"Il finimento del Paese" di Ermes Dorigo


“Bello, intenso, con splendidi passaggi e paesaggi, duro e anche scorbutico, ma è quello che ci vuole”, così Claudio Magris definisce sinteticamente Il finimento del Paese di Ermes Dorigo (edizioni Kappa Vu, Udine, prezzo di copertina 15 euro), che è accompagnato anche da due scritti di Mario Rigoni Stern e Marosia Castaldi.

La narrazione de Il finimento del paese di Ermes Dorigo si apre come una carnica “Conversazione in Sicilia”. Il protagonista, Italico Deodati, nelle cui sembianze si è tentati di vedere un alter ego dell’autore, torna al paese natale, dove gira per le strade e fa incontri e intavola discussioni. Senonché ben presto la conversazione si sposta in interiore hominis, secondo una tipologia del romanzo contemporaneo che parte dal dostojesvkiano Romanzo del sottosuolo e, in Italia, da Uno, nessuno e centomila di Pirandello.

Un romanzo che narra anche il farsi della narrazione, coinvolgendo il lettore, come un investigatore, a seguire le varie tracce e a tirare i fili di un raccontare apparentemente frammentario, anche per il plurilinguismo, pluristilismo e commistione dei generi che lo connota, in realtà sostenuto da un solido impianto costruttivo. Più che un protagonista, Italico Deodati, abbiamo un personaggio centrale, in bilico tra essere e non essere, che ritorna nella sua terra, la Carnia, che ha la stessa precaria identità; ormai homeless, alloggia in una stanza d’albergo, dal nome metaforico, Roma, che permette sia di ripercorrere criticamente la cultura locale sia di metaforizzare la condizione dell’Italia contemporanea, rivisitata, anche in forme paradossali, nella sua contraddittoria storia novecentesca.

Con l’aiuto di Camunio, Mindonio e Memo, personificazioni dell’istinto, della ragione e della memoria, Italico riscopre la sessualità – sereno e trasparente erotismo di un caleidoscopio di figure femminili, alcune, indimenticabili, come Arlette. Una serie di repentini movimenti psicologici e culturali, che trasportano il lettore a Budapest, Zurigo, Trieste, Bosnia, inserendo il problema dell’identità nazionale italiana in un contesto internazionale, attraversando Urbino, il simbolo della bellezza e del civismo passato, creando una forte frizione tra antica bellezza civile e l’odierno degrado del Paese. Un romanzo local-globale, in cui il tema dell’identità individuale e collettiva viene affrontato con forte impegno etico-civile, problematicamente e senza indulgenze folkloriche e localistiche, anzi, con una scrittura, che sorprende continuamente il lettore con repentini cambiamenti e impasti diversi di registri, di ritmi e di generi. Un romanzo tragicomico, intenso e beffardo, disperato e sarcastico, enigmatico e ingenuo come la vita. Un romanzo che incuriosisce il lettore fin dall’inizio, in quanto si apre con una Prefazione del Ghost-writer, per cui ci si pone la domanda: ma il romanzo chi l’ha scritto: Dorigo, Italico o il Ghost? Oppure tutti e tre insieme? Chi è il Ghost? L’ispirazione, una forza superiore, che utilizza lo scrittore per i suoi fini? Il lettore partecipa, quindi, sollecitato nella sua intelligenza critica, anche ad un romanzo parallelo: la favola magica e tragica della creazione letteraria, che alla fin fine rappresenta il farsi e disfarsi degli interrogativi esistenziali, che si pongono tutti gli uomini e che lo scrittore racconta nelle sue forme e dal suo punto di vista.

Un triplice ‘finimento’, dunque: come fine, termine di un’idealità d’Italia; come briglie, guida, reggimento politico; come ornamento, ricchezza artistica e spirituale, sempre presenti come contraltare del degrado e della massificazione attuale: il Bello non come mero evento estetico, ma come fattore di incivilimento e cultura, la qualità della polis, la nostalgia della quale è simboleggiata dalla presenza costante della/e piazza/e, oggi vuota/e, un tempo luogo di incontro, di scambio comunicativo, di civile costruttivo confronto.

Era estate quando misi piede qui.


Era estate quando misi piede qui. Ed ora io finirò e lei non sentirà mai più la mia voce, a meno di non incontrarci ancora da qualche parte, il che, considerato il verosimile stato della nostra salute, ritengo sia poco probabile. Perché sto per alzarmi, no, non sono seduto, perché sto per andare, così come mi trovo, con le cose che ho indosso dritto davanti a lei, se questo può dirsi stare dritto, con nemmeno uno spazzolino in tasca per lavarmici i denti, mattina e sera, o un soldo nel mio borsellino per comprarmi una brioscia nella calura del mezzogiorno, e senza una speranza, un amico, un proposito, una prospettiva, o un cappello sulla testa con cui ossequiare le gentili signore e i signori, e così percorrerò il vialetto meglio che posso fino al cancello, per l’ultima volta, nella luce grigia del primo mattino, e con un cenno d’addio giungerò sulla dura strada e di là sul duro marciapiede, spiengendo il piede buono in avanti al meglio delle mie possibilità, mentre l’incolto polveroso ligustro mi sfiorerà la guancia, e via così, avanti, col calore in aumento, sulla mia progressiva fiacchezza, finché qualcuno avrà pietà di me, o Dio avrà misericordia di me, o meglio ancora entrambe le cose, o in mancanza di queste fino a quando non cadrò incapace di rialzarmi durante la marcia e verrò preso in custodia, annerito dall emosche, da un agente in transito, lasciando lei qui al mio posto, con in prospettiva tutto ciò che ho alle mie spalle, e tutto ciò che m’aspetta, ah! tutto ciò che m’aspetta. Era estate.

Samuel Beckett, Watt