Valeria Parrella vince il Premio letterario "Città di Bari – Costiera del Levante – Pinuccio Tatarella"


È Valeria Parrella con il suo romanzo “Lo spazio bianco” (ed. Einaudi ), la vincitrice dell’undicesima edizione del Premio letterario “Città di Bari – Costiera del Levante – Pinuccio Tatarella”. La trentaquattrenne scrittrice napoletana ha ottenuto dalla giuria popolare 122 voti su 321 schede scrutinate . Secondo classificato Vittorio Giacopini con “Re in fuga” (ed. Mondadori), terzo e quarto posto rispettivamente a Luigi Guarnieri con “I sentieri del cielo” (ed. Rizzoli) e Giuseppe Lupo con “La carovana Zanardelli” (ed. Marsilio). La serata finale del premio si è svolta martedì 15 luglio al Parco 2 giugno condotta da Marino Sinibaldi e Anna Maria Minunno con la regia di Carlo Bruni. L’attrice Anna Bonaiuto ha intrattenuto il pubblico con la lettura di brani tratti dai libri in concorso, accompagnata dagli interventi musicali del gruppo vocale Faraualla. Il Premio Speciale della Giuria tecnica , presieduta da Walter Pedullà, “per il suo impegno nella diffusione della cultura del proprio Paese nel Mondo”, è andato ad un grande personaggio della letteratura mondiale. Tahar Ben Jelloun, celebre scrittore marocchino, diventato in questi anni uno degli intellettuali più attivi nel dialogo interculturale e nell’impegno contro ogni forma di razzismo.  Il Premio alla Saggistica è stato invece assegnato alla giornalista Giuliana Sgrena con “Il prezzo del velo” (ed. Feltrinelli) Nel corso della kermesse letteraria è stato anche assegnato il Premio alla Lettura per la migliore recensione dei libri a cinque studenti: . Annalisa Cascione ( liceo artistico De Nittis), Ruben De Palma Colella (liceo scientifico Fermi) , Stefania Fasano (istituto tecnico commerciale Vivante) Arianna Griffa (liceo scientifico Salvemini) e Nicolò Macina (liceo classico Q. Orazio Flacco ). A ciascuno di loro è stato consegnato un assegno di studio del valore di 500 euro. VALERIA PARRELLA Nata a Torre del Greco (Na) nel 1974, vive a Napoli. Laureata in Lettere Classiche, interprete della Lingua Italiana Segni, lavora all’Ente Nazionale Sordomuti di Napoli. Collabora con la redazione napoletana de La Repubblica e con Marieclaire. Ha pubblicato la raccolta di racconti Mosca più balena nel 2003 per Minimumfax, e racconti sparsi in diverse antologie: Pensa alla salute – Ancora del mediterraneo, 2003; Bloody Europe – Playground, 2004; La qualità dell’aria – Minimumfax, 2004. Suoi scritti sono apparsi sulle riviste: Nuovi Argomenti, Origine, Accattone.

su Musicaos.it, due interventi di Elisabetta Liguori a proposito di Valeria Parrella:

Un giorno nuovo a Napoli. Leggendo i racconti di Valeria Parrella
e Per le donne in attesa. Leggendo “Lo spazio bianco” di Valeria Parrella

Un'altra giovinezza


Enrico Pietrangeli
su “Un’altra giovinezza”
di Mircea Eliade

Un fulmine, durante la notte di Pasqua, colpisce Dominic, ottantenne protagonista che, anziché perire o restare invalido dall’incidente, ringiovanisce prodigiosamente colto da ipermnesia. Sullo sfondo c’è persino un Papini eco nella cronaca, nella cecità supposta, ma anche una forte predilezione per Dante e Ungaretti nutrita dal miracolato oramai divenuto superdotato nelle sembianze di un bel giovinetto, con tanto di “baffi biondi” e “frange sulla fronte che lo faceva assomigliare a certi poeti”, forse un po’ anche a quel Sean Bran, poeta, esoterista e irredentista irlandese che, per il suo centenario, immola la quercia folgorandola ai posteri. Dualismo cosciente, immagini riflettenti fino ad un vero e proprio sdoppiamento della personalità con un sosia angelo custode e risvolti profetici sul destino dell’intera umanità costruiscono man mano il personaggio in una sorta di esoterismo delle lingue. Sogna per ideogrammi divenendo un febbrile sinologo, quasi un novello Pound alla ricerca di sé e dell’anima all’origine di tutti i linguaggi. Si rimbalza da una dimensione temporale all’altra, trasformando passato e futuro in coordinate mobili, dove tradizione e spazio si consolidano in una visione apocalittica ma rigeneratrice per una possibile umanità post-atomica e più dotata, quella post-storica.
Mircea Eliade, eminente intellettuale della storia delle religioni del Novecento, nell’ “escatologia dell’elettricità” romanza una “mutazione della specie umana, l’apparizione del superuomo”. Tematiche che nel libro riconducono ad un’ambientazione radicata nell’espansionismo nazista in Europa. Cresce l’interesse al caso di Dominic e, “tra gli intimi di Goebbels”,  quello del dottor Rudolf, sperimentatore da “un milione di volt”. Sequenze di spionaggio e doppio gioco tra Siguranţâ e Gestapo disegnano una Romania già da anni nel pieno di vicissitudini tra conservatori e legionari, minacciata da tedeschi e sovietici come pure da bulgari e ungheresi. Un paese che, di lì a poco, con Antonescu verrà risucchiato nello scacchiere di Hitler per questioni strategiche piuttosto che ideologiche, tanto che, la stessa Guardia di Ferro, nel ’41 sarà messa per sempre a tacere nell’ordine d’interessi reciproci.
Dominic si rifugia a Ginevra e, a partire dal ’47, trascrive i suoi appunti in una “lingua artificiosa”, un sistema non decifrabile prima del 1980, destinato a tramandare molte civiltà che, prima dell’avvento dell’uomo post-storico, andranno completamente distrutte nel corso di guerre atomiche. Sempre in Svizzera, nel ’55, un temporale sorprende due donne e la sola sopravvissuta, Veronica, viene colta da una sindrome di regressione che, non a caso, si ricongiunge al destino di Dominic, non solo a quello linguistico (Veronica è preda di transfert e, come Rupini, figlia di una delle prime famiglie convertite al buddismo, comunica con lui in sanscrito) ma anche a quello sentimentale, che riconduce ad un amore incompiuto della prima giovinezza, quello con Laura che lo ritrae a Tivoli. Dominic e Veronica si ritireranno a Malta, lontano da fari puntati e occhi indiscreti, dove le visioni di lei diverranno sofferte ed oniriche, fino a lambire civiltà primordiali, provocandole una “senescenza galoppante”. Finale estetizzante e ambivalente, sia sul piano reale che su quello surreale, per il lettore come per il protagonista che si ritrova al caffè Select fino ad invecchiare improvvisamente per essere rinvenuto come un anziano morto assiderato. Il doppio e la sfida del Faust di Goethe, ma anche palesi riferimenti a Dorian Gray, ci lasciano nel gusto di una cultura romantico-decadente filtrata dal Novecento e paradigma di una tragicità d’incomunicabilità isolazionista.

Mircea Eliade, Un’altra giovinezza
Rizzoli – 2007 – 15,00 Euro

La notte è una parola breve


Marco Montanaro
LA NOTTE È UNA PAROLA BREVE
o
Margherita che salvò il mondo in primavera

Pensavo a un libro che avevo appena finito, ‘Una donna senza fortuna’, di Richard Brautigan. Volevo capire se era il caso di associare Margherita a una delle due donne che muoiono nel libro.
“Con quei capelli sembri Formigoni, quello della Lombardia”, mi disse Margherita. No, giunsi alla conclusione che Margherita non poteva essere una delle due donne senza fortuna del libro. Era troppo luminosa e aveva qualcosa a che fare con l’immortalità, ne sono certo. Non poteva morire, e con le due donne del libro condivideva solo una strana leggerezza.
E così eravamo al tavolo del nostro ristorante, io e lei, ad aspettare che Roberto tornasse dal bagno. E lei mi prendeva in giro per i miei capelli. E Roberto era il suo ragazzo. Adoravo quei due. Adoravo quella coppia. No, loro non erano una coppia. Loro erano l’amore. L’Amore. Non erano come tutti gli altri, loro sapevano condividere la loro felicità con chi gli stava intorno. Non ti sentivi un inutile peso morto a stare con loro. Con loro si era in tre, non in due più uno. Eri a tuo agio. Portavano in alto il vessillo dell’Amore con leggerezza e credo che mi bastasse guardarli per non aver voglia di avere una ragazza, così, giusto per non abbassare la media della felicità di coppia.
La felicità altrui è sempre un pericolo: viene sempre voglia di confonderla, disfarla, distruggerla con qualche parola di troppo; è una tentazione troppo forte che, manco a dirlo, non avevo in presenza di Margherita e Roberto.
E così eravamo in questo ristorante e io volevo parlare del libro che avevo letto e Margherita mi prendeva in giro per i miei capelli e Roberto diceva che io almeno li avevo, i capelli, e poi avevamo bevuto e, se qualcuno dei presenti avesse voluto stilare una classifica delle persone più luminose in quel locale, be’: al primo posto c’era Margherita. Poi io e Roberto. Poi tutto il resto.
Erano così gommosi quei due. Ci rimbalzavi addosso. Non ti facevano schiantare sui loro spigoli. Ah, che senso di relax che provavo quando li frequentavo. Roberto era l’agio in persona. Non mascherava i suoi sentimenti. Era geloso e non ne faceva segreto. Ma si faceva bastare i piccoli gesti con cui aveva conquistato Margherita. Cos’altro poteva esserci? Ah, quanto relax e gioia si provava in quei giorni. Come quella volta che mi invitarono in montagna con loro. Non ci andai perché dovevo lavorare. Avrei voluto. Peccato.
Eravamo in questo ristorante e Margherita sorrideva come se avesse potuto sorridere per tutta la vita solo per far piacere a me e a Roberto. Era naturale, come lo è solo qualcosa che puoi descrivere in questo modo: ‘Era naturale’, e senza aggiungere altro.
Partì una canzone un po’ blues un po’ gospel, musica di sottofondo per un locale così fintamente di classe, di quelli che frequentavamo per gioco, per farci beffe della gente fintamente di classe che ci andava. Credo fosse ‘It don’t worry me’, [‘Non mi preoccupa’], quella del film ‘Nashville’. Vidi Roberto e Margherita improvvisare un balletto seduti sulle sedie. Fecero un bel po’ di casino, fecero cadere qualche posata, la gente intorno si voltò, qualcuno rise, qualcuno ci giudicò male, e io amavo quei due, oh, se li amavo. Certo, forse era per via del vino. Il vino mi ha fatto amare cose molto strane, in vita mia, cose che in realtà non avrei mai amato: il jazz, i film pulp, l’epifania, i libri di filosofia e meditazione orientale e, se non ricordo male, anche una capra. Ma non era questo il caso: eravamo nel nostro musical, i miei occhi erano la macchina da presa e quei due i miei attori preferiti che avevo chiamato per girare il film che più avrei amato nella mia carriera di regista. Se solo gli altri attori nel locale si fossero uniti a quella danza!

Un giorno invece non stavo pensando a niente di tutto questo. Pensavo al fatto che non ero mai stato in grado di capirci qualcosa di automobili. Ero dal meccanico e quello non aveva nient’altro di meglio da fare che ironizzare sul fatto che avessi comprato un catorcio come quello che stava cercando di riparare. Avevo un bisogno infinito di quell’auto per lavorare. Era l’unico motivo per cui rimanevo lì ad ascoltare il meccanico che metteva in dubbio le mie capacità di cambiare persino una gomma alla mia auto, che rimaneva comunque un catorcio e che solo uno sprovveduto come me poteva aver acquistato.
Insomma, si fece sera e quel ciccione peloso mi comunicò che non sarebbe riuscito a ripararla in giornata. Avrei voluto ucciderlo. Vedere i brandelli della sua ciccia confondersi con la ferraglia del motore dell’auto. Avrei voluto insultarlo come lui aveva fatto con me prima, mentre gli spaccavo la testa contro il finestrino posteriore. “Lo vedi che nella vita ci vuole culo?”, lo avrei rimproverato.
Ovviamente mi toccò tornare a piedi verso casa. Niente pullman a quell’ora, e niente soldi per il biglietto, visto che i meccanici, se non li uccidi, devi pagarli anche se non hanno fatto il loro dovere.

Ero piuttosto lontano. Ero in quella zona della città in cui non avevo mai messo piede prima di allora. La cosa mi mise di buonumore, perché mi piace andarmene a zonzo a scoprire posti che non ho mai visto. Certo, meglio con la luce. Ma per scoprire quello che scoprii in seguito fu sufficiente la luce di un lampione.
Davanti a me avevo il nulla. Una strada deserta. Da dietro l’angolo provenivano delle risate femminili. Che donna sguaiata ci sarà dietro quell’angolo, pensai. Sembrava la voce di Margherita, ma ero abituato a ritrovarla spesso tra i miei pensieri. Certo, anche Roberto, anche Roberto.
Voltai l’angolo e quasi mi scontrai con una coppia. Una coppia, di cui evidentemente doveva far parte anche Margherita, visto che teneva per mano un uomo alto e piuttosto robusto. Ci guardammo per un attimo. La cosa era talmente strana che non ci salutammo nemmeno. In un solo istante, gli occhi di Margherita mi comunicarono: silenzio, complicità, imbarazzo piuttosto divertito, un pizzico, non di più, di angoscia. Poi tante risate trattenute, perché evidentemente non era il caso di far sapere niente all’uomo che Margherita teneva per mano.
La coppia mi superò e continuò per la sua strada, senza smettere di ridere. Diedi un ultimo sguardo a quei due, e ripresi a camminare. Se in quel momento mi fossi sdoppiato, l’altro me stesso mi avrebbe guardato con la stessa espressione divertita e meravigliata che avevo io, e all’unisono avremmo pronunciato l’unica, solenne, autentica cosa da dire a quel punto: “Ehi!”

Sono sempre stato abbastanza egoista da pensare solo a me in certi momenti. Quindi, durante il tragitto non feci molte congetture su Margherita, ero solo seccato perché dovevo fare molta strada e l’umidità prendeva le mie ossa e le accarezzava con dei machete. E avevo il cellulare scarico e non potevo chiamare nessuno per farmi venire a prendere. No, a quel punto non avevo più voglia di esplorare parti della città che non conoscevo né di pensare a Margherita.
Arrivai a casa bestemmiando e coi piedi a pezzi. Il telefono squillò presto.
“Ciao.”
“Margherita? Ma che ore sono?”
“Non lo so. Che pensi?”
“Oh, io non penso nulla.”
“Meglio. Non l’avresti mai detto, vero?”
“Be’, credo si tratti di una relazione parallela, una vera e propria relazione parallela, giusto?”
“Sì, col bollino di qualità!”
Oh, Margherita. Era sempre così leggera.
Ridemmo.
“Be’, non è mia abitudine fare la spia. Sai, credo che le persone certe cose debbano capirle da sole e…”
“Roberto è anche amico tuo. A lui non manca nulla, comunque, no? Lo vedi come stiamo bene insieme, no?”
“E’ innegabile.”
“Non glielo dirai, vero?”
“Se un giorno avesse dei dubbi su di te e mi chiedesse qualcosa… No, non glielo direi. Se un giorno avesse dei dubbi su di te e mi chiedesse qualcosa, torturandomi… questo non posso garantirtelo.”
Margherita rise ancora. Rideva! E io potevo immaginare le sue labbra piegarsi in due verso l’alto.
“Scemo. Alla fine non è che mi chiederai dei soldi in cambio del tuo silenzio?”
Sì, è ovvio che rise ancora. Che domande. Lei rise, certo. Il copione era quello. Io no, però, non risi. Silenzio.
“Be’? Posso… posso stare tranquilla? Non vuoi sapere chi è? Perché? Spero proprio di no!”
“Non mi interessa chi è lui, né perché e tutto il resto. E non voglio soldi. Solo… vorresti venire qui, adesso, Margherita?”
Ho già detto che sono sempre stato abbastanza egoista da pensare solo a me in certi momenti?

It don’t worry me. It don’t worry me.
You may say that I ain’t free,
But it don’t worry me.

Non avrei mai pensato che Margherita usasse quelle calze così colorate. Cioè, non pensavo fossero così lunghe. Non pensavo neanche che mi avrebbe chiesto di baciarle le ginocchia così tante volte. Ma questi sono particolari piuttosto insignificanti.
Il nostro incontro si concluse tra le mie lenzuola, per entrambi, sulle note di quella canzone di quel giorno al ristorante. Poi la playlist che avevo preparato terminò anche lei, come per lasciarci il silenzio adeguato per parlare. Di quei silenzi che finiscono per non aiutare la comunicazione tra uomo e donna.
“Non ti facevo così.”
Non ricordo bene chi pronunciò per primo questa frase. Era un sentimento che provavamo reciprocamente l’uno nei confronti dell’altro.
“Forse è inutile parlarne.”
Lo stesso vale per quest’altra.
“Potremmo parlare dell’inquinamento, allora”, questo ricordo bene che lo disse Margherita, con quella sua aria leggera e divertita.
“Be’, questo sì che è un problema serio!”, le risposi.
“A volte credo che l’uomo sia solo un incidente di percorso, su questa terra. Ne facciamo, di danni irreparabili.”
“Oh, ma vuoi mettere che noia senza di noi? Chi ha portato un po’ di fumo, veleno e… ehm… cose da fare, qui? Non certo i delfini, tesoro.”
“Tesoro…”
Piccole parole insignificanti nuocciono ben più di elevate percentuali di diossina nell’aria, alle volte.
“Tesoro…”, singhiozzava Margherita.
“Non volevo… mi spiace, sono un po’ scombussolato…”
“Tu… mi hai ricattata… e questo non toglie il male che stavo già commettendo…”
“Margherita, per favore… credevo… non parlare come la Bibbia, tanto per cominciare…”
Per fortuna riprese un po’ del suo Sacro Sorriso, grazie a quella mia battuta. Quel sorriso che mi allungava la vita nei ristoranti in cui la incontravo con… uhm, Roberto. Era così distante, lui, in quel momento. Chissà se sarebbe mai tornato.
“Sai Margherì, la sai una cosa? Forse è proprio inutile parlare, io e te.”
Rimanemmo così, nudi e abbracciati, fingendo di dormire, o forse dormimmo davvero, tutta la notte.

‘Notte’ è, in fin dei conti, una parola piuttosto breve. Cinque lettere. Invece finisce per racchiudere, spesso, un intero periodo della vita di una persona. E anche senza pensare a un periodo, una notte sola può essere più lunga di quello che le lettere che la compongono suggeriscono.
A me capitò comunque di sperimentare sia la lunghezza di quella notte, la prima notte con Margherita, e poi l’intero buio di un periodo piuttosto notturno. Non so se fu un periodo brutto, cattivo, peccaminoso, no, forse non lo fu per niente; ma le serate al ristorante con Roberto e Margherita non erano certamente la cosa più luminosa che mi capitava.
Roberto e Margherita erano luminosi allo stesso modo, forse. Forse ero io che non potevo confondermi con la loro felicità più di quanto ci fossi già invischiato; e comunque c’era anche quella quarta persona, che non credo Margherita aveva smesso di frequentare. Non so dove trovasse il tempo, quella ragazza. Di certo, aveva ancora il tempo di sorridere.
Con me piangeva. Ma credo fosse qualcosa di patologico, non si poteva eliminare, era come l’influenza a gennaio. Ciclicamente, ogni tre notti passate con me, lei scoppiava, piangeva. Forse solo perché poi amava farsi risollevare dal suo aguzzino, in fondo. Ero il più bastardo dei tre uomini che frequentava. In una speciale classifica, credo che Roberto… Oh, non è il caso di fare classifiche di questo genere.
Non so se Margherita mi percepiva come uno schifoso ricattatore. Credo che fossi una nuova abitudine per lei. Di quelle cose che si avvertono già come un’abitudine o come qualcosa che lo diverrà sicuramente a breve, pur essendo, al momento, fresca e nuova. Forse la storia del ricatto iniziale, che comunque non rinnovai (o forse sì? Non ricordo e, credo, non me ne preoccupai, non troppo), ecco, forse questo la eccitava. Forse aspettava il momento propizio per tirarla fuori davanti a Roberto e farci fuori entrambi e scappare con l’altro, di cui una volta mi disse il nome e il lavoro ma che adesso proprio non riesco a ricordare.
Di sicuro ricordo il profumo della pelle di Margherita. E del suo sorriso. Quel dannato sorriso aveva un profumo, posso giurarlo.

Dunque quando eravamo con Roberto non era luminoso, forse, ma in fondo scorreva tutto liscio, come il vino che buttavamo giù nei ristoranti. Era come se tutti e tre percepissimo qualcosa di diverso e di oscuro nell’aria, e bevessimo per non pensarci; per prendere solo il meglio di noi tre. Ma eravamo due più uno, adesso, o forse lo eravamo sempre stati. Solo che adesso quell’uno era Roberto. Oppure, era tutto come prima, tutto luminoso e splendente ed ero io che volevo pensarla in maniera diversa. Sì, forse Margherita era una fatina preziosa ed era riuscita a tenere tutto insieme nonostante tutto, e io non avevo che da prendere quel tutto magico e schifoso insieme.
Non c’erano battute fuori posto, quando eravamo noi tre.
Però ogni bacio che lei dava a Roberto era un avvertimento. Ogni abbraccio lo era. Era per dire: guarda cosa stai tentando di distruggere. Ma finivo per non crederci troppo: lei avrebbe distrutto tutto comunque, da sola.
E con me era serena, che diamine. Me la ricordo.
Poi col tempo cominciai a sentirmi un po’ fuori posto, devo ammetterlo. Pur essendo quello più informato sui fatti, dei tre uomini. Avevo avuto sempre un bel dire che l’informazione è tutto. Che più si conoscono i fatti, e più si è liberi di scegliere la propria strada. Ero libero di smettere di fare quello che facevo come un criceto è libero di nascere e poi di correre sulla sua ruota.
Forse avrei preferito essere Roberto. O quell’altro uomo, con cui la incrociai solo un’altra volta, e pure in quella circostanza Margherita mi era sembrata leggera.
Forse ero tutti e tre gli uomini contemporaneamente.
In compenso per un periodo fui certo che Margherita aveva paura di me, di lasciarmi. Magari pensava che avrei potuto rovinarla davvero, raccontare tutto. Me la immaginavo, di notte, che si alzava dal mio letto e tornava con un coltello da cucina ancora sporco di pomodoro per tagliarmi la gola.
Poi venne il periodo in cui cominciai a dare ascolto al mio cane. Il mio cane non poteva sopportare Margherita. Certo, era sempre stato geloso di tutte le mie ragazze. Ma con le altre abbaiava, la notte si metteva nel letto tra me e le ragazze, il che finiva immancabilmente per far innamorare ancora di più di me le ragazze in questione. Con Margherita, invece, era distaccato, assumeva una strana espressione ogni volta che lei veniva a casa. Come se volesse dire: “Che cazzo stai facendo?”
Insomma, cominciai a dare ascolto al mio cane. Volevo tirarmi fuori da quella situazione. Ma non sapevo assolutamente come fare. Non potevo vivere senza Margherita, nella misura in cui un uomo non può vivere senza una donna. Quindi avrei potuto farlo. Non volevo. Non volevo essere io l’unico a rinunciare a lei, forse.
Be’, volevo sbarazzarmene, comunque. A un certo punto ero io a svegliarmi nel cuore della notte per prendere il coltello e tagliare la gola a Margherita. Ma stavolta il coltello era pulito e luccicava nel buio del corridoio.
Eravamo gommosi, io e Margherita. Ci detestavamo per poi tornare ad abbracciarci, rimbalzando uno sull’altra.
Vi starete chiedendo quanto deve esser durata tutta questa storia. Non molto, per la verità. Quanto dura una notte, sapreste dirlo?

Per la verità, il mio umore incostante andò via con l’inverno. Le cose cominciarono ad andare meglio, con Margherita, con l’arrivo delle belle giornate. Oh, il suo sorriso, in primavera, acquistava qualità che mai avrei potuto apprezzare in quegli squallidi ristoranti che frequentavamo col suo ragazzo. Per completezza d’informazione, devo dire che non uscivamo più in tre. Avevo troppo da lavorare per perdere tempo con loro due, la sera.
Anche l’umore di Margherita migliorò. Ormai non c’era più ombra di ricatto, e nemmeno di lacrime. Tranne una volta. Si mise a piangere perché l’aveva lasciata. Certo, ci misi un bel po’ per capire chi dei tre l’aveva lasciata. Mi accertai con me stesso di non essere stato io, poi mi disse che era stato l’altro, e non Roberto.
La consolai, ma non volle fare l’amore con me quella notte. Poi l’altro la chiamò e le disse che aveva cambiato idea, così recuperammo l’amore al mattino; ridemmo nello sperimentare il fatto che la stessa scusa che Margherita aveva usato con Roberto per rimanere da me fino al pomeriggio andava bene anche per l’altro.
Sì, Margherita era in forma. Lo era il suo sorriso. Con le belle giornate smise pure di portare quelle calze così lunghe. Non ne usava. Altre volte si divertiva a non usare nemmeno gli slip. Mi assicurava sempre che era un giochetto che usava solo con me. Oh, era così amorevole nei miei confronti, Margherita, in primavera!
Io le regalavo sempre dei fiori bianchi. Bianchi, come il suo sorriso e, forse, per controbilanciare il buio della notte che avevamo attraversato piuttosto indenni. Piuttosto insieme.
Margherita era finalmente Margherita, sebbene non solo mia. Il mio cane continuava a non approvare, ma sono sicuro che la mia donna avrebbe avuto parole di riguardo anche per lui. Margherita avrebbe potuto salvare il mondo, in primavera.

Forse fu per questa strana situazione meteosentimentale che mi suonò strano quando Roberto mi telefonò nel cuore della notte. Mi disse che Margherita era sparita. Erano tre giorni che non la vedeva e che non riusciva a raggiungerla telefonicamente. A casa non c’era.
Be’, per me tre giorni senza di lei non equivalevano a una misteriosa sparizione. Ma io avevo altri standard. Chissà l’altro uomo che standard aveva. Forse lui poteva aiutarci.
La telefonata di Roberto ebbe una strana conclusione.
“Oh, sono disperato… forse dovrei chiamare la polizia…”
“Magari è solo stressata. Col lavoro che fa…”
“Ma se ha lasciato da un mese! Era così serena…”
“Ha lasciato? Ehm, non lo sapevo. Poi, magari non era così… ehm… serena come sembrava…”
“Sono disperato, cazzo! Ho bisogno di parlare con qualcuno! Ti… ti va di venire qua?”
Merda, dissi senza fiato, e accettai.

In casa di Roberto notai il puzzle di un dipinto di Bruegel il Vecchio, lo stesso che Margherita aveva regalato a me per il mio compleanno. Credo si chiamasse il ‘Trionfo della Morte’. Sbuffai, mentre ammiravo tutti quegli scheletri armati di falci uccidere dei poveri cristi disperati.
Roberto mi fece sedere, era ubriaco. Non parlava. Io nemmeno. Avevo voglia di mettergli una mano sulla spalla e poi di tagliarmela, o almeno di andare a lavarmela immediatamente. Avevo anche una leggera voglia di scomparire.
Insomma, intorno a noi c’era quel maledetto silenzio fatto apposta per non comunicare. Devo avervene già parlato.
A un certo punto Roberto alzò la testa. Eravamo proprio uno di fronte all’altro. Avremmo potuto sputarci addosso, da quella posizione. E vedere chi aveva più saliva.
“Mi ha mandato un messaggio, mentre venivi qua.”
“Ah, e… cosa dice?”
“Non tornerà. E’ partita. Non vuole dirmi dov’è andata. Mi chiede scusa. Dice che è meglio così, che non tornerà in città. Non tornerà.”
Mi prese un attimo di follia pura, dentro, proprio al centro del mio corpo. Un attimo. Avrei potuto urlare, piangere, picchiare la testa contro uno spigolo, se solo fossi stato capace di fare tutto questo in un solo attimo.
“Non tornerà, eh?”, dissi.
Ritornammo in silenzio. Mancava solo una persona. Mancava quell’altro. Non lo conoscevo, non avrei saputo consolare nemmeno lui e lui non avrebbe saputo consolare me. Ma ero sicuro che anche lui era rimasto fregato da tutta quella storia. Che anche lui era da solo su una poltrona a ripetere fra sé e sé: “Non tornerà, eh?”
Sì, rimanemmo in silenzio mentre fuori era buio. In qualche modo dovevo compensare l’assenza di dialoghi, l’assenza di sorrisi, persino di dubbi… di… di… Oh, così mi misi a fischiettare quella canzone del ristorante. Non ballava nessuno, certo, adesso. Non c’era nessun musical da girare, ma mi veniva da sorridere mentre sussurravo il ritornello: “You may say that I ain’t free, but it don’t worry me”.
Non mi preoccupa, no, no, no.

Buona fortuna, Margherita, sussurrai ancora. Ero l’unico che poteva augurargliela, e chissà se ne aveva avuta, o se ne avrebbe avuta ancora.