Umberto Bossi, la carica dei 300.000!


Elettori di destra, avete Umberto Bossi, e ve lo meritate. 15 Giorni. Sono bastati quindici giorni perché Umberto Bossi ritornasse a sfoderare i toni forcaioli cui ci ha abituato in questi anni di governo e non governo, sempre sulla breccia, sempre duro. La notizia è di 54 minuti fa, “Non so cosa vuole la sinistra, noi siamo pronti, se vogliono fare gli scontri io ho trecentomila uomini sempre a disposizione, se vogliono accomodarsi”. Certo, come buon scodinzolatore tra qualche ora sarà pronto a smentire, dirà che la sua è una provocazione, è da provocazioni simili (ricordiamo tutti Calderoli quando indosso una maglietta con le famose vignette danesi) non vorremmo mai essere vaccinati. Eppure certe volte ci vogliono anticorpi come quelli posseduti da Verdone in “Troppo forte”, quando racconta – coincidenza – della sua partecipazione alla Palude del caimano. “Mi auguro aggiunge che la sinistra scelga la via delle riforme, non come l’altra volta che non vollero assolutamente la riforma federale”. È un’iperbole senza requie, o federalismo o morte, o federalismo o scontro, Umberto Bossi assume sempre l’atteggiamento del buttafuori dal mento alzato, che istiga allo scontro. E poi l’apoteosi “I fucili sono sempre caldi”. Bel Paese del cazzo!

Meno male che Silvio c’è…a Lecce.


Lecce, Via di Vaste. Volantino spontaneo incollato sulla base di un bidone dell’immondizia.
(colonna sonora NOFX, My heart is yearning)

Il codice dei vinti. Su “Il contagio” di Walter Siti


Il codice dei vinti.
“Il contagio”, di Walter Siti

Quale può essere stata la sensazione che provarono, nel 1955, i primi lettori di “Ragazzi di vita” di Pier Paolo Pasolini? Questa domanda è utile alla comprensione dell’ultimo romanzo di Walter Siti, “Il contagio”, edito da Mondadori, un libro che racconta in presa diretta una realtà difficile e poliedrica, quella della borgata romana. Walter Siti è profondo conoscitore dell’opera di Pasolini, della quale è curatore nella sua completezza per l’edizione dei Meridiani mondadoriani. Fare un parallelo tra la pubblicazione dei due romanzi è utile perché di riflesso il lettore può accorgersi di come sia cambiata la realtà della vita nelle città italiane tout court, quindi non solo nella Capitale. Non c’è molta distanza tra i ‘ragazzi’ di Pasolini e quelli palestrati, drogati, cavalli di razza (da monta o da corsa, a seconda del caso) descritti in questo romanzo, c’è un filo che lega le madri del dopoguerra alle ragazze madri di oggi; la cifra è nella disperata vitalità, per utilizzare un’altra espressione cara allo scrittore di Casarsa. Nel suo precedente romanzo, “Troppi paradisi” (2006), Siti aveva rappresentato con spietato autobiografismo un mondo in cui il cortocircuito narrativo tra realtà e finzione non era che uno specchio dove cogliere l’esasperazione con cui, ad esempio, la realtà viene oggi presa di peso o ricercata dagli occhi affamati di spettatori televisivi, una vera e propria superficie di realtà che diventa reality. La prosa, in quell’opera, raggiungeva uno dei risultati più bilanciati, lineari, e rigorosi, della recente produzione narrativa nella nostra lingua. La partita adesso si gioca tra pietà e rassegnazione, tra accettazione della vita e desiderio di evasione. C’è un codice non scritto, quello della borgata, che dice “godere tutto e subito, non conservarsi rimpianti per l’età matura, non negarsi nessuna esperienza”. Perché allora questo “Contagio” è un libro difficile? Anzitutto perché Siti ha optato per l’utilizzo di alcune ‘forzature’ che possono essere messe in gioco soltanto da un professionista della scrittura, con risultati in questo caso eccellenti. Partiamo dalla trama: non c’è una vera e propria trama all’interno di questo lavoro per il quale sarebbe più opportuno parlare di ‘trame’, la borgata offre una gamma inesauribile di personaggi e immagini; racconti e storie che difficilmente potrebbero entrare in un romanzo, non basterebbe una vita per descrivere nei minimi particolari tutte le sfaccettature, chiunque di noi potrebbe fare l’esperimento, uscendo in strada e immaginando la vita che si nasconde dietro alla smorfia dolente di chi ci passa oltre. Walter Siti, che ha insegnato letteratura italiana all’Università dell’Aquila, sceglie un luogo determinato, un condominio – come il Perec di “Vita: istruzioni per l’uso” – nel quale fare interagire i suoi personaggi. Non vi è nulla di certo, né di scritto, dal mestiere all’identità sessuale dei personaggi; ognuno di loro è marchiato a fuoco dal proprio passato, ognuno di loro ha vissuto una vicenda che lo ha portato nella borgata, come termine irriducibile di resistenza alla vita. Il prospetto del condominio è riportato fedelmente fin dalla prima pagina del romanzo, un elemento questo che sposta il baricentro della narrazione al di qua, dalla parte del lettore che in certi casi è morboso voyeur di ciò che accadrà, conosce infatti le premesse maggiori di un discorso illogico, i personaggi in gioco, alcuni dei quali, come Marcello e il ‘professore’ (figura defilata dietro cui si nasconde l’autore), provengono da altri racconti e romanzi dell’autore. Ci si attende una risoluzione tragica o comica ed è quello che accade, moltiplicato per cento. Una volta affidati i personaggi alla quotidianità dell’improvvisazione ecco che sono i luoghi a emergere come attori di quest’opera; dove insieme al condominio, un Essere Multiforme, c’è la borgata, verrebbe quasi da dire mamma Roma, dove “la sola forma di fiducia è l’indolenza, il solo pubblico ministero è il fatalismo”. Ci si arrangia in cerca di un destino che è stato negato e non lo si fa con la rassegnazione ma con un ghigno che somiglia a un sorriso. Colpisce positivamente il continuo passaggio tra i due registri linguistici, quello italiano e quello dialettale, in un romanesco che, come il napoletano, è una lingua che ha saputo imporsi più di tutte nell’immaginario dei lettori. Nella borgata c’è spazio per la coppia che spende trentamila euro per un matrimonio al lago di Bracciano, come Eros e la Hunzicker e ci sta lo spacciatore di cocaina che tenta di fare il colpaccio e entrare in un giro più grande, quello della produzione cinematografica, “Coi soldi ripuliti della cocaina ormai in Italia puoi fare tutto, spadroneggi anche nel mondo finanziario; e di questo immenso potere ognuno dei borgatari seduti a quel bar si sente partecipe e complice, perché ne ha in tasca un piccolo frammento, un sacchettino da un grammo”, in un paese dove una dose di stupefacente vale più di un’azione dell’Alitalia. C’è il lato oscuro del sesso, con la prostituta che riceve in casa i suoi clienti, mentre il compagno si nasconde, restando a origliare, e c’è il gigolò ex campione di culturismo, o la moglie che viene picchiata a sangue dal marito. Non esiste un miraggio di lavoro perché qui si arriva una volta che tutti i sogni sono svaniti in miraggio. Nel suo penultimo romanzo Siti ci aveva descritto i paradisi ‘infernali’ della mediocrità di cui si nutre il mondo della letteratura, della televisione e dell’università. E se in “Troppi paradisi” il professore ‘gongolava’ dietro i finti specchi del “Grande Fratello”, nel guardare Pietro Taricone che faceva la doccia qui è Marcello che insieme alla sua ragazza incontra il Pietro nazionale nel “più grande centro commerciale d’Europa, duecentottanta punti vendita e nove sale cinematografiche”, dove sta “inaugurando un negozio di articoli per sport equestri”, e si accorge che il ragazzo ha conservato la modestia. Nel suo ultimo romanzo Walter Siti descrive una categoria anomale, fatta di “umili immodesti”, scendendo di qualche centinaio di gradini nei meandri di veri e propri inferi ‘paradisiaci’, dove tuttavia, come direbbe un grande poeta del nostro secolo Fabrizio De Andrè, “c’è amore un po’ per tutti e tutti quanti hanno un amore, sulla cattiva strada”.

pubblicato su “il Paese nuovo”
del 23 aprile 2008

Che Liberazione!


Quando il biologo e premio Nobel per la medicina Jacques Monod, nel suo “Caso e necessità”, si chiedeva quali erano le caratteristiche che un extraterrestre avrebbe potuto individuare, una volta sceso sul nostro pianeta, per capire se questo fosse popolato o meno da organismi progrediti, la risposta era semplice: simmetria e ordine. L’omogeneità dell’espressione e la simmetria delle forme sono le caratteristiche che distinguono il caos dalla necessità. Che cosa direbbe allora oggi il “marziano a Roma”, reso celebre da uno degli scritti più sferzanti di Ennio Flaiano, se una volta sbarcato sulla terra fosse chiamato a rintracciare un’opinione unanime sul significato della Liberazione? Prima della Seconda Repubblica esisteva la ‘scissione’, ereditata come retaggio dalla Guerra Fredda e un po’ figlia di un manicheismo popolare di matrice cattolica, che voleva vedere a tutti i costi schieramenti divisi, centralisti e federalisti, antifascisti e neofascisti e così discorrendo. Il panorama di oggi è cambiato e il fenomeno a cui assistiamo da diversi anni rischia di presentare agli italiani prima e all’Estero poi, l’immagine di un paese schizofrenico, dove non sono due le anime che lottano per la rivendicazione degli ideali di lotta dell’antifascismo, bensì mille, come le sfaccettature caratteriali di un soggetto schizofrenico. Malgrado oggi per la prima volta da sempre in parlamento siedano due schieramenti contrapposti ciò che invece accade è che una festa nazionale come la “Festa della Liberazione” venga categoricamente rimessa in discussione e dove, per fare un esempio, chi vuole festeggiare il venticinque aprile venga bollato dalla stampa de “Il Giornale” (proprietario della testata: Paolo Berlusconi) come “irriducibile”, quasi che si trattasse dell’appartenente a una frangia impopolare che annidiata come una larva nel tessuto connettivo del paese. Questa nuova destra è molto saggia nell’utilizzo dell’informazione, sa bene come trasformare il “popolare” in impopolare e oltraggioso, nello stretto giro di una giostra, da un giorno con l’altro. Allo stesso modo che i suoi opinionisti televisivi peggiori, basti pensare a un Paolo Del Debbio, sanno come agitare il fantasma giusto al momento giusto, tutto si fa spettro. E pensare che la canzone che Antonello Venditti dedicava alla Liberazione rappresentava l’esatto contrario, con una solare immagine “Ma che bella giornata di sole/Quanta gente per le strade muore/Quanti treni alla stazione/Ma per tornare a casa/E la chiamano liberazione/Questa giornata senza morti/Questo profumo di limoni/Dalle finestre aperte”.
A tal proposito la ricorrenza del 25 aprile costituisce un’occasione utile per ‘resettare’ i termini di una contesa che si pretende come attualissima. Umberto Bossi, leader (non ancora uscente) della Lega Nord, fu Lega Lombarda (i graffitari padani sui muri firmavano “LL”), è oggi candidato a ricoprire una delle cariche più importanti del nostro paese, con molta probabilità andrà a sedersi sulla poltrona di quel Ministero delle Riforme, tanto strategico per far procedere le istanze di federalismo cui si rifa il progetto politico della Lega. Ebbene, quest’anno dovremmo attenderci l’ennesimo Giuramento di Pontida? E assieme a quello, dovremo attenderci il tanto coreografico ‘prelevamento’ dell’ennesima ampolla d’acqua dalle sorgenti del Po, sul Monviso? Temo proprio di sì: in tal caso per il 15 settembre (Giorno della Proclamazione di Indipendenza della Padania) vi suggerisco di preparare gli scarponi da trekking, quando questa ricorrenza sarà resa ‘nazionale’ è probabile che i pulmini diretti a San Giovanni Rotondo vengano dirottati direttamente in Piemonte. Temo che Umberto Bossi non avrà la stessa accortezza politica – a prescindere che abbia pagato o meno in termini di voti – di un Fausto Bertinotti, quella cioè di non scendere in piazza per via del rispetto alla carica di Presidente della Camera che ricopriva. Ma l’Italia schizofrenica non si ferma qui. Quello che è in atto da diverso tempo è un vero e proprio processo di rivisitazione storica di quelli che sono stati i fatti della Resistenza, occorsi in quel torbido periodo storico che va dall’8 settembre del 1943 e che si conclude con il mese di aprile, culminando nella data del 25 aprile. Da ogni parte in Europa il 25 aprile è sinonimo di Liberazione, meno che mai di Revisione. Nel nostro paese, invece, c’è chi confonde sempre più spesso il rispetto della Memoria con il rispetto del “cadavere”: se la guerra è cosa esecrabile, non c’è niente di peggio di un conflitto civile che vede armati gli uni contro gli altri cittadini di una stessa nazione, duole precisare tuttavia che al momento in cui questi cittadini si portavano la guerra, dopo l’8 settembre, l’Italia era tutto tranne una Repubblica, cosa resa possibile soltanto all’indomani della Liberazione. Fanno sorridere a tal proposito i richiami di certi esponenti della Lega a un presupposto ‘dna’ celtico, proprio loro che considerano Italia soltanto ciò che si situa al di là (per noi) e al di “qua” per loro, della Linea Gotica; possono dire di essere cambiati, basta sentire i discorsi dei loro esponenti quando sono ‘a casa’ per vedere che la loro anima è sempreverde, evergreen. La Seconda Guerra Mondiale ha condotto il nostro paese allo stremo delle forze e l’alleanza passiva di Mussolini alla Germania nazista hanno portato il nostro paese alla guerra civile. All’indomani della Conferenza di Yalta (febbraio 1945) si assistette a una divisione netta del mondo, che dal punto di vista militare risultava diviso in due blocchi contrapposti. Quello che è accaduto nel nostro paese tra il 1943 e il 1945 sembra andare a costituire una terra di nessuno ideologica dove ogni schieramento sembra voler raccogliere per proprio interesse ciò che è stato seminato con il sangue. E allora, cosa dire del sindaco di Alghero, che ‘rischia’ di ricevere una medaglia per il suo divieto di intonare “Bella ciao” nei cortei? Non si tratta di uno scherzo, non è escluso che “le forze dell’ordine possano intervenire”, a detta del proditorio primo cittadino, se qualche dispettoso dell’ordine pubblico avrà l’ardire di alzare il pugno sinistro. Duole ricordare che è del 20 giugno del 1952 la Legge Scelba che sancisce il reato di apologia del fascismo. Sono moltissimi gli esponenti della destra che colgono l’occasione del 25 aprile per ribadire la loro distanza da questa festa, che per loro non ha nulla di ‘nazionale’.
Libertà, Sinistra e Comunismo sono le tre parole più pronunciate da Silvio Berlusconi, non soltanto durante la campagna elettorale, questo lo sanno tutti. A quando quindi una legge che in piena par condicio non possa sancire, una volta per tutte, il reato di “apologia del comunismo”? Approfittiamo di oggi per pensare a ciò che ci circonda, per aprire i libri di storia, per illustrare agli amici, ai figli e ad ‘alcuni’ genitori ciò che è stato, chiedete ai vostri nonni quante volte mangiavano in un giorno, negli Anni Trenta. Anche a questo servono le ferite, per quanto provenienti da un trauma doloroso, per ricordare. Se quel periodo storico, come vuole la Destra, fosse archiviato e sepolto, e quindi ritrattabile, non si spiegherebbe il fiorire di manifesti che puntualmente verranno attaccati sui muri di diverse città italiane nella giornata del 28 aprile in ricordo della morte dello Statista Benito Mussolini; accade anche a Lecce, ed è giusto che sia così perché è Memoria, è Democrazia, è Repubblica, in una parola: Liberazione, una festività che fa bene a tutti, anche a chi la avversa.

U.S.A. & getta


“I’m asking you to believe. Not just in my ability to bring about real change in Washington…I’m asking you to believe in yours” (Obama). Già, “Believe in yours”. Nel frattempo Roger Bird, pastore della “Jonesvill Church of God” dimostra a tutto il mondo il significato della locuzione “essere a corto di argomenti”.

citazioni


Non è stato un gesto fortunato
Natalia Melikova, giornalista

voci dall'inferno


voci dall’inferno
pratica attoriale/elettronica
da Dante
di
Alessandro Mazzotta

venerdì 18 aprile 2008
ore 19.00

su Radio Voice
http://www.radiovoice.it

Non affonderemo cantando


\"all you need is wall\" (Lecce, Via di Valesio, Anonimo)

Un fantasma si aggira per l’Italia. Se ne sono accorti tutti. Se ne sono accorti i politici, che sotto le elezioni hanno tirato per la giacchetta i lavoratori precari, quasi tre milioni stando alle ultime stime. Se ne sono accorti gli istituti finanziari, che concedono credito a tutto e tutti, alimentando l’illusione di un credito facile e portando molti cittadini a concepire la vita economica della famiglia non più sull’unità del reddito, bensì sulla capacità di frazionamento dello stesso, con una formula che sta diventando tristemente nota, secondo la quale ciò che resta dello stipendio al decimo/quindicesimo giorno del mese, viene utilizzato per pagare i debiti e le insolvenze. Nel frattempo sui giornali viene agitato un altro spettro, quello di una recessione economica che come uno tsunami sembra essere in avvicinamento, in seguito allo scandalo dei mutui subprime che ha letteralmente sconvolto l’economia statunitense nell’estate scorsa. Gli scrittori italiani, nei romanzi scritti negli ultimi anni, hanno contribuito non poco a fornirci uno spaccato della realtà italiana. Basta fare pochi nomi, Aldo Nove (Mi chiamo Roberta, ho quarant’anni, guadagno 250 euro al mese…), Francesco Dezio (Nicola Rubino è entrato in fabbrica), Andrea Bajani (Mi spezzo ma non m’impiego), Mario Desiati (Vita precaria e amore eterno). A queste esperienze, “intercettate” da editori come Einaudi, Mondadori, Feltrinelli, si dovrebbero aggiungere a mio parere tutte le esperienze personali, tutti i romanzi “non scritti” e tutti i racconti che si possono rintracciare in rete, nei forum, nei luoghi di dibattito dove si discute del lavoro. A proposito del precariato la rete si è rivelata, come sempre, un forte punto di aggregazione, con la possibilità di raccogliere e condividere le esperienze, disparate e disperate che fossero. Dal blog di Beppe Grillo è possibile scaricare e leggere gratuitamente il libro intitolato “Schiavi moderni” (http://grillorama.beppegrillo.it/schiavimoderni/), che raccoglie diverse testimonianze e riflessioni sul mondo del precariato. Il blogger più seguito d’Italia dice che leggere le ventimila lettere inviategli dai precari di ogni età e condizione gli ricordava Fantozzi; con una piccola differenza, il personaggio creato da Paolo Villaggio, infatti, si gettava ogni mattina dal letto per prendere l’autobus ‘al volo’ con una precisione maniacale, costruita su anni e anni di esperimenti effettuati con la sveglia, la moglie e la figlia. Chi sarebbe in grado, oggi, di sapere in anticipo che lavoro farà tra dieci anni? Sia chiaro, la flessibilità non fa male a nessuno, anzi, essa non fa che accrescere la possibilità di maturare nel proprio percorso lavorativo. Nel nostro paese tuttavia la flessibilità non è venuta prima del precariato, ma ne è fuoriuscita, come Minerva dalla testa di un Giove dolorante. Il precariato, oggi, non può più dirsi un semplice fenomeno. L’accezione di “fenomeno” è infatti propria di qualcosa che conserva i caratteri dell’emergenza. “Fenomeno” è tutto ciò che prima non esiste, dopodiché irrompe come elemento nella scena del dibattito, suscitando le reazioni e le modalità per le quali si cerca di porre un rimedio e trovare una soluzione, perché il fenomeno svanisca, date queste premesse si può affermare che il precariato non è più un fenomeno nella misura in cui abbiamo potuto assistere a una sua crescita esponenziale fino alla sua trasformazione da emergenza in “condizione permanente”. La condizione del precariato. È come se un paese intero, a un certo punto del suo sviluppo economico, si fosse accorto che è opportuno fare un passo indietro, fermo restando il fatto che la condizione del precariato non sembra più essere sostenibile. Succede che persone che hanno abbandonato la loro terra per andare al Nord in cerca di occupazione facciano ritorno, perché quel poco che si è guadagnato e che si può guadagnare è meglio metterlo da parte, spendendo dove la vita costa un po’ di meno. Succede che osservando i grafici che indicano l’andamento del potere d’acquisto dei paesi europei, si possa notare come l’Italia dal 2002 al 2008 sia crollata del 50%, e sia destinata a raggiungere la Romania entro il 2020 (fonte Sole 24 Ore). È un dato di conforto, benché ciò non costituisca una soluzione al problema, che diversi ‘attori’ del mondo della cultura si facciano compartecipanti di un messaggio così urgente. Se ne sono accorti i musicisti, basta ascoltare due brani qualsiasi di uno dei gruppi italiani pop tra i più diretti su terreno come i Tiromancino, che nel loro ultimo album ospitano due singoli “Il rubacuori” e “Quasi 40”, che prendono spunto dalla descrizione delle ferree logiche del precariato calate nell’universo esistenziale. Un verso per tutti “Oh mamma ho quasi quarant’anni, che cazzo ho fatto fino adesso”. Se acquistare coscienza della propria condizione può risultare difficile, diviene più facile quando le cifre del problema raggiungono i picchi di questi ultimi anni. Mai come in questo periodo l’arte e l’industria culturale si trovano a fare i conti con il precariato, mentre si moltiplicano gli altari eretti a San Precario (www.sanprecario.info), santo fai-da-te che vanta una vita da cui si desume che “All’età di 25 anni decise, in contrasto con la famiglia, di vedere il mondo e di cercarsi lavoro in modo indipendente.”, con tanto di miracoli e santini pronti per il download, per la cronaca il santo in questione si festeggia il 29 febbraio. Nel teatro invece si possono fare i nomi di Massimiliano Bruno (Gli ultimi saranno gli ultimi, con Paola Cortellesi) e di Ascanio Celestini, con il suo recente documentario intitolato “Parole sante”, che descrive la realtà del più grande call-center italiano (Atesia, Cinecittà); ecco un estratto del testo che dà il titolo al suo lavoro: “Verrà quel giorno, il giorno è venuto, che ricorderemo, i precari del lavoro, come alla liberazione, con i fiori e le bandiere, i caduti della guerra, del conflitto mondiale […] tutti gli altri stoppati, licenziati, non riassunti […] avevamo versato il sangue per una Repubblica fondata sul lavoro“. La pellicola di Paolo Virzì, “Tutta la vita davanti” è l’ultima comparsa in ordine di tempo, a seguire verrà “Riprendimi”, di Anna Negri, che uscirà nelle sale il prossimo 11 aprile, in questa pellicola è descritta la vicenda di una giovane coppia della quale si vuole filmare l’esistenza precaria, i due protagonisti si lasciano, il precariato sul posto del lavoro incide sugli affetti. Paolo Virzì è un regista affezionato che in più pellicole ha descritto sia il “sottoproletariato urbano” (Ovosodo) che il “conflitto di classe” (Ferie d’agosto). Il solo fatto che il manifesto di questo suo ultimo film ci dia una “riscrittura” del famosissimo quadro di Pelizza da Volpedo, “Il quarto stato”, è una traduzione dell’equazione riguardante il precariato, quella cioè per cui il popolo dei precari, quest’oggi, è paragonabile a pieno titolo al popolo delle fabbriche negli anni della contestazione. Chi fra una ventina d’anni si troverà a descrivere l’attuale panorama della produzione culturale, letteraria, cinematografica o teatrale, dovrà fare i conti con queste tematiche, e su come queste siano state affrontate in questo periodo. Ebbene, nell’immediato futuro, bisognerà chiedersi se c’è partecipazione, in tutto questo, o soltanto descrizione. Sicuramente c’è partecipazione da parte di chi ha dato vita a questi prodotti, anche perché una delle caratteristiche del precariato è proprio la sua diffusione capillare, in tutti i settori. La società liquida è composta da elementi altrettanto liquidi. Chiunque nel mondo dell’arte dell’industria, dell’agricoltura, conosce queste storie, perché le ha vissute sulla propria pelle oppure perché conosce persone che versano in condizioni precarie. Una cosa è certa, non si può descrivere la realtà senza filtrarla con la lente del precariato, oggigiorno ciò equivarrebbe a fornire una descrizione falsata di ciò che accade in ogni città italiana. Perché non approfittare allora per rivedere film come “Volevo solo dormirle addosso” (2004), di Eugenio Cappuccio, dove un giovane Giorgio Pasotti viene chiamato da un’azienda per licenziare un gran numero di dipendenti nel modo più ‘morbido’ e con meno ricadute possibile? Oppure perché non leggere “Donnarumma all’assalto” (1959), il bellissimo romanzo di Ottiero Ottieri nel quale si racconta di uno psicologo mandato in avanguardia nel Sud per conto di un’azienda che deve aprire un nuovo stabilimento? Oppure ancora “Tuta blu” di Tommaso Di Ciaula (1978)? Non stiamo forse assistendo a un riflusso? Sarebbe auspicabile che la spettacolarizzazione del precariato diventasse un punto d’incontro per smuovere (o rimuovere?) gangli del potere e allo stesso tempo modificare gli strumenti, ovvero le leggi, che sono stati i mezzi con cui questa situazione è stata tesa al massimo; per non parlare del fatto che per un lavoratore precario, soprattutto al sud, forse ne esistono due che lavorano in nero. La cosa più brutta, anche dal punto di vista terminologico, è accorgersi che se fino a trenta anni fa aveva un senso utilizzare il termine “proletario” in relazione al “proletariato”, oggi, con il livellamento delle classi e con la divisione tra ricchi e cittadini al di sotto della soglia di sopravvivenza, il “precario” che proviene dal “precariato” non proviene da una classe sociale che ha un volto, ma da un anonimato esistenziale, come uno zero trasversale che chiude tutti quanti in un circolo asfittico. È arrivato il momento di parlare, scrivere, filmare. Se è vero, come dice Ascanio Celestini, che “Non siamo mica il Titanic, non affonderemo cantando”, allora è anche vero che più di qualcuno ha deciso di alzare la voce.

pubblicato su “il Paese nuovo”
di Mercoledì 9 Aprile

(la foto è stata catturata stamattina
su un muro di Via Valesio, Lecce
complimenti allo stencilartista)

La memoria di Adriano. Contro Giuliano.


Il titolo del libro di Adriano Sofri, “Contro Giuliano. Noi uomini, le donne e l’aborto” (uscito per i tipi di Sellerio), ha un sapore vagamente evocativo che fa venire in mente i dialoghi platonici (“Conversazione platonica” è il titolo del quadro di Felice Casorati scelto per la copertina del libro) oppure le opere apologetiche scritte nell’epoca del primo cristianesimo, a sostegno o confutazione della novità religiosa che aveva fatto irruzione nell’Impero Romano. La novità di oggi ha un altro nome, l’attrice Paola Cortellesi ne aveva bene individuato le avvisaglie in un recente sketch nel quale l’Italia viene presentato come il paese dove tutto può essere sottoposto a revisione (“Riparliamone”). Quello che a prima vista può sembrare un instant-book sul tema dell’aborto – il “Giuliano” in questione è chiaramente Giuliano Ferrara – si rivela invece essere il contenitore delle interessanti e decennali riflessioni sul tema dell’aborto, decennali perché Sofri ripercorre un dibattito che inizia prima del ’78, anno di approvazione della legge 194. Adriano è amico di Giuliano, un’amicizia difficile e competitiva perché giocata sul terreno di differenze radicali per quanto riguarda le posizioni teoriche e pratiche sui più importanti temi dell’attualità e della politica. Ciò nonostante il testo non fa suoi gli accesi toni della polemica, in esso viene descritta la parabola del movimento antiabortista di Ferrara, che all’indomani dell’approvazione da parte dell’ONU della moratoria sulla pena capitale, ha fatto suo il concetto di moratoria, ribaltandolo nello slogan metaforico di ‘moratoria sull’aborto’. Ecco, questo pensiero secondo l’autore del pamphlet in oggetto è viziato all’origine per più di un motivo. Tanto per cominciare non si può paragonare l’aborto alla pena capitale. Una legge che vieti alla donna di abortire e persegua penalmente chi la aiuta non farebbe altro che sancire un’appropriazione, una vera e propria assimilazione della medesima nel corpo sociale, niente di meno che un’espropriazione della donna da sé; il divieto di abortire sarebbe in ciò paragonabile al divieto del suicidio. L’espropriazione del corpo a favore dello Stato, tuttavia, è proprio ciò che avviene nella pena capitale. Giuliano Ferrara ha avuto la scaltrezza di trasformare in crociata ciò che era sotto gli occhi di molti. È interessante l’atteggiamento adottato da Adriano Sofri che anziché porre le basi per una anti-crociata nei confronti del direttore del “Foglio”, preferisce affidarsi a una decostruzione attenta di tutte le ragioni presentate da Ferrara. Nel testo trovano spazio le fonti e gli articoli a sostegno delle tesi antiabortiste, compreso l’articolo forse più strumentalizzato, il noto intervento di Pier Paolo Pasolini (“Il coito, l’aborto, la falsa tolleranza del potere, il conformismo dei progressisti”, oggi in Scritti Corsari), ripresentato sul “Foglio” travisando le intenzioni, oltre che il titolo, dell’autore di “Petrolio”, che non era contro l’aborto e anzi voleva affermare una rivisitazione dei modi di comunicare la sessualità, meno chiusa, meno colpevole, con l’alternativa paradossale di non procreare qualora il coito non potesse reinventarsi in amore. Quello che si prova leggendo il testo di Sofri è un forte senso di impotenza qualora ci si debba (da uomini) mettere nei panni della donna che abortisce, strumentalizzata per eccezione, descritta nelle pagine dedicate alla viltà dell’uomo che la abbandona. Quello che non è cambiato e che deve cambiare è l’atteggiamento di fuga. “Contro Giuliano” è un testo che serve a fare chiarezza su una questione, sia che la nostra opinione sia affidata a una parte piuttosto che a un’altra. L’idea proposta da Giuliano Ferrara non è collegata a un movimento di opinione – nulla a che vedere con le raccolte di firme cui possono ricorrere i cittadini come mezzo per chiedere un referendum – ma a un partito in corsa nelle elezioni di aprile, il che rende gli argomenti ‘politici’ in modo inevitabile, basti pensare che il primo ‘scossone’ del precedente governo si ebbe proprio sulla questione delle coppie di fatto. “La politica ha a che fare col potere, e il potere ha a che fare coi corpi e con la sessualità”, è riassunto in questa frase un pensiero di Sofri che viene proprio dagli anni settanta, dalle cattedre francesi e da pensatori come Michel Foucault. Viene riconosciuto a Giuliano Ferrara, seppure per una causa contraria a quella sostenuta da “Contro Giuliano”, l’aver sollevato problematiche che altrimenti rischiavano di restare limitate in una zona d’ombra, tra il tacitamente riconosciuto e il non espressamente detto. C’è ad esempio il problema dei medici obiettori di coscienza, che lavorando a stretto contatto dei pazienti e in aziende sanitarie pubbliche, spesso negano la somministrazione della RU486 (la cosiddetta pillola del giorno dopo), oppure non permettono di esercitare la libera possibilità di scegliere l’aborto da parte di chi, tra tutte, è la prima interessata, cioè la madre, verso cui per tutta lettura di questo testo traspare un profondo rispetto.
La donna resta il centro delle questioni sollevate, e non la semplice periferia di un embrione. Troppo spesso, questo è uno dei pensieri ricorrenti del libro, il destino della donna è affidato agli uomini, quando invece, come pone Adriano Sofri in chiusura di questo libro, “dal punto di vista delle sue speranze, il mondo dovrebbe mettersi ad aspettare la salvezza dalla nascita di una bambina. Una qualunque”.

pubblicato su “Il Paese Nuovo”
il 26 marzo 2008


Claudio Martini e il ripostiglio dello scrittore


“I racconti del ripostiglio” – non ci si faccia ingannare dal titolo che allude alla forma racconto – è l’ultimo romanzo scritto da Claudio Martini, un autore per cui sono attendibili definizioni di poliedrico e caleidoscopico interprete della realtà e che è alla sua terza prova narrativa pubblicata dal 2004 a oggi, la seconda per la Besa Editrice, con cui nel 2005 era uscito il fortunato “Diecimila e cento giorni”, in rete Martini è conosciuto con lo pseudonimo di Writer e il suo blog personale, “Altre latitudini” (ospitato sulla piattaforma di Libero), è uno dei più seguiti della rete.
Claudio Martini, nato nel 1954, residente a Torino ma di origini tarantine, è anche autore di diversi tra saggi e interventi relativi al suo mestiere di psicologo e ricercatore sociale, pubblicati in Italia e in America Latina. Il meta-romanzo richiede al lettore uno sforzo di fiducia, bisogna che chi legge accetti di entrare in un gioco più grande di lui; soprattutto in un periodo come quello in cui viviamo, nel quale l’esperienza culturale viene concepita sempre più spesso sotto l’ottica della mera ‘fruizione’, e allora ci si chiede se sia possibile dare vita a un marchingegno che richiede una dose di masochistico asservimento. Quando grazie alla bravura dell’autore si crea una sospensione esatta tra curiosità e attesa, ecco che il meccanismo ci trascina nella lettura, oramai increduli, pronti a tutto. Gli esempi illustri non mancano, nel caso del Decamerone assistiamo addirittura a un evento fondante della nostra narrativa, sulla scorta degli esempi medievali. Italo Calvino – posto non a caso in epigrafe al volume di Martini – è il più illustre esempio di scrittore che ha adottato più volte questo metodo (Le città invisibili, Se una notte d’inverno un viaggiatore, Il cavaliere inesistente) in cui una storia raccoglie un’altra storia per poi ‘esplodere’ all’esterno. Ancora più vicino a noi è l’esempio di Umberto Eco. Fatte queste premesse debite a un genere importante ci si accosta a questo romanzo con la curiosità di ‘leggere il gioco’ che sottende alla struttura dell’opera di Claudio Martini. Ed è proprio con un ‘gioco’ che il protagonista si troverà a fare i conti, assieme al lettore, trovando in casa sua dei fogli dattiloscritti contenente una serie di racconti. All’inizio lo stile di questi rimanda a situazioni e ricordi di altri autori, un po’ come se il loro scrittore ideale fosse in cerca di uno stile personale, da Ballard a Wim Wenders passando da Jack Kerouac, quasi a chiederci di assistere a un depistaggio. Poi accada che da questi indizi cominci a emergere qualcosa. La curiosità per quei racconti spinge il protagonista, Giovanni, a intraprendere la ricerca del loro autore, partendo dai vecchi inquilini che hanno occupato il suo appartamento, all’interno del quale trova altri indizi per proseguire in questo suo gioco. Ma a questo punto, prima che la storia si faccia ancora più interessante, siamo arrivati a tre quarti del romanzo, d’un fiato, grazie anche alla scrittura evocativa di Martini che in questo suo ultimo libro raggiunge capacità di definizione inconsuete, soprattutto per quanto riguarda gli stati d’animo e la descrizione dello squallore della metropoli, Torino, che nella sua scrittura – questa è una conferma, fin dal suo Sguardi – che si fa ‘generativa’. L’autore mette a frutto la capacità di trasformare in racconto anche il dettaglio più minuscolo, approfittando dei suoi personaggi per esternare le considerazioni sull’oggi, mescolando le parole come un mazzo di carte, per trovare una via d’uscita dalla deriva di un labirinto di storie. Ciò che al narratore riesce con sapiente maestria e a cui il protagonista, invece, anela per ristabilire un ordine negli avvenimenti misteriosi che popolano le sue giornate. Finché il timido ma intraprendente impiegato dell’anagrafe non deciderà per il salto nel buio, in quella zona che l’autore è riuscito a creare in modo sapiente, nella quale la vita coincide con l’opera e dove Giovanni viene chiamato a fare la differenza, con il suo contributo: il suo racconto.
In questo modo, quasi sottoponendosi a una terapia non-ortodossa, farà chiarezza sul suo passato. La vita e la scrittura – e qui ritorna in circolo la lezione di Calvino – possono essere affrontate con la leggerezza di un gioco meta-romanzesco se c’è consapevolezza delle regole e, soprattutto, se la libertà dei giocatori è garantita.

pubblicato su “Il Paese Nuovo”
di Martedì 1 Aprile 2008

La fucina della scrittura: i consigli dello stroncatore.


“C’era una volta”, sarebbe difficile oggi iniziare una storia con questa frase. I lettori di oggi sono smaliziati, mettono alla prova un autore fin dalla prima pagina, come è giusto che sia; per gli inesperti scrittori desiderosi di affacciarsi a un mondo terribile – verrebbe da dire – c’è bisogno di un manuale. L’ultima risposta in ordine di tempo viene da un editore, Castelvecchi, da sempre attento a cogliere e, a volte, anticipare determinate tendenze nel mondo della cultura popolare. Il libro si intitola “Manuale di scrittura creativa” (Castelvecchi, €18), l’autore è Roberto Cotroneo, un tempo stroncatore dalle pagine dell’Espresso, poi scrittore affermato, oggi redattore e insegnante in diversi corsi di scrittura. Chi non ha mai letto i suoi romanzi può cominciare da ‘Otranto’ , oppure ‘Per un attimo immenso ho dimenticato il mio nome’, o ancora il primo ‘Se una mattina d’estate un bambino’, del 1994, nel quale si propone di trasmettere al figlio l’amore per i libri. Questo manuale comincia dalla cosa più importante, cioè da una domanda rivolta agli scrittori di ogni età, verrebbe da dire ‘di ogni ordine e grado’. Perché si vuole scrivere? Qual’è la molla fa scattare quel meccanismo che Truman Capote nel suo capolavoro “Musica per camaleonti” paragonava al dono da parte di Dio di una frusta per auto-flagellarsi? Semplice, “COMUNICARE”, la scrittura serve a comunicare ciò che noi abbiamo dentro, una visione del mondo, una nostra esperienza, qualcosa che ci è successo e che ci ha colpito a tal punto da suscitare in noi il desiderio di rendere gli altri partecipi della ‘nostra’ storia. Fin qui tutto bene. I problemi nascono quando ci si imbatte nello scoglio della forma narrativa. Roberto Cotroneo, dall’alto della sua esperienza di scrittore e giornalista (è condirettore della Scuola Superiore di Giornalismo della Luiss di Roma), divide l’argomento in dieci agili lezioni. Si va dal superamento dell’incubo da pagina bianca al metodo con cui affrontare la scrittura di un romanzo, fino alla scelta dell’ambientazione o dello stile, toccando argomenti ostici come le descrizioni e le digressioni all’interno di una storia. Non esiste una sezione relativa all’invenzione e alla scoperta di ciò che va narrato, perché al contrario di quanto ci si possa aspettare da un testo del genere, l’autore ha preferito affrontare l’argomento privilegiando l’aspetto creativo e senza toccare ciò che compete alla discrezione di ogni scrittore, stiamo parlando dell’argomento di cui scrivere. Il messaggio non espresso è chiaro: ognuno cerchi da sé la propria storia. Esemplare in tal senso la lezione dedicata alle descrizioni degli ambienti e dei paesaggi; ci sono scrittori che affrontano simili momenti con lo stesso atteggiamento con cui si affronta la stesura di un catalogo da vendita all’incanto, enumerando collezioni di oggetti, con i loro nomi e le loro caratteristiche, mettendo il lettore nell’imbarazzo di voltare pagina per scoprire quand’è che la storia prosegue. Il procedimento di descrizione nelle parole di Cotroneo si trasforma in uno dei mezzi più duttili di cui dispone lo scrittore. Un altro aspetto interessante del libro è la presenza di molti esempi e di esercizi, suggeriti agli aspiranti scrittori al termine di ognuna delle lezioni. Molto bella la sezione dedicata all’influenza, ovvero sia alla formazione spontanea e casuale di ogni scrittore, dovuta alle sue esperienze, alle letture fatte in gioventù e alla maturazione della propria identità come lettore. L’impressione che si ha dopo la lettura di un testo del genere è che la premura del suo autore sia quella di limitare al massimo i danni prodotti dagli scrittori impetuosi, che non affidano la propria scrittura a un metodo, per contro è lo stesso Cotroneo a sfatare un mito, quello secondo cui un romanzo, con il suo plot, nasca così com’è nella testa dell’autore: secondo l’autore del manuale non si tratta che di una deviazione congetturale dovuta al cinema, ma tant’è, come i pittori dopo la nascita della fotografia hanno dovuto percorrere altre strade così gli scrittori dopo la nascita del cinema non sono più gli stessi, e a ragion veduta, perché anche i lettori sono cambiati, si aspettano di più e a un ritmo differente.
Il lato positivo di questa ‘evoluzione del lettore’ sta nel fatto che lo scrittore oggi può permettersi di scrivere storie che non seguono necessariamente una logica lineare, ma che possono affidarsi all’evocazione delle vicende in più tempi e in modi non tradizionali. La cosa curiosa è che oltre a un’immagine di stile viene comunicata una sorta di “buona condotta” da seguire, che va dalla proposizione del manoscritto all’atteggiamento da tenere con editori, consulenti e affini, insomma, una lezione di stile che tenta di uscire fuori dai margini della pagina scritta. Il volume è impreziosito dagli interventi di Andrea Camilleri, del giovane critico Stas’ Gawronski, di Roberto Gilodi e Piergiorgio Nicolazzini e dalle sezioni dedicate alle riviste di letteratura, con gli indirizzi delle case editrici e una bibliografia ragionata, quasi come a redarguire lo scrittore esordiente, prendendolo per mano e guidandolo dalla stesura della prima pagina fino alla tanto auspicata pubblicazione. Lo scrittore ‘forgiato’ da questo “Manuale di scrittura creativa” è anzitutto uno scrittore che non si preoccupa della lunghezza del proprio romanzo “ormai non ci sono regole. Ma è consigliabile che il numero di cartelle non sia inferiore alle cento”, ma che allo stesso tempo tiene conto delle esigenze del mercato, anche Cotroneo suggerisce allo scrittore di leggere con attenzione i cataloghi di tutti gli editori ai quali sarà affidata la spedizione di un manoscritto.
A tal proposito mi piace citare un altro libro che si pone idealmente sul versante opposto, il testo è scritto da Stewart Ferris nel 2005 e pubblicato in Gran Bretagna da Summerdale con il titolo di “How to get published. Secret from the inside” (trad. it non disponibile “Come venir pubblicati”). Stewart Ferris parte dallo stesso punto dell’autore di “Presto con fuoco”, suggerendo che da parte dell’autore ci vuole una buona presentazione, una lettera, un riassunto del proprio lavoro che non faccia smarrire il destinatario di turno in improbabili biografie che farebbero ridere chiunque e che sono verosimili altrimenti non verrebbero citate in modo spassionato anche da Cotroneo, si legge ad esempio “…ma è in quegli anni che nasce in lui una vocazione letteraria fortissima, che lo conduce a scrivere una serie di racconti e tre poesie di ispirazione ermetica, segnalati con menzione al concorso ‘Giglio d’argento’ di Radicondoli”. Lo scrittore, in poche parole, deve gettare la maschera e soprattutto il paraocchi, tastando il mondo che lo circonda. In una cosa i due ‘suggeritori’ differiscono: Cotroneo suggerisce, in modo alquanto realistico, di non apporre titoli ai propri manoscritti “lasciate perdere i titoli. Qualunque titolo. Quasi sempre i titoli li fanno gli editori, e sono più bravi di voi di solito. I vostri titoli non li convinceranno mai”, e soprattutto dissuade l’autore dall’allegare immagini per copertine e altre simili amenità; lo scrittore anglosassone invece, forse strizzando l’occhio ai numerosi best-seller in erba che affollano le scuole londinesi, suggerisce addirittura di prodursi in un fac-simile grafico del testo, quasi a suggerire l’effetto del testo confezionato all’editor di turno. Viene in mente quel sottotitolo, lo stesso utilizzato da Woody Allen in uno dei suoi film più celebri, quando parlava del sesso di cui si vuol sapere tutto “ma si ha sempre avuto paura di chiedere”, ecco, in questo manuale c’è tutto quello che si ha sempre il timore di chiedere ma che puntualmente ci viene presentato nel conto quando incorriamo in errori di approccio a un mondo affascinante come quello della scrittura, con un suggerimento finale che viene proprio dalla copertina del libro, dove un bambino in fasce si appresta a battere i tasti di una macchina da scrivere. Perfino il più bravo degli scrittori di fronte alla pagina bianca si identifica con il lettore che ha dentro, in cerca dell’emozione dinanzi al suo primo “C’era una volta”.

pubblicato su  “Il Paese Nuovo”
di Martedì 8 Aprile

Una scena per la mente. Simone Franco. Per una riflessione ulteriore


Il 30 marzo scorso, presso il Teatro Paisiello, è stato rappresentato “Il mulino degli sconcerti”, la prima produzione di Simone Franco, concepita nel 2004 e già circolata in diversi teatri d’Italia. L’idea dello spettacolo è nata in occasione della “Mostra omaggio” dedicata al pittore Gino Sandri, tenutasi a Roma presso il Palazzo delle Esposizioni, nel marzo 2002 e curata dall’architetto Paolo Conti, custode infaticabile delle opere e dei diari dell’artista. Fu allora che Simone Franco venne a contatto con l’opera e con gli scritti di Gino Sandri, decidendo di dare vita a uno spettacolo-evento che rendesse possibile apprezzare a un pubblico più vasto il mondo di Sandri, oltre che venire a conoscenza della sua tragica esperienza. Quella a cui potranno assistere gli spettatori non è altro che il culmine di una tre giorni, uno spettacolo ‘diffuso’ che è allo stesso tempo un omaggio e un’occasione di discussione per tematiche attuali, come quella della psichiatria e delle strutture nate dopo la Legge Basaglia di cui quest’anno ricorrerà il trentennale. Il 28 marzo presso i Cantieri Teatrali Koreja si è tenuta un’anteprima dello spettacolo. Dal 20 marzo presso la libreria Ergot (Piazzetta Falconieri, Lecce) è stato possibile apprezzare le opere pittoriche dell’artista. Il 29 Marzo, presso le Manifatture Knos (Via Vecchia Frigole 34, Lecce) si sono potuti invece vedere filmati che affrontano i temi dello spettacolo, dal versante artistico e da quello documentario. La vicenda di Gino Sandri è la storia di un internamento forzoso con motivazioni politiche, un episodio estremo in cui la sua vita si fa emblema dell’arte come forma di resistenza, oltre che di descrizione della realtà, una vera e propria via di fuga, l’unica di cui disponeva questo pittore durante i lunghi periodi trascorsi nel carcere psichiatrico. Gino Sandri, nato nel 1892 a Rossiglione, vivrà diversi internamenti ‘obbligatori’ per motivi politici, che culmineranno in un internamento definitivo nel 1953, a Roma. Questi periodi svolgeranno un ruolo determinante nella formazione delle opere dell’artista, gli stessi disegni dei degenti saranno fonte di ispirazione. Lo spettacolo del giovane attore leccese, che vive a Roma, si propone di ricostruire frammenti e quadri a partire dai suoi diari e dalle opere di Sandri. Una scena oscura, disadorna, costituisce la stanza della memoria, un antro che è antro amniotico e allo stesso tempo luogo del ricordo. La scena diventa padiglione, cortile, paese. La vicenda di Gino Sandri viene narrata nelle sue diverse fasi, dai giudizi psichiatrici all’atroce esperienza dell’elettroshock, di cui nello spettacolo viene spiegato il funzionamento dal “Dottor Cerletti”. Importante è l’utilizzo delle opere dell’artista, nello spettacolo, accompagnato a quelli che saranno i giudizi dei medici e i referti. Lo spettacolo, diviso in quattro parti, culmina in una scena dove il monologo dell’internato è agito in fondo, in disparte, alternato all’eloquenza dei gesti, laddove nemmeno le parole non possono descrivere l’indescrivibile. L’elemento documentale di questo spettacolo gioca un ruolo importante, come in tutti i progetti di Simone Franco, il suo prossimo spettacolo “Sulle ali della giustizia e della libertà: il volo contro”, è dedicato alla figura del pilota Giovanni Bassanesi. Il teatro di Simone Franco ricostruisce frammenti di realtà in cui il ruolo giocato dalla Storia è determinante. Una scena per la mente nella quale il teatro riesce a restituire ciò che le circostanze hanno negato, il riconoscimento di un grande artista per noi e, per Simone Franco un’ottima prova, conferma di un anno di intenso lavoro che lo porterà a far debuttare il suo prossimo spettacolo in Svizzera, in maggio.

materiali da “Il paese nuovo”

Quest’anno ricorre il trentennale della Legge Basaglia. Ho avuto modo di vedere e lo spettacolo “Il mulino degli sconcerti” e, soprattutto, di vedere i video che vanno a costituire il ‘sostrato’ teorico alla ricerca condotta da Simone Franco nella sua produzione teatrale. La mia prima impressione è che si tratti di un lavoro notevole. Anzitutto per il modo in cui è stata condotta la ricerca, con una puntualità e allo stesso tempo un sapersi mettere sempre in gioco e in discussione da parte del regista dello spettacolo. Un altro elemento importante è costituito dal fatto che, paradossalmente, soltanto vedere come è fatto il teatro dimostra la ‘differenza’ del teatro dalle altre forme di espressione artistica. Il teatro è scrittura e allo stesso tempo è scena, narrazione nel tempo e in luoghi differenti. Tutti elementi che entrano in gioco nel teatro di Simone Franco. Perché allora “Una scena per la mente”? Semplice, perché se dovessi spiegare che cos’è la legge Basaglia a qualcuno, se dovessi far passare quali sono le implicazioni e i retroscena di quanto è accaduto dal 1978 a oggi, ebbene, suggerirei di vedere questo spettacolo, naturalmente in tutte le sue parti, sia quella propriamente spettacolare, che può convivere a sé stante, e sia la parte documentale, i video, i quadri di Gino Sandri. Simone Franco riesce nell’intento di portare sulla scena un monologo ‘esploso’, dove egli si fa interprete di tutti i personaggi della storia, componendo sulla scena i diversi momenti in cui questi interloquiscono tra di loro, senza sovrapposizioni, affastellamenti, ridondanze; lo spettatore all’inizio crede quasi di dovere assistere a una commedia, perché quando si parla di ‘pazzi’ e ‘follia’ la tentazione rassicurante è sempre quella di affrontare gli aspetti ridicoli di una vicenda che invece è terribile. Non accade così. Ciò che accade, dall’inizio alla fine, è di venir risucchiati in un tunnel senza uscita, le cui pareti si fanno via via più strette, finché dell’uomo non resta nulla, un manichino vuoto, senza anima. Diversamente da quanto si potrebbe presupporre, dopo il trattamento degli elettroshock, il presunto malato non si trasforma in un involucro senziente, bensì in un non-involucro privo di qualsiasi risposta nei confronti del mondo. Ci si potrebbe fare qualsiasi cosa. La scelta della maschera del “medico della peste” è emblematica e rimanda a un simbolismo che per tutto lo spettacolo è sottile. Il medico della peste è quel medico che quando crede di stare curando porta il morbo mortale di casa in casa, rendendo possibile un parallelo con il medico dei pazzi, che con gli elettroshock brucia il corpo e l’anima del paziente. Perfino la regia attua l’epoché, una vera e propria sospensione del giudizio su quanto lo spettatore è costretto ad accettare e vidimare, la descrizione della scoperta dell’elettroshock, delle sue prime applicazioni e del passaggio dalla sperimentazione dai maiali ai ‘soggetti’ umani. La vicenda di Gino Sandri è paradigmatica anche perché accade a ridosso del Fascismo, quindi con largo anticipo rispetto al 1978, in un periodo nel quale i pazzi erano ‘alienati’ dalla società, veri e propri ‘alieni’, altri da noi. La scena dinanzi alla Procura, con il giudizio di condanna, costituisce il punto di non ritorno oltre il quale non sarà più possibile ricostruire i frammenti di esistenza di Gino Sandri, oramai relegato alla stregua di una pratica abbandonata, ingestibile da un sistema che lo ha preso, distrutto ed espulso. Simone Franco riesce a rendere la vicenda di Gino Sandri universale, ecco perché il messaggio in essa contenuto travalica il tempo e arriva fino al 1978 e, trent’anni dopo, ai giorni nostri. “Il mulino degli sconcerti” è uno spettacolo che si concede a una lettura su più livelli, e credo che in ciò sia l’elemento più riuscito di una regia che riesce a raccontare una storia individuale e trasportarne il significato fino ai nostri giorni, trasformando in ‘racconto’ il frutto di una ricerca così approfondita.

Giulio Perrone. Un'antologia per raccontare la vostra PUGLIA.


Accogliamo e diffondiamo l’invito di Vincenzo Mastropirro, musicista e poeta, curatore di un’antologia che uscirà per Giulio Perrone Editore, rilanciando a tutti i lettori del nostro sito l’invito di partecipazione.

Nuovo appuntamento poetico, con il progetto Italie dedicato ad una splendida regione ricca di storia e di bellezze naturali come la Puglia a cura di Vincenzo Mastropirro

PUGLIA ovvero Gargano Murgia Salento per una rete di incontri, di vite e di storie che s’intrecciano, di fili che s’annodano in grandi e piccoli luoghi, con la flemma meridionale dove il sole c’è sempre e l’aria è frizzante. Questo succede soprattutto se viviamo in una grande regione. Una regione in movimento, un luogo intriso di luce, odori e sapori unici. Dietro le città che conosciamo, dietro i posti che percorriamo ogni giorno, si nascondono altre piccole realtà che spesso ci sono rimaste estranee. Scovatele con le vostre parole, scavate nel vostro immaginario.

Per partecipare è sufficiente inviare una poesia (in lingua o in dialetto) o un racconto di massimo 3 cartelle (ogni cartella 1800 caratteri) in un unico file word che contenga anche tutti i propri dati personali (nome, cognome, indirizzo, telefono, email) a mastropirro@libero.it

Vita di Isaia Carter, avatar


Lorenzo Geri
Il romanzo di un avatar

Vita di Isaia Carter, Avatar è l’evoluzione narrativa di un’esplorazione su Second Life, originariamente intrapresa con l’idea di scrivere un reportage. Il libro di de Majo e Longo è pregevole anche perché non si occupa di SL come di una metafora della nostra società, anche se dà conto della peculiare forma di consumismo che lì è praticata, non si occupa di sociologia e, nonostante il titolo e il finale “profetici”, non fa del moralismo.

La Vita di Isaia Carter, Avatar descrive magistralmente le sensazioni, le esperienze, l’ilarità, le frustrazioni, le inquietudini esistenziali connesse all’immersione in un ambiente virtuale abitato da esseri umani nascosti sotto un anonimato perfetto, in quella che si può definire come un’ibridizzazione tra una chat e un videogioco. La forma letteraria e lo stile – frasi essenziali, nervose, uso costante del presente indicativo, dialoghi che imitano la tipologia di scrittura utilizzata sulle chat, anche se asciugandola ulteriormente e depurandola di alcuni vezzi poco efficaci sulla carta – si adeguano magistralmente allo scopo. È  la prima volta che mi capita di leggere in  un romanzo una descrizione dei paesaggi virtuali che trasmetta quella sensazione di sottile alienazione ad essi connessa, che è dovuta alla consapevolezza intermittante di esseri immersi in un mondo se non finto certo piatto, nonostante la grafica 3D.

Gli autori non si compiacciano di cucire insieme facili pezzi di costume (il sesso virtuale goffamente praticato dal protagonista, ad esempio, è descritto senza compiacimenti) e resistono anche alla tentazione di trasformare il libro in un romanzo fantascientifico o in una parodia di Matrix. La scintilla metaforica che incendia le pagine del libro nasce da un oggetto: la kippah, indossata dal protagonista per caso e per scherzo. Si tratta però di una scelta di look che gli utenti di SL mostrano di non gradire; d’altronde la kippah fuori dall’ambientazione nella quale è stata prelevata, il tempio ebraico, risulta perturbante. Da quell’oggetto nasce la storia sentimentale che anima le pagine del libro, ma anche una isotopia relativa alla ricerca di senso, alla ricerca di Dio, a un profetismo impossibile. Gli autori non si peritano di inserire un tema ostentatamente alto e irrisolto nel contesto di un libro che il lettore si attende se non di evasione, certamente “leggero”. La sfida è vinta perché il libro non stravolge la propria struttura di romanzo/reportage, eppure guadagna molto da questa tensione metaforica. L’ambizione alla catarsi, alla fine del mondo (virtuale), alla rinascita si risolve in una sorta di suicidio che, però, alla fin fine, non è altro che la classica opzione di ogni videogioco: ricominciare da capo la partita dopo il gameover. Su SL è possibile moltiplicare le vite, sucidarsi alle prime difficoltà sentimentali, esistenziali, economiche e rinascere come un nuovo avatar; è possibile volare oltre le complicazioni e le frustrazioni dei rapporti interpersonali. Ma non salvare il mondo (o salvarsi).

Le pagine più belle sono quelle dedicate alla descrizione della seduzione impossibile tentata dal protagonista Isaia nei confronti di un avatar capriccioso e malinconico, Evita. La goffaggine del protagonista è dovuta sia alla sua poca abilità con i comandi (che tradisce forse una scarsa frequentazione con i videogiochi, circostanza che spiegherebbe anche lo sguardo altro del personaggio e degli autori su SL), sia, ed è l’aspetto più affascinante, i limiti assurdi connessi alla virtualità di quel mondo. La frustrazione per il contrasto tra la libertà assoluta di spostamento (si può volare, teletrasportarsi, adagiarsi in fondo al mare o sedere pensosi sul tetto di un grattacielo) e la fissità delle espressioni e dei movimenti degli avatar conduce il protagonista alla ribellione, che, comicamente, si esplica nella scelta di cambiare il proprio corpo in quello di un orso. Più drammaticamente Evita sceglie di cambiare le sue fattezze, di imbruttirsi, eseguendo nel mondo virtuale e perfetto di SL una sorta di chirurgia plastica al contrario. Quest’ultimo apologo, che corrisponda o meno ad un “fatto” realmente “accaduto”, evidenzia, credo, come gli autori  siano riusciti a trasformare la descrizione delle proprie esperienze di interazione con un universo digitale, alienante ma a tratti poetico, in un romanzo all’apparenza  scorrevole e agile, ma in verità contorto e a tratti sofferto, felicemente irrisolto.

“Vita di Isaia Carter, avatar”, di Cristiano de Majo e Francesco Longo,
Laterza, 2008,  9 euro

"Reiki" di Francesca Bonelli


Enrico Pietrangeli
su “Reiki” di Francesca Bonelli

Il Foglio Clandestino nasce come rivista di settore negli anni Novanta e, da allora, di strada ne ha fatta. Spartana nella veste ma piena di consistenti contenuti, a partire dai suoi arguti e coinvolgenti editoriali e un Peter Russell orbitante nella redazione. Storia molto più recente è quella della casa editrice. Ancora pochi titoli nel catalogo, ma tante idee in sviluppo per altrettante collane. Reiki  non si presenta come un manuale, ma attraverso la diretta esperienza della Bonelli che, come presupposto, vuole suscitare curiosità, genesi da dove si espande ogni energia, sia sul piano immanente che su quello spirituale. Coerenza e un “Pensiero Positivo”, già frutto di una tesi dell’autrice, optano per la carta riciclata delineando un prodotto poco ricercato, minimalista e raffinato, impregnato nel gusto retrò d’illustrazioni in effetto dissolvenza, nei colori che riportano agli anni Cinquanta. Sul finire dello scorso millennio, a Bergamo, nasce il casuale incontro con questa pratica, ma poi non più di tanto, per via del fatto che “ogni anima” ha un “progetto ben preciso” da assolvere. Corrispondenze e significati dell’ideogramma Reiki, se attivati, fomentano quell’alchimia che permette all’energia individuale Ki  d’interagire con quella Rei, ovvero quella universale. Chi dà Reiki è un tramite, un “canale di Luce”. Antica, eterogenea e non databile è la tradizione orale dell’utilizzo di questa trasmissione, Usui è colui che ha riportato in evidenza la disciplina in epoca contemporanea. Tutto si basa sull’imposizione delle mani, in un’impostazione gnostica e dualistica, dove solo le energie positive vengono convogliate in “un percorso di benessere”. Armonia nel qui ed ora è un primo obiettivo da conseguire osservandone i principi. Fondamentali e, come tali, ben esposti, in un linguaggio chiaro e diretto, sono i chakra con tutte le loro connessioni, sia sul piano fisico che su quello psichico. Mentre l’aura, ossia quel flusso energetico che ci circoscrive, viene analizzata tra percorsi e aneddoti che vanno dalla tradizione biblica ai tentativi della ricerca scientifica. Riemergono, come da una vecchia soffitta, lo schermo di Kilner ed i successivi studi operati dai russi mantenendo un saldo riferimento di pensiero sull’argomento con Rudolf Steiner, ideatore dell’antroposofia. Due sono i livelli di Reiki, il primo, Shoden, ed il successivo Okuden. Maestro è colui che dedica “completamente la propria vita a questa Via”, ed è questo un ulteriore stadio e con valori iniziatici, dal quale si riceve la consegna dei simboli attraverso mantra segreti. Per attivare un livello si ricorre al Reiju, cerimoniale di apertura ai canali energetici. Interessante è il dualismo grafico e semantico di cui si compone l’ideogramma, oltre a poter essere scritto in due differenti maniere, sta a significare “accettare la spiritualità” come pure “dare la spiritualità”. Perno dei trattamenti, oltre ad una predisposizione del cuore, è quello del posizionamento delle mani. Al Reiki, inoltre, si ricorre anche per l’autotrattamento, pratica fondamentale per migliorarsi nonché per ottimizzare il trattamento rivolto ad altri. Si opera sempre e comunque per il bene della persona. Se il primo livello corrisponde ad un approccio fisico, il secondo si colloca nella mente, presuppone maggiore consapevolezza e responsabilità. Il cammino, dal “qui e ora”, si evolve attraverso i simboli del “Dentro” e dell’ “Oltre” per culminare nel quarto simbolo, quello della “connessione diretta con il Rei, con la Luce, con la Fonte”. Il risvolto filosofico è di stampo buddista: “se cambio io, cambia il mondo attorno a me”, ma le connessioni sono molto più vaste e qua e là sparse nel mondo, dal manicheismo alle eresie albigesi, dagli Esseni ai Bogomili, per citare solo quelle riportate nell’apposito glossario messo a tergo del testo.

Reiki, Francesca Bonelli,
Edizioni del Foglio Clandestino,  €12

Cronache Materane degli anni '70


Giovanni Matteo
su “Cronache Materane degli anni ’70”, di Pino Oliva

Ho conosciuto Pino Oliva ad Altamura, in occasione della presentazione del suo Cronache Materane degli anni ’70, organizzata dai ragazzi del Circolo Arci Todomodo.
Il titolo mi aveva messo un po’ sul chi vive: avevo paura fosse una di quelle graphic novel – reportage un po’ radical chic che spuntano come funghi adesso, ma poi m’hanno messo il volume tra le mani e ho avuto il piacere di scambiare due parole con Pino e non ho potuto che amare la semplicità e la delicatezza del libro e lo sconfinato mestiere e l’affabilità di questo sfaccettato artista che scrivedisegna (ma quando inventeranno per i fumettisti un’espressione tipo “cantautore”?), produce sorprendenti opere digitali e suona il basso e la chitarra negli storici Vastax.
Cronache Materane
, dunque, non pretende di analizzare la realtà lucana del “decennio più lungo del secolo breve”, ma si occupa del suo b-side… Per cominciare, i Sassi quasi non ci sono: domina la (oggi ex) periferia del Rione “Serra Venerdì” e i grandi, con i loro grandi problemi entrano di sguincio nell’obiettivo… A fuoco, invece, i “ragazzini di Viale Europa”, cioè lo stesso piccolo Pino (perché si tratta di un lavoro squisitamente autobiografico), gli amici, i cugini, con le loro scorribande, la scuola, le vacanze, la neve, la vecchia fabbrica abbandonata, il campo di calcio diventato terreno di costruzione, i ramarri, i pantaloni nuovi sporcati di catrame, una stramba canzone di un certo Rino Gaetano…
Lo stile grafico risulta sempre immediato, con soluzioni a volte di forte impatto, a volte di grande eleganza; nelle vignette delle Cronache gli uomini diventano animali antropomorfizzati, ma molto più di Topolino e Pippo: non portano antiquati guanti gialli, ma eskimo e jeans scampanati, hanno cinque dita e proporzioni umane, ma anche delle teste rotonde con pendule orecchie in cima e un buffo muso; più dolce e arrotondato è quello dei ragazzi, più sporgente, da scafato rattone, quello degli adulti.
Per i non murgiani c’è in regalo un corso accelerato di materano: i protagonisti parlano ora un italiano pieno di inflessioni e interiezioni dialettali, ora un dialetto arcaico punteggiato di imprecazioni divertentissime di cui l’autore ha pensato di fornire un esauriente glossario.
È bene ricordare che Cronache Materane degli anni ’70 segue Telline (Cronache Metapontine degli Anni ’70), sempre sul filo della memoria e precede un lavoro sugli anni ’80 che Pino sta diffondendo gratuitamente via e-mail prima di rivederlo e pubblicarlo… Una sorta di work in progress condiviso con i lettori, esperimento che ha già dato ottimi risultati con le Cronache Materane, finite in formato jpeg sui monitor di una moltitudine di fan dei ragazzi di Serra Venerdì sparsi per mezzo mondo. Scoprite voi come entrare nella setta…

Pino Oliva, Cronache Materane degli anni ’70
La Stamperia Edizioni, Matera – 2007

 

Ad Istanbul, tra pubbliche intimità. Enrico Pietrangeli


Alessandro Maria Carlini
su “Ad Istanbul, tra pubbliche intimità.” di Enrico Pietrangeli

Dalla diffusione del geniale epigramma “M’illumino di provvisorio” Enrico Pietrangeli potrebbe conseguire la fortuna letteraria che merita. Indovino un’intera generazione di precari pronta ad appropriarsene. E dello splendido ricordo di un anziano Ungaretti orco del carosello, in molti desidererebbero certo disporre in prima persona, e averlo potuto condividere. Un poeta è anche un conservatore di esperienze mancate da altri: per distrazione, assopimento precoce, o futilità nelle ossessioni.Pietrangeli è una specie d’apocrifo scapigliato. La contiguità di vincoli affettivi, orgasmo, riposo, morte, lo sgomenta, e come dargli torto? Un poeta è anche un nostro troppo simile. Pietrangeli, al pari di Ungaretti, patrono designato della raccolta, ci sa davvero fare con le città in quanto soggetti poetici. Con Roma e Istanbul, perviene a un rapporto vertiginoso di mutua esplorazione in cui forma urbis e forma mentis si conglomerano. La sua personalità letteraria ha qualcosa dello stratificato disordine delle due capitali dell’impero romano. Musicologo per vocazione, Pietrangeli è un poeta rock: non nelle pose, ma perché dalla musica popolare americana ha assorbito quel desiderio incessante e vitale di un altrove. Le varianti circolari e numerabili all’infinito del suo salmo sufi Re Mix, mi è venuta voglia di intonarle: non mi ha trattenuto la prossimità di estranei. Mi convince meno il Pietrangeli d’occasione, del suo Undici Settembre, ad esempio, o il neo futurista che sperimenta l’HTML come infrastruttura sintattico-semantica. Atteggiamenti che stridono col suo peculiare intimismo, il suo alchemico combinare estasi e sfinimento, orrore della morte e cupio dissolvi, esaltazione amorosa e sulfureo risentimento. Il Pietrangeli a nudo in pubbliche intimità nasconde habitus sottopelle. Taluni suoi passaggi possono dapprima sembrare meri riempitivi, acquisendo invece rilievo tornandoci sopra. Sollecitano con amicale premura riletture. Il senso antico e seventies della strofa di cui dispone, distoglie dall’affaticarsi in ricerche genealogiche per restituirgli poeti-fratelli della sua generazione. Laddove altri giocano innocentemente con le parole, Pietrangeli mescola pericolosamente umori. Le sue poesie d’amore si direbbero scritte sul comodino in quei momenti di lucidità altrimenti inattingibile tra il prodigio organico dell’orgasmo e il baratro atavico del sonno. Ci sono sillogi poetiche adatte alla vigilia di una battaglia; raccolte adatte al frammentato otium metropolitano; volumi atti a lenire le disillusioni con i loro poetri [mantengo il lapsus di digitazione] catartici; raccolte da tenere a portata di mano in libreria come un farmaco antisintomatico nel cassetto; altre -ancora- compilate per accompagnarci a lungo nella decomposizione. Ad Istanbul tra pubbliche intimità mi appare indicata per ciascuno di questi usi.

Ad Istanbul, tra pubbliche intimità, Enrico Pietrangeli,
Edizioni Il Foglio – 2007 – 10€

lascia cominciare dal principio come l’ABC


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