo stare. Sono stato senza scrivere diversi anni finché non ho ricominciato, a metà degli anni novanta. La prima opera che considerai compiuta in quel periodo aveva un titolo strano LACOSA. Era un rotolo di carta esteso dodici metri ottenuto tramite incollaggio in serie di fogli A4 scritti o disegnati a mano. Impubblicabile e per lo stile e per la forma. Tuttavia era possibile fare delle scansioni di quelle pagine e, ad esempio, riversarle su internet in un sito gratuito. Feci così. LaCosa era ospitato gratuitamente su member.xoom.it/sosia (oggi scomparso). Ero così a digiuno di qualunque tecnica informatica circa i siti internet che introdussi i fogli differenti, in formato jpeg e con una risoluzione un po’ troppo alta. Per caricare una pagina ci volevano secoli, a volte nemmeno i secoli erano sufficienti. Morale della favola, mezzi giusti, tempi errati. Dopodiché cominciai a capire come funzionavano gli editori medi (i grandi mandavano lettere prestampate dopo due anni di silenzio) e dopo un altro po’ come funzionavano le tipografie. Ho autoprodotto tre libri fino al giorno d’oggi, spendendo quanto un editore mi avrebbe chiesto per stamparne uno.
4.0 Internet
La possibilità di accelerare il contatto tra singolo e singolo e tra singolo e più persone è la chiave dell’utilizzo di internet nel mantenimento dei contatti con i propri lettori. Un autore ha la possibilità di fare conoscere velocemente le proprie idee ad un numero elevato di persone e allo stesso tempo può mantenere la possibilità di rispondere singolarmente ai suoi conoscenti, lettori e autori. Ciò è essenziale in quanto l’(auto)autore può contare unicamente su se stesso nella diffusione delle sue opere. Questo nell’ipotesi peggiore. L’autore comprende di far parte anche esso di una rete di contatti e relazioni trasvrsali che vanno dalla stampa all’università, dai lettori presenti a quelli veri, per finire con l’editore. Persino per un editore è difficile tenere tutto sotto controllo. Chi sceglie poi di dotarsi di un sito internet deve mettere in conto di affiancare ad una redazione un’altra redazione. La manutenzione del sito di una casa editrice richiede lo stesso lavoro di redazione presente in un giornale o in una casa editrice tradizionale, un flusso di informazioni viene raccolto, filtrato, organizzato e proposto. La differenza dei costi sta nel fatto che quando il sito è online il lavoro è (apparentemente) concluso, saranno gli utenti collegarsi e cercare spontaneamente informazioni.
Un libro deve poter contare su una buona distribuzione, possono essere veicoli per incrementarne la diffusione i comunicati stampa, le recensioni, le critiche, la pubblicità ed il passaparola, tuttavia se un libro non è disponibile (in libreria o su internet) come ‘merce’, difficilmente potrà essere acquistato da qualcuno. Un sito internet funziona in modo differente. Intanto non è necessario ricercare un sito perché accada di visitarlo. Può succedere di chiedere un elenco di siti ad un motore di ricerca e, se un sito è affine a ciò che cerchiamo per contenuti, avremo l’indirizzo in un elenco di diversi siti e lo visiteremo. Inoltre se conosciamo l’indirizzo di un sito che ci interessa lo possiamo visitare da dovunque sia disponibile una connessione ed un computer. Le opere e le idee che vengono veicolate in questo modo non hanno bisogno di spese ulteriori (se non si considerano siti a pagamento) oltre a quelle della connessione. Il problema è che un libro, oltre ad essere un veicolo per le idee dell’autore, rappresenta anche una fonte di guadagno per il medesimo e per tutte le persone che ruotano attorno all’editoria. Un altro motivo per il quale difficilmente la conversione o l’eventuale passaggio all’elettronica da parte del mondo del libro potrà avvenire in termini brevi.
5.0 Il tempo dell’uomo, il tempo della rete.
Il vantaggio costituito dalla disponibilità di estreme quantità di informazioni online è innegabile. Possiamo navigare e trovare letterature complete in più traduzioni, bibliografie, cataloghi, immagini, opere d’arte. In un’ora di navigazione potremmo avere accumulato abbastanza materiale da leggere in diversi mesi. Il tempo è la variabile in gioco quando parliamo di internet. Potrei, per fare un esempio, connettermi alla rete e scaricare tutti i classici che riuscirei a trovare scegliendo nella letteratura italiana dal duecento al quattrocento. Se sono uno scrittore o un appassionato questo è sicuramente un innegabile vantaggio offertomi dalla rete. Con calma posso stampare i testi che mi interessano per leggerli dove desidero, nel tempo che voglio. Io penso che la tendenza sia un’altra. Credo che la tendenza sia quella di considerare il materiale disponibile sulla rete come ‘sempre presente’. Non avrò mai il tempo, in un mese, di leggere cinquanta libri, quindi quando voglio leggerne uno mi collego al sito che lo contiene e lo leggo. Quando ho finito o devo scollegarmi interrompo la lettura per poi continuarla quando ne avrò voglia. Ecco il problema del tempo. Se la lettura e l’utilizzo di certi testi viene inderogabilmente collegata all’accesso sulla rete può accadere, col passare del tempo, che la rete divenga il riferimento per certe letture. Ecco perché il libro potrà difficilmente scomparire o essere relegato a fratello minore degli e-book. Anche quando i costi della rete saranno abbattuti, anche quando l’elettricità necessaria per accendere i computer, ai server e collegarsi ad internet sarà fornita da fonti energetiche rinnovabili e disponibili il libro non potrà essere rimpiazzato dall’e-book. Ci sarà sempre un servizio il cui accesso prevede un pagamento. Guattari in anticipo sulla diffusione della rete pensò un futuro ricco di password che aprono e password che chiudono, rubriche digitali dense di pin e numeri di accesso. Il tempo della lettura ed il tempo della scrittura, il tempo dell’ascolto e il tempo della ricezione. Il tempo è la misura dentro cui si iscrive la ricezione di un testo. Immettere contenuti, sia su internet che nell’editoria, in modo sempre più facile e veloce, dovrebbe responsabilizzare maggiormente chi questi contenuti gestisce. Le pagine su internet e le pagine di carta stampata sono miliardi. Come trovare la qualità? La qualità di una scelta, di una selezione, di un filtro, con l’avvento di internet hanno raggiunto lo stesso grado di importanza della qualità del testo stesso. E torniamo al punto di partenza. Le differenze tra internet e libro sono puramente tecniche. In sostanza i due mezzi seguono gli stessi percorsi di funzionamento. Sui manuali di html-design è consigliato di dare molta importanza ai contenuti nello sviluppo dei propri siti. Un sito può essere strabiliante dal punto di vista grafico della presentazione, tuttavia il motivo che ci fa tornare a visitare quel sito è il fatto che lì troviamo quel che ci serve. Lo stesso accade nei libri. Il libro dovrebbe essere l’oggetto par excellence orientato ai contenuti.
6.0 Il futuro
Esistono due testi importanti, due letture cruciali quando si parla di ‘utopia negativa’ e degenerazione possibile dei sistemi politico sociali nel futuro: 1984, di George Orwell e Fahrenheit 451 di Ray Bradbury. In entrambe queste opere il libro e la trasmissione della scrittura giocano un ruolo importante. 1984 si apre con la scena del protagonista che, finalmente, riesce a raggiungere un angolo del suo appartamento dove non è osservato da alcuna telecamera, estrae di tasca un quaderno e (ri)comincia a scrivere. Scrive un diario, è disabituato, quasi quasi non sa come scrivere. In appendice al romanzo i principi della neolingua. Il linguaggio e la trasmissione del pensiero attraverso lo scritto sono elementi di riconoscimento della libertà di un individuo nelle società di tutti i tempi. In Fahrenheit la situazione è ai limiti del paradosso. I libri sono vietati e chi cerca di fare in modo che non scompaiono può affidarsi unicamente alla memoria. In questo romanzo il libro è contrabbando puro. Mi ha sempre affascinato questo aspetto di queste ‘utopie negative’. Il libro deve essere tutelato, come zona di nessuno, come residua zona in cui il pensiero è salvo, scrivere è liberta, la scrittura è vita. Esiste un modo di diffondere le idee sulla rete, che la pone su un di una avanguardia totale sugli eventi, sulla capacità di aggiornare velocemente le notizie, senza i problemi che possono nascere nella redazione di un giornale (i tempi, le persone, i modi) o in un consiglio di amministrazione di una rete televisiva. La rete è un’arma a doppio taglio con la quale possono essere messe in giro false notizie, sta alla professionalità di un eventuale giornalista capire se qualcosa è vero o no. Qualora il nostro pianeta diventasse inospitale come Marte, agli occhi di un visitatore esterno una serie di compact disc potrebbe apparire come una serie di dischi ornamentali. O no?
7.0 Quel che resta del libro
Quando ogni collegamento viene interrotto, quando il computer è scollegato, quando siamo soli davanti ad una pagina bianca con una penna in mano, quando leggiamo un libro sul treno, in una parola, dopo il black-out il libro. Il libro è un oggetto ed allo stesso tempo un’azione. Il libro è un evento. Come azione è ricca di conseguenze materiali ed immateriali. Il libro può appoggiarsi alla rete e sfruttare tutto ciò che essa può offrire in termini di rapidità, velocità di aggiornamento dei contenuti, facilità di connessione ad un gran numero di persone. Casualità della rete come possibile reperimento di informazioni anche quando esse non sono direttamente l’oggetto della nostra ricerca. All’interno di questo percorso l’autore è libero di ritagliare il suo spazio, di creare una sua specialità che rimane strettamente connessa con le sue esperienze offwire. Il sovraccarico informativo, il corto circuito dei testi su internet è lo stesso ed è speculare al corto circuito editoriale. La differenza consiste nel fatto che su internet è più facile riversare contenuti, al contrario di quanto avviene con i libri. I risultati, sul lungo termine, sono identici. Le riviste di letteratura o gli spazi dedicati presenti su internet tendono a ricercare i contenuti ‘migliori’, più quotati, a parlare dei testi più importanti, restando in stretto contatto con le case editrici che si confermano prima linea nella diffusione delle idee. Avviene che alcuni fenomeni sulla rete siano così importanti da richiedere un supporto da parte della carta stampata (libri e giornali), è un fenomeno simile a quanto è accaduto, a livello di produzione cinematografica, con videogiochi che si sono trasformati in produzioni cinematografiche. Ed è accaduto che siti internet abbiano fatto da volano per la diffusione di fenomeni poi approdati al cinema. Da internet può partire ed arrivare qualunque cosa, data la sua permeabilità, la stessa anche di libri e cinema.
8.0 Presa di coscienza degli editori
Esistono diversi modi attraverso i quali l’editoria si è accorta e ha trovato nella rete un bacino da cui attingere più che una nemico da temere. Tanto per cominciare, da sempre, esistono case editrici specializzate che pubblicano manuali e testi di informatica. Chiusa parentesi su questo mondo che in questo scritto non ci interessa, dato che il punto di vista è presentato da uno scrittore che si occupa di poesia e narrativa. Vengono pubblicati libri che riportano blog presenti su internet. La sequenza è semplice, il blog in genere, e qualcuno in particolare, divengono interessanti, tutti ne parlano, il fenomeno diviene fenomeno di costume e reportage, il libro e l’editoria si nutrono di fenomeni (in senso lato, non negativo), quindi viene pubblicato un libro contenente un blog. Ciò va tenuto in conto per un motivo: la diffusione della rete è capillare nei paesi industrializzati, anche in questi non tutte le persone hanno accesso alla rete, la rete come un quotidiano, in alcune circostante è considerata e visitata labilmente, senza riflettere. C’è un modo di navigare che replica lo zapping televisivo o la visione di un film, c’è un modo di navigare che simula l’ingresso in una biblioteca. I modi cui siamo abituati per avere accesso alle informazioni sono la televisione, la radio, il giornale. Tutti e tre sono agevolmente trasmigrati sulla rete, tuttavia le televisioni continuano ad essere vendute. Alle offerte di televisione via satellite si affiancano le offerte del digitale terrestre, anche qui c’è qualcuno che ha pensato che la televisione prima di tirare le cuoia dovrà e potrà passare attraverso varie (ri)trasformazioni. Ciò a quanto pare non accade negli stessi termini al libro. Testi privi del diritto d’autore e pubblicati da un editore costituiscono un precedente epocale. L’editore ha avuto l’intelligenza e i lettori/acquirenti hanno colto la sfida. Il libro è un oggetto che piace. Non ci sono regole, un libro è disponibile su internet, chiunque può leggerlo, stamparlo, regalarlo, impaginarlo a suo piacimento. Lo stesso libro viene venduto a poco più di quattro euro in edicola dopo essere passato attraverso ll distribuzione in libreria. Il libro vince. È chiaro che non è bastato scrivere un libro interessante. Gli autori di questi libri non sono persone che passano il loro tempo chiuse in una cantina a scrivere, le idee sono ‘connesse’ a persone, la rete è sempre è un luogo.
9.0 Catalogo
Soltanto siti di una certa rilevanza, o siti su cui lavorano un gruppo di persone determinate, possono permettersi il lusso di dare continuità alla propria presenza sulla rete. Non si può quindi redigere un catalogo dei siti che non sia un catalogo del provvisorio. Mi ricordo di quando si cominciavano ad utilizzare, nella redazione di tesi di laurea, articoli o citazioni presi dalla rete. È probabile, per molti di questi articoli, che a distanza di due mesi o di un anno, sulla rete non ne esista più traccia. Come è probabile che ci siano. Le pagine sono miliardi, molti siti vengono smantellati senza alcun preavviso o, semplicemente, scadono e nessuno più se ne occupa. Questo è ancora un punto di forza del libro sulla rete, l’aspetto della storicità dell’evento. I libri vengono conservati, messi in circolazione sul mercato, catalogati. Difficilmente (forse non si può mai dire) si potrà dire di un oggetto che non è mai esistito.
Maurizio Leo e “I Quaderni del Bardo”
Maurizio Leo è nato nel 1959, ho visto uno dei suoi primi libri circa tre anni fa, nella biblioteca del FondoVerri di Lecce, rimasi incuriosito da questo oggetto, pagine nere con caratteri bianchi, veste tipografica ineccepibile, troppo difficile che fosse un’autoproduzione e se lo era, era fatta proprio bene. Il libro si intitolava Fobia, un testo pubblicato in veste simile nel 1984, quando l’autore aveva ventiquattro anni. Presumo quindi che Fobia sia una delle sue prime opere. Presumo perché l’autore è sfuggente, è una persona di poche parole cui non piace perdersi in chiacchere su come vanno le cose con gli editori. La mia prima impressione, ripeto, è stata quella di avere tra le mani un’edizione molto curata. Passa il tempo e de ‘I Quaderni del Bardo’ riesco a reperire qualche copia nei modi più disparati. I volumi sono in tiratura limitata, tra i duecento ed i cinquecento esemplari. Questo limite non è tale, è una scelta rigorosa dettata dall’intenzione di dare ‘valore’ aggiunto alla propria operazione culturale. Infatti i titoli usciti, in questi ultimi anni sono 14, un numero elevato se si considera il lavoro che sta dietro ad ogni volume, la tessitura delle relazioni che fanno di ogni uscita un ‘rapporto umano’ tra Maurizio Leo e gli autori. Maurizio Leo rappresenta un esempio atipico di produzione culturale, un esempio di tenacia e pazienza. Gli autori di cui si sente eco negli scritti di Maurizio appartengono alla Beat Generation, passando per Breton o Lautréamont. La sua è una sperimentazione che investe la lingua, le sue poesie seguono un ritmo sincopato, che soltanto alla vista ricordano i refrain di Mexico City Blues, una volta lette lasciano l’amaro in bocca. La sperimentazione della prosa è verticale, soprattutto in Fobia, un testo da cui si esce senza fiato per respirare. E’ tuttavia riduttivo parlare di lui attraverso le sue opere, che semmai vanno (ri)cercate e lette. L’autore è anche redattore da tredici anni della rivista il ‘Bardo’, distribuita capillarmente e gratuitamente sul territorio, in librerie ed edicole, a Copertino, Lecce, Maglie, Galatina, Nardò, Gallipoli e Leverano. Inserisco l’elenco de ‘I Quaderni del Bardo’ per dare modo a chi fosse interessato di mettersi in moto. Nella sezione testi di questo sito troverete qualcosa di suo da leggere.
1 M. LEO, Dogmaginazione, 1992, 2 V. ZACCHINO Religiosità e Tradizione nelle poesie di S. Giuseppe da Copertino, 1993, 3 M. LEO, L’albergo di latta, 1994, 4 M. LEO, Fobia, 1995, 5 A. GIORGI, Le pantee grigie, 1996, 6 E.A. BUONGIORNO, Varvara, 1996, 7 C. TUNDO, Nequizia, 1996, 8 M. LEO non suona più il jukebox nell’appartamento di allen, 1998, 9 P. VALESIO, Anniversari, 1999, 10 S. DONNO, Monologo – +, 2000, 11 AA.VV. Absentia, 2000, 12 M. LEO il bazar delle parole scomposte, 2002, 13 V. FIORE Nicola a Copertino, 2003, 14 G. COSI Sette lustri di vita lequilese, 2003.