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“Col mitra scarico di sogni” di Francesco Aprile e Teresa Lutri


Francesco Aprile – Teresa Lutri
2011/01/12

Col mitra scarico dei sogni

Uno. Due. Tre. Dieci. E ancora Uno. Due. Tre. Cento. Mille. Pensavano alla frase. All’uscita. Poi. Oggi il mare è diverso. Oggi ha il colore di niente. Si avvolge come onda.
Per strada_ dai finestrini dell’auto_ scorrevano il paesaggio come riflessi, ciglia macchiate della storia. Ancora. Oggi il mare è diverso.
– Io non vedo mare – disse uno di loro.
Era il figlio prediletto della storia. Cacciato allontanato. Dimenticato. Il figlio prediletto della storia. Eletto al rango di storia dimenticata.
– Io non vedo mare – disse ancora.
– Io non vedo che urla_ muoversi. Ho pestato ancora le mie mani.

“Io non vedo che urla_ non sento che mare. Non vedo mare/sento mare. Diverso mare. Diviso mare. Separato dal fievole anelito del mio ego. Quasi battuto. Con questo corpo quasi dissolto. Che possa straripare tutto questo mare. Che possano liberarsi queste_ intime onde di me. Di dentro. Questo sbattere all’impazzata_ aspetto_ saponificazione sacra_ di tutto ciò che non serve. Gli occhi continuavano_ a fissare urla nella testa”.

Ore 13. Aperitivo. Colazione distillata.
Ore 14. Nient’altro da urlare.
Ore 15. Approssimazioni.
Ore 16. _ _ _ _ _ _ _ _____ _ _ _ .
Trasmissioni interrotte. Bip.

Lo trovarono dismesso sotto il nero incancrenito di una carta d’identità. Il figlio prediletto della storia. Assunto morto. Contabile_Cristo_Cazzo_Cristo. Di nuvole.

– A fare i conti con la storia_ ci tocca il passo più lungo della gamba. – Apostrofò uno.
– È che siamo così.
– Non dire stronzate.
– Aleph ha solo bisogno di morire. Lasciatelo fare.

Ma stavano ancora dicendo stronzate_ mentre il treno che passava se lo portò via. E le colline, prossime al sole. E le colline_ rosse spremute di papavero_ rosse spille negli occhi. Rosse colline di schizzi di sangue_ rosse colline rosse_ di sole al tramonto_ di vita_ di fiore_ di cuore_ di colline. Rosse spremute di papavero|
sullo sfondo degli istanti – acerbi – del passare del treno. Che. Appena nati. Appena morti.

Corsero verso i binari. Corsero due. Corsero tre. Corsero ancora. Di Aleph. Niente. Tracce zero. Di vita annusata al km 120.470. Corsero via. Direzione opposta. Bar. In uno al bar. In due al bar. In tre al bar. Sulla sedia elettrica delle coscienze.

D i s a t t i v a t a .

“E proprio Aleph si rivelò_ in forma di sedia elettrica disattivata. Tacita ferraglia di coscienze_ tutte ancora da accogliere. In seduta/trauma. In frenata_ di corsa cieca. Silenzio di ferraglia/terrore_ intimidatrice di ritmi. Sostenitrice di pause. Obbligatorio fermarsi. Ci vuole responsabilità. Nel camminare e nel fermarsi. Nel portare proprio questa faccia. Nel fare la puttana o l’imbianchino. Nel dissolversi_ in una fabbrica. Nella fiamma rossa_ d’una qualunque rivoluzione. Responsabilità ci vuole_ a non vedere il mare_ a disattivarsi. Attesa di culi responsabili_ su seduta silenziosa consapevole di responsabilità. In uno a tentennare. In due a tentennare. In tre a tentennare. Fermata obbligatoria. Aleph non parla. Aleph/frenata”.

Sullo spettro delle inquietudini. Scesero in tre. Spazio. Spazio. Lasciate loro spazio. Si gridava attorno la folla del bar. Presto. Fate presto. Ne giunsero altri con loro. Attorno. Tutto attorno. Spazio. Fate spazio. Ne giunsero altri con loro.
Mentre urla. Contornavano il viso.
Mentre attorno. Lacrime e desiderio.
Mentre attorno. Il re ha perso la regina.
Mentre attorno. Ospiti si autoinvitavano al banchetto.
Mente attorno. Mentre urla mentre. Attorno. Crepe sui muri lasciavano spazio al vento.
Mentre attorno. Gridava il vento_ sono libero di fischiare.
Mentre attorno. Non grida l’uomo che ha morso il serpente.
Mentre attorno. Non grida l’uomo che lascia cadere la mela.
Mentre attorno. Grida l’asfalto forato ché s’è fatto tempo.
Mentre attorno. Non dorme l’occasione. E si svuotano bianche lastre di case. Di tufo. Di pane. Di bianca cera_ crema di luna.

“Crema di luna. Ora bianca di calce_ di case di sogni. Proiettati in alto_ stagliati in cielo. In cerca di_ un quarto di luna da colonizzare. Che le distanze partoriscono funi. Che le distanze partoriscono_ liane di desiderio. E giù_ in picchiata. Urla. Stonate di vuoti. Urla stonate di pieni. Luci e ombre disegnano. Dei tre_ silhouette di pensieri_ danzanti come fiammelle acide. Alla luna giunge. Un bavaglio d’urlo distratto. E rotola_ in crateri. Di non/tempo. Non avverte_ alcuna forza. Di gravità. Fisica”.

E rotola giù dalla fune il desiderio.
E rotola_ via dagli anni il tempo.
Hanno addossato tutto alle pareti. Spazio fate spazio. Dategli spazio. Gravide urla di terrore al bar. Gridavano gli uomini. Spazio. Sia fatto spazio. E intanto_ addossavano tutto alle pareti. Loro. Che erano nel tempo. Nel tempo restavano. My guitar wants to kill your mama. Gridava uno che nel tempo c’era morto. My. My. My my my my…loop…giro di loop loop disco incantato. My my my. My guitar wa…wa…wants.
E grida il nesso che ne toglie la vita.
E moriva il grido che al nesso dava vita.

E lui. Il figlio prediletto della storia. Ritornò uomo. Ma il tempo gli si sfaldò fra la testa e la schiena. Ruppe l’ultimo scafandro temporale. Se ne liberò_ con appena una scrollata di sensi_ tutti intonati_ ad evacuare. Il corpo evacuato. La testa calibrata. L’essenza in volo. Celebrò ciascuna morte fisica. Ciascuna accensione interna. Dal collo ai piedi tutto rotolò. Come urlo imbavagliato. E con lui. Ogni desiderio. Che a vivere. Basta
liberarsi.
Ciascuna liberazione/librarsi. Questo videro. Al chiaro di luna. Volare l’essenza A/Temporale. L’orologio a impazzire.

La condizione preliminare.
L’assenza. La cercavano. Nel passo di danza. Tra la folla stranita del bar. Spazio fate spazio. Hanno bisogno di spazio. Siano fatti loro spazio e tempo. Addossavano ancora tutto alle pareti. La condizione preliminare dell’assenza. Ritrovata mentre frugavano fra le carte, le astruse mezze misure di mezzucci farabutti. Mentre giravano, frugavano, inondavano ogni cosa di urla di fate spazio spazio spazio. Uno dei tre, in uno, si allontanò. Due dei tre, in due, si allontanò. Il terzo non seguì che il terzo. E continuò liscio il suo spazio. Frugava frugava frugava.
Mentre ancora. Moriva il colosso di carta nel cervello.
Mentre ancora. Spendeva la giornata il vuoto scarto della storia.
Mentre ancora. Splendeva d’oro grido di dimenticanza.
Mentre ancora. Si moriva della distanza.
Mentre ancora. Sollecitava l’eco la rimembranza.
Ch’era scettro perso. La costola fratturata. La selva stella d’argento.
Ch’era strumento idolatrato. Il fusto vuoto già consumato.
Ch’era cosetta cantata. La virgola. Parola rimuginata.
Ch’era orgia. Lo spumante di natale_ il cristo morto infame.
Ch’era schiavitù morale. La chiesa_ la notte di natale.
Ch’era maggio i prati in fiore. Mentre oggi. Fumo e dolore.

Mentre scendeva ancora la sera. Mentre le labbra. Inumidite dalla nebbia. Serravano spezie. Rimarcate dal nero pesto della sera. Di un nero asfalto di sete. Di un nuovo dolore serrato fra le gambe. Qualcuno si avvicinava al bar. Altri ne uscivano intimoriti. Altri. Correvano a chiamare altri per continuare a fare spazio. E urla. E botti. E fottìo di gente. E la sera_ mascherava un neo stilizzato di rosso colorato. E la sera_ che scendeva come sale la nebbia fra i capelli. Fra ciocche sfibrate d’amianto. Le tue lastre. Distaccate immagini del cuore. Dell’anima. Del dolore. Sulle foto appese alle pareti. E scendeva la sera. Cara. Avevi la testa poggiata sulla mia spalla. Avevi gli occhi grandi chiusi di sonno. Avevi dolci. Linee di luce e perle e guance sferzanti. Avevi dolci. I capelli sui miei avanzi.
E scendeva la sera. Cara. Colorava la nebbia i nostri teneri sbagli.
E scendeva la sera. Cara. Ammaestrava in ultimo. Tutti i nostri ritardi.
E scendeva la sera. Cara. Filtrava la luce dei tuoi sguardi, la nebbia il gesto il suo sfiorarti.
E scendeva la sera. Cara. Dimenticava l’ora tarda il sussulto del cuore.
E scendeva la sera. Cara. Distillava gli appetiti. Consumati troppo in fretta.
E scendeva la sera. Cara. A rincuorare. Oggi. Quel che abbiamo dimenticato. Ieri. Tutto il peso. Il prezzo. Il senso. Il gusto disgusto. L’odore imbavagliato fra le gambe. Dell’ultima umida sera. Dell’umile schiena divelta, peraltro scoperta, amarezza sterile. E scendeva ancora la sera. Cara. A coprire coi suoi nei spicchi gialli sul nero. A coprire coi suoi nei. Cara. L’odore tiepido di ieri fra le gambe e poi. Waiting for. La chitarra in mano. Sigaretta fra le dita. Penguine serenade. E Amprhey. Sassiyl. Franky. Henry. L’odore del palco. La sensazione greve del suono cupo. La lontananza del mare. Il verso scarno della chitarra. Sarebbe andata così. Mentre il suono rivoltava la stanza.
Mentre il suono rivoltava il tormento cupo dei buchi sulle braccia.
Mentre il suono accendeva i fumi della pace.
Mentre il suono. Condensava l’aspro di ogni sera. In un caldo ricordo da far male.
Mentre l’attesa sbuffava sul conciliare rumore sordo del suono che tardava.
Sarebbe andata così. Sarebbe salito sul palco. Mentre il respiro gonfiava.
E rubava tempo alle immagini. Alle parole. Alle canzoni. Alle note. Alle emozioni in riverbero. Mentre il silenzio sgonfiava. I suoni dell’attesa.
Poi. Avrebbe gridato. Che è tutta colpa della poesia. Che a noi non ce ne frega niente. Che a noi non importa un cazzo. E avrebbe violentato la chitarra. Le assi del palco. Strappandole dai chiodi. Strappando i chiodi dalle assi. Le corde dalla chitarra. Sputando sull’amplificatore. Ché non amplificava se stesso. Lanciando al muro un urlo. Che nemmeno il microfono. Avrebbe immaginato. E saremmo andati via. Dopo ancora ancora ancora una sigaretta. Poche parole stonate dal suono. Rivolte agli amici. Poche parole crepe di emozioni versate. Sulle feritoie esistenziali, sulle nostre barricate emozionali, sulle nostre strenue difese da macellai. Da contabili disoccupati in calore. Da ragazzi in fila per un posto al callcenter delle speranze. Col mitra scarico dei sogni. E la pazienza_ barriera ultima da varcare. Tra fremiti intorpiditi. Di balene bianche lungo le strade. E nuvole. Nuvole nuvole. Nuvole che deragliano_ sempre_ ancora ora_ la luce del giorno. Fra le immagini smunte dei nostri palazzi in rovina. Dal finestrino dell’auto. Guardavano|
– Ma io non vedo mare.
– Ma io non vedo sole ad accarezzare cullare abbracciare gli insicuri toccati attimi di tempo sul viso.
– Ma io non vedo mare.
Di Aleph più nessuna traccia.
Stavano ancora dicendo di malinconie, di sussurri sbagliati. Lanciati senza il vento di un sospiro alle spalle. Scongelati dai peggiori incubi. Stavano ancora dicendo di un giorno che. Appena nato. Appena morto.
Che scesero. Dall’auto ad inseguire persone.
Che scesero. Dall’auto e non trovarono persone.
Che scesero dall’auto_ nel bianco stanco di uomini monocromi.
Che scesero in strada. Fra saluti seriali di genti uguali.
Che scesero. Fra la puzza di piscio. Vagabondo dietro cassonetti incendiati.
Che scesero. Fra la puzza del delirio. Di politici ladri non curanti. Iniziarono a correre. Senza meta lontano lontano lontano. Strapparono via sacchi dell’immondizia. Cacciarono via un paio di lattine. Per dei palloni improvvisati dietro le perdite_ sconfitte affisse dei loro diritti. Bruciati. Stuprati. Incatenati.
Scalcinati. Umidi tetri sospiri appassiti. Che un’auto che passava. Portò via uno di loro. Tre dico tre. Ne rimasero due. Fra il rosso sangue sulla strada. Fra il rosso sangue di auto impagliate. Fra il rosso smacco della vita. Fra il rosso sangue come di rose. E avevi ragione a dire di no. Alle nostre ferite. Lasciate sulle schegge di bicchieri vuoti, rotti.
E avevi ragione a dire di no. Al destituire dei nostri sogni_ ormai randagi, come gatti soli nello sporco delle strade.
Un’ultima sonata di violino sfiorava. Nuvole di rose_ appassite nel cielo. Da annaffiare nei vasi.
Sui nostri balconi decrepiti.
Sui nostri cieli offuscati.
Sui nostri sui nostri.
Sui nostri ormoni dilatati.
Mentre s’annuvola_ di rose, la nostra anima. Stuprata di tenebra. Scendeva la tensione del giorno. Di un sole distorto. Di un sole nascosto. Di un sole adombrato da carceri di cemento.
Sui nostri ciechi momenti non brilla che la miseria.
Sui nostri istanti mancanti_ non nasce primavera.
Dove non sorge che pianto.
Dove non sorge desiderio d’amore.
Mentre grida il verso s’è fatto spento.
Mentre smuove, l’ora, la piazza in rivolta.
Mentre neve. Sfiniva ancora la sera. Di una notte. Che idruntina volgeva al termine, imbiancava l’incavo stomaco di luna, una sagoma appesa di neve, poca luce di stelle nel cielo. Una grondaia di nuvole spessa come il fondo del mare.

§

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Gloria e il suo “viaggio nell’inconscio”: l’arte a Lecce si fa da guerrieri (SalentoWebTv)


È chi guarda i suoi dipinti a tirar fuori il messaggio che più sente dentro. Un percorso intenso, complicato, ma alla fine entusiasmante, eccitante. È il “Viaggio nell’inconscio” di Gloria De Vitis, pittrice e artista poliedrica, scrittrice e poetessa. Le sue opere sono esposte a Lecce, presso SALENTO SHOWROOM, nel centro storico, vicino la Chiesa di Sant’Irene. In attesa di presentare, il 25 marzo, “Lucignola” , l’ultimo libro edito da Lupo Editore, insieme al giudice Salvatore Cosentino, Gloria De Vitis ci racconta la sua passione, la sua arte, la sua vita. Vive e lavora a Lecce. Ha collaborato con Bogdan Bajalica, perfezionando le tecniche pittoriche già respirate nella tradizione artistica familiare, con il nonno scultore e il noto cugino di lui Temistocle De Vitis. Nel 1986 partecipa al concorso Speciale Premio Italia indetto a Firenze, ricevendo una menzione speciale. Le sue opere sono pubblicate sulla rivista nazionale “Eco d’Arte moderna”. Nel 2000 partecipa a Roma ad Artitalia2000. Realizza diverse mostre collettive e personali in Italia e all’estero. [Lara Napoli, fonte www.salentoweb.tv]

Marco Montanaro. L’ultima Cola.


Marco Montanaro
L’ultima Cola

Abusai di un fondo di cola chiedendo infinitamente perdono alla Madonna del Mar Baltico e ai pescatori celtici del Cielo Unito.

Ofelia mi guardò con aria inspiegabile, poi le chiesi: ‘Vuoi leggere le mie poesie?’

‘No’

‘Come sarebbe a dire no? Perchè?’

‘Non mi interessa il gioco dell’Altro, le sue motivazioni, le tue arance rosse’.

Così capii: ognuno è re nella propria solitudine. Tutti diversi, per tornare ad essere uguali, in un viottolo campano.

Avanzai allora a grandi passi verso la Grande Milonga, ma le tribù del Cielo Unito mi furono ancora una volta avverse, e ancora una volta fecero la danza del Bancomat per invocare Atahualpa (ancora lui!), affinchè mi sconfiggesse per sempre.

Sarò sincero, mentre finisco questa maledetta cola: anch’io sono stato Atahualpa, anzi no, non sono stato capace di esserlo fino in fondo. Atahualpa è colui che interviene dopo che hai fatto un bel lavoro, che c’hai messo tutta l’anima, lui arriva e ti porta via il fiore più bello, l’alba più profumata, il cielo più musicale che tu abbia mai visto.

A volte ho rubato, ma l’ho fatto per fame, e il vero Atahualpa non si sarebbe fatto derubare a sua volta come un pollo, come invece è accaduto a me.

Sulla strada le linee bianche si inseguivano come fossero vere. Una canzone nera dalle chiare allusioni sessuali mi smuoveva verso la prateria, e il sole verso il mare. Atuhalpa provava già a mordermi, lurido scorpione senza passato.

Mi fermai sul ciglio della strada, dove c’era una bella anziana donna grassa senza muscoli, un tabacchino alle sue spalle; ero in una provincia del Nord-Sud, dove il telefonino faceva corto circuito con le lumache alla panna. Mi feci coccolare senza accorgermi di essere ancora fertile, fumai due sigarette contemporaneamente e passai intere giornate a caricare pile e batterie d’ogni sorta. Ormai Atahualpa era nell’aria.

In fondo, sapevo benissimo che di aria, prima ancora che di carne e microchip, era fatto il demone: chiesi aiuto a Dio, ma mi inviò il Diavolo, e chiarii subito che non si combatte un demone con un altro demone.

Atuahualpa mi fece suo con estrema cautela. Dalle gambe di Ofelia pendeva qualcosa. Alcune trombe suonavano una marcia funebre, il locale della bella anziana donna grassa senza muscoli invecchiò in un attimo, c’era vento di duello, e cominciò a piovere e a piangere, e a tintinnare e a morire, qualcosa nel mio cuore di povero cane senza ipofisi, e qualcos’altro di tragico mi riempiva lo stomaco di fiori spagnoli e sangue musulmano.

‘La fine è quella che avevi programmato’, disse lui.

‘Sei banale come un oroscopo, Atuahalpa’, gli risposi.

‘E’ colpa della solennità, sei tu che mi hai sognato così. La solennità è solo…banale’.

‘Vuoi togliermi anche il gusto della solennità? Mi hai tolto già tutto…’.

‘Forse no… Guarda…’.

Indicò tra le canne e il campo di grano adiacenti al locale della bella anziana donna grassa senza muscoli. Il cielo era celeste chiaro, quasi a non volermi dare la soddisfazione cromatica di diventar grigio.

In mezzo c’era Ofelia, coi vestiti quasi del tutto strappati, sporca, ferita, era mora e bionda, e mi amava per l’ultima volta, lo capivo dalle lacrime di sangue. L’amore più intenso cui il mondo potesse assistere. I miei amici nel Paese delle Onoranze, nel Posto delle Vongole e nel Vecchio Borgo delle Banche, si erano tutti fermati per un istante, come se avessero sentito che stava per accadere qualcosa. Poi ripresero a lavorare.

‘Prendila, se ne hai le forze, ancora…’, urlò Atahualpa.

Alla bella anziana donna grassa senza muscoli, quell’urlo fece prendere un colpo, si accasciò ed esalò l’ultimo respiro di sale e miele. Piansi, ma non potevo fermarmi.

‘Se la prendo, ci bruceremo… Vero? Moriremo entrambi…’

Atahualpa rimase in silenzio. Poi aprì le braccia, e disse: ‘Puoi vivere, se vuoi… Devi scegliere…’

‘Cosa ci guadagni se io e Ofelia bruciamo?’

‘Un’altra risata, mio piccolo eroe…’

Rimasi fermo per alcuni istanti. Solo il mio cervello decise di ghiacciarsi, e lo stomaco di tremare come una foglia orfana, e una mano decise di sporcarsi. Per sempre.

Strappai il cuore di Atahualpa con le mie mani: pesava tonnellate, perchè era pieno di tutto l’amore degli esseri umani, e dovetti imprecare parecchie divinità interstellari prima di riuscire nel mio intento.

Ofelia urlò, perchè in fondo conosceva bene la storia, come tutte le donne. Avevo espresso la mia condanna a morte, per me e per Atahualpa. Questo è il prezzo quando si uccide una divinità.

Il cuore era pieno di fiori, spine, trombe, bombe, melodie cangianti, e accordi minori e maggiori si alternavano senza senso, provocando orgasmi per le mie orecchie, così incomprensibili che la mia carne cominciava a strapparsi, fondendosi con la pelle di Atahualpa, che era fatta di zucchero e inchiostro nero.

Ofelia gridava ancora e correva verso di me, piangendo come una bambina, mentre il sangue e le ferite svanivano dal suo corpo. I suoi capelli tornavano ad essere splendenti, gialli come il sole all’estremo opposto del mondo in cui eravamo, la sua pelle liscia e candida come quando l’avevo conosciuta, le sue mani e i suoi piedi delicati come quelli di una bimba.

Io e Atahualpa giacevamo in un guano immenso e marrone, che bolliva sotto i raggi del sole, che intanto stavano a poco a poco sconfiggendo il cielo celeste chiaro. Il vento si stava fermando, la bella anziana donna grassa senza muscoli veniva seppellita da alcune scimmie festanti in frac e tuba, e il suo locale fu affittato da una troupe di Hollywood per realizzare un film sulla mia storia.

Io e Atahualpa eravamo ormai un’unica melma, anche il mio volto si scioglieva completamente tra le mani di Ofelia, mentre lei urlava qualcosa al cielo, frasi che gli sceneggiatori del film avrebbero poi sicuramente cambiato.

Intorno, intanto, era tornato il buonumore, gelsomini fiorivano ovunque, e le scimmie improvvisavano un Habanera con le donne del luogo.

§

Marco Montanaro, autore dell’esordio “Sono un ragazzo fortunato” (Lupo Editore/Coolibrì) è presente nell’antologia di racconti a tema intitolata Clandestina (Effequ Editore). Clandestina, curata da Federico Di Vita ed Enrico Piscitelli raccoglie il “meglio dell’underground italiano”, quindi, il fatto che un racconto di Montanaro sia compreso in suddetta antologia fa di lui un autore dell’underground italiano tra i più interessanti. Malesangue è il suo blog.

“L’ultima Cola”, di Marco Montanaro, è stato pubblicato su Musicaos.it – Anno 3 – Numero 23 – Ottobre/Novembre 2006

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Luciano Pagano. Aurora.


Luciano Pagano
Aurora
quella merdosa estate del duemila5

La prima scena è cruda, altrimenti il lettore crede di avere a che fare con uno di quei soliti romanzi o racconti ambientati ai giorni nostri, dove un giovane riesce a trovare lavoro tra mille peripezie, sollevandosi da una situazione di stallo nella quale si è avvitato dopo mesi insopportabili di inerzia. Quindi l’inizio della storia presenta un certo impatto difficile da sostenere per chi non abbia mai vissuto quel senso di scoramento impossibile che prende nei paraggi del compimento dei trentanni esatti, ovvero l’estate del duemila5. Il ragazzo e la ragazza sono in macchina, una sera come le altre. D’estate lei si trasferisce nella casa dei suoi, lui fa avanti e indietro in macchina da solo per andarla a trovare, circa ottanta chilometri al giorno, lei fa la segretaria mentre lui, invece, è disoccupato dalla metà di maggio, dopo circa un mese e mezzo ha dato fondo al suo libretto postale e adesso, lui e lei, sono alle soglie del lumicino con il conto di lei. Una situazione abbastanza tesa che nonostante le vacanze li vede sempre sul chi va là, su come spendere oppure “non” spendere, andare oppure “non” andare a cenare da qualche parte perché magari con quei soldi mettono benzina per altri due o tre giorni, così tu fai avanti e indietro con la macchina e tiriamo fino a settembre che magari qualcosa nel frattempo si trova. Ma adesso non lo sanno. Ne hanno un sentore, forse qualcosa può accadere di lì ad una settimana, forse qualche genio sta apparecchiando una soluzione a questa piccola disperazione meridiana, se così sarà non sono certo lui e lei a saperlo, adesso.
Nel pomeriggio, mentre lei si faceva la doccia e si preparava, lui era rimasto in giardino a leggere e prendere appunti su la “Versione di barney”, questo episodio è prologo a quanto accadrà la sera, quindi, per quanto possa sembrare stupido, va raccontato in ogni particolare, il lettore dovrà essere bravo a capire che cosa può accadere nella mente di un ragazzo che adora leggere, quando dopo essere uscito da una doccia ritemprante trova svago momentaneo nella lettura di Richler, una delle poche cose buone accadute quest’estate. A casa di lei viene un’amica di sua madre per prendersi un caffè e fare una visita di quelle che si fanno quando non c’è niente da fare, parlano del più e del meno, parlano di lei davanti a lui che legge Richler e beve un caffè, dicono ma com’è che lei non porta la macchina, lui dice che lei ha la patente e può guidare quando vuole. Quando le racconterà quest’episodio per descrivere quell’amica della madre farà il possibile per riassumere in un’immagine la bassezza non solo morale della persona, utilizzerà un aggettivo, pigmea, non lo avesse mai fatto, il protagonista non può associare le fattezze fisiche di una persona a quelle morali, per quanto antipatica essa sia, non è corretto.
Adesso sono a cena, tutti insieme, sono quasi alla fine del pasto, berranno un amaro, lui e lei usciranno come ogni sera. Lei racconta del pomeriggio, del fatto che sarebbe giusto l’amica di sua madre si pigliasse i cazzi suoi, quella pigmea. Lui diventa rosso. S’incazza e tiene il muso. In macchina, e qui torniamo al punto di partenza, le fa una scenata, non hai ancora capito cosa dire e che cosa non dire delle cose che ci diciamo quando siamo da soli per i cazzi nostri, cazzo. Lei non vuole dirgli scusa, la rabbia di lui monta, tira un pugno contro il parabrezza, lo frantuma in una miriade di pezzi che restano incollati senza scomporsi in frantumi, come se qualcuno avesse esploso un proiettile dall’interno dell’abitacolo. Questo momento è il più difficile, è la goccia che potrebbe far traboccare il vaso, si tratta di un nanosecondo in cui si decidono le sorti del loro rapporto, litigano un giorno si un giorno no da due mesi, per via della loro situazione economica instabile, s’intende, e nonostante il precariato sono rimasti insieme, è facile abbandonarsi e lasciarsi andare a pessimismi quando tutto va male, loro sono riusciti a farcela, nel bene e nel male.
Devi concentrare in questo momento la tua bravura nel far capire a chi leggerà questa storia che sì, lei appena veduto il parabrezza incrinato è scoppiata in un pianto a dirotto, va bene, non è una questione di vita o di morte, domani stesso a quest’ora il parabrezza sarà aggiustato, ne monteremo uno nuovo, lo troverò da qualche parte, ma dove cazzo lo trooooovi, non vedi che sei un fallito, un fallito che distrugge ogni cosa che tocca? Hai rovinato tutto, mi hai rovinato la vita, io ti lascio. Devi mantenere la calma, lasciare che questa sera passi come tutte le altre sere. Non è successo nulla di grave. Devi riuscire a restartene zitto zitto. Tornate in voi. Lei smette di piangere, ti viene il pensiero che non puoi tornare a Lecce a dormire perché hai paura che qualcuno, vedendo il parabrezza già incrinato, possa pensare di finire il lavoro da te iniziato e con un pugno sfondare in via definitiva il vetro, dopodiché sarebbe un gioco da ragazzi entrare in macchina e andarsene, sei triste, non pensi a niente ad eccezione della tristezza. Ti avevano commissionato un sito per una ditta, poi non se n’è fatto nulla, dopo il briefing iniziale non se n’è fatto nulla e nessuno ti ha detto perché, hai finito i tuoi soldi e non sai quando e quanti ne avrai. Tornerai a dormire in paese, da tua madre. Tuo padre è fuori per qualche giorno, è andato al camposcuola estivo della parrocchia, ci va ogni anno. Quando ero piccolo ci andavi anche tu. Ad uno di quei campiscuola ti sei innamorato per la prima volta di quella che sarebbe diventata la tua prima ragazza. Non metti piede in chiesa dal millenovecento93, il presente sta velando i tuoi pensieri di piccole paranoie trascendentali, il tuo kantismo della percezione invece di ridurti in ateo irredento, piano piano, sta scavando un rivolo tra i tuoi neuroni. Va bene, quando entri in chiesa non ti fai il segno della croce e Questo Dovrebbe Essere Prova Sufficiente perché ti si possa classificare come sostenitore dei luoghi di culto alla stregua di musei. Hai smesso di andare in chiesa quando hai smesso di giocare a pallone, hai smesso di andare in chiesa quando hai cominciato a fumare, ti è venuta voglia di entrare in una chiesa, qualche mese fa, da quando hai cominciato a sentirti solo, forse ti è venuto in mente di cercare segni di appartenenza, ecco perché, ti interessa il senso di comunità, cominci a capire che cosa si nasconde dietro alla ripetizione estenuata degli stessi gesti, delle stesse parole, nel tempo. Un tuo amico è così aggiornato in materia…compra i libri di Ratzinger da prima che lo facessero Pontefice, tu invece leggi il Corano, una volta all’anno deve ogni credente. Ti vengono in mente le pagine svolazzanti del vangelo sulla bara di legno di Woityla. Quel mattino di aprila una buona parte di mondo era incollata al televisore, tu stavi bevendo un caffè durante una pausa dal lavoro. Avevano già deciso di “segarti” e tu prendevi più pause del solito, così pensavi, la versione definitiva che fornirà il giudice sarà invece questa: l’ammontare di lavoro di cui disponeva l’agenzia, per via del discredito nel quale era incorso il suo proprietario, era diminuita in modo drastico. I tuoi datori di lavoro (consiglieri di amministrazione, soci, amministratore delegato), ti hanno fatto firmare buste paga di stipendi che non hai ricevuto per cercare di fare la cresta al governo da chissà quale pertugio, ti hanno addirittura detto che ti avrebbero licenziato da un’azienda per assumerti in un’altra, una decina di giorni dopo la morte del Papa saresti andato con il commercialista all’ufficio di collocamento, per farti iscrivere nelle liste di mobilità. Una presa per il culo inaudita, non le liste, lettore, non saltare a conclusioni affrettate, la presa per il culo era rappresentata dal fatto che l’azienda godeva di ottima salute, questo era un periodo di semplice riposizionamento verso il basso, per pagare gli stipendi a tutti gli assunti bisognava fare in modo che il numero dei dipendenti diminuisse sempre di più nel tempo, tanto è vero, così sottolinea ancora oggi il tuo avvocato, che l’agenzia, malgrado non sia fallita, si regge su gli sforzi tenui di due impiegati, meglio per te, li hai lasciati un attimo prima di quanto loro avrebbero atteso per scaricarti. Sulla perfetta natura del mio tempismo non ho mai avuto dubbi.
“Fin qui tutto bene”. Non passi una notte nella tua vecchia casa da tre anni, anche qui devi essere bravo a mostrare come questo sia un momento altrettanto topico della tua caduta ad imbuto infinito (tendente a 8) verso il fallimento. Tua madre ti ha apparecchiato il letto richiudibile nel quale dormiva tua sorella quando vi eravate appena trasferiti qui, è un letto così vecchio che sulla testata in cartone pressato a mo’ di legno, colorato di bianco, sono disegnati “Rocky e Bullwinkle”, due personaggi di un cartone animato che soltanto i nati nei primi anni settanta possono ricordare, e con un certo sforzo. Non hai nemmeno i soldi per il giorno dopo, non sai come fare, tua madre non può farci nulla, sei disperato di una disperazione che può essere compresa soltanto a sud dell’emisfero boreale, in quella particolare zona del continente europeo chiamata penisola italica, nel dettaglio tra giovani che hanno una trentina d’anni d’età, con un range di quattro anni giù e al massimo quattro anni su. Lasci perdere il vecchio letto, troppo corto, sei abituato a prendere sonno con la televisione e con il condizionatore dell’aria accesi, dormirai nel letto matrimoniale dei tuoi, ti coricherai in mutande sul copriletto, un odore di tessuto sintetico intriso di polvere nell’aria, quando tuo padre non c’è tua madre non sale al piano di sopra. Fa tutto da sola al piano di sotto, dorme, cucina, va in bagno.
Il giorno dopo ti alzi e chiedi subito un piccolo prestito a tua madre che non può darti un soldo e che non è disposta a muovere un dito per aiutarti, non oggi, non adesso, è un guaio in cui hai deciso di ficcarti, forse ha capito che sei stato tu a mandare in frantumi il parabrezza e quindi devi sbrigartela da solo. La disoccupazione ti porta a vivere scene melodrammatiche, non hai mai chiesto i soldi per una dose, semplice, non ti sei mai fatto, al massimo hai chiesto i soldi per la benzina e per le sigarette, fino al millenovecento97, quando avevi ventidue anni, bastavano diecimilalire per tirare due giorni avanti, la cosa interessante è che tu nella tua breve vita non hai fatto “davvero” utilizzo di droghe pesanti, hai addirittura smesso di fumare tre mesi fa, fumavi dal primo anno di università, da più di dieci anni, e tre mesi fa hai smesso di fumare. Ma come hai smesso? Questa digressione può essere utile, prima di mostrare al lettore come sarai bravo a risolvere il problema del parabrezza fai vedere come hai smesso di fumare, è un po’ come dare dimostrazione della tua forza di volontà residua, nonostante la disoccupazione.

Digressione “smettere di fumare”

Un giorno stavi accompagnando lei a lavoro, facevate sempre la stessa strada, arrivati all’incrocio lei proseguiva a destra, verso il palazzo che ospita lo studio dove fa la segretaria, e tu a sinistra, diretto all’internet-point dove lasciavi i tuoi cinque euro quotidiani, scaricavi la tua posta elettronica, aggiornavi il sito, era luglio e ancora non avevi messo l’adsl. Tu sei un osservatore, ti piace fare la stessa strada ogni volta perché così impari a memoria i negozi, le facce dei commessi che alzano d’improvviso lo sguardo dal banco quando passi lì davanti, non ti salutano perché non sei mai entrato ad acquistare una bomboniera, oppure una cravatta, un paio di scarpe da tennis color verde fluorescente. Loro ti conoscono e tu li riconosci, senza nessuno scambio ulteriore. L’ultimo negozio all’angolo della strada è un negozio che vende cucine, il penultimo è un’erboristeria. Quando passi lì davanti sei colpito dal manifesto di una marca di sigarette alle erbe, non ne hai mai fumate, ad eccezione delle sigarette indiane, strette come una cinquanta euro arrotolata e tenuta insieme da un filo, si fumano di norma quando non ci sono più sigarette in giro per casa e allora ne peschi una da chissà quale cassetto, oramai puzza più di cassetto che di foglia indiana, la fumi perché non ti va di scendere e comperare un pacco di sigarette, non a quest’ora. Così ti è capitato, un giorno, di svegliarti presto per andare all’internet point, saranno state le otto, ti sei svegliato, hai bevuto il caffè, hai fatto la doccia, hai fatto mente locale su quel che dovevi fare, con una certa fretta perché non avevi sigarette e quindi volevi uscire e fumarti la prima sigaretta dopo il caffè, la prima sigaretta di un nuovo giorno. Ti eri licenziato da poco più di un mese quindi non sentivi ancora premere sui tuoi polmoni la cappa opprimente della mancanza di lavoro, alla quale sarebbe succeduta la cappa ancora più opprimente della mancanza di denaro, occorsa in un pomeriggio afoso di luglio, quando andasti al bancomat per prendere cinquanta euro e sullo schermo, implacabile, comparve questa scritta “disponibilità 38€”. Quel mattino uscisti di casa da solo, lei rimase in casa a studiare. Passasti davanti all’erborista. Vedesti per l’ennesima volta il manifesto pubblicitario delle sigarette alle erbe. Entrasti. Facesti una breve intervista all’erborista. Costo di un pacchetto? Cinque euro e cinquanta centesimi. Quantità delle sigarette contenute? Venti, come nei normali pacchetti di sigarette. Contenuto di ogni sigarette? Timo, salvia, maggiorana. Contenuto di tabacco nella sigaretta? Zero. Contenuto di nicotina nella sigaretta? Zero. Condensato? Zero virgola zero zero zero qualcosa. Funziona? Alcuni ci riescono, bisogna adottare un trattamento a scalare, facciamo finta che lei fumi un pacco di sigarette al giorno, allora lei comincia così, seguendo il programma giorno per giorno, su quest’opuscolo c’è il calendario, il primo giorno inizia con quindici sigarette di quelle che fuma di solito e cinque di queste (che da qui in poi chiamerò sigarette vegetali), e così dovrà proseguire per una settimana, mi raccomando, alla seconda settimana in ogni pacchetto ci metterà dieci sigarette vegetali, alla terza settimana il rapporto è invertito, quindici sigarette vegetali per pacchetto e cinque di quelle che fuma, la quantità di nicotina nel suo sangue comincerà a diminuire, il suo portafoglio non accuserà scossoni perché malgrado ogni pacchetto di queste sigarette costi più di cinque euro, lei comincerà a fumarne meno delle altre, se fa un calcolo rapido vede che le conviene, arriviamo infine all’ultima settimana dove lei arriverà a fumare solo sigarette vegetali. Ma ce chi riesce a smettere? In effetti ci sono alcuni che smettono di fumare sia le sigarette normali che quelle vegetali, oppure ci sono altri che arrivano a fumarne una ogni tanto, soltanto di quelle vegetali si intende. Sul banco dell’erborista c’è un pacco di Chesterfield, lui non è riuscito a smettere ed io non ho tempo per trattamenti a scalare, compro due pacchetti e lascio undici euro sul banco, da oggi e per dieci giorni l’erboristeria diverrà il mio pusher di timo e maggiorana. Il gusto di queste sigarette è pessimo, a guardarle sembrano sigarette come tutte le altre, magari bruciano più in fretta, l’odore che sprigionano è simile a quello di un cassonetto dell’immondizia dove sia stato gettato un sacchetto pieno di merda abbrustolita.

fine della digressione “smettere di fumare”

Nell’ultimo anno hai provato a smettere, senza farcela, per due volte. La prima è stata in gennaio duemila5, dopo l’entrata in vigore della legge che vieta di fumare sul posto di lavoro; dove lavoravi era permesso a chiunque di fumare qualunque cosa. Ci avete provato soltanto una volta a smettere, in modo sincronico, tutti quanti. L’ufficio era frequentato da troppe persone, tutte occupanti quello strato sociale indefinito e collocabile tra l’essere ricchissimo ed essere semplice arricchito, in città ce ne sono tanti, costituiscono la clientela ideale della nostra agenzia, sono quelli che, rispetto ai miei datori, ce l’hanno fatta. Lui ce l’ha fatta nell’ordine dei quattro/cinque zeri, loro nell’ordine dei sei zeri, questa piccola differenza di zeri, anche nei rapporti personali, si nota col fatto che quando questi entrano nell’agenzia tutti si calano le braghe, i datori per primi, accendono le sigarette una dopo l’altra, scambiando energiche strette di mano a chi entra e a chi esce, improvvisando pranzi di lavoro a base di tramezzini e negroni. Il secondo giorno dopo l’entrata in vigore della legge c’era questo comando, al massimo una sigaretta alla volta in ogni stanza. Dopo due giorni si era tornati al ritmo incessante di una sigaretta dopo l’altra moltiplicata per dieci persone alla volta. Nell’ultimo periodo le tre stanzette dell’ufficio erano occupate in media da sette nove persone, compresi gli stagisti dell’università, che credevano di essere venuti per crescere nel mondo delle agenzie di comunicazione ed in realtà espletavano il lavoro sporco, ci riuscivano così bene che dovevamo sempre controllare che non facessero errori, il problema era semplice, capivano poco. Meno male che sei scappato, meno male che hai smesso di fumare, meno male perché è la cosa che adesso ti fa stare meglio, anche di umore.
Senti che questa è la volta buona. Scrivere una storia dove uno dei protagonisti vuole smettere di fumare e ci riesce è galvanizzante, ti senti in sintonia con te stesso, e poi queste sigarette vegetali fanno davvero vomitare, sei come quelli che per smettere provano a fumare MS, poi si accorgono che c’è gente che fuma MS da una vita e sta benissimo. Il tuo dentista ti ha dato un ultimatum, non ti curerà più, la sua aiutante si rifiuterà di fissarti appuntamenti, sarai bandito “ad interim” dallo studio, sua figlia, che adesso si occupa delle tue cure periodiche, ha detto che se tu non fumassi la tua vita sarebbe meravigliosa, ci credi? Ma si, crediamoci. Il primo giorno di sigarette vegetali passa in fretta, ne fumi un pacchetto e mezzo, ti sembra di dare fuoco ad un ramo di sempreverde. Ad esempio. Entrate tu e lei in un negozio per acquistare un paio d’occhiali da sole, ti piacciono così tanto che getti la sigaretta a terra, date un’occhiata rapida in giro, la commessa si volta ad una sua amica lì dentro, mentre batte sulla tastiera “numero un paio d’occhiali con le lenti gialle” che poi frantumerai quest’estate sedendotici sopra perché non li hai visti appoggiati sul telo mare mentre esci dall’acqua e ti vai a sdraiare e “numero un paio d’infradito” destinati a diventare la tua calzatura estiva outdoor e la tua calzatura indoor per l’inverno, ecco che mentre ciò accade…la commessa si volta…c’è una puzza che viene da lì fuori…qualcuno deve “aver gettato qualcosa di bruciato nel cassonetto”. A Lecce quella dei cassonetti incendiati è una sindrome. Abbiamo paura che la nostra periferia venga scossa da una forma qualsiasi di anomalia, metti ad esempio un attentato; fa parte della nostra presunzione, la presunzione di una periferia che si crede così centrale da arrivare a presumere che qualcuno voglia destabilizzarne il sistema virtuoso. “O forse è soltanto che in televisione se ne vedono di tutti i colori.” Guardi la tua ragazza negli occhi, non ti va di dire alla commessa che l’odore è quello del fumo, crederebbero che prima di entrare stavi semplicemente fumando una canna.
Quando fumi una sigaretta vegetale e dopo, quando l’hai finita e la spegni o la lasci cadere, ti viene voglia di accenderne un’altra, all’istante. Dopo una settimana smetti di fumare anche quelle. Le occasioni della tua ghettizzazione si moltiplicano. Un sabato sera uscite per mangiare una pizza con una coppia di amici. C’è una pizzeria, una delle vostre preferite, dove in un ambiente a parte si può addirittura fumare, vi sedete lì perché i vostri amici fumano e a te non da fastidio, non vuoi diventare un integralista dell’antifumo, uno di quelli che rompono i coglioni per far smettere di fumare chi lo circonda, sarai un antifumatore moderato, uno di quelli che cerca comunque di convincere gli altri a smettere di fumare mediante l’accrescimento esasperato dei benefici che si traggono da una vita senza fumo, con un’ottima dose di esondante narcisismo, se l’unico uomo del pianeta che è riuscito a smettere di fumare, cazzo. Siete seduti, state per ordinare da mangiare, ti senti così carico che invece di ordinare la pizza suggerisci a tutti di provare le specialità brasiliane, e, tuo malgrado, convinci i tuoi amici e la tua ragazza. Sono passati nove giorni da quando hai smesso di avere nicotina in circolo nel tuo sangue. Ciò dovrebbe fare intendere anche al lettore più sprovveduto che la pazienza e la calma, quando uno smette di fumare, sono cose che se mancano si può anche soprassedere. Siete arrivati al termine della cena. Sarebbe il momento giusto per accendersi una sigaretta vegetale. La tua ragazza non ne può più, prima di andare a cena avete assistito ad uno spettacolo teatrale, un’opera messa in piedi da un tuo amico dopo anni e anni di duro lavoro, ripensamenti, creazioni e disfacimenti di gruppi dove i collanti sono l’arte, le canne, il vino cinque litri due euro e la promiscuità sessuale di corpi semimoribondi, semisdraiati, semidesideranti. Un’opera era degna del migliore teatro off-off-off, come direbbe il tuo amico Giovanni. Vorresti accenderti una sigaretta, soltanto che per fumare vuoi uscire fuori, sai che accenderti una sigaretta vegetale dentro un ristorante alle undici del sabato sera desterebbe preoccupazioni in tutti gli astanti, diventeresti rosso, dovresti giustificarti con quelli più vicini al tuo tavolo dicendo che no, non si tratta di una canna, è solo una sigaretta che aiuta a smettere di fumare in modo graduale i fumatori incalliti come me, se vuole le consiglio la marca. Magari seduta al tavolo di fianco c’è una coppia, marito e moglie, si stanno passando un “cigarillo”, magari quello intossicato sei tu. La tua ragazza sbotta, ha capito che è il momento buono, per farti scenate di questo genere aspetta sempre un momento in cui non siete soli, ne approfitta perché sa che a lei non riesci a giurare nulla, mentre quando dici qualcosa davanti ad altre persone mantieni sempre le promesse, non fosse altro che per il timore di essere ritenuto un debole. Ti dice che no, non esci e non ti accendi più nessuna di quelle sigarette, anzi, dammele, lo tengo io il pacchetto. Hai smesso anche con queste.
Passato quel dopo cena, cioè dopo dieci giorni esatti di sigarette vegetali, sei passato dalla fase nella quale “stavi smettendo di fumare” e sei entrato nel limbo di chi “ha appena smesso di fumare”. Non puoi crederci.
Nel frattempo i tuoi soldi sono finiti, sei povero e in apparente stato di salute. La tua salute deve continuare a migliorare, ti aspetta un futuro prossimo nel quale ingrasserai di una decina di chili, soltanto dopo un anno e mezzo ritornerai a dimagrire, avrai un lavoro decente che ti soddisferà ogni giorno, ma questo lo sa il lettore, lo sa adesso, lo apprende da ciò che scrivi, tu non lo sai, il tuo ottimismo deve fare sforzi incredibili, tutte le tue vitamine e tutto il dna contadino di tuo padre devono venirti in soccorso, devi tornare all’abitudine antica di vedere qualcosa che cresce piano piano finchè non sboccia in fiore profumato e poi in frutto. Ti sei tolto un vizio. Questo episodio è utile per darci ad intendere che tu sei una persona determinata, o meglio, leggendo come hai smesso di fumare dovremmo intendere che uno dei personaggi principali di questa narrazione è una persona determinata, confondere uno dei personaggi con te è uno degli indizi che vuoi dare al lettore, tramite quest’allusione fai trapelare che questa narrazione è autobiografica, o quanto meno peschi in abbondanza nei mari della tua quotidiana contemporaneità perché non disponi di argomenti migliori e scorrevoli per arrivare da un inizio incerto ad una fine in sospeso.

§

È con questo spirito che hai affrontato questi mesi di crisi, fino a questo momento. Hai frantumato con un pugno il parabrezza della tua auto senza procurarti ferite o escoriazioni, l’anello che indossi al dito medio della mano destra, come uno spaccagrugno rudimentale ti ha salvato dal dover elucubrare una versione dei fatti congruente con il vetro del parabrezza incrinato e le nocche della tua mano destra tagliuzzate e sanguinolente. Ti alzi. Dici a tua madre di prestarti i soldi per il parabrezza, se vuole e se non vuole fanculo. Non ci sono soldi. Nessun aiuto. Devi fare da solo, se vuoi. Sali in macchina, ti ricordi che c’è uno sfasciacarrozzeeuroduemila sulla provinciale che esce dal tuo paese, lo conosci perché i tuoi gli hanno venduto il pezzo di terra che utilizza come deposito e parcheggio di auto e in attesa di essere accartocciate in cubi di cinquantacentimetri per lato.
Ti sembra di essere finito nel mezzo di una rappresentazione teatrale dove non recitano attori ma sfrigolii di scintille e lamiere segate, cataste di automobili, morti di varia ferraglia mentre attendo il tuo turno e rimani affascinato da due operai che stanno smontando una Fiat Uno, pezzo dopo pezzo, hai sempre saputo che per mettere assieme un’automobile si impiegano una miriade di componenti, ma quanti? Sono appena le otto di mattina e fa già un caldo insopportabile. Quanti? Quanti? Quanti ne vuole? Cadi. Quanti cosa? “‘Nnu ‘ssi ‘ttie c’ha chiestu lu cazzu de parabbrezza denanzi te la Panda? ‘Nde basta unu?” (Ma non è lei il cliente che richiesto la sostituzione di un parabrezza per il vetro anteriore di una Panda? Ne è sufficiente uno”. Va bene, eccolo qua, fanno venticinque euro, adesso viene il ragazzo e te lo da. A mezzogiorno ero da lei, la mia lei, a casa sua, con il parabrezza usato garantito, a mezzogiorno e un quarto ero con suo padre da un meccanico in paese, un carrozziere, all’una in punto la panda era parcheggiata sotto il sole cocente ed io ero a tavola insieme a lei, pranzavamo con il sorriso sulle labbra. In momenti come questi è più facile essere felici per la risoluzione di un problema che ci ha fatto dannare fino al secondo precedente piuttosto che essere felici del semplice fatto di esistere, ma chissenefrega di esistere, l’importante è che arrivi presto domani, che passi quest’estate merdosa e che torni l’autunno. Sono rose, fioriranno.

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“Aurora” è stato pubblicato su Musicaos.it – Anno 3 – Numero 23 – Ottobre/Novembre 2006

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ANTEPRIMA “Il bisogno dei segreti” (Las Vegas Edizioni) di Marco Candida. In libreria dal 16 Febbraio


Su “Il bisogno dei segreti” (Las Vegas Edizioni) di Marco Candida.
Luciano Pagano

“Nella mano destra tiene il romanzo di Dostoevskij Delitto e Castigo. Pensa di considerarlo un libro abbastanza stupido. In fondo è la storia di un uomo che per passare alla storia come Giulio Cesare o Napoleone decide di uccidere la sua vicina di casa. Connie lo considera un libro demenziale. Sarebbero questi quelli che consideriamo i grandi uomini della storia di questo mondo? Connie pensa che in fondo se nei libri di storia non si fossero mai menzionati i nomi dei grandi carnefici un libro come quello di Dostoevskij non avrebbe mai avuto  ragione di esistere. In fondo essere menzionati nei libri di storia forse non è esattamente la stessa cosa che passare alla storia. Connie pensa che non è esattamente sempre per merito che si passa alla storia, ma anzi per grande demerito […]

da “Il bisogno dei segreti” di Marco Candida

L’universo di Marco Candida è la diretta emanazione di una mente narrante che non si accontenta di descrivere, ma che proprio in virtù dell’essenza creatrice della scrittura, ‘crea’ il mondo attorno ai suoi protagonisti e lettori.
L’universo delle parole entra fin da subito in quest’opera, così come ne “La mania per l’alfabeto” (Sironi) e ne “Il diario dei sogni” (Las Vegas Edizioni) Marco Candida ci aveva stupito con la presentazione delle sue ossessioni portatili, quotidiane.
Uno dei modi con cui Marco Candida approccia la realtà narrata è quello dell’ironia; un’ironia sincera, reale, nulla a che vedere con quella pallida forma di umorismo a orologeria cui ci hanno abituati alcuni comici che di comico hanno soltanto la pretesa di sembrare comici. L’ironia, il sarcasmo, sono le armi più complesse con le quali si possa raccontare una storia in modo disincantato, affetti da un forte realismo, dimostrando nei risultati l’esatto contrario, ovvero sia rimanendo sospesi in una dimensione di sogno, che poi è il secondo elemento, dopo l’ironia, che si infiltra senza soluzione di continuità nelle narrazioni di Candida.
Se un capolavoro come l'”Ulisse” di James Joyce non ha bisogno di una trama e di un conflitto, si chiede a un certo punto Connie nel romanzo, è perché basta la presentazione della realtà, con le sue vicende e le cose che accadono, a creare una storia. Questo è un trabocchetto che Candida semina ne “Il bisogno dei segreti”, uno dei tanti. L’autore è consapevole di quanta perizia ci voglia per rendere naturale ciò che non lo è, per rendere ‘storia’ ciò che allo sguardo del lettore può sembrare semplice narrazione consecutiva dei fatti. L’approfondimento dei personaggi è compiuto, e sembra a questo punto che la prova de “Il diario dei sogni”, finito nel 2007, trovasse sostanza proprio nell’approfondire la psiche dei personaggi, ancora più che nel primo romanzo, anche a costo di prendere ‘sentieri interrotti’ e dovere ricominciare daccapo.

C’è un’altra componente interessante nel romanzo, quella relativa alla quotidianità del rapporto con la rete e i social network, oramai facenti parti della nostra vita a tal punto che “Il bisogno dei segreti” è proprio quel bisogno a tenere viva la nostra privacy, il nostro personale recinto entro il quale non fare entrare nulla e potere liberamente esprimere noi stessi. Connie ha a che fare da una vita con i segreti di tutti coloro che la circondano e saranno proprio questi segreti e il suo bisogno metodico di registrarli a dare una svolta e imprimere un senso a questa storia. I diari si trasformano in registrazioni, le registrazioni in intercettazioni rubate, frammenti di vita, video su internet. Nessuno può immaginare cosa può nascondersi dietro questa ventinovenne, rimasta minuta e intelligente.
Marco Candida è un autore che ha le visioni, come scriverebbe D’Orrico di un personaggio del suo primo romanzo, i suoi ‘mezzi’ questa volta sono diretti a scandagliare la realtà della famiglia italiana, di quella fetta particolare così numerosa eppure così sfuggente, dei ragazzi tra i venti e i trenta anni di età. Mai come in questo scorcio di epoca questa generazione è quella che ha subito più scossoni e cambiamenti. È un po’ quello che è successo nelle narrazioni di Candida, che sono passate da una maggiore introspezione a una considerazione piena del ruolo dell’individuo all’interno del suo habitat sociale.

Tra leggere gli americani e andare in America c’è una bella differenza, potremmo dire. In questo romanzo entra tutta l’esperienza recente di Marco Candida, scrittore al di sopra e al di fuori di ogni steccato che va in America per noi e ci restituisce una narrazione dell’Italia che si lascia influenzare pur restando salda nella nostra lingua, un minimalismo che non si traduce in pochezza, una nettezza di sguardo sul mondo dove non sono rari i ‘lampi’ dell’inaspettato e dove il terrore quotidiano si insinua nelle cose più semplici. Nel romanzo i diversi personaggi, Connie, Manuel, Katrina, Ginevra, Murgia, si alternano con le loro esperienze personali, come in un film di quadri dove tutto si riannoda. Il finale è degno di un sapiente costruttore di thriller, consapevolezza che Marco Candida saprà sfruttare in questo genere, quando sarà il momento. “Il bisogno dei segreti” si situa in quel cono d’ombra speciale, “quando il nostro cervello non riconosce più il confine tra la fantasia e il disumano”.

Si potrebbero parafrasare le parole di Connie, la protagonista, dicendo che “ogni parola ogni espressione” per Marco Candida sono “una conquista”, un gesto di riappropriazione debita, frutto di uno scavo del quale, come è giusto che sia, il lettore non intravede se non la leggerezza e la fluidità della forma finale. È come se ogni pagina de “Il bisogno dei segreti” mettesse il lettore di fronte a domande terribili sulla sincerità e sull’opportunità di annullarsi per riuscire a vivere nel mondo contemporaneo oppure, se proprio non possiamo rinunciare a noi stessi, riuscire a convivere con l’ipocrisia. Il lettore percepisce la rottura di quella barriera tra il sé e l’opera, non si sente al sicuro, la prima cosa che Connie mette in pericolo e proprio quella nostra certezza che richiusa la pagina nessuno si metterà a spiare come nascondiamo i nostri segreti e mettiamo a tacere la nostra ipocrisia. La cosa più interessante è che Marco Candida realizza tutto questo in un romanzo che non annoia in nessuna delle sue duecento pagine, cosa che accade spesso percorrendo le pagine di alcuni coetanei di Marco, e non solo.

Luciano Pagano

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Marco CandidaIl bisogno dei segreti
Las Vegas Edizioni, i jackpot, 16, pp. 200

In libreria. “Vizio di forma” di Thomas Pynchon. Primi giudizi e recensione express.


Cari Lettori di Musicaos.it,
come promesso qualche giorno fa ecco il booktrailer con i sottotitoli in italiano di “Vizio di forma” di Thomas Pynchon, appena approdato in libreria e accompagnato dai primi giudizi critici di merito. Approfittiamo per lanciare un article contest express, inviateci la vostra recensione di “Vizio di forma”, di Thomas Pynchon, per l’occasione pubblicheremo pynchonianamente la migliore, la peggiore e anche la più così così. Buona visione!

Thomas Pynchon a settantadue anni si è rotto le scatole della sua esoterica reclusione ed è sceso tra noi mortali per ricordarci quant’erano divertenti gli anni dei fricchettoni, dei surfer e dei detective strafatti. Grazie, maestro [Niccolò Ammaniti]

Una lezione di mimetismo letterario sorprendente, acrobatica e a tratti spassosa [Gianrico Carofiglio]

Divertente, schizzato, politicamente aggressivo. Con questo noir Pynchon manda al diavolo il galateo letterario e rievocando con nostalgico trasporto l’America di ieri mette al muro quella di oggi. [Giancarlo De Cataldo]

Eccovi le peripezie dell’investigatore privato Doc Sportello durante la sua missione quotidiana tra hippy e surfisti, diretta all’assunzione di sostanze proibite, all’abbordaggio di appetitose forme di vita in bikini, fino ad arrivare là, nel più colorato dei noir, dove nessun romanzo è mai giunto prima. [Tommaso Pincio]

La sua è una rabbia politica, tagliente. In un modo meraviglioso che ricorda quello degli adolescenti, lui continua a voler combattere gli uomini che detengono il potere: il governo, la polizia e Ronald Reagan. [Aravind Adiga]

Vizio di forma, Thomas Pynchon, Einaudi, Stile Libero Big, 2011, p. 470, 20€, ISBN: 9788806202828

“I DIALOGHI DEL RISVEGLIO Lentobus n.°2” di Elisabetta Liguori


Elisabetta Liguori
I DIALOGHI DEL RISVEGLIO
Lentobus n.°2

– Reality, sempre reality. Insomma, mi stai dicendo: nessuna commedia, neppure per una sera, niente. In questo letto, soprattutto. E ti pareva? Ma dico io: se è vero come è vero, che tu hai una passione bruciante; oh, se brucia adesso, brucia, brucia; ok brucia, ma perché mai questa passione deve entrare in cucina come un tornado, in frigorifero svuotandolo, e pure in camera da letto deve entrare? –
– In che senso scusa? Che, per caso, devo fingere, per farti vivere più serenamente questo passaggio? Se non mi sento, non mi sento e stop. –
– Maaaagaaaari, e perché non lo fai? Fingi un po’, che ne dici di un po’ di fine recitazione per me, please. Un teatrino tradizionale, canti popolari e profumo d’arrosto.–
– La smetti? –
– Mi chiedo perché proprio tu; con tutta la gente che si intende di lettere, perché tu. Ti sei chiesta perché proprio tu? –
– No, non mi faccio di queste domande. Smettila.-
– La smetto. Allora leggi e zitta. Non ne parliamo più. –
– Toccami, non restare così lontano, però; se mi tocchi, poco, va bene. Altrimenti non riesco ad addormentarmi. –
– Guarda, non è il fatto di toccarsi o meno. Non è affatto questo.–
– Piano quando ti giri, però, che mi tiri i capelli. …ehi, piano. Non ti agitare tanto!–
– Sì, sto fermo, sto fermo; era per farti capire. Non è che non ci si sopporta; se pure uno magari ci pensa…, ma comunque no, non credo, non è quello il punto; è che ci si adegua sempre con un certo imbarazzo a queste cose. Mi permetti di essere, se non incazzato come un toro, quantomeno imbarazzato; almeno questo? E’ la solita storia dei rifiuti, dell’abbandono. Se dici di no, mi devi consentire un po’ di imbarazzo. Devo gestirlo questo rifiuto periodico. Non sono mica noccioline, bimba. Se io torno dopo una settimana, dico: dopo una settimana, non un giorno, ma una settimana intera, avrei voglia. Se tu mi dici di no, io lo noto, dopo una settimana lo noto. Scusami, ma lo noto. La tua passione bruciante non sono io. Bene, ne prendo atto. Ma non pensare che non mi faccia effetto.–
– Perché tu ti confronti continuamente o con altri o con te stesso. –
– Normale. –
– No, perché normale? Uno può anche accettare il corso delle cose, e basta, senza dirsi prima era diverso, o per altri è diverso. –
– Lo fanno tutti. Di confrontarsi, intendo. E i ricordi allora? –
– Che ne sai tu di cosa fanno gli altri? –
– Lo so, lo so. Fidati che lo so. –
– Non servirti dei nostri ricordi per dire che stiamo male adesso. –
– A che servono allora i ricordi? Dimmi a che servono; forza dai, dimmi. Perché ricordiamo? A che serve la memoria? Per scriverci delle storie, solo per quello? Scusa: i tuoi libri; e questa tua ultimissima passione ipnotica, a che servono? –
– Ah, vorrei tanto vedere te! Mi piacerebbe essere al tuo posto e fare da spettatore. –
– Bugiarda. –
– Perché? –
– Non puoi fare a meno del tuo palcoscenico. Bugiarda. –
– Come sarebbe a dire? –
– Fai una riflessione. Donna bugiardissima!-
– Filosofia a mezzanotte? Ti prego. Io avevo voglia di leggere.-
– E perché? –
– Come perché? –
– Io parlo e tu ascolti: non è lo stesso? Invece di leggere, dico, mi ascolti. –
– E che dici? –
– E tu, invece, che cosa leggi? Leggi quelli che parlano di noi, e allora che differenza c’è? –
– Io non leggo solo quella letteratura. Leggo di tutto.–
– A me così pare, per la verità; leggi solo di realtà in cui ti specchi e autori nuovissimi, profeti della narrativa moderna, minimalisti ma splendidamente illuminati, anzi ispirati direttamente da Dio, che curiosamente sembrano vivere proprio nell’appartamento accanto al nostro e sapere tutto di noi, manco avessimo le pareti di carta velina. Il romanzo del 2000. –
– E’ la narrativa dei giorni nostri. C’è poco da ridere. Ci sono autori contemporanei semplicemente magnifici. –
– E non hanno altro di cui scrivere, se non di noi? E le ideologie? Invece no, solo scrittura soggettiva. E poi, i trentacinquenni per forza. E allora i cinquantenni, e i novantenni? Hai visto quanti nonni arzilli ci sono in giro, alla faccia vostra? E quelli di dieci anni poi, chi parla di quelli? Ma va! Allora invece di leggere, viviamo. Tanto qualcuno, prima o poi, ci salverà dall’oblio. Diamogli il pane a sti quattro scribacchini. Vieni qui. –
– Che palle le ideologie! Guarda che non è facile. Se non leggiamo noi, chi legge? Gli scrittori e le ideologie. Oh, sorte! Non credere: è un mondo ostile. –
– Quale mondo? –
– Quello della letteratura, della scrittura in generale. –
– Che ti frega, tanto non è il tuo mondo. –
– Quale è il mio mondo allora? –
– Questo! –
– Questo quale, scusa, queste lenzuola, questi due cuscini? –
– Anche, cara mia. Anche. Però mi sa tanto che sta diventando ostile pure questo, di mondo. Dipende da come si mettono le cose. Ehi, cara mia: stai attenta. Ma tu guarda di quali cose deve parlare un povero cristo la sera a letto. Di Mondi Alieni. Da soli ve la cantate, da soli ve la suonate, voi intellettuali. Fate, disfate, rifate. L’intellettuale si ripiega su sé stesso, comunica solo sé stesso ed il suo corpo. Dai capelli all’ano. Quello che vuoi, ma intanto la realtà da vivere, per gli altri, per tutti, resta quella che è. –
– Tu dici? –
– Dico, dico. Tendenze, guarda, tendenze. –
– Sai come mi sento io? –
– Eccola. Sento che sta partendo la similitudine e quando parte niente la può fermare. Se proprio ti scappa…vai. –
– Mi sento come la mia borsa sfatta: quando ci metto le mani dentro, tocco di tutto, ma non ne viene fuori mai niente di utile. –
– Bellissima! –
– Non mi convince mica questa cosa qui. Soprattutto stasera che sono nera. Sembra tutto inutile. Artificiale. Ma mi ha preso lo stesso. E perché mi ha preso? Sono sempre stata sicura di essere giusto un avvocato e adesso? Lo sai anche tu, no? Era facile: un avvocato; d’accordo: il problema dei soldi, ma comunque lo studio, i fascicoli, i diritti di cancelleria, le cose solite e concrete. E adesso? C’è sta fissa nuova dello scrivere. All’improvviso diventa tutto possibile e immenso. Ma alla fine poi, di che parliamo, veramente? –
– Cercate di non farvi cancellare. –
– Un’agonia! –
– Appunto; lasciamolo lì fuori questo net work agonizzante di libri ancora da scrivere o già scritti e dei loro autori; lasciamoli fuori nella notte buia e fredda e vieni qui. –
– La nuova narrativa va sostenuta; bisogna crederci. Non sarai tu con quell’arnese lì, a salvare il mondo dall’oblio; gli scrittori possono farlo, invece. Da sempre, di generazione in generazione, sono gli scrittori a cantare il tempo e renderlo vicino, uguale, accessibile, immortale, mitologico. Anche parlando di se stessi. Quando è necessario, è necessario. –
– E chi lo dice? –
– Io. –
– Beh, allora…non si discute. Quindi sai già come salvare il mondo; non hai alcun problema tu! –
– Non è serata. E’ chiaro. Buonanotte. –
– Capissi poi perché. Per via di questo libro che vuoi scrivere? E’ per quello, lo so. Allora scrivi, siediti e scrivi il libro e poi si vedrà. –
– Ma come si diventa scrittori veramente? –
– Che razza di domanda è; sei tu l’esperta. Che fai: consumi solo carta? Stai sempre a rimuginare, a rielaborare, pure il flusso del mio muco nasale. Che guerra è? –
– No, non basta; devo crescere, lavorarci. Non basta il tempo, mai; non basta quello che vedo. –
– La commedia umana, quelle cose lì; ricreare quello che c’è già? E’ questo quello che fate? –
– Eh, sì, più o meno. Ci vuole tempo per capire. Mi serve il tempo. Anche quello utilizzato da altri uomini. Io non ho mai tempo per me, veramente. Siamo sempre al servizio di qualcos’altro. Invece. –
– Ma se non fai altro? Non si può stare seduti in pizzeria con te. Neppure a comprare il pane si può andare. Sembri autistica! Ti blocchi sulla vita altrui. Rubi, non fai che rubare. Insieme facciamo una figuraccia dopo l’altra: due vecchi guardoni siamo diventati. Stai sempre a guardare: muta, fissi le persone che ti sono sedute accanto. Un film. Sempre a lavoro. Stai sempre a catalogare tutto il narrabile, come se dipendesse da te la conoscenza collettiva. Poi la vita, quella vera, se ne va a puttane. –
– Sono paralizzata? –
– Non vivi più nel pantano. Ecco: resti fuori. E, nello stesso tempo, sei ossessionata dal pantano stesso. –
– No. Sono paralizzata da troppe idee, invece. Oddiomio, è finita: la paralisi. Non scriverò mai più un rigo che abbia senso, che serva a qualcosa. Né per me, né per nessuno. Niente. Pure una famiglia ho distrutto; e adesso che faccio? Ho disperso il tempo che avevo. Quel poco che c’era, è già perso. Senza risultato, senza nessuno che ascolti. –
– Sarà. A me, la storia del tempo, mi sembra una scusa buona per tutte le occasioni. –
– Pensi questo? Pensi che non sono più in grado di scegliere tra Cappuccetto Rosso e La Piccola Fiammiferaia, da raccontare a Giulia. La paralisi. Ecco come comincia. I libri non mi cambiano più, i personaggi si confondono, non mi parlano. Tanto desiderio d’arte ed alla fine descrivo solo personaggi che sembrano Sandra e Raimondo. Ci sono troppe cose già dette nell’aria, troppa euforia o troppa delusione. Troppe favole, troppe; troppe le possibilità. Inafferrabili. –
– Sai quel è il tuo problema? Il problema è che tu credi di avere talento. –
– Come talento? –
– Sì, è così, ammettilo: qualcuno ti ha convinta di avere talento. –
– Chi? –
– Come si chiama quello? –
– Chi? Rino? –
– Rino è il primo; dopo viene tutto il gruppo di scrittori, poeti, affabulatori; gli antipatici per forza, sciamani della narrativa, guru, saltimbanchi, suorine, confidenti, gestori di librerie, giornalai. Il tuo Network dell’ultimo semestre. Sono stati loro. Ma dico io: prima scrivi qualcosa e dopo, se è il caso, si pensa al network. Semmai. –
– Ma di quale talento?-
– Avevano un progetto diabolico, quelli. Beh, senti una cosa, secondo me il talento non esiste. –
– Lo so anch’io, non sono così cretina. E’ per questo che cerco il tempo. –
– No, non lo sai. –
– Lo so, ti dico. –
– Dici così, ma non ne sei convinta. Secondo me questo benedetto talento è una specie di ornamento estetico. Sì, un cappellino con un fiore sulla testa. Una cosa così. Forse. –
– Non esiste? Bene, quindi? Che si fa? Si rinuncia? –
– Fai quello che sai fare, ma non mettermi in mezzo, per favore; né me, né Giulia, che è carne della tua carne, ma carne appunto; non uno dei tuoi personaggi di carta. Non divorarci così. –
– No, aspetta; ho capito adesso; ecco il punto. Dunque? Adesso, caro, ti fermi perché dobbiamo approfondire. –
– Ho sonno. Io adesso dormo. Niente sesso, quindi dormo. –
– Dai, per favore! Fai la persona seria una volta. –
– Cosa? –
– Dimmi bene. Dell’oggetto della mia scrittura; dimmi di quello. –
– Ma che vuoi? –
– Avvicinati e dimmi. Se vuoi spengo la luce, ma poi continuiamo a parlare però.-
– Se spegni, mi viene il sonno. –
– Non spengo. Allora? –
– Io volevo dire soltanto che forse stai esagerando. Non ti eccitare troppo. Tutto qui. Un fatto di misura. Pensaci, se vuoi. –
– Che la passione si misura? E da quando? E’ ben strano detto da te. Ti devo ricordare qualcosa? –
– Ma quale passione, qui si tratta di un progetto; creare richiede sempre un progetto. Mica sono un fesso. Un mega progetto, anzi. –
– Vabbe, dai! –
– E cosa c’entrano le mie scelte del passato, tutte le cretinerie che ho fatto anch’io? Mica sei l’unica tu, lo so bene. Si parla di scrittura, non di vita. –
– Quale è la differenza? Se c’è differenza. –
– Se permetti, sì; se permetti c’è una grande, un’enorme differenza. Che fai la finta tonta. Non puoi rinchiuderti in una tana, con una sedia ed un tavolo, diciotto ore su ventiquattro, a sbirciare quello che fanno gli altri. Ché sudano come porci, si dimenano, gli altri. Facile per te. Stai lì, ore con gli occhi larghi, senza neppure sbattere le ciglia, per poi mettere tutto sulla carta a modo tuo, secondo i tuoi gusti, la tua intellettualizzazione. Questo non è vivere, la tua è pigra manipolazione. Troppo facile! –
– Ma la letteratura si nutre di vita. La verosimiglianza, per esempio. Non è colpa mia, se le cose stanno così. –
– No, non puoi farlo. –
– Ho bisogno degli altri. –
– Sei diventata insaziabile però. Ci hai infilato in tutti i tuoi raccontarelli. A noi. Alla tua famiglia. Eh! Carne da cannone. E dai! –
– E che avrò rivelato mai! Alla fine è una forma d’immortalità anche quella. –
– Se fosse buona letteratura almeno…-
– Quindi fa schifo. Dimmelo, se lo pensi. Fa schifo? –
– Guarda: io non lo so, non sono un tecnico. Chiedilo al branco. –
– Quale branco? –
– Gli intellettuali sono cani che vivono in branco. E’ sempre stato così. Poche femmine però. Oggi, davvero poche donne. –
– Che peccato… vero? –
– Sì, infatti. –
– E chissà perché, eh? –
– Presentami una scrittrice, se la trovi in zona! –
– Ma ti piace o no quello che scrivo? Leggi ogni parola di quello che scrivo. Che significa? E’ leggibile? Sì o no? –
– Controllo. –
– Ma ti piglia quello che leggi? Sì o no? –
– Diciamo che lo riconosco. Quello che scrivi mi appartiene. E per forza! –
– Uhm. Che razza di uomo inutile sei! –
– Ma che ne so. Talento o no; vivere o scrivere, fai quello che ti pare. Di certo c’è solo che esiste una buona letteratura ed una cattiva letteratura. E dei criteri per distinguere l’una dall’altra. Per forza ci devono essere dei criteri cui appellarsi. Che non è mica tutto un caso. O forse tu credi piuttosto che sia una lotteria? –
– Bella scoperta. Geniale sei. Ah, se non fosse così tardi. Ma invece è tardi. Credi tu. Fai semplice a dire buona, tu. Passami un fazzolettino; lì sul tuo comodino. –
– Tieni. Sì. Una letteratura buona, vuoi un esempio: quella che restituisce la molteplicità. –
– Cioè? –
– Cioè, cioè: dateci sta benedetta vita, va bene, se si deve, mi sacrifico, va bene, ma non marionette. Vite vere. Dateci il senso. Non solo i cazzi miei, a me già ben noti. Non per forza, sempre, soltanto, gli stessi cazzi miei! Siete artisti? Allora create! E che cazzo! –
– Alla fine si torna…-
– Non sempre il vicino di casa, e che palle, dai! Molteplicità, dico io. Poi non ci lamentiamo che nessuno legge libri. Per favore, siamo seri. –
– Adesso è colpa di chi scrive? –
– Hai visto come sono rassegnati? Tutti. Aldo ieri sera diceva, senza tremito nella voce, che non c’è differenza alcuna tra Berlusconi e D’Alema, tra potere e potere. Ti rendi conto? E io a dire, ma non è possibile, riflettete, vi sbagliate, siete vittime dello sconforto. Convinto invece l’Aldone nostro! E tutti gli altri con lui, con i tranci di pizza fredda in mano, a dire sì, è vero, non c’è differenza. Come pecore tristi. Che siete voi: scrittori? Beh, dategli la differenza, almeno; lo stupore, che gli si rivolti lo stomaco mentre mangiano la loro pizza. Dategli la scossa. –
– Aldo, diceva così? Non è possibile. –
– Giuro. Lui che ha mandato i figli alla Montessori. Aldone l’abbiamo perduto, ce lo siamo giocati. Non può, né vuole cambiare più nulla, lui. E non era neppure così triste, a pensarci meglio!-
– Dunque, sintesi: anche senza alcun talento, anche senza cappellini in testa, posso fare buona letteratura impegnandomi a raccontare vita vera e molteplice, possibilmente non la tua, per stupire lettori a iosa, comatosi e disillusi. Tu sì che sai come farmi stare serena. La scossa? E non devo pure scoprire il farmaco che sconfigga definitivamente il cancro??? Ma che boiate, facilissime boiate da barbiere. –
– Mica tanto. Magari viene fuori a sorpresa un’interconnessione tra letteratura e medicina; magari, che ne puoi sapere tu. Magari si scopre che c’è sempre stato un collegamento diretto tra l’elevarsi del livello di colesterolo nel sangue e la produzione di narrativa. Tra il leggere e lo scrivere buoni libri e la salute nazionale. Come fai ad escluderlo. –
– E se facessi tutto solo per me stessa, invece? Io scrivo per me e basta. E’ chiaro, non me ne frega niente. Per me e basta. Chi legge, legge. Conto solo io. Solo io. –
– Solo la tua salute? –
– Sì. –
– Come vuoi. Si diceva per dire, comunque. Stai calma. Allora: parti domani? –
– Domani? –
– Vai a visitare il mondo che devi raccontare; almeno spingiti fino al condominio giallo, quello alla fine della strada. Non dico altro. Fallo per te stessa, ma fallo altrove. –
– Ti ricordi quello che mi voleva pubblicare due anni fa? –
– Chi se lo scorda. Quello che curava una strana rivista tutta rossa; orca l’oca, rossa rossissima, con stampate in copertina quelle figure inquietanti con la testa mozzata? Quello? Ma come si chiamava? L’uomo che voleva pubblicare quel tuo lungo monologo su un tizio che aveva i baffi come me, la mia stessa auto, che faceva il mio stesso mestiere, che aveva sette anni meno di me ed era senza figli, proprio come me sette anni fa circa, e che, alla fine, si suicidava. Storia mozzafiato. Avvincente. Ah, sì! Veramente. Chinozzi si chiamava. Non aspettava altro da decenni quell’uomo. Immagino.–
– Sì, Chinozzi. –
– Chinozzi. –
– Era un monologo sul senso del ricordo. Sulla comprensione del tempo. Non era così male. Forse non te lo ricordi bene. Era una cosa seria. E’ stato importante incontrare Chinozzi. –
– Che culo pazzesco! –
– Certo! Gli incontri, in un mestiere come questo, sono importanti; stimolanti di certo. Non negare. È così pure nelle università, mi pare. Anzi peggio. Mica è sufficiente scrivere una cosa. Non ci si ferma mai a quello. Ci vuole il gruppo. Hai ragione tu. In passato erano i gruppi di intellettuali a fare la differenza. Anche il singolo adesso, però, forse…non so. –
– Mi stavi dissanguando. Tu e pure Chinozzi. –
– Era una ricerca. In qualche modo. Collettiva. –
– Allora partiamo. Pure noi, ricerchiamo. –
– Ma non ti piace l’uomo che descrivo? E’ questo? Non ti piace affatto. Ti fa paura la verità? Ho capito. Vabbè, basta dormiamo. Tanto. L’universo è pieno di bellezza e orrore. Alla fin fine, mi sembra troppo per me, che sono agli inizi. La ripetizione di un uomo solo è più facile, per ora. –
– Non credo affatto che sia più facile. Un uomo solo non è più facile. –
– Non so. –
– Racconta, per esempio, il tassista di Napoli che una settimana fa ci portava in giro con la nipotina di tre anni sul sedile davanti. Il nonno, i nipoti, i figli, il lavoro. Anche la colonia di marocchini che abitano di fronte. Si può raccontare. Quanti saranno: venti, trenta, quaranta persone in tutto. Tu sei in grado di quantificare? –
– Tanti in quella casa. Sembra un formicaio. –
– No. Appunto. Non è più facile il tassista, secondo me. –
– E ti piglia il tassista? –
– Mi piace; giuro che mi piace; pure troppo mi piace, l’uomo che descrivi tu. –
– Non sei tu, comunque, quell’uomo. –
– Come vuoi, non sono io. Menomale. E chi è allora? –
– Chi è? Un tipo. Uno come un altro. Uno dei tanti. –
– Scusa, sei tu l’autrice. Ohi, è tardissimo. Domani si lavora. –
– Sì. Però è un guaio. Si fa sempre tardi. Sul più bello. Hai visto? Il tempo per trasformare le cose non è mai abbastanza. –
– Studia i classici. Quello in tv lo consigliava ieri. Infatti. Sembrava sensato. Così guadagni tempo, secondo me. –
– E se non ne sarò mai capace? –
– Fa niente. –
– Niente? –
– Potrebbe essere al più un’insperata fortuna. Ti prometto: non dico nulla di tutte queste idee, né a tuo padre, né alla tua insegnate di lettere del liceo. Stai sicura. Non ti tradisco! –
– Ci conto. –
– Almeno questo! –
– Basta. Hai ragione: se voglio il tempo, ho bisogno di Proust. –
– Non l’avevi già letto? –
– Non ha fermentato, evidentemente. –
– Sei ossessionata, lo dicevo. –
– No, ho trentasette anni. L’età del mezzo. La più pericolosa, forse. –
– Anch’io. Embè? Non mi pare più pericolosa di altre, ad onor del vero. –
– Tu dici? –
– E poi non capisco, sono onesto, non capisco perché devi proprio ricorrere a me, per far carriera. –
– Perché la coppia è un mezzo di trasporto. –
– Trasporto? Tesi alquanto ardita. –
– Trasporto, trasporto. –
– Sì. –
– E poi non mi dispiacerebbe neppure far ridere. Un’altra strada possibile. Mi sentirei necessaria se facessi ridere. Tu, per esempio, sei ironico nelle tue cose, così, se parlo di te, divento inevitabilmente ironica anch’io. La mia ispirazione è simbiotica, parassitaria, che ci posso fare? Pesco in quello che amo, che mi è familiare. Faccio così male?–
– Io, Giulia, Anna Paola pure, la tua amica, quella che ti conosce da una vita, e pure suo marito, che ti conosce per narrazione, ridiamo tutti come pazzi. Fatto caso? No? guarda, senza dubbio: tu fai ridere. –
– Quindi non faccio così male? –
– Fatti un bel viaggio, senti a me. Non ti impigrire. –
– Dove? –
– Dove vuoi, purché non in uno specchio. –
– Se bastasse…dico io. –
– A te non basta mai nulla, se è per questo. –
– Spegni. E vieni qui. Qui,…no, qui. Se vuoi.–
– Che ti serva un’idea nuova? –
– O magari un personaggio. –
– Ah, non ti ho detto. Ho comprato un video gioco per playstation nuovo nuovo: trentanove euro. –
– Dio santo! Sei pazzo. Uhm… Hai messo la sveglia per domani? Ehi, l’hai messa? –
– Originale. –
– Mazzate? –
– Solo mazzate. Tecniche precise per sgozzare un uomo da dietro o mentre dorme. Tenebre. Assoluto, assoluto e bellissimo. Hai presente lo strazio di Rambo? Molto interessante secondo me. –
– Per uomini solitari. –
– Dormi serena. Dirigo altrove l’istinto, come posso. Verso altre ipotesi di letteratura postmoderna. –
– Giulia lo sa? –
– No. Nanna ora. Non glielo dire tu. Vedremo fra qualche anno. –
– No. Non dico niente. –
– Raccontare, raccontare… –
– Abbiamo bisogno del racconto, non si discute. –
– Meglio, non si discute. –
– Sonno? –
– Come siamo finiti a parlare di letteratura? Anche stasera? –
– Non mi ricordo più. –
– Boh! –
– …notte. –
– Comunque no. Proust, no, mia cara, non lo si può sottovalutare. –
– Notte. –

“I DIALOGHI DEL RISVEGLIO. Lentobus n.°2” è stato pubblicato su Musicaos.it, Anno 2, Numero 15, Marzo 2005

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“Giorni” di Pasquale Iannucci


“Giorni”
di Pasquale Iannucci

Sadìk era il mio spacciatore di fiducia. Lo chiamai e mi disse che ci saremmo visti nel tardo pomeriggio. Al solito posto. Guardai l’orologio. Le undici.
Non stavo bene per un cazzo. L’ultima pera me l’ero fatta la sera prima e iniziavo ad accusare i primi sintomi della scoppia.
Di solito starnutivo e gli occhi mi lacrimavano come due fontane.
Anche questa volta non andò diversamente.
Mi prese il panico e mi attaccai alla bottiglia del vino. Feci un sorso.
Una vaga sensazione di benessere mi si diffuse in tutto il corpo.
Svanì in fretta.
Continuai a bere camminando avanti e indietro per la stanza. Più bevevo e più la voglia di farmi aumentava. Presi i soldi dal cassetto e li contai. Venticinque euro.Per iniziare erano più che sufficienti. Li riposi e feci partire il lettore cd. «Violence Now», brutalizzata da GG Allin.
Mi accesi una sigaretta e mi affacciai alla finestra.
Abitavo al terzo piano di un palazzo in un vicolo del centro.
Di fronte a me case ammassate una sull’altra e antenne tv svettanti verso il cielo.
Un cielo terso. Di primavera.
Nel palazzo di fronte, attraverso una finestra aperta, vidi un uomo seduto nella sua cucina. Fumava e guardava il muro di fronte a sé. Sul tavolo, un posacenere pieno.
Lo vedevo tutti i giorni e tutti i giorni era la stessa immutata scena. In altre occasioni lo avrei ignorato. Ma ero ubriaco e in astinenza.
Provai una pena lancinante. Per lui e per me. Pensai alla vita e alla solitudine. La solitudine mi sembrava ingiusta. Non voglio restare solo, pensai. Poi smisi di pensare e mi venne il magone, avevo paura. Rientrai e ricominciai a bere. Volevo scacciare l’ansia. Alla fine, tutto, sarebbe svanito nel nulla. Come d’incanto.
Andai in camera, presi i soldi e li rincontai. Non erano aumentati.
L’orologio sosteneva che mancava un quarto alle dodici. Il vino era finito e il tardopomeriggio era ancora molto lontano.
L’ipotesi di andare a procurarmi la roba da un’altra parte era fuori discussione. Con la metro ci avrei messo troppo tempo e il mio stato era pessimo.
Non avevo nessuna voglia di sbattermi.
La vita del tossico era troppo frenetica. Fissai i soldi per qualche minuto. Poi decisi che avrei fatto un piccolo investimento. Birra o qualcosa di più forte. Dovevo ammazzare la giornata.
Misi le scarpe ed uscii. Fatta la prima rampa di scale mi venne un conato e la bocca mi si riempì di vino. Lo rimandai giù e continuai a scendere.
Cercai di combattere contro il vomito fino a quando mi resi conto che era impossibile. Dovevo sboccare. Be’, mi dissi, se proprio dev’essere, facciamo almeno che non sia qui.
Mi girai e ricominciai a salire. Ero a pezzi. Sentivo le gambe pesantissime e lo stomaco bruciarmi.
Dopo alcuni gradini inciampai e caddi carponi.
Un litro e mezzo di Barbera del Piemonte si riversò a fontana su me e i gradini. I singulti si susseguivano uno dietro l’altro senza sosta. Faticavo a respirare. Quand’ebbi finito non avevo più nemmeno la forza di rialzarmi. Mi aggrappai alla ringhiera e, dopo un po’ di vani tentativi, riuscii a rimettermi in piedi. Ripresi a salire. Ogni tanto qualche crampo mi costringeva a tappe forzate nelle quali cercavo di respirare a fondo e di trattenere lo sbocco.
Raggiunsi la porta. Entrai in casa e mi fiondai in bagno. Mi tolsi i vestiti e m’inginocchiai davanti al water.
Con l’ausilio delle dita della mano destra sondai il mio esofago fino a quando non mi svuotai del tutto.
Andai al lavandino e mi sciacquai la faccia. Allo specchio c’ero io. Mi guardai un po’. Facevo schifo. Le guance mi ricadevano mollemente e gli occhi erano ridotti a due fessurine arrossate. Non mi radevo da settimane e, a giudicare dall’odore che emanavo, non mi lavavo da altrettanti giorni. Provai a fare un conto e mi persi subito. Avevo toccato il fondo ma ero troppo esausto per pensarci.
Dovevo farmi.
Riprovai a chiamare Sadìk. Dall’altra parte, la signorina Telecom italia mobile mi pregava di richiamare più tardi. L’utente desiderato non era, al momento, raggiungibile.
Aveva spento il telefono, il bastardo.
Mi feci prendere dallo sconforto. Volevo morire. Volevo farmi. Volevo smettere di farmi. Volevo stare bene. Subito.
Mi ricordai che sotto il letto avevo imboscato una boccetta di Darkene. Andai a prenderla. Non era molto e non era la stessa cosa. Ma era meglio di niente.
Nel bidone dell’immondizia avevo buttato la mia unica insulina. La recuperai, la sciacquai velocemente e la riempii con il farmaco.
Trovai la vena e mi feci.
Una voragine di calore mi si aprì nello stomaco.
Il Darkene era un ipnotico. Non alleviava il dolore fisico. Semplicemente non mi ci faceva pensare. Mi sdraiai e cercai di rilassarmi. Inutilmente. Gli spasmi muscolari alle gambe non mi davano tregua. Mi alzai e cominciai a camminare su e giù. Riaccesi lo stereo. Andai in bagno, presi gli abiti sporchi di vino e li buttai in lavatrice.
Poi mi rivestii e considerai l’idea di andare a pulire le scale.
No, troppo faticoso.
Squillò il telefono.
-Pronto?
-Rà, sono io. Che fai?
Era Morgana.
-Sto di merda. Devo farmi.
-Ce l’hai il cash?
-Si.
-Chi c’è con te?
-Nessuno.
-Arrivo.
-Ok.
Riagganciai e mi accesi una sigaretta.
L’orologio segnava la una e mezza e il sole invadeva violentemente tutta la casa. Solo allora mi resi conto di quanto mi desse fastidio tutta quella luce.
Abbassai le tapparelle fino ad una penombra accettabile. Spensi lo stereo e mi misi davanti alla televisione.
Morgana arrivò mentre Lassie correva tutto felice e scodinzolante da Liz Taylor bambina.
Andai ad aprirle.
Quand’ero scoppiato ero sempre felice di vederla. Non c’era un motivo particolare. L’astinenza mi faceva perdere il controllo delle mie emozioni. Ero capace di passare dalla tristezza più nera alla gioia più assoluta nel giro di pochi minuti e poi di ricominciare daccapo. E di solito, in quei momenti di squilibrio, ero felice di vedere chiunque.
Lei entrò in casa senza dire una parola e si diresse in salone. Io la seguii.
Si mise una mano in tasca, ne cavò un involucro enorme e lo depose sul tavolo. Poi si girò e mi guardò sorridendo.
Le indicai il pacchetto.
-Non vorrai dirmi che…
-Sì- m’interruppe trionfante- è Roba!
-Porca Puttana!- esclamai.
Stentavo a crederci. Sul tavolo del mio salotto c’erano circa qualcosa come un paio d’etti d’eroina.
Ero salvo.
-E dove cazzo l’hai presa?- le chiesi.
-Tu- rispose- non preoccuparti. Ti vuoi fare o no?
-Si, si. Era così. Tanto per chiedere.
Allungò la mano destra, con il palmo rivolto verso l’alto e, sfregandosi il pollice e l’indice, mi fece capire che voleva i soldi.
La cosa mi diede fastidio. La conoscevo da una vita e non esisteva che le dovessi pagare la roba. Ma lei l’aveva e io n’avevo un disperato bisogno. Misi da parte l’orgoglio e andai a prenderglieli.
Nel cassetto avevo venti, in tasca un pezzo da cinque. Dieci li presi e dieci li nascosi tra le mutande. Almeno lo sconto, pensai, me lo deve fare.
Tornai in salotto. Morgana aveva tolto la stagnola alla roba e stava scaldando. Guardai ancora una volta tutta quella droga.
Non riuscivo a capacitarmi.
Era un sasso enorme, compatto. Dal colore dedussi che doveva essere buona. Poi mi rivolsi alla mia amica e le chiesi se, per caso, non avesse voluto pesarla.
-Sai, – aggiunsi,- ho il bilancino.
Mi disse di andarlo a prendere. Quando tornai, la mia insulina mi aspettava già carica e Morgana sclerava perché non trovava un canale aperto.
Le guardai le braccia. Non aveva una vena intatta. Provai pena, per le sue vene.
L’avevo conosciuta parecchi anni prima e il ricordarla in condizioni migliori mi rendeva tutto insopportabile. Avrei svuotato la spada. Le avrei detto di mollare tutto e di ricominciare da un’altra parte.
Solo io e lei.
Appoggiai il bilancino sul tavolo. Presi la siringa e, in piedi e senza stringermi, me la piantai nel braccio. Mi presi subito.
Il primo fiotto di sangue che entrò nella spada mi diede le vertigini. Spinsi in dentro lo stantuffo.
Vago sapore d’acetone in gola.
L’ultima cosa che vidi fu Morgana che sciacquava l’insulina in un bicchiere.
Quando mi svegliai, un faccione enorme mi stava chiamando per nome.
Ero morto e quello era il mio angelo custode. Vestito di bianco con l’aureola e tutto il resto.
Girai gli occhi a destra e a sinistra e notai che dal mio avambraccio sinistro partiva un tubicino. All’estremità del tubicino, una flebo.
Non ero morto. Ero in ospedale e quello non era il mio angelo ma solo un infermiere.
Mi sentii sollevato. Non ero ancora pronto per il giudizio finale.
Intanto, quello continuava a ripetere il mio nome e a darmi dei leggeri schiaffetti sulle guance.
Raccolsi le poche forze che avevo.
-La vuoi smettere?- rantolai, mentre con la mano destra gli tiravo un lembo del camice.
Lui mi guardò un attimo, fece un passo indietro e, senza dir nulla se n’andò.
Provai ad alzarmi ma non ce la feci. Chiusi gli occhi.
Avevo sonno, volevo dormire.
-Non dormire! Non dormire, mi hai capito?
Era ancora lui. Mi stava scuotendo.
-Si- biascicai – ho capito.
Andò via. Richiusi gli occhi. Mi vennero in mente cose stranissime. Cose, alle quali non pensavo da anni.
Amici d’infanzia. La mia prima ragazza. I quattro cani che avevo a sei anni. Mio nonno.
Nel frattempo mi giungevano i suoni confusi del pronto soccorso. Un medico che s’incazzava per qualcosa. Sirene d’ambulanze e il pianto di una donna. Qualcuno era appena morto.
Tutto, mi arrivava ovattato e sordo. Una sensazione di benessere che non avevo mai conosciuto. Mi stavo lasciando andare. Il mio corpo e la mia mente precipitavano piano verso un nonluogo senza più suoni né colori. La catarsi. E non sarei più tornato indietro. Mai più.
Un violento scrollone mi riportò alla realtà.
-Ma insomma, hai capito o no che non devi dormire?
Questa volta era una donna.
-Quando me ne posso andare?
-Quando starai meglio, quando finirà la flebo. Sta’ tranquillo e cerca di restare sveglio. Chiaro?
Non le risposi e lei si dileguò in un’altra stanza.
Passò del tempo. Tempo in cui rimasi sospeso tra la veglia e il sonno. Ogni tanto qualcuno veniva ad assicurarsi che fossi vivo.
Poi mi stancai. Mi tolsi l’ago dal braccio, mi alzai in piedi e, barcollando, provai a guadagnarmi l’uscita.
A metà corridoio fui intercettato dalla solita infermiera.
-Ma dico!- sbottò- è impazzito? Perché si è tolto la flebo? Mi aspetti qua. Si segga.Vado a chiamare il medico.
Mi prese per un braccio, mi fece sedere su di una sedia a rotelle e se n’andò borbottando. Io non opposi la minima resistenza. Ero troppo stanco per farlo e volevo solo andarmene a casa.
Qualche minuto dopo, la sentii ciabattare un’altra volta verso di me. Al suo fianco, un uomo.
-Perché ti sei tolto la flebo?- mi chiese lui.
-Perché me ne vado- risposi io.
Mi accorsi che perdevo sangue dal braccio. Istintivamente me lo portai alle labbra e succhiai.
-Ma no- urlò l’infermiera- che fai? Aspetta che ti disinfetto.
Sparì in una stanza e riapparve subito dopo con un flacone di disinfettante e dell’ovatta.
Mi prese dolcemente il braccio. La lasciai fare.
– Sei sicuro?- mi stava dicendo lui nel frattempo- è meglio se resti qui ancora un po’.
-Quanto?
-Almeno un’oretta- intervenne lei. Poi cercò con gli occhi l’approvazione del medico.
-Già. Ha ragione.
Scossi il capo: – No, non se ne parla nemmeno. Io me ne vado adesso.
-Ma, si può almeno sapere che hai combinato? Sei tossicodipendente?
-Tu che dici?- chiusi gli occhi.
– Dico che dovresti farti aiutare. Ti abbiamo preso per un soffio. A proposito, per precauzione ti abbiamo fatto una lavanda gastrica. Potresti rimettere per un po’ di tempo.
-Va bene. Adesso mi dai quel cazzo di foglio così lo firmo e me ne vado?- riaprii gli occhi.
Tre infermieri si erano radunati attorno alla mia sedia e mi guardavano.
– Cazzo volete? Andate tutti affanculo.
Tentai di mostrare il terzo dito della mano destra ma il braccio mi ricadde mollemente sulle gambe.
I tre se ne andarono.
L’infermiera se n’andò.
Il medico, pure. Tornò con il foglio di dimissioni.
-Se ti senti male cerca di tornare subito qui.
Ci credeva davvero. La mia sorte gli stava a cuore.
Per un attimo pensai di dargli retta e di fare come diceva ma scartai immediatamente l’idea.
Dovevo andare.
Scarabocchiai il foglio, mi rimisi in piedi ed uscii.
L’aria della sera era fresca. Dal traffico ipotizzai che fossero intorno alle sei del pomeriggio.
Incrociai una ragazza e le chiesi le ore.
M’ignorò.
Dopo qualche metro, vomitai. Copiosamente. Era praticamente acqua, solo che di colore nero.
La lavanda gastrica.
Probabilmente la mia amica, per pararmi il culo, aveva raccontato la storia degli psicofarmaci.
Lo facevamo spesso. Se uno di noi collassava, dicevamo che aveva bevuto sui farmaci. Era per evitare il Narcan.
E gli sbirri.
Non sapevo se mi avevano fatto il Narcan. Non era importante. A parte la nausea, stavo bene.
Finii di vomitare e mi rimisi in cammino.
Frugai nelle tasche alla ricerca delle sigarette. Le trovai e ne accesi una.
Cercai ancora e trovai le chiavi di casa. M’imboscai dietro un albero e vomitai nuovamente.
Un quarto d’ora più tardi ero davanti alla porta della mia dimora. Entrai. Era deserta.
Sul tavolo, al posto della roba, c’era una busta. L’aprii.
Un foglio a quadretti, ripiegato in due, asseriva di volermi bene e di essere molto preoccupata per me. Diceva anche di guardare nel fondo della busta.
In una stagnola, un po’ di eroina.
Il bilancino era sparito. Evidentemente Morgana aveva ritenuto opportuno portarselo via. Forse aveva pensato che a me non sarebbe più servito.
Mi chiusi in bagno e, mentre aspettavo che si riempisse la vasca, mi feci una pera.
Per il giorno dopo ne misi da parte un po’.
Un rivolo di sangue mi scorse lungo tutto l’avambraccio. Qualche goccia cadde sul pavimento.
Pensai a Franco, che un giorno era sparito nel nulla. Un amico d’infanzia, come tanti. Eravamo cresciuti insieme. Avevamo rubato insieme. Per lo più negli ospedali, ai malati.
Per un po’ di tempo avevo pensato che se n’era andato. Parlava sempre del Sudamerica e di come avrebbe svoltato facendo business laggiù.
Me lo immaginavo ingrassato, sotto una palma, a farsi sciacquare le palle da un mare tropicale trafficando e bevendo rhum.
Lo speravo veramente.
Invece, lo ritrovarono in un fosso un mese dopo.
Dissero che era morto di overdose e che era tutto gonfio. I topi gli avevano divorato la faccia.
La madre lo riconobbe dall’orologio. Stop. Fine.
Addio, Franco.
Non pensavo mai alla morte. Non mi sembrava vero che potesse accadere. O almeno, non così.
Dovevo smettere.
Diazepam. Clonidina cloridrato. Flunitrazepam. Bromazepam. Tramadolo cloridrato. Fenobarbitale. Naprossene sodico. Brunorfina. Codeina fosfato. Efedrina. Metadone…
Il problema non era il dolore fisico. A quello potevi anche non pensarci o comunque, un rimedio lo trovavi.
Il problema non era durante, ma dopo. Era dopo che ti toccava fare i conti con la realtà.
Dopo, c’era la monotonia di giorni che ormai erano divenuti troppo vuoti. Dopo, c’era la solitudine. La paura.
Dopo, c’erano gli happy hours e i telefonini cellulari. C’erano le serate e i locali dove puntualmente ti rimbalzavano perché non eri adeguatamente abbigliato.
C’era una spossatezza, una nonvoglia, un vuoto esistenziale che afferravi a malapena ma che ti travolgeva. Lentamente. Inesorabilmente.
Giorno dopo giorno.
Eppoi, i consigli degli amici. Quelli sensibili e politicamente corretti, dispiaciuti e comprensivi della tua sfortuna e debolezza.
E quelli per i quali eri quasi una merda e, l’unica cosa che riuscivano a dirti era di tirare fuori le palle.
-Grinta. Nella vita, ci vuole grinta!
E tu, magari, avresti voluto dirglielo che ti sentivi solo e pazzo eccetera eccetera.
Ma non lo facevi. La solitudine non era trendy.
Così, un bel giorno, strafatto di Ketamina ti dicevi: -Be’, vaffanculo, perché no?
E senza sapere come ti ritrovavi in piazza e lì i giochi erano fatti. Punto e a capo.
Però dovevo farlo.
Vasca da bagno. Acqua bollente. Sera che incalza dai vetri appannati.
Com’era?
(Ogni piacere vuole eternità. Vuole profonda, profonda eternità.)
Stavo bene a mollo. Mi sentivo al sicuro, protetto.
Scoreggiai. Mi piaceva scoreggiare in acqua. Mi piacevano le bollicine, le trovavo interessanti.
Si, si, avrei smesso di farmi. Pochi giorni di sofferenza. Al massimo una settimana.
Questa volta sentivo che era la volta buona.
Avrei dato una svolta decisiva alla mia vita. Mi sarei fatto il bidè tutti i giorni e avrei cercato i vecchi amici.
Un lavoro, una casa, una ragazza. I colloqui settimanali con lo psicologo del Sert.
Avrei rigato dritto.
Uscii dalla vasca, mi asciugai, mi misi il pigiama e andai a dormire. Considerai per un attimo di masturbarmi.
No, troppo faticoso.
A metà nottata mi sparai il resto della roba.
Il giorno dopo oziai nel letto a lungo. Poi mi alzai e feci colazione. Guardai l’orologio: mezzogiorno.
Freddi brividi da rettile lungo la schiena. Mi accesi una sigaretta. Era una giornata limpida e ventosa. Il sole, risplendeva su tutto.
Sadìk era il mio spacciatore di fiducia. Presi i soldi dal cassetto e li contai. Una decata. Pochi, troppo pochi. Frugai in giro per casa e trovai un braccialetto d’oro e un altro pezzo da dieci. Potevano bastare.
Lo chiamai e mi disse che, se volevo, potevo raggiungerlo subito. Era al bar.
(Ma non dovevi smettere?).
Domani, un altro giorno, non so…
Mi fiondai per le scale.

FINE

“Giorni” di Pasquale Iannucci
è stato pubblicato su Musicaos.it, Anno 2, Numero 17, Maggio 2005

i numeri di Musicaos.it dal 2004 al 2007 sono disponibili qui

A che ora è la fine del mondo. Su “L’inizio delle trasmissioni?” di Massimiliano Manieri.


Il secondo personaggio delle performance di Massimiliano Manieri che vado ad affrontare con questa mia disamina di scorribande inattualissime sulle sue opere è un nuovo antropomorfo. L’ennesimo bozzolo, involucro, uomo sottratto alla comunicazione che deve averci a che fare – con la comunicazione stessa – per quel principio artistico insito nelle performance di Manieri, quello per cui il culmine della comunicazione è affidato al tutto-che-circonda, alla scena, al ‘mutante’ immutabile, fissato una volta per tutte in un luogo preciso. Il punto di partenza scelto dall’autore per questa performance mi sta molto a cuore, essendo parte centrale di alcune riflessioni letterarie aperiodiche sul concetto del futuribile, della non-(eu)topia e del presente che sorpassa di gran lunga ogni aspettativa negativa; parliamo di George Orwell, e del meraviglioso capolavoro intitolato 1984.

Orwell è probabilmente uno degli scrittori inglesi più radicali del secolo scorso. Difficilmente si può uscire dalla considerazione delle utopie negative senza una sensazione di disagio; ecco, il disagio è creato dal fatto che i motivi di fondo di 1984 non possono essere ‘suonati’ in altre salse o con esiti differenti da quelli di quest’opera. Il suo “Animal farm” è una metafora che descrive i danni del totalitarismo, non si scappa. Così come “1984” descrive il terrore di un’epoca che vive senza storia, nella consapevolezza che il lavaggio del cervello incomincia dove incomincia un’azione di dominio del linguaggio. George Orwell non si può edulcorare, ecco la lezione. Ci hanno provato in salsa editoriale, non so con quali esiti, quando pubblicarono una ristampa negli Oscar Mondadori del capolavoro orwelliano, mettendoci anche la fascetta, “il romanzo che ha ispirato il Grande Fratello”. Funzionò così bene che adesso la copertina della nuova edizione riporta fedelmente la copertina dell’edizione originale attualmente in vendita presso l’editore Penguin. Da vedere il bellissimo film tratto dal capolavoro orwelliano, “Nineteen Eighty-Four”, di Michael Radford, con la colonna sonora degli Eurythmics.

Non ci dispiace molto affermare che se George Orwell e Massimiliano Manieri si fossero incontrati nella casa del GF di Mediaset, dopo avere sterminato tutti i concorrenti (immagino Max Manieri che fa il braccio armato di colt e Orwell la mente che indica chi colpire e in che ordine) si sarebbero seduti a consumare un sigaro discutendo di arte, dittature e scrittura. Un Grande Fratello che diventa un Grand Guignol, come direbbe Arbasino, “che carriera!”. Massimiliano Manieri con questa performance ci restituisce il Grande Fratello orwelliano così come deve essere, con tutta l’angoscia, il senso di impotenza, l’ineluttabilità della nostra vita catodica. Segnali di questa comunicazione a senso unico e elementi disturbativi sono la corona di spine posta in testa all’umanoide i cui sensi sono occlusi e il cui corpo è bendato dal nastro isolante. Dall’ombelico fuoriescono i cavi che gli permettono di alimentarsi di notizie e cibo eventuale. L’uomo è quindi ridotto allo stadio di vegetale che assorbe tutto ciò che gli serve, ovvero sia gli stimoli visivo/sonori, dai quattro schermi che lo circondano.

Se con “Plink (…L’uomo caduto in cattive acque)” l’artista rappresentava la casualità della caduta sulla terra sotto forma di giustizia suprema inflitta dal caso, sottoforma di lancia che trafigge il ‘marziano’ al suo arrivo, qui ci troviamo di fronte a uno stadio avanzato in cui non c’è discussione, non c’è approvvigionamento idrico di quell’acqua chiamata dibattito, o idea, o scambio con l’altro. Qui lo scambio, al massimo, può venire dall’affondare un’antenna nella terra brulla, in attesa di suggere qualche goccia di pioggia caduta. Nella serie di performance di Manieri questo è forse l’atto di denuncia più consapevole e allo stesso tempo rassegnato nei confronti del ruolo della civiltà di a-comunicazione di massa nella quale l’uomo, quando ha a che fare con l’industria culturale, la televisione, internet, è concepito come semplice punto terminale/scarico di immondizia, del reale.

Luciano Pagano

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[foto di Dario Manco]

mostra SENSAKTION: L’INIZIO DELLE TRASMISSIONI [installazione performativa], Massimiliano Manieri, (Primo Piano LivinGallery, Lecce – giugno 2009)

“INIZIO DELLE TRASMISSIONI?”
(libera rilettura delle teorie retrò/futuriste orwelliane)

È pronto per trasmettere?
Si, è stato adeguatamente “educato”…
Possiamo cominciare,
Silenzio in sala…!!!

«Siamo impegnati in un gioco in cui non possiamo vincere. Alcuni fallimenti sono migliori di altri, questo è tutto.»
(1984 – George Orwell)

CONCEPT
Dovranno sotterrare tutte le dita possibili, per ridurre un uomo ad un elemento passivamente fagocitante.
Dovranno succhiargli ogni linfa per suggerirgli che non c’era altra utopia possibile.
Dovranno imprigionarlo, rincoglionirlo, dovranno togliergli ogni riferimento reale per strozzargli in gola l’ultimo suono libero.
Dovranno intirizzirgli i muscoli del sorriso, ghiacciargli la mascella dei lamenti, svuotargli i serbatoi lacrimacei per ridurlo ad un guscio secco utile a loro.
Eppure penso che anche quando avranno fatto tutto questo, un briciolo di umanità resterà dentro, e sarà sufficiente a riaccendere la miccia del “giuoco” che si ripappa il “soggiogo”…

Ma allora perché ora mi sento così minacciato..??? …ed è così vicino…

Massimiliano Manieri

http://www.articoweb.it/2009/05/31/sansaktions-lecce-primo-piano-livingallery-fino-al-17609/

http://www.giapponeinitalia.org/evento.php?eventId=41

http://www.fotolog.com/davizeen/49069163

http://www.undo.net/cgi-bin/undo/pressrelease/pressrelease.pl?id=1243607382&day=1243720800

http://arteinvendita.blogspot.com/2009_05_01_archive.html

“Nessun futuro” (Casini Editore) di Luigi Milani. Da oggi in libreria.


In libreria dal 31 gennaio Nessun futuro (Casini Editore 2010), il nuovo libro di Luigi Milani, un thriller con venature sovrannaturali ambientato nel mondo del rock.

Il libro

Nessun futuro è un romanzo a cui la categoria di romanzo va stretta. Potremmo chiamarlo romanzo/backstage, visto che descrive una storia che si svolge negli ultimi mesi del 2001 ma in cui magicamente si affaccia mezza storia del rock, dai Beatles al fantasma di Jim Morrison alla urban legend della “finta morte” di certe rock star, da Paul McCartney a Elvis a Michael Jackson, o proprio a Phil Summers, il protagonista “sotterraneo” del libro. Ma in realtà Nessun futuro sfugge a qualsiasi classificazione: come il vero rock, in fondo. E come il vero rock, ci trascina con sé e ci trasporta nel suo mondo. Lo fa attraverso l’io narrante, Kathy Lexmark, giornalista televisiva ultratrentenne, con un divorzio alle spalle e un futuro professionale quanto mai problematico. E lo fa lasciando aleggiare sempre sullo sfondo la sensazione che stia per succedere qualcosa, e poi qualcos’altro, e poi ancora qualcos’altro, in un crescendo vorticoso di suspense e adrenalina.

Il volume contiene un codice che, inserito nell’apposita
http://www.casinieditore.com/ fornisce l’accesso a numerosi “extra”.

Il fan trailer:

L’autore

Luigi Milani, giornalista, traduttore e editor, ha pubblicato racconti per Giulio Perrone Editore, Akkuaria Edizioni e su alcune riviste letterarie. È uno dei soci fondatori della casa editrice Edizioni XII. Ha curato le edizioni italiane degli ultimi due libri di Jasmina Tesanovic, Processo agli Scorpioni (Edizioni XII – Stampa Alternativa 2008/2009) e Nefertiti (Stampa Alternativa) e le versioni italiane di alcuni racconti di Bruce Sterling (40k eBooks). Nel 2010 ha pubblicato La torre, un racconto horror d’ambientazione medievale, inserito nell’antologia di racconti Bassa Marea (Historica Edizioni) e il suo primo romanzo Ci sono stati dei disordini (Arduino Sacco Editore)

“Hanno amore” (Perdisa Pop) di Gianluca Chierici


“Camminando attraverso il prato percepivo le sensazioni della mia infanzia. le preghiere di mia madre e la palla che rimbalzava monotona contro le pareti della casa. Mio padre che spaccava la legna nel capanno e i tuoni che facevano tremare il pavimento della mia stanza. Come due ladri arrivammo di fronte alla porta d’ingresso. Una nube, sopra la casa, aveva chiuso la luna fuori dalla notte.  ”

Il destino di due bambini è segnato da un mistero spaventoso. Qualcosa li lega a un luogo abitato da presenze oscure: un bosco dove la luce della luna danza con il fuoco e con le ombre. Il loro incontro da piccoli è l’inizio di un continuo sfiorarsi, nel corso degli anni, all’interno dei sogni. Per loro due, la realtà si mescola alla memoria fino a confondere. Per loro due, l’idea dell’amore come salvezza dovrà inevitabilmente scontrarsi con la morte.

Gianluca Chierici è nato nel 1977 a Milano. Ha pubblicato: Il libro del mattino (Acquaviva, 2005); L’eterno ritorno (Sentieri Meridiani, 2007, Premio Castelpagano); La madre delle bambole (Tracce, 2008, Premio Fondazione Caripe); Il nome del confine (Joker, 2009); La stirpe del mare (L’arcolaio, 2010). È autore del cortometraggio L’ultimo compleanno di Venere, pubblicato in Sguardi Inquieti (Barbieri, 2003). Ha scritto e diretto per il cinema la trilogia di lungometraggi La crudeltà dell’angelo; Dannati; La chiave dei grandi misteri. È tra i fondatori dell’avanguardia video ManyHands Entertainment.

“Hanno amore” – Gianluca Chierici
Prezzo euro 10,00 Pagine 128
Isbn 978-88-8372-498-5

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“Sirene” – di Luisa Ruggio da “dentro Luisa”

in evidenza: Vito Russo – Tra la palpebra e l’occhio (Lietocolle)

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“Sirene” di Luisa Ruggio


SIRENE
Luisa Ruggio

“Io osservavo, ascoltavo accantonavo per le ore quiete da passare in cucina, quando Selma mi avrebbe detto, come mi disse: – Raccontami di quel posto, ma cose vere, non bugie. Ma furono quasi tutte bugie le cose che dissi: perche’ era come se fossi stato in uno di quei castelli incantati, una volta fuori di la’, non si ricorda, tutto cio’ che rimane e’ l’eco spettrale di una meraviglia che non da’ tregua.”
(Truman Capote, “I cani abbaiano”)

 

A notte fonda, il ragazzo e’ di la’ a calcolare la distanza tra San Francisco e New York su una mappa elettronica. Sono circa duemila chilometri e lui dice che dobbiamo essere pronti a percorrerli da un momento all’altro.

New York puo’ ancora ferirlo ma San Francisco e’ un albore verde filtrato da una tenda, un neon che illumina l’interno della stanza in cui Kim Novak appare a James Stewart – con quel completo grigio, i capelli ossigenati e raccolti, le sopracciglia ben disegnate – ne La donna che visse due volte. Vertigo, nel titolo originale. Hitchcock, quel perfezionista.

Sua moglie era la sua editor piu’ attenta a quanto pare, dopo le proiezioni private per gli amici intimi e prima di ogni distribuzione, diceva la sua e tutti smettevano di ridere, di colpo. Fu la signora infatti – silenziosa al centro dell’entusiasmo generale – a far notare a suo marito che durante una sequenza chiave di Psyco, l’attrice deglutiva dopo essere stata uccisa.

Ha ragione Stephen King quando, nella prefazione a un suo libro sulla scrittura, puntualizza: Scrivere e’ umano, editare e’ divino. Credo sia per questo motivo che un’ironica mezzoinglese sforna-bestsellers ha dettato il suo ultimo romanzo a una segretaria scialba, confidando nei prodigi postumi del suo editor italiano.

(l’innocente dattilografa)

Non riesco a immaginare un piacere sprecato peggiore del dover dettare un romanzo. A costringerla, in quel caso, era un nervo della mano. Doveva raggirare l’ostacolo e aveva gia’ incassato l’anticipo.

Eravamo nel suo salotto londinese – tra orchidee bianche e riedizioni in tutte le lingue possibili dei suoi libri – la prima volta che l’ho ascoltata parlare del suo editor mentre – con lo stesso candore pratico di chi ti spiega per la prima volta come usare una lavatrice – consigliava l’asportazione delle ovaia per evitare inutili deconcentrazioni: “Hai ancora le ovaia, mia cara? Fattele togliere subito, sono solo una seccatura per gli scrittori.”

Ci credeva veramente? Non ha importanza. Si divertiva a recitare una parte, trovavo divertente il cinismo col quale si sventagliava con calma.
Poi mi disse di questo ragazzone che resta dietro le pagine degli altri pur avendo il merito di farle funzionare fino in fondo, olio anche per i meccanismi piu’ complessi.
Mi fa pensare alla doppiatrice italiana che per tutta la vita ha prestato la voce a Marilyn Monroe.

Si chiamava Rosetta Calavetta, la sua scia e’ una lunga traccia audio. Fu anche la voce della Novak, di Biancaneve e una lista piena zeppa di mitologia cinematografica.
Al suo arrivo nella sala di doppiaggio, ripeteva un rituale: indossava guanti bianchi e puliva le cuffie con l’alcol preso da una boccettina che si portava nella borsetta.

(Rosetta Calavetta)

Lo racconto’ l’attore Elio Pandolfi all’autrice televisiva Valeria Paniccia durante una visita nel cimitero monumentale di Roma, il Verano, dove la doppiatrice e’ sepolta. Una piccola fotografia in bianco e nero incornicia i tratti salienti del suo viso, minuto come un ninnolo incastrato in un fermacarte di vetro, del tipo che Colette collezionava.

Si e’ sempre detto e sentito che i doppiatori italiani sono i piu’ bravi del mondo, ci si fa caso quando muoiono e le loro voci vengono sostituite. Quando e’ morto Oreste Lionello, per esempio, il doppiatore storico di Woody Allen, il regista statunitense constato’: Con la sua voce mi ha reso un attore migliore.
A volte mi domando se non succeda la stessa cosa con i personaggi dei libri, a volte lo so, altre volte puo’ essere un rischio.

(Oreste Lionello)

Percio’, quando finisco di leggere un libro in cui la voce dello scrittore non doppia mai, nemmeno una volta, i suoi personaggi – lasciandoli liberi di essere mediocri e crudeli, provinciali e feroci, grezzi come un colore locale e veri come un’illusione – mi commuovo.
Fa parte del mio modo di stare al mondo questo improvviso affetto che mi prende mentre non rispondo al citofono, non accendo i telefoni, non apro la posta che si accumula e quasi smetto di parlare.

Tra le seccature del dover tirare le cuoia (mi fa sempre sghignazzare questo modo di dire da film anni ’40), “prima o poi” – come dice, lavandosi le mani, quel sadico vagamente somigliante a Sean Connery che e’ il mio ginecologo – c’e’ sicuramente il termine delle letture possibili. A meno che, come scrisse – nel suo diario, mi pare – Virginia Woolf: “Il paradiso e’ un infinito leggere“. Magari.

(Marilyn Monroe legge)

Questo pensiero se srotolato sembra lungo ma in realta’ dura un istante, e mentre leggo Capote, a notte fonda, il ragazzo sta ancora considerando la distanza tra New York e San Francisco, e’ ancora rapito dal Teatro di Figura di Bruno Pilz; siamo andati a vederlo esibirsi per due spettatori alla volta qualche sera fa, il suo spettacolo, Lacrimosa, e’ una specie di incanto cupo.

Continuo a leggere Truman Capote, che e’ cosi’, come l’effetto che fa, mi fa smettere di parlare, lo leggo mentre passano le ore e sento scivolare nella mente vagonate di idee multiformi, che lampeggiano e svoltano, nelle pieghe galattiche della mia immaginazione.

(Truman Capote)

Suppongo derivi anche dal fatto di capire profondamente quel suo sostenere per primo che il reportage puo’ essere un’arte raffinata “e nobile quanto qualsiasi altra forma di prosa“. Mi interessa il modo in cui riusci’ a trasformare, tenendo a mente intere conversazioni e senza l’uso di fastidiosi registratori o block-notes, il livello piu’ basso del giornalismo, ovvero l’intervista, in modelli perfetti come Il duca nel suo dominio, il ritratto di Marlon Brando.

Doveva essere uno stronzo irresistibile Truman, il tipo che finisci col cercare sempre per primo, capace di trasformare una conversazione origliata in un’opera d’arte.

Sei anni a sgobbare su un romanzo, senza la smania di pubblicare – mi vien voglia di abbracciarlo, di prendermi delle confidenze insomma – che lavoro, una cosa meravigliosa, e’ sempre duro, non c’e’ flemma. L’altro giorno, me ne stavo dietro le quinte di un antico teatro di provincia con un amico poeta, Pierluigi Mele, parlando di lui e di altri americani.

Da li’ a poco ci saremmo fatti strada, nel buio fitto del dietro le quinte – quando l’occhio di bue illumina il centro del sipario chiuso – per entrare in scena e introdurre il suo reading poetico.

(Pierluigi Mele)

Faceva freddo e Pierluigi non voleva togliersi la giacca, temperava la sua ironia sfottendo le ballerine che si riscaldavano coi loro esercizi nel favo di luce dei camerini, “attenta bella mia, cosi’ ti viene la sciatica!”, il libro che stavamo per presentare e’ profondo venticinque anni.

Venticinque anni di poesie come pesci presi in una rete e sgusciati via da un buco sul fondo, condensati nella mia preferita che a un certo punto fa cosi’: “… Lingua per nove natali/glossa ja’ ennea Kristu/ nove pasque le strofe/ennea Paskata es tiritere/nove mele d’addio/ennea mila sti kalin ora/nove veli la sorte/ennea veli i sorta/nove letti la luna/ennea krovattia ‘o fengo/nove orci di fichi/ennea kifinizzi afse’ sika/nove mandorle in dote/ennea mendule ja’ rucho/nove anelli di pane/ennea dattilidia afse’ fsomi’/nove gonne sfilate/ennea fustianu spammenu/lega un’alfa ai capelli/ denni mian alfa ta maddhia.

(le correzioni di Bob Dylan)

Mentre lui la leggeva, quella sera, pensavo a un personaggio ancora segreto, uscito dalla penna di Patrizia Caffiero per un testo che stiamo scrivendo a quattro mani. Ero andata a sedermi accanto a lei dopo aver introdotto la performance, sentivo Patrizia fare eco alla voce di Pierluigi, nove anelli di pane, sentivo rotolare come un cerchio d’oro la sua risata piccola, ridanciana.

In scena, mentre il poeta attore leggeva, con la sua bella voce arcobaleno, una ragazza bellissima danzava il suo assolo rovesciandosi i capelli neri nelle mani, allora Patrizia mi sussurrava all’orecchio: “Ecco, vedi? Quella e’ la sua proiezione”. Con la sua bellezza di moneta d’argento nella polvere, la danzatrice stava doppiando i versi, era un tradurre in sincrono, un mischio di mestieri.

(Bruno Pilz, mago e burattinaio)

Ho provato a non somigliarti e’ il titolo che raccoglie le poesie di Mele, lui ha superato i quaranta con la sua mimica irresistibile. Il teatro era pieno ed io non riuscivo a non pensare che in sala c’era, tra i pochi altri narratori e poeti viventi che posso dire di rispettare, Giuliana Coppola. Corti capelli bianchi, voce di mollica calda.

Mi venne in mente la volta in cui, durante un tragitto serale in automobile verso qualche presentazione, mi racconto’ di Maria Corti, che voleva essere portata nei luoghi segreti del confine di cui non si sentiva solo ospite. Credo di aver provato qualcosa di simile girovagando in Lucania, dentro una vegetazione fitta che mi arrivava ai fianchi, nei giorni in cui mi faceva da guida un’esile ninfa superba e liquida di vita.

Mentre Pierluigi leggeva le sue poesie, mi rendevo conto di quante scialuppe avesse lanciato alle parole nel corso degli anni, di quante finestre avesse scavato nel muro. Quel suo fare del linguaggio un’architettura e, da uomo di teatro, scipparti da dentro le emozioni.

Mi aveva colpito cio’ che aveva detto del suo editore, Cosimo Lupo, un omino impavido, felicemente assurdo, “l’unico capace di vendersi un furgoncino pur di consentire a un libro di poesia di nascere”. Del resto e’ stato il primo, che io ricordi, a credere in Fanculo pensiero, il romanzo d’esordio di Maksim Cristan, poi giunto alla corte di Feltrinelli.

(Maksim Cristan)

Ricordo ancora il giorno in cui invitai Maksim in redazione per un’intervista, non erano lontani i tempi del suo banchetto vendita improvvisato con una cassetta della frutta, la tovaglia presa in prestito da una chiromante, l’angolo di luce scavato ai bordi di una vetrina di libreria luminosa dove poi sarebbe entrato da protagonista.

Mi precipitai giu’ per le scale e lui disse, con tenerezza: “Piano Luisa, piano. Non correre cosi’ solo perche’ sono povero”. E comunque non solo gli artisti sono uno scherzo di natura, lo sono anche quelli che gli fanno avere carta sufficiente per farsi ascoltare fino alla fila piu’ lontana possibile. Me ne rendo conto ogni volta che sono costretta a ordinare un libro che non trovo subito sugli scaffali delle librerie, le ragioni possono essere le piu’ svariate.

(Maria Corti)

Il tempo e’ un buon lettore, meno superficiale di tutti gli altri, e spesso ripesca dei titoli dall’oblio, e’ il caso di Goliarda Sapienza e del suo L’arte della gioia. E’ il caso, a meta’, di Vittorio Bodini e penso, a proposito di doppiatori, alla sua traduzione del Don Chisciotte di Cervantes per i Millenni Einaudi.

Qualche settimana fa, raccontavo in una mail alla scrittrice e traduttrice Clara Nubile – bloccata dalla neve ad Anversa – della mattina in cui ho assistito alla cerimonia raccolta nel cimitero di Lecce, dove i resti del poeta e ispanista sono tornati, dopo un lungo esilio pieno di amore e odio per il Sud che osservava e raccontava.

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Conoscevo molte delle persone presenti, Livio Muci, che da anni e’ il mio editore e che riedita da un pezzo l’opera bodiniana, lo scultore Ugo Malecore che ha firmato il bassorilievo in terracotta, sotto i lineamenti di Bodini le sue parole tratte da La luna dei Borboni: Tu non conosci il Sud, le case di calce/da cui uscivamo al sole come numeri/dalla faccia di un dado.

Quel sud del mondo che Clara conosce e che ha riempito di viaggi e di distanze, nella sua ultima mail mi avvisa che e’ in partenza per l’India, piu’ che altro un ritorno. Da laggiu’ vengono molti dei suoi racconti migliori, quelli che ti afferrano la gola quando leggi il suo Tabaccherie orientali.

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(Clara Nubile)

A parlarmi di lei la prima volta fu la libraia Teresa Romano, eravamo nella libreria che apre i suoi battenti davanti alla fermata del bus, un pomeriggio, mi porse il libricino che ha come copertina la fotografia di un paio di piedi nudi su un lungomare. “Sono i piedi di Clara Nubile”, mi disse, poi chiuse gli occhi muovendo piano la testa, i bei capelli scuri, come chi ha appena annusato un aroma irresistibile, l’aroma di uno stile.

Da Clara avrei sentito dire, mesi dopo, la definizione migliore circa il mestiere del traduttore: “Tradurre è come fare una seduta spiritica. Spesso mi sento proprio così: una spiritista.” Per la puttana si’, ho pensato. E subito mi sono tornate in mente le traduzioni di Le ore, di Cunningham, a cura di Ivan Cotroneo e Alice nel paese delle meraviglie secondo Aldo Busi. Traduttori, doppiatori, romanzi viventi che impegnano le loro voci, come la Sirenetta di Andersen.

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(Pasolini in sala di doppiaggio)

Voci oscure, congegni trasparenti, luminosi come gioielli di Faberge’. E’ afferrando la treccia delle loro voci che si scala la torre senza porte, quell’altezza traguarda il mondo e, per un momento, ogni elemento della vita e’ il suono caotico, eppure abbagliante, di un’orchestra che accorda gli strumenti, prima di cominciare.

Immagino che Rosetta Calavetta si portasse la sua voce a spasso come se niente fosse, alla stregua della diva che doppiava, Marilyn Monroe, cosi’ brava a mimetizzarsi nella folla di New York, passeggiate intere senza mai essere stata riconosciuta, nemmeno dai taxi che cercava di prendere.

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(Kim Novak ripassa il copione di Vertigo)

E avra’ fatto caso, doppiando Kim Novak ne La donna che visse due volte che il suo personaggio e’ un impostore che dice la verita’?
E, cosa ancora piu’ interessante, James Stewart non si accorge che la Novak non interpreta per lui solo la parte di una donna perduta ma e’ quella donna.

E’ affascinante, se ci si pensa, e insieme crudele: spesso veniamo scambiati per altri proprio quando siamo noi stessi.

(“Vertigo”, music by Bernard Hermann)

Su Musicaos.it per gentile concessione dell’autrice
“Sirene”, Luisa Ruggio,
dentro Luisa – 10/1/2011

Vito Russo – “Tra la palpebra e l’occhio” (LietoColle)


Vito Russo – “Tra la palpebra e l’occhio”
LietoColle – Collana Erato

… niente è lasciato al caso nell’accumu­lazione apparentemente casuale e caotica di oggetti ed eventi e luoghi e momenti e sensazioni e persone e ricordi e nomi, tutti evocati per virtù di parola dalla melassa della quotidianità e infilati un verso dopo l’altro, come in uno svogliato inventario, a far da cornice alla rasse­gnazione e al lasciarsi andare ai capricci della sorte. Sono impressioni volute, generate apposta dall’effetto tonale della voce poetica, dall’uso scaltrito del linguaggio, dello stile. Dunque impressioni menzognere, come tutto, nella rappresentazione letteraria, è invito alla menzogna: menzogna buona, si capisce, per meglio demistificare la realtà e snidare il vero che in essa si celi.

Niente di meno rassegnato di chi cerca un senso nel caos.

[…]

In quell’invisibile intervallo tra palpebra e occhio rivive così tutto il film insensato del mondo esterno, e insensato resta finché non passa attraverso il filtro della parola poetica, attraverso la rappresentazione di un mondo altro, riscattato dal buio, dal silenzio, o al contrario dalla chiassosa insignificanza, rinnovato dal pensiero, vivificato dal senti­mento, offerto ad altri col bisogno di relazione. Insomma un ‘vissuto’ che non perde affatto consistenza di realtà oggettiva, anzi acquista co­scienza e parola, assume spessore morale, si lascia afferrare come corpo vivo, vive di un’altra vita in cui non siano spersi per sempre il senso e la speranza.

dalla prefazione di Carmine Tedeschi

Tra la palpebra e l’occhio
le unità di misura
il tempo e lo spazio la carne
e le carte da gioco l’asso di denari
la scintilla dei fuochi d’artificio
i dialoghi coi nomi poi il lavoro
le leggi del mercato la televisione
tra quello che si vede e non si vede.

Tra la palpebra e l’occhio

Ignoro se
la mia inesistenza appaga il tuo destino,
se la tua colma il mio che ne trabocca

Eugenio Montale

Ignoro se l’essenza
sia questa giacca che perde i bottoni
i microfoni spenti sul palco
o ci sia ancora un raschio perché tutti
i vestiti tornino al loro posto
e i calzini nell’ultimo cassetto
del comodino.

*

Metto ordine sul sedile
posteriore ma vago
e apparente. Nelle zona industriale
di notte resta qualche luce accesa
e cani randagi si accoppiano
senza prendere precauzioni.

*

C’è un odore forte di lattice
stamattina in via Ripamonti
come se tutti gli amori del mondo
si fossero consumati qui la notte
scorsa.

[…]

Unità di misura

Che forse non è questo il mio mestiere?
Perdere tempo, questo è il mio mestiere,
e il bello è perdere quel che non si ha.

Patrizia Cavalli

I regali che non ho mai fatto
i baci che non ho dato li ho stampati
sullo specchietto retrovisore
insieme alle cartoline spedite
senza nemmeno una parola. Sono
maturi i tempi per continuare
a non fare niente dalla mattina
alla sera.

*

Il furgone è parcheggiato sulla fetta
d’asfalto riservata ai disabili. Esco
a prendere un po’ d’aria. Non si vede
l’ombra di un bar all’orizzonte. Non resta
che aspettare la prossima partenza
per approdi già noti. Che si torni
ogni volta per gli stessi punti
è rassicurante in fondo.

[…]

*

Nel cielo di Milano
il nero non esiste. La giornata
dura mezz’ora in più ma il sole
non c’è e le stelle. Il cielo da grigio
si fa arancio e poi rosso alle quattro del mattino.
Sarà l’effetto dell’inquinamento
o forse la metropolitana
di giorno succhia il cuore ai passeggeri
sudati raffreddati incravattati
e di notte lo sputa in alto. Nudo.

Le leggi del mercato

Dunque ti prego non voltarti amore
e tu resta e difendici amicizia
.

Vittorio Sereni

In principio è il conflitto
duro metallico. Basta spogliarsi
per prendere parte allo scontro
dei corpi all’incrocio delle braccia
fino all’esplosione della luce.
Poi le lingue si sciolgono
non esistono nemici ed amanti
la voce perde consistenza
si fa liquida fa finta di niente
il sesso ritorna nei pantaloni
ma resta duro resta in testa
la finzione di negare il futuro.
Ma chi è che scrive la sceneggiatura?

*

La guerra fredda l’hanno
messa in un altoforno
a sciogliersi e si è liquefatta
l’odore ha invaso pure il terzo mondo
in forma di piatto fumante
hanno però dimenticato l’ultimo
braccio armato del novecento
un verso la solitudine il fumo
di una sigaretta di mano in mano.
Dialoghi con i nomi

Edoardo

di un uomo sopravvivono, non so,
ma dieci frasi, forse

Edoardo Sanguineti

Ho lasciato la testa e gli occhi
su Mikrokosmos ogni parola
una goccia di liquido seminale
una lacrima rossa. E pensare
avevo fatto un lungo viaggio
per una conferenza su Dante
ma il corpo cantava ormai i suoi lamenti
gli aneurismi di ieri. Oggi i figli
dei borghesi prendono il sole
alle Colonne di San Lorenzo
mentre sfoglio i quotidiani le pagine
di commiato. Ne porto i segni
sulla cravatta e porto i tuoi
nel taschino della giacca.

Vito Russo è nato a Putignano (Bari) nel 1981.
Giornalista pubblicista, si è laureato in Economia e specializzato in Diritto del Lavoro.
Dal 2008 vive e lavora a Milano.

In copertina: fotografia di Antonio Lillo

ISBN: 978-88-7848-621-8
Anno: 2011
Prezzo: € 10,0

“Monologo di Alda Merini”, 13 Luglio 2008. A cura di Carmen Togni


“Il 13 luglio 2008, domenica, ero a casa di Alda Merini. D’improvviso ella prese il registratore che avevo in mano e cominciò a parlare… Fu un monologo tutto d’un fiato… Ve lo propongo affinché, nel rispetto della sua figura possiate, voi che leggete, commentare e magari trarre conclusioni che possano portare un arricchimento personale a me oltre che a voi, ed una maggiore conoscenza di questa poetessa eccezionale. Ho chiesto il parere di Flavia su questa postazione, la quale si è detta d’accordo di proporla… Grazie amici, anche a nome di Alda che ha voluto attraverso queste parole lasciare un ulteriore messaggio a quanti la amano…”

Carmen Togni

“Monologo di Alda Merini”,
riproposto con il permesso di Flavia Carniti

Buongiorno, io ho qui la signora Carmen, parliamo della laurea di Messina che mi ha commosso ma anche molto stressato. Non in quanto laurea ma perché avevo diverse paure, come quella dell’aereo, l’emozione, dei problemi miei in ballo per cui accantonare dei problemi per andare a ricevere la laurea è stato un colpo forte diciamo, un’emozione. Però tornata a Milano ho ricevuto un colpo di ritorno per la freddezza e l’antipatia generale dei milanesi. Mi spiace di essere stata così mal ripagata.

Subito dopo mi è saltato tutto l’impianto della luce e secondo me è stata una grande vendetta maschilista.

Sono una donna che non nutre grande simpatia per i movimenti femministi, ma comincio un po’ ad odiare i maschietti, li odio perché non capiscono che la donna ha bisogno di uno spazio di vita e di intelligenza.

La Laurea ha significato molto e niente perché sono state due facce diverse, tra l’altro un signore che qui non voglio nominare che è venuto con me e mi ha accompagnato, non per arraffare la Laurea ma qualche bella donna. Io su queste debolezze maschili avrei molto da dire perché la laurea e la cultura sono cose serie.

Devo dire che per quello che mi riguarda sono molto sconcertata dall’ignoranza di quello che può essere il maschio poeta. Insomma ho trovato un tale gelo al mio ritorno che ad un certo punto ho dato la mia laurea al parroco… ho detto non la voglio più vedere, perché più che la Laurea è il rispetto per la persona che ci vuole io a questo ci tengo specialmente…, le mie sigarette…

La cosa che più mi ha meravigliato è che Milano non me l’ha mai data, la laurea, anzi c’era un tale qui che si chiamava dottor “S…”, che m’ ha rotto l’anima per parecchio tempo poi non mi ha dato niente, mi ha preso in giro, ma la Laurea di Messina mi fa pensare anche a come ha fatto mio marito con una moglie poetessa a cacciarla su in un solaio maledetto che a quei tempi era il manicomio.

E sono rimasta male e avrei voluto che questa laurea… guardi, è passato di qua un signore di media cultura che guardando il tocco mi ha detto, avrei dato la vita per averlo, per tutta la vita ho sognato la laurea, e io gliel’ho regalato, perché desiderare un riconoscimento mi sembra umano, mi sembra giusto e abbiamo avuto fior di persone intelligenti che sono naufragate in un pantano per colpa dell’invidia, del fatto che non han potuto studiare, anch’io non ho mai avuto una laurea. Gli ho dato questo tocco e quest’uomo sembrava che si fosse sollevato da terra, come ho dato anche, diciamo la mia veste…, l’ho data a mia nipote che si è laureata in legge. Diciamo, so che era una cosa preziosa ma prima che la rubassero i miei vicini di casa, e lo voglio proprio dire perché Messina mi senta, proprio perché ho dei vicini di casa che non mi danno nemmeno un bicchier d’acqua, mi derubano, donna di servizio compresa, per la paura che me le rubassero ho dato via queste onorificenze e Manganelli dice appunto che gli anziani devono privarsi di tutto per paura che gli altri rubino, arrivati a questo punto che cosa si può sperare da un’Italia. E’ vero o no?

D’altra parte c’è anche tanta gente ammalata di questo buonismo, che vogliono entrare nelle case degli anziani e adagio adagio li derubano delle loro piccole proprietà, del loro disordine, dei loro piccoli comodi.

C’è questa geriatria che vede che uno a quarant’anni è già vecchio…, però c’è gente che a quarant’anni è già vecchia, mentre alla mia età c’è gente che è ancora vispa ma non può muoversi per altri impedimenti fisici.

E qui è un lungo discorso su quello che può essere la depressione. La depressione è un male che capita ma va centellinato, una volta nei manicomi c’erano le lungodegenze e grazio a Dio davano tutto il tempo alla malattia di dipanarsi e di risolversi, io sono riuscita dal manicomio proprio perché m’han dato tutto il tempo possibile di curarmi, riflettere, rivisitar-mi e guardare anche gli altri, sono stati dieci anni, di più ,in cui non ho fatto che ispezionare sia il mio io che quello degli altri, ho imparato una cosa, che ciò che ci accomunava non era certo l’ambizione o la voglia di scampare alla morte eravamo entrati in manicomio per morire ed eravamo pronti a morire, abbiamo fatto un patto di solidarietà con la morte e diciamo che l’abbiamo amata. Io non ho paura di morire ma mi danno molto fastidio i tafani e tutti quelli che vogliono mangiare su carni come la mia, ormai morte non di vecchiaia ma di crepacuore che è il peggiore dei dolori che ci possa essere per un essere umano, morire di crepacuore perché ci si vede schiantati dall’ignoranza, quindi il male che noi dobbiamo combattere non è tanto la mancanza di cultura, ma l’ignoranza cattiva che persiste nel proprio errore, alle volte sono sola, ho bisogno dell’aiuto di molti, e mi da proprio fastidio personalmente perché sono ringraziamenti che non finiscono più. Quello che Raboni diceva, l’ignobile ricatto del solo…, sono ignobili ricatti quelli della psichiatria, e ho visto e ne voglio parlare qui e spero che i medici e i docenti ne prendano atto, …purtroppo la depressione è un male lungo, e nessuno ha pazienza, e non si è amati abbastanza. Quindi la mia disperazio-ne…, per me ci vuole amore, bè certo il farmaco è cerusico, quello che opera, però la cattiveria di certi psichiatri, la tortura psichiatrica, l’insistenza a voler curare un male che non conoscono, cioè l’accanimento terapeutico è uno dei mali più tremendi e soprattutto più costoso e più redditizio per loro.

Quindi creiamo per il malato di mente, io che sono autrice del “Diario”, un ambiente sereno e confortevole senza continuare a domandare…, ma soprattutto è l’ambiente che crea la depressione, la disperazione e spesso il suicidio.

Naturalmente l’ignoranza di questi presunti psichiatri di questi presunti geriatri, di questa massa di ignoranza, perché lo diceva anche Monsignor R., siamo un popolo di ignoranti, di geni ma anche di ignoranti. Noi che siamo un popolo di geni coltiviamo l’ignoranza che è grossa come una casa, a questo punto il genio, come Pavese, adesso c’è il centenario, si uccide perché capisce che con le sue forze fisiche non può combattere questa marea di solitudine, di vuoto d’amore creato dall’ignoranza e non sappiamo più cosa fare, perché ignoranti siamo tutti ma abbiamo voglia di imparare, c’è invece chi persiste nella non voglia di apprendere e invidia colui che ha fatto tanta fatica per ricevere qualche nozione di vita.

Io poi devo dire che qui a Milano quando proprio ero emarginata dagli amici milanesi, ho avuto salva la vita dai meridionali, esercenti, gente che mi portava su da mangiare, da bere, ho sempre avuto mariti e amori meridionali perché erano uomini tutti d’un pezzo, mentre devo dire che i milanesi son dei gran sbruffoni, all’atto pratico non ti danno niente, assolutamente niente, è vero, sono dei chiacchieroni, ma in effetti la mano tesa, la mano anche…

Devo dire che ho sposato il dottor Pierri di Taranto, ho avuto De Pascal che è stato un medico meridionale che mi ha guarito la bambina, amici per la pelle proprio, che mi hanno difeso fino all’ultimo, veri cavalieri della ragione. Però se guardo i milanesi veramente, io sono milanese e rimango male, parole, parole…, Portare a casa la laurea e vedersi ancora sbattere la porta in faccia…, mi ha fatto doppiamente male, però ringrazio ugualmente il Meridione perché… vorrei spendere una parola per dire di tenere conto della depressione perché può diventare mortale e morire per dei cretini dispiace molto, grazie.

E anche ho voglia di fare dei nomi perché ho notato che nel Meridione quando una donna veniva calunniata, subito si ricorreva alla difesa e vorrei parlare del signor G… che è amico di tutte le donne l’amante confidenziale che io non capisco e, però toccare l’onore di una donna, io sono molto siciliana in questo, è un reato, è un reato perché una donna ha già il suo peso di sofferenze di maternità, e dire o che è squilibrata o è vagheggina, quando io come persona, come Alda Merini ho perso…, mi sono vista portar via dei figli e mi sento deridere eh…, magari da questi ganimedi che hanno i capelli bianchi e fanno presa sulle ragazzine, e vorrei spendere due parole anche in difesa della chiesa perché è un periodo che tutti ce l’hanno con la pedofilia dei preti, mentre invece quello che fanno certi signori attempati che vanno all’estero a fare turismo sessuale, io mi domando come si può toccare un bambino, questa è gente da legare, da mandare in galera, no? Perché io personalmente sono stata una bambina, di pedofili non ne ho mai incontrati e andavo a scuola da sola, adesso sono tutti pedofili, o sono certi uomini sposati che fanno certe cose, perché a me non è mai capitato benché andassi a scuola da sola, adesso tutti i preti sono pedofili, la signora Carmen ama i bambini, io anche, ma che razza di educazione o di follia abbiamo in Italia, sono delle madri folli che mandano in galera anche la chiesa che è vergognoso perché è meglio un bello schiaffone dato da una madre con santa cognizione che tanti vizi. Sono molto amareggiata per queste cose e ho visto cose pornografiche in mano di padri di famiglia… io mi domando come può uno che ha generato dei figli, toccare i propri figli e magari anche quelli degli altri… e lo dico perché noi in manicomio eravamo pieni di questi bambini che erano stati violentati da padri e madri e uomini sposati, più che la Chiesa sono questi da condannare…

Devo dire che oggi la visita della signora Togni, con il caldo che fa e con la cattiveria del signor G… mi abbia un poco salvato la vita. Vorrei che le donne la finissero di subire queste angherie da parte di uomini malviventi, devo dire malviventi, perché io sono in una Milano, oggi sola, deserta e abbandonata, non ho neanche le sigarette, e nessuno m’aiuta, se non passava la signora ero sola e dimenticata da tutti, senza trovare neanche le chiavi. Quindi se la signora Togni vuole pubblicare queste mie affermazioni, volentieri… nel “Sogno di Alda”, io non ho più sogni ormai.

Domenica, 13 luglio 2008
ALDA MERINI

§

Carmen Togni, che ci ha dato la possibilità di estendere ai lettori di Musicaos.it questo monologo registrato il 13 luglio del 2008 è autrice di diversi libri, l’ultimo dei quali, edito di recente, si intitola proprio “Il sogno di Alda” (Edizioni Del Poggio, 2010). La ringraziamo per averci fatto conoscere questo ‘frammento’ di vita di questa grande poetessa.
“Dopo aver saputo della morte di Alda Merini, sono rimasta in silenzio per tutti i giorni seguenti leggendo e meditando tutto ciò che veniva riportato sulla stampa e mediante internet. Il venerdì successivo, in mattinata, la mia mano, guidata da non so quale input, ha cominciato a scrivere. Le parole sono uscite spontaneamente. Alla fine, quando misi il titolo ‘Canto ultimo per Alda Merini’, la mia mano tremava… L’impressione era che quelle parole me le avesse dettate lei mentre stava continuando il suo viaggio da pochi giorni intrapreso…” (C. Togni)

“The Spirit of Innovation”. Un racconto di Evelyn De Simone


“The Spirit of Innovation”
Elevlyn De Simone

Se c’è qualcuno che dev’essere veramente grato a mia madre, sicuro quello è l’Amministratore Delegato dell’industria dello Scotch, non di quello scotch che uccise mio padre quando io ero ancora una bambina, ma di quello con cui mia madre ci faceva sentire povere in un modo speciale: né triste né arrabbiato, ci faceva sentire povere in modo intelligente.

Bastava infatti lo Scotch – che potremmo chiamare nastro adesivo, se mia madre non avesse più volte espresso la sua inflessibile fedeltà ad un marchio, attribuendogli proprietà semi-magiche – bastava quello per riparare quanto non andava in casa: i ripiani del frigorifero, il dorso del vocabolario Devoto Oli 1971, il sifone del lavello, la manopola del termosifone, il tavolino del salone (quello rotto dalla mia migliore amica che lì sopra ci aveva ballato per ore durante la nostra prima sbronza colossale).

Tutte cose troppo care da ricomprare o comunque tutte cose che per essere riparate in modo canonico avrebbero richiesto l’intervento di personale specializzato che ci avrebbe costrette a stare per ore attaccate al telefono con la speranza di prendere un appuntamento, senza mai tuttavia ricevere risposta, o che comunque, anche nel caso assai improbabile in cui una di noi fosse riuscita a stabilire un contatto, quello – il tecnico specializzato – ci avrebbe salassato con un costo pari alla metà dello stipendio di mia madre per la sola trasferta dalla sua pidocchiosa officina alla nostra splendida casa che sembrava un enorme pacco postale, tutta ricoperta di nastro adesivo com’era; e nel caso in cui ci fossimo rifiutate di pagare il conto, quello -sempre il tecnico specializzato- avrebbe colto l’occasione per approfittare sessualmente di mia madre, giovane vedova dalla sensualità un po’ sbiadita, e delle sue giovani bellissime figlie, cioé di me e delle mie due sorelle in realtà ancora in età puberale con brufoli, tette incerte, annessi e connessi. Insomma, per farla breve, mia madre aveva questa teoria sugli idraulici e sui riparatori in genere; la scoperta del nastro isolante le aveva poi conferito il potere di spodestare anche gli elettricisti da quel posto di riguardo che, per imprescindibili motivi di sicurezza, aveva dovuto riservar loro fino ad un certo periodo della nostra povertà.

Nonostante l’invidiabile esprit che mia madre sembra aver dimostrato sino a questo punto del racconto, è mio dovere sottolineare quanto rudimentale fosse in realtà nel rapporto con noi figlie, adolescenti brufolose orfane bruttine e peraltro con scarsa inventiva; quella donna, affannandosi per non negarci niente, ci negava in sostanza quello sguardo in più che ci avrebbe fatto sicuramente sentire meno orfane, meno bruttine e che ci avrebbe donato un briciolo della sua inventiva (poco, invece, avrebbe potuto il suo sguardo corvino contro le nostre brufolose adolescenze).

E sono sicura che se fosse stata capace di riparare i rapporti con un po’ di Scotch, allora mia madre non avrebbe scelto di andare via quella mattina, dopo averci chiuse nelle nostre stanze, serrando ogni via d’uscita con nastro, travi e quant’altro, dando poi fuoco alla casa.

[Ora potrei lasciare la chiusura del racconto sospesa in questo finale turpe, o potrei spiegare se, come e grazie a chi ci siamo salvate – perché è chiaro che se sono qui a scrivere, altri aneddoti da raccontare ci saranno di sicuro – ma quello che mi preme maggiormente è stilare una lista di “Cose non riparabili con il nastro adesivo” e proporla all’Amministratore Delegato di cui sopra – quello che sicuramente grazie ai soldi sborsati da mia madre ha ricevuto una promozione ed ora si ritrova a gestire una vera impresa, prepotentemente presente sul mercato italiano, ed è riuscito ad ottenere una macchina aziendale e carte di credito aziendali e tutto quello che potete e non potete immaginare- invitandolo ad apporla sull’etichetta di ogni confezione di Scotch con il fine di prevenire altre inspiegabili tragedie familiari. Nella lista inserirò la cirrosi alcolica, la depressione, la bulimia nervosa, l’ulcera, il cuore spezzato per la prima delusione d’amore, l’amenorrea, l’incomunicabilità umana, le manie di onnipotenza e tutte quelle cose che solitamente si presentano spalmate su un’ampia fetta della popolazione e che invece nella mia famiglia si sono presentate tutte insieme, tenute vicine dal più potente dei collanti, altro che Scotch]

Premio Creativa. Un premio che fa emergere concretamente il meglio della narrativa, della poesia e della saggistica italiana.


PREMIO CREATIVA
V° EDIZIONE

Il premio che fa emergere il meglio della narrativa, della poesia e della saggistica italiana!
NOVITÀ: Le opere inedite possono partecipare anche con il solo formato elettronico

Bando

qui di seguito il bando di partecipazione, potete scaricarlo anche in formato pdf cliccando qui, nel bando in pdf c’è anche la scheda di partecipazione al concorso.

scarica qui il BANDO CON SCHEDA DI PARTECIPAZIONE

Regolamento:
Edizioni Creativa bandisce l’edizione 2011 del concorso “Premio Creativa”.
Il premio si suddivide in 6 sezioni:

a) NARRATIVA INEDITA
b) NARRATIVA EDITA
c) SAGGISTICA INEDITA ED EDITA
d) RACCONTO INEDITO
e) POESIA INEDITA
f) POESIA EDITA
a) NARRATIVA INEDITA: Possono partecipare al concorso romanzi inediti, a tema libero, scritti
da autori italiani ed in lingua Italiana.

Novità a partire già dalla IV° edizione : il testo può essere inviato anche in formato elettronico (word o pdf, altri formati non saranno valutati) all’indirizzo: premio@edizionicreativa.it Per il formato digitale: L’opera deve essere inviata in duplice versione, una riportante i propri dati, l’altra anonima riportante solo il titolo. Al testo deve essere allegata una sinossi dell’opera e un breve curriculum vitae dell’autore.
L’opera va accompagnata dalla scheda di partecipazione accuratamente compilata e firmata. La scheda di partecipazione deve essere inviata per posta ordinaria (no raccomandate). Per il cartaceo: gli autori devono inviare, all’interno di un unico plico, 2 copie di cui una anonima e l’altra con allegata la scheda di partecipazione e un breve curriculum vitae dell’autore. La copia anonima non deve contenere alcun segno di riconoscimento (disegni, timbri, intestazioni o simili).

Sulla busta non deve essere apposto il mittente.

b) NARRATIVA EDITA: Possono partecipare al concorso romanzi editi a tema libero, scritti da autori italiani ed in lingua Italiana. Gli autori devono inviare, in formato cartaceo, 2 copie del libro, all’interno di un unico plico, con allegata la scheda di partecipazione una breve sintesi e un breve curriculum vitae dell’autore.

c) SAGGISTICA INEDITA ED EDITA: Possono partecipare saggi editi o inediti in lingua italiana. Gli autori devono inviare, in formato cartaceo, 2 copie dell’opera, con allegata la scheda di partecipazione e un breve curriculum vitae dell’autore.
Per la saggistica inedita il testo può essere inviato in formato elettronico, vedi narrativa inedita.

d) RACCONTO INEDITO: Possono partecipare favole o racconti inediti scritti in lingua italiana di massimo 15 cartelle (60 battute X 30 righe). Ciascun autore può partecipare al concorso con un massimo di cinque racconti.

Novità, a partire dalla IV° edizione, per le opere inedite il testo può essere inviato anche in formato elettronico (word o pdf, altri formati non saranno valutati). Vedi narrativa inedita.
Per il cartaceo: gli autori devono inviare 2 copie di ciascun racconto, all’interno di unico plico, di cui una anonima e l’altra con allegata la scheda di partecipazione e un breve curriculum vitae dell’autore . La copia anonima non deve contenere alcun segno di  riconoscimento (disegni, timbri, intestazioni o simili). Sulla busta non deve essere apposto il mittente.

e) POESIA INEDITA: Possono partecipare al concorso poesie inedite composte da un massimo di 30 versi. Ciascun autore può partecipare al concorso con un massimo di 6 poesie. Novità, a partire dalla IV° edizione è che il testo può essere inviato anche in formato elettronico (word o pdf, altri formati non saranno valutati) in duplice versione: una con i propri dati e l’altra anonima riportante solo il titolo. Per ogni poesia che partecipa ci deve essere quella anonima e quella con i recapiti.
Per il cartaceo:gli autori devono inviare le poesie in 2 copie, all’interno di unico plico, di cui una anonima e l’altra con allegata la scheda di partecipazione e un curriculum vitae dell’autore. La copia anonima non deve contenere alcun segno di riconoscimento (disegni, timbri, intestazioni o simili). Sulla busta non deve essere apposto il mittente.

f) POESIA EDITA: Possono partecipare al concorso raccolte di poesie edite. Gli autori devono inviare la raccolta in 2 copie più la scheda di partecipazione, e un curriculum vitae dell’autore. Le opere iscritte al concorso non saranno restituite.
La presentazione delle proprie opere per la partecipazione al Premio sottintende la presa visione e comporta l’accettazione incondizionata del presente regolamento da parte dell’autore.
La casa editrice Edizioni Creativa si riserva la possibilità di effettuare una proposta di pubblicazione agli autori delle opere inedite iscritte alle sezione a) e c) e non classificate vincitrici ma ritenute comunque di particolare interesse letterario ed inerenti con la linea editoriale della casa editrice.
Potranno partecipare al Premio solo autori maggiorenni.

Quota di partecipazione:

a) NARRATIVA INEDITA: La quota di partecipazione per la sezione a) è di euro 25.00 per ogni romanzo.
b) NARRATIVA EDITA: La quota di partecipazione per la sezione b) è di euro 20.00 per ogni romanzo.
c) SAGGISTICA INEDITA ED EDITA: La quota di partecipazione per la sezione c) è di euro 20.00 per ogni saggio.
d) RACCONTO INEDITO: La quota di partecipazione per la sezione d) è di euro 15.00 per ogni racconto. Ciascun autore può inviare massimo cinque racconti.
e) POESIA INEDITA: La quota di partecipazione per la sezione e) è di euro 10.00 per ogni poesia.
Ciascun autore può inviare massimo sei poesie.
f) POESIA EDITA: La quota di partecipazione per la sezione f) è di euro 15.00.
Pagamento della quota:

La quota può essere pagata:

1) Versamento sul ccp n° 70188222 intestato a Gianluca Ferrara
2) Bonifico intestato a Gianluca Ferrara BONIFICO: Intestato a Gianluca Ferrara – Iban
IT76M0760103400000070188222
3) Assegno non trasferibile intestato a Gianluca Ferrara ed inserito nel plico
4) Quota inserita nel plico, il mittente riceverà una e-mail di avvenuta ricezione

Modalità di spedizione:
In formato elettronico le opere vanno inviate a con oggetto PREMIO CREATIVA V° Edizione ed inviati a premio@edizionicreativa.it
Nella mail deve essere inviata anche la scansione del pagamento della quota d’iscrizione. Non verranno valutate opere non accompagnate da copia del versamento

1) Gli elaborati in formato cartaceo dovranno essere spediti a:
Premio Creativa sezione: a) ,b),c),d) o e)
c.a. Fabiola D’Agostino
Via Benedetto Cozzolino 134
Parco dei Cedri 80056 Ercolano (Na)

2) Le opere dovranno essere spedite entro il 31 gennaio 2011 farà fede il timbro postale.

3) Per il cartaceo in un unico plico devono essere inserite due buste: una anonima contenente l’opera, l’altra nominativa contenente l’opera la scheda di partecipazione e la ricevuta di avvenuto pagamento della rata d’iscrizione.

4) Deve essere allegata copia del pagamento della quota d’iscrizione. Non verranno valutate opere
non accompagnate da copia del versamento.

5) Le opere devono essere spedite con posta prioritaria. Le raccomandate non verranno ritirate.

6) Per le sezioni c) e d) ciascuna poesia o racconto deve essere spedito in una propria busta e bisogna compilare una scheda di partecipazione per ciascuna poesia o racconto.

7) Non verranno valutate opere prive di scheda di partecipazione o prive di autorizzazione al
trattamento dei dati personali.

La giuria:

Le opere verranno valutate da una Giuria composta da 5 esperti nel settore letterario e dal direttore editoriale dott. Gianluca Ferrara.
L’operato della Giuria è insindacabile.

I premi:
a) NARRATIVA INEDITA:
1° classificato: La pubblicazione dell’opera con la casa editrice Edizioni Creativa.
2° classificato: All’autore dell’opera seconda classificata di tale sezione verrà assegnata una coppa della misura 25 cm.

b) NARRATIVA EDITA
1° Classificato: All’autore dell’opera prima classificata di tale sezione verrà assegnata una coppa della misura di 40 cm.
2° Classificato: All’autore dell’opera prima classificata di tale sezione verrà assegnata una coppa della misura di 25 cm.

c) SAGGISTICA INEDITA ED EDITA:
Vincitore assoluto: All’autore dell’opera vincitrice assoluta di tale sezione verrà assegnata una coppa della misura di 40 cm. L’opera vincitrice se inedita verrà presa in considerazione per la pubblicazione.

d) RACCONTO INEDITO:
Gli autori dei 10 racconti vincitori di tale sezione, avranno la pubblicazione del racconto nel testo: “Racconti creativi” Edito da Edizioni Creativa.

e) POESIA INEDITA:
Le migliori poesie di tale sezione, avranno la pubblicazione della poesia nella raccolta: “Versi creativi” Edita da Edizioni Creativa.
La miglior poesia verrà premiata con una coppa di 25 cm

f) POESIA EDITA
Vincitore assoluto: All’autore dell’opera vincitrice assoluta di tale sezione verrà assegnata una coppa della misura di 25 cm.

I risultati
Entro il 31 maggio 2011 i risultati del concorso verranno resi pubblici sul sito: www.edizionicreativa.it
Telefono segreteria del Premio: 081 359 70 90 Fax: 081 882 20 48
I vincitori verranno informati tramite e-mail o telefonicamente.
I premi saranno spediti direttamente a casa dell’autore entro 90 giorni dall’assegnazione.

“Plancton. Per voi. Da uno a sei” di Gioia Perrone


Gioia Perrone

PLANCTON
Da uno a sei.

§

FOTO N.1

Ho un minareto/un acquario di plancton/una micro coreografia che avanza,/
fa piccoli passi il moltiplicato esercito americano/inconsapevole del grande musical
e tip e tap e tip e tap/mentre scorre “ by this river “/mi sento strana.

FOTO N.2

Un giorno ti racconterò della guerra d’Abissinia/mescolerò i deserti e i silenzi delle foto
chissà se starò sfavillante o rintanata/
confonderò la distanza galattica a quella di una vecchia telefonata
e tu sarai la Luce documentaria.

FOTO N.3

Ora sei l’armata genetica/tutto quello che abita dopo l’abitato/anche dopo gli sfollati
anche dopo i deportati/e io non sono più poeta, sono la medium dell’Hammond/
e tu il coagulo dei musici.

FOTO N.4

<Vedete questo puntino intermittente? è il cuore che batte.>
Come la lucina di un aereo lontano di notte/mi hai detto.

FOTO N.5

Prima sei un indizio,/ poi sei un’immagine,/
poi sei un suono,/poi sei un immagine.

FOTO N.6

Fin da ora tieniti forte/a ogni istante il sangue scorre, è un abitudine:
tu che ancora sei compagno della luce/vieni vieni al buio, al nostro buio pazzesco.

Vito Russo recensisce “L’appello della mano” (Nino Aragno Editore) di Lino Angiuli


Lino Angiuli – “L’appello della mano” (Nino Aragno Editore)
di Vito Russo

Leggere un libro di Lino Angiuli significa farsi delle domande, ma significa anche trovare delle risposte alte, che centrano le questioni poetiche ed esistenziali dritte al cuore, senza comode scorciatoie.

L’appello della mano, il suo ultimo lavoro letterario, è un manifesto poetico, ma insieme morale e religioso.

Angiuli elabora il suo messaggio senza la minima concessione alla retorica letteraria tradizionale, senza assecondare nessun cliché, usando sempre l’ironia come fil rouge e strumento comunicativo privilegiato. Se questi elementi sono una costante nell’opera del poeta di Valenzano, sorprende, nell’ultima silloge, una tensione etica insperata per qualsiasi lettore che si cimenti e confronti con la poesia degli ultimi anni. Lontano da localismi, autoreferenzialismi, lirismi, relativismi, insomma, come lui stesso ama dire, da tutti gli -ismi mai concepiti, con L’appello della mano Angiuli fa un ulteriore salto di qualità sul piano dei contenuti, ma il racconto resta fresco, grazie alla vis ironica che ne è il tramite.

La poesia di Angiuli, lungi dal soffermarsi sulle miserie della contemporaneità con piagnistei altrove troppo presenti, e senza alcun indugio nel privato, tiene fermo il baricentro su una concezione collettiva dell’esistenza tutta. Lino Angiuli è un poeta che ha qualcosa da dire, e lo dice senza artifici, elaborando un umanesimo moderno, scevro da atteggiamenti nostalgici, nel quale tutto è al centro dell’attenzione del poeta.

Ne risulta un’unione carnale e insieme spirituale tra gli uomini, le stagioni, il mare, il Creato intero, in cui l’autenticità è ”intravedere il firmamento / buttarsi addosso a un lenzuolo di terra / per il forte desiderio d’accasarsi con l’argilla”. Anche la morte smette di essere uno spartiacque (“vivi o morti che differenza fa?”). Nel panteismo angiuliano (“è una vita che mi giro di qui e di lì senza accorgermi / che tu stai dentro una boccata d’aria come a casa tua”), la materia si personalizza fino a spiritualizzarsi: “si alleggerisce il rimorchio delle ossa e / niente più siepe caro giacomoleopardi”.

Ancora una volta, e con maggiore evidenza rispetto alle raccolte precedenti, la silloge è incastonata in una struttura metrico-stilistica che rende omogeneo il discorso letterario, colonna portante di quello linguistico ed etico.

La tensione morale tocca il suo apice nelle orazioni settimanali della seconda sezione, di sette prose composte da sette mini-prose di sette versi ciascuna. Angiuli compone la sua dichiarazione programmatico-poetica: “Intanto io mi darò da fare per rispolverare una ad una / quelle invisibili parole da voi depositate nei saecula / saeculorum dentro l’umido cavo dell’orecchio buono / parole scasate dal vocabolario dove abitiamo adesso”. Angiuli prosegue il suo percorso letterario teso a ridare dignità alle lingue non ufficiali. Stavolta però non usa il suo dialetto, ma sviluppa una lingua altra e universale, frutto di mille contaminazioni lessicali e sintattiche: notevoli sono latinismi, inglesismi, francesismi, ispanismi, germanismi, e persino slavismi e arabismi, ma, soprattutto, emerge l’utilizzo frequente di espressioni ricavate da un parlato basso di derivazione dialettale: verbi come screscere, acquacquagliare, scarvottare, scassare, trapanare, sdivacare, abbottare, scimunire, stipare, arricreare, o aggettivi e sostantivi come tiraturo, guantiera, arruzzinito, abituro, zoche, lastro, solo per citarne alcuni.

Il poeta è un giullare che registra le contraddizioni della contemporaneità, ma non si limita ad osservare e denunciare con sdegno, ad esprimere il suo j’accuse all’Occidente, né ad arroccarsi su posizioni teocentriche, poiché “mi chiedo ognittanto perché poi dovrebbe farlo lui / quando volendo potrei imparare benissimo da solo / ad assaggiare uno stozzo di fame da spartire con voi”.

Per Angiuli la poesia è quindi strumento comunicativo e morale insieme, utile ad unire ciò che appare (o si vuol far apparire) diviso dai mille fondamentalismi, valorizzando le specificità: “Tutto quello che volete ma non venitemi / a dire che giuseppe vale più di yussef / solo perché è spuntato qui anziché lì”.

Mai come ne L’appello della mano il senso diviene esplicito, manifestato senza esitazioni, e si capisce come ci sia una corrispondenza stretta tra significante e significato: così come il poeta abbatte qualsiasi barriera linguistica, lasciando intendere un superamento delle divisioni culturali (“mi pento e mi dolgo nella tua lingua se necessario”), allo stesso modo la sua poesia si fa testamento esistenziale e sociologico della memoria, degli affetti, fondato su una pietas non cristiana, ma squisitamente umana e universale, perché “adesso che il nespolo d’inverno non si usa più / dobbiamo rappezzarlo noi e ripiantarlo insieme”.

Lino Angiuli, L’appello della mano, Aragno Editore, 2010 €9,00

“Vicolo dell’acciaio” (Fandango) di Cosimo Argentina. Una recensione di Daniela Gerundo


L’impressione che si riceve dalla lettura dei suoi libri è che Cosimo Argentina si serva della scrittura come strumento per “elaborare un lutto”; come mezzo per sublimare il dolore e racchiuderlo nelle pagine; come tramite per trasformare in energia creativa la rabbia che sente implodere in sé; come sistema per commutare i vibranti sentimenti che lo animano in parole scritte.

Parole che necessitano di un’attenta lettura per poter recepire i messaggi in esse sottese. Occorre, infatti, saper leggere tra le righe più che le righe di quelle pagine per ritrovarvi le spinte emozionali che a quei racconti danno vita senza mai essere apertamente palesate, al massimo alluse: l’amore viscerale per la propria città; i legami indissolubili con quel “cumulo di pietre e di cristiani”; lo stupore davanti agli incredibili colori dei tramonti occidentali; l’orgoglio dell’appartenenza ostentato attraverso il ricorso ad un lessico famigliare strutturato su un vernacolo blindato e codici comunicativi fatti di versi della bocca supportati da cenni della testa.

La nostalgia originata dall’assenza di tutto questo e molto altro, il dolore generato dalla forzata lontananza dalla sua città, pari per intensità al patimento di un innamorato respinto, alimentano la scrittura torrenziale di Argentina definendone le cifre stilistiche ma anche i condizionamenti più evidenti.

E’ una narrazione avviluppata a luoghi situazioni e personaggi che hanno segnato la sua crescita; radicata nella cultura della terra d’origine ,alle usanze, alle abitudini, ad un modo confidenziale di relazionarsi tipico delle piccole comunità, dove tutti hanno un soprannome identificativo, dove si tende a consorziarsi in una comune rete di protezione e di sostegno.

E’ una narrazione espressa attraverso un gergo colloquiale e localistico che non facilita Argentina nel trovare editori disposti a riconoscergli i meriti dell’autenticità del sentire,della libertà d’espressione, del rifiuto delle snaturanti rivisitazioni dei consulenti letterari,del sentirsi svincolato dai tempi “dell’umano sistema fognario”.

E’ una narrazione fremente di passione che, con la portata di un fiume in piena, rompe gli argini imposti da precise indicazioni editoriali e travolge il lettore anche con la sgradevolezza di alcuni dettagli ma con la leggerezza dell’ironia quale sublimato dell’ira; con uno stile vivace in cui il sorriso amaro ha il sopravvento sullo sdegno per le ingiustizie sociali e sulle avversità della sorte in cui si dibatte una popolazione che ci rimanda al “ciclo dei vinti”.

In Vicolo dell’Acciaio Mino Palata racconta l’evolversi di una generazione del quartiere nel quale Cosimo Argentina è realmente cresciuto. La scenografia è resa dai profumi, suoni, rumori di quelle strade; dalle voci della tribù tarantina, dai rituali tipici del familismo meridionale. E’ il quartiere della mitica e mitizzata Via Calabria dove il 90% delle famiglie ha il capo che “se la spassa nel siderurgico”, beve caffè Ninfole, tracanna birra Raffo.

Quella dei capifamiglia è una carovana di antieroi che avanza su colline di carbon fossile e polveri ferruginose con genetica rassegnazione; con la consapevolezza che nel caravanserraglio dell’acciaio si baratta la vita per la sopravvivenza; che a nessuna caduta seguirà un pronto riscatto; che una naturale selezione della specie permetterà solo ai più forti di concludere il ciclo lavorativo nei gironi infernali dell’industria siderurgica, esentandoli da malattie invalidanti, rare forme tumorali, mutilazioni nel corpo e nell’anima. Una ingenerosa predestinazione sembra condannare i maschi del vicolo al ruolo di vittime sacrificali secondo un copione che si ripete per generazioni con scontata prevedibilità e passiva accettazione.

Inutili le manifestazioni di protesta contro gli sbuffi venefici del mostro d’acciaio; c’è il rischio di rimanere vittime dei raggiri delle associazioni degli “ambientalisti del giovedì”, personaggi incompetenti desiderosi solo di strumentalizzare il dolore della gente per acquisire un potere contrattuale.

Alle famiglie colpite resta il conforto del “consolo”, un rituale di solidarietà dell’indotto umano che comunque si sforza di migliorare l’avvenire dei propri figli attraverso gli studi universitari, guardando alla laurea come documento valido per espatriare dal vicolo e sdoganarsi dal destino di “gechi” attaccati al muro del bar di Mest’Arturo.

Gli studi di Mino però sembrano arenarsi al capitolo “Prescrizione e Decadenza” di un esame duro da superare quanto le prove che gli riserva il destino: l’impatto con l’amore, il peso dell’assenza, l’addio di Isa; la morte dei primalinea;il sogno proibito della dea condominiale, un nastro di Mobius da “percorrere” all’infinito; l’incomunicabilità col “generale dagli occhi lisergici” suo padre, ingombrante e assoluto,ma per lui un mito vivente;la compassione per la madre, una santa donna che “si riprende sempre”, con la bussola sempre in mano a segnalare il nord magnetico in una casa dove domina l’anarchia.

Il racconto è alleggerito da riferimenti a reali fatti di attualità e a citazioni che rimandano alle passioni del nostro scrittore: la musica di James Brown; il calcio dell’Audace Usac; la poesia del Pascoli nel Gelsomino Notturno; Manzoni con le risposte della sciagurata Gertrude-Vincenzina; André Brink, in Un’arida stagione bianca;le donne tarantine, le più belle del sistema solare; i fumetti di Tom Mix.

Ma, leggendo tra le righe ,scopriamo ciò che Cosimo ha voluto comunicare attraverso Mino: la rassegnazione uccide più della diossina. E Cosimo parla della sua rabbia quando Mino fa l’amore con Isa “…non c’è passione , c’è solo un maschio furioso, incalcolabile…con uno straccio di anima nera che lotta contro qualcosa che si arrotola nel buio del suo cervello…un animale ferito che cerca di bucare il manto nel quale è costretto a vivere….le ferite vengono a galla e combatto contro i demoni…Il piacere porta alla luce il terrore a cui è vincolato”. E’ la rabbia del lutto non elaborato; di chi non si arrende davanti allo spettacolo della sua città violata, della decadenza che distrugge quotidianamente strutture e speranze; di chi si aspetta delle reazioni forti da parte di chi invece ha scelto di lasciarsi vivere o morire; di quello a cui la laurea ha meritato l’esilio,ma che anche da lontano urla la sua rabbia attraverso i suoi libri o la rubrica sul nostro quotidiano locale, manifestando un amore che se fosse nell’animo di tutti i tarantini basterebbe a contrastare le mire dei colonizzatori e la rassegnazione di una classe politica che cambia colore ma non l’arrendevolezza di fronte al ricatto occupazionale. E’ Cosimo quando Mino fa l’amore , e noi l’amiamo perché è così.

§

per contribuire: Musicaos.it
blog & note: Musicaos/Wordpress

tra i prossimi interventi che verranno pubblicati su Musicaos.it: due interventi critici di Luisa Ruggio, un racconto inedito di Evelyn De Simone, un intervento critico di Vito Russo

"Vicolo dell'acciaio" di Cosimo Argentina


Vicolo dell’acciaio, Cosimo Argentina, 2010, €15, 260 p, Fandango Libri

Daniela Gerundo recensisce “Vicolo dell’acciaio” su Musicaos.it

“Di me e di Tabù” un racconto di Moira Fusco


Foto tratta dal blog di Matthew Good

Ci sono intese che non si possono spiegare, si possono solo raccontare.
Conobbi Tabù una sera d’inverno. Ricordo ancora la sensazione del freddo pungente oltrepassare la lana del mio cappotto e insinuarsi prepotentemente tra le mie membra. Avevo camminato per ore senza una meta precisa, spinta dall’unico, essenziale bisogno di perdermi tra le vie del centro storico, lontana dal caotico vociferare della gente che assale i negozi e da clacson assordanti di macchine puntualmente in coda. Ad avvolgermi solo il silenzio e la luce diafana di lampioni senza tempo, spettatori attenti e disinvolti di mille storie, mille volti, che affondano le loro menti tra quegli anfratti secolari. Ero stanca, smarrita, lacerata da ricordi che non lasciavano più spazio a fragili malinconie, ma solo a un vuoto lacerante che presiedeva a buona parte della mia anima e a interi momenti delle mie giornate. Il mio umore oscillava tra desiderio di rivalsa e pura catatonia. Difficile dire quanto mi ci sarebbe voluto per riemergere, chi o cosa, avrebbero provocato il mio risveglio frantumando il muro di cristallo che avevo attentamente costruito tra me e il mondo esterno. Diveniva forte l’urgenza di comunicare quella tempesta emotiva che mi accompagnava da un tempo indefinito.
Assorta, mi addentrai in una viuzza stretta e umidiccia, intrisa di profumi un po’ acri e speziati di cucina d’oltremare. La mia attenzione fu catturata da un portone spalancato che lasciava intravedere l’androne di un antico palazzo e il suo cortile di verdi piante che disegnavano un semicerchio color bosco intenso. Alla destra del portone, in alto, su una piccola targhetta sbiadita poteva ancora leggersi “Centro Accoglienza Immigrati”. Oltrepassai speditamente il portone, ma la mia risolutezza fu presto arrestata dalla figura di un giovane uomo, alto, che mi bloccò all’ingresso spiegandomi che l’orario di apertura del Centro era già stato superato da un pezzo e, che per ricevere informazioni sarei dovuta ritornare il pomeriggio seguente e chiedere di Tabù. Tabù… che strano nome – pensai – è la marca di una liquirizia!

L’indomani ero lì, stesso percorso del giorno precedente, ma con l’accesa curiosità di dare un volto a quel nome così insolito. Entrai in una stanza modestamente arredata: una scrivania con su un vecchio computer che ricordava i primi Commodore 64, schermo grande e mobiletto laterale, un piccolo armadietto contente probabilmente la documentazione degli utenti del Centro e un’enorme finestra che lasciava intravedere la strada esterna in tutto il suo ovattato silenzio.

Mi accolse una donna giovane, occhi profondi nero petrolio e pelle scura che risaltava dalle vesti colorate. Parlava un italiano fluente accarezzato da un morbido accento francese: era Tabù. Aveva un fare garbato, quasi familiare, come se quello non fosse stato il nostro primo incontro, ma uno dei tanti, innumerevoli, già condivisi. Scrutava in fondo ai miei occhi, senza diffidenza, forse in cerca di complicità. Tabù mi descrisse il ruolo di mediatrice culturale che svolgeva per il Centro, spiegandomi del suo impegno verso coloro che oltrepassando l’Oceano, lungo il Mediterraneo, giungevano in Salento con l’unica certezza di cercare un’occasione in più di giustizia e libertà. Negli occhi di Tabù una luce inconfondibile mescolava speranza, a voglia di cambiamento e desiderio di ribellione. Era giunta in Italia dalla Somalia all’età di 18 anni, circa. La scelta di abbandonare il suo Paese d’origine era stata dettata dal bisogno di distruggere i vincoli con una società in cui non s’era mai riconosciuta, che rischiava di annullare per sempre il suo essere donna in difesa di modus vivendi anacronistici, ostinatamente tramandati di generazione, in generazione. Tabù aveva detto no ad un’educazione rigida e spersonalizzante, in cui l’unico ruolo della donna era costituito da un atteggiamento di assoluta abnegazione verso il proprio marito, la casa, i figli e dall’accettazione incondizionata e acritica delle leggi dettate dalla religione che finivano per trasformarsi in vere e proprie abitudini culturali. Tutte queste consuetudini rientravano in uno schema ben più profondo e complesso secondo cui le scelte degli individui non contano, in particolare se si tratta di donne.

Tabù aveva però, sogni troppo grandi e una mente troppo aperta e desiderosa di trasformarsi per accettare la battuta d’arresto che si voleva porre alla sua anima. L’integrazione in Italia e a Lecce, non era stato un processo semplice per lei. Aveva dovuto combattere la diffidenza di quanti continuavano a considerarla solo una profuga, un’intrusa, in una città gravemente segnata dal fenomeno della crisi occupazionale. Per l’ennesima volta, di lei si oscurava il suo essere individuo, la sua identità, lasciando avanzare pericolose stigmatizzazioni. Il peso profondo di tale percorso si scorgeva nel suo narrarsi, nel rapido movimento degli occhi che scivolavano verso il basso e negli accenti forti che vibravano a tempi alterni nella sua voce.

Decidemmo che avremmo iniziato subito a collaborare in vista di un evento che si sarebbe svolto di lì a poco e che coinvolgeva le donne immigrate presenti nella nostra città. Si trattava di una conferenza organizzata dal Centro, il cui tema emblematico rappresentava la principale battaglia di numerose donne straniere: “La donna nella società musulmana: ruoli, difficoltà, possibili trasformazioni”.
Ero entusiasta. L’immobilità della mia vita veniva spezzata da un fatto quanto mai inaspettato. Tabù non si limitava ad una semplice richiesta di cooperazione nella quale la mia professionalità di psicologa sarebbe stata inevitabilmente chiamata in causa; c’era molto di più : desiderava rapportasi con la parte più profonda di me, farmi addentrare pian piano, nella sua realtà per poi oltrepassare io stessa la mia anche a rischio di sperimentarne una nuova più cruda, ma altrettanto vera. Entrambe stavamo gettando le basi per un autentico processo di trasformazione che ci avrebbe condotte oltre noi stesse, oltre tutto ciò che fino a quel momento avevamo vissuto, oltre ciò che eravamo sempre state.

Campo profughi Daadab, uno tra i più grandi del mondo, abitato da circa 270.000 profughi somali. Situato a 500 km a nord di Nairobi e 80 dal confine con la Somalia, il campo è stato creato nel 1991. I profughi vivono qui, quindi, da oltre 20 anni e la maggior parte di loro ci è nata. Le condizioni di vita sono difficilissime e pessime quelle climatiche.

I giorni seguenti li trascorsi a ricercare del materiale che mi consentisse uno studio più consapevole della condizione femminile in Africa. Le ricerche lasciavano emergere imparità e violazione dei diritti umani, portando alla luce una condizione mortificante in cui la donna è oggetto di piani precostituiti a cui non è concesso opporsi, pena il disconoscimento totale da parte della società.
Mi resi conto che affrontare la questione con Tabù e con le altre donne presenti alla conferenza non sarebbe stato semplice. Non volevo essere fraintesa. Volevo essere incisiva, spronare al cambiamento, senza dimenticare il rispetto per una cultura “altra”.
Invece tutto accadde nel modo più naturale possibile. Ci ritrovammo nuovamente sole in quella piccola stanza, io e lei: Tabù con un mare di esperienze vissute sulla sua pelle, troppo giovane, in fondo, per essere già così adulta; ed io con tutto il mio universo emotivo in perenne moto, stringendo forte tra le mani articoli di giornale attentamente selezionati, quasi temessi di perderne il controllo. Quei resoconti erano vivi quanto noi stesse, squarciavano tenacemente la carta per liberare infinte voci che urlavano la loro solitudine, denunciavano violenze fisiche e psicologiche quotidiane rompendo un silenzio fatto di lacerazioni permanenti e perdita di sé.
Iniziai a leggere quelle testimonianze con la voce un po’ tremula. Ero visibilmente tesa, profondamente toccata da ogni parola. Non avevo ancora ben chiaro quali argomenti avremmo potuto affrontare durante la conferenza o se c’erano aspetti legati alla religione che avrebbero messo Tabù in seria difficoltà. Lei fissò intensamente i miei occhi, poi sorrise con quel mare calmo di dolcezza che la caratterizzava. Stai tranquilla, – disse – vorrei trasmettere una speranza di cambiamento combattendo per quanto possibile ogni forma di torpore e resistenza. Tutti abbiamo diritto a qualcosa in più della semplice accettazione della nostra esistenza, non credi? –. Come darle torto? Era stata sempre la mia lotta più precoce, una battaglia che negli ultimi tempi rischiava di consumarmi senza ritorno. Stavo per cedere, sarei potuta scoppiare in un pianto inarrestabile: autocontrollo zero.

Tabù prese ancora la situazione tra le mani, quasi volesse liberarmi dall’impasse che stava per immobilizzarmi. Mi parlò di sé, ma in modo più profondo. Sentivo che stava per regalarmi qualcosa di valore inestimabile, di non tangibile se non tra le corde della propria anima, in quella sfera recondita del sé che abbraccia il comune bisogno di tutti gli uomini di “sentirsi parte” di qualcosa e che tanto mi era mancato negli ultimi anni! Avvertì un immediato senso di condivisione che alleviava la morsa della mia angoscia: non ero più sola, inspiegabilmente alleata di una donna la cui vita difficile richiamava la mia nel suo percorso di ribellione, non accettazione, urgenza di rielaborare e ridefinire prospettive risolutrici.

Mi raccontò dell’infanzia che le era stata negata, dell’istruzione che non le era stata concessa; della fuga dalla sua famiglia e del viaggio in Italia tra incertezze e sogni; della tanto attesa rinascita resa possibile dall’incontro con il marito senegalese, Lai, già da anni integrato nel nostro Paese e attivamente impegnato nel lavoro del Centro con i Servizi Sociali. Un uomo unico che l’aveva fin da subito rispettata, autenticamente amata, facendole scoprire una vita degna d’essere chiamate tale. Eravamo ormai giunte ad un punto di contatto tale da far cadere ogni difesa e prima ancora d’accorgermene, stavolta ero io a raccontarle di me senza freni di sorta: mi stavo narrando, mi stavo svelando in quanto avevo fino ad allora vissuto, sperato, cercato.
Parlai a Tabù del mio incessante desiderio di interagire con una cultura diversa da quella in cui ero cresciuta, per decentrarmi dal mio universo che avvertivo ormai sempre più limitato. Avevo voglia di addentrarmi in ciò che non conoscevo abbastanza e al tempo stesso di offrire un po’ di me, del mio mondo, a quanti avessero cercato di scoprirlo avventurandosi in esso. Era l’unico modo per rialzarmi anch’io ad un’ esistenza nuova, intrisa di stimoli ben più profondi, in grado di dissolvere i vecchi fantasmi che si agitavano costantemente all’ombra delle mie notti bianche.

Tabù mi strinse forte le mani: avevamo un mondo da condividere e scambiarci! I nostri occhi, di colpo, si attraversarono come due pianeti in viaggio da milioni di anni con l’unico intento di incontrarsi e fondersi in un elemento solo.
Decidemmo che gli argomenti da trattare avrebbero toccato temi come la sessualità femminile nelle società musulmane; il problema del controllo della verginità; la difficoltà del farsi strada di un’istruzione per le donne con le relative implicazioni che ne conseguivano; il ruolo della donna nella complessa relazione del matrimonio. Entrambe eravamo d’accordo a dedicare una parte della conferenza alle testimonianze dirette di donne africane che avevano deciso di raccontarsi, confrontarsi e riscoprirsi: riscoprirsi esseri nuovi con pari diritti, opportunità e dignità.

Il giorno della conferenza fu indimenticabile. La discussione fu viva e partecipata da parte di ogni presente. Donne di città differenti si ritrovarono riunite ad affrontare problemi della realtà quotidiana di ognuna, vissuti su pelli ora stanche, ora deluse, ora speranzose, ora accese dalla necessità di conquistare più spazio e voce in una società che per tanto tempo le aveva relegate al ruolo di spettatrici passive di una vita che scorreva troppo velocemente per poterla fermare. Ancora più forte era la necessità di far emergere il rispetto della propria libertà in tutte le infinite sfaccettature che il termine racchiude, prima fra tutte, quella di lasciar correre l’ immaginazione alla ricerca di un miglioramento della propria esistenza.
Molte si preoccupavano di ridefinire il concetto di “rispetto” nei confronti di religioni e culture non occidentali: il rispetto – affermò una di loro – non può coincidere con un atteggiamento semplicistico di eccessiva conciliazione, ma deve tradursi nel riconoscimento e valorizzazione dell’identità di ognuno in funzione di una crescita su più livelli, il cui evolversi non potrà mai arrestarsi.
Ascoltavo con interesse interiorizzando il più possibile quanto si stava discutendo come spugna assorbente, lasciando ampio sfogo a quella tempesta di emozioni, riflessioni, domande provocatorie che si agitavano nella mia mente in modo così rapido. Le ovvietà della mia vita quotidiana mi davano un senso di sconfinata miseria rispetto a ciò che ognuna di loro aveva dovuto conquistare, difendere, per il solo fatto d’essere nata in un luogo geograficamente diverso dal mio. Le sentivo tutte vicine per i loro desideri, la motivazione, i sogni, le delusioni subìte. Ero parte di loro e di quella forza di dire “no”, di afferrare il presente e ridisegnare un futuro dalle pennellate più calde, più colorate, accese e rasserenanti.

Potevamo farcela tutte: ognuna con il nostro percorso da seguire, con la voglia ardente di impegnare noi stesse in qualcosa che lasciasse scorgere in quella faticosa salita, una più dolce e soleggiata discesa. Identità da ridefinire coraggiosamente e limiti da oltrepassare in virtù di nuovi spazi da riempire con noi stesse nel modo che più ci rispecchiava.
Un momento particolarmente lieto fu il buffet di dolci con tutti gli intensi profumi caratteristici della cucina etnica: dall’estrema delicatezza dei dolcetti al cocco, alla morbidezza dei koeksisters; dalla semplicità dei budini di riso, ai mille colori del couscous; tutto accompagnato dall’aroma amarognolo tipico del the verde. La mia mente corse rapida all’Africa, sforzandosi di immaginare la preparazione di ciò che il mio palato si apprestava ad assaporare, alla ricerca di odori, sapori, istantanee di paesaggi da catturare e tradizioni antiche quanto il mondo da scoprire, da sempre intrecciate alla luce di suoni neri frutto di percussioni dai ritmi serrati e incalzanti.

A quell’incontro ne sarebbero seguiti altri: una sera a settimana da dedicare alla narrazione di ciò che stavamo vivendo e all’analisi delle difficoltà che quotidianamente provavamo a gestire con gli strumenti di cui disponevamo, primo fra tutte, una maggiore fiducia in ciò che siamo e che vorremmo essere.
Per comprendere la complessità della realtà che ci circonda occorre necessariamente ampliare il nostro sguardo; ciò richiede continui aggiustamenti del nostro raggio d’azione, ma ci regala l’occasione di sperimentarci individui nuovi, dotati di un’umanità innegabilmente più profonda.
Io e Tabù, due oceani sconfinati in perenne moto: ora tumultuoso e ora quieto, in virtù dell’arrivo di venti d’oltreoceano portatori di significati sconosciuti, che attendono solo d’emergere in tutta la loro essenza più autentica attraverso lo scambio profumato dei nostri animi caldi.
Di me e Tabù: due donne, due vite, un’unica storia… la continua ricerca di se stesse.

§

Moira Fusco ha 34 anni, è insegnante di Psicologia. Ha studiato Scienze dell’educazione a Lecce, frequentando un master in Progettazione pedagogica nell’ambito della giustizia a Milano e si è abilitata in Psicologia presso l’Università di Ferrara. Negli ultimi anni ha viaggiato molto e in tutto il mondo, nello scorso Ottobre, grazie a una borsa di studio della Comunità Europea ha insegnato italiano e psicologia in Portogallo, nel paesino di San Teotonio.

“Un marziano a Lecce” ovvero Massimiliano Manieri. Plink (…L’uomo caduto in cattive acque)


“Un marziano a Lecce” ovvero Massimiliano Manieri. Plink (…L’uomo caduto in cattive acque).
Luciano Pagano

La ‘performance’, nel catalogo di espressioni possibili di cui dispone l’artista contemporaneo, è forse il terreno più difficile e delicato, ma senza dubbio quello che regala più soddisfazioni quando si riesce a cogliere nel segno. Cosa intendo? Tanto per cominciare la performance si configura fin da subito come esperienza di ‘arte totale’. La performance è infatti un gesto d’arte che va letto criticamente sia dal punto di vista dell’artista che dello spettatore. Esistono performance in cui ogni aspetto viene curato in modo maniacale e performance che lasciano molto margine nella loro realizzazione al caso, all’improvvisazione, all’intervento materiale degli spettatori presenti. Massimiliano Manieri, non nuovo a questo tipo di esperienze, ha scelto la prima strada, quella cioè di realizzare nello spettatore una performance di arte concettuale che oltre a comunicare un idea estetica si fa portatrice di un messaggio culturale. Massimiliano Manieri ha trovato nella performance l’espressione artistica che modifica il mondo in tutte le sue forme, ampliando la percezione del reale, un modo di fare arte che è vigile, critico, utile. La cosa che più apprezzo delle sue performance è il non voler ammiccare ad altre forme di scena come il teatro o il reading ma di essere sempre e solo performance, ovvero sia realizzazione eventuale di una metafora/messaggio “del mondo” che è “nel mondo”.

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Fotografie di Dario Manco, Eva De Guz

“È la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani… A ogni piano, mentre cade, l’uomo non smette di ripetere: “Fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene”. Questo per dire che l’importante non è la caduta ma l’atterraggio.” [da “L’odio” di Mathieu Kassovitz]

Questo intervento inaugura una breve serie di appunti e note, dedicate ognuno a una performance del percorso artistico di Massimiliano Manieri. Iniziamo con “Plink (…l’uomo caduto in cattive acque)”, del quale potete apprezzare qui sopra uno slideshow essenziale. Agosto 2008, comune di Sannicola (LE), un uomo caduto dal cielo viene trafitto da una lancia conficcata nel terreno e con la punta verso il cielo. L’uomo giace trafitto per diverso tempo, sanguinante, morto. I riferimenti sono molteplici, quello filmico più diretto e non del tutto inquietante è forse l’incipit di Magnolia, quello dove il sub viene catturato da un canader e scaraventato su una foresta infuocata insieme a tutta l’acqua che viene utilizzata per spegnere un incendio. Il modo migliore di accostarsi alla performance PLINK di Massimiliano Manieri è quello di immaginare una fusione ideale tra altri due marziani/alieni/umanoidi caduti sulla terra, David Bowie e Ennio Flaiano, autore di quel “Marziano a Roma” che approfittava del marziano per mettere in luce i difetti dell’umano. Chi è e perché è caduto sulla terra? È venuto per farsi uccidere all’istante? Il pensiero è naturale, venire al mondo per farsi trafiggere all’istante, cadere da una realtà ovattata e celeste quale può essere quella dei nove mesi in cui siamo nel ventre materno, vestiti da sub, coccolati, per poi essere proiettati nel mondo ancora con la muta (elemento che ritornerà nelle performance di Manieri) e trafitti. Il testo di “PLINK” che potete leggere qui sotto tenta forse il percorso a ritroso della goccia d’acqua che cade dal cielo, quasi a confermare la natura ex-amniotica di questo viaggio. C’è un percorso verbale che circonda il tappeto nero, black hole sul quale è caduto Plink. C’è lo scorno per non essere lì, in quel momento, per vedere con i nonstri occhi l’attimo della caduta sulla terra. Lo avremmo salvato?

Dato che la performance è un luogo attuale di avvenimenti, è possibile ripercorrere l’evento artistico a posteriori soltanto con le tracce dell’evento. Nella fattispecie di “Plink” disponiamo di un video che riassume la performance nel PRIMA e di alcune foto che realizzano nel DOPO la visione di ciò che è accaduto. Il video realizzato da Masismiliano Manieri è a sua volta, per la cura nella realizzazione, una piccola opera d’arte.

PLINK

Cronaca di Plink, malgrado…
Nel giorno che scelse per gocciolare via
nell’ultimo mondo scelto per la sua rovina
Tradito dall’ultima goccia raccolta,
Mentendo sulla mano inumidita,
Insalivando pietre per negare il maltolto
Parleremmo volentieri di lui, qui…
Se solo non si fosse fatto sorprendere
dalla coincidenza dell’acqua colata alludendo…
Sbrodolava liquido masticando asciuttezze,
mentre costui si lascia trafiggere ligneo.
Come un corpo segnalibro si abbandona
Così il pelo dell’acqua può specchiarlo…
E digrigna la sabbia che non sa di contenere
Mentre il sole ingialliva il liquido restato,
ed il freddo invadeva il ventre pallido trafitto…
l’aria stessa poteva tornare a star zitta…

PLINK
(…L’UOMO CADUTO IN CATTIVE ACQUE)

Un telo nero occupava uno spazio permesso
Una filastrocca macabra ne raccontava le incongruenze
E, nel centro, lui, l’autore del ladrocinio più stupido
E l’acqua, l’elemento più libero, ridotto in “scipperia” da quartiere
Togliere al mondo circostante si tradusse nel togliere a noi stessi
In una lancia che partiva dal suolo e lo attraversava
la restituzione di un peso malmesso più che del maltolto
nell’acqua che cola tutte le nostre equazioni errate
nella pistola stretta tra le mani il gioco della guerra
dell’unica guerra che non fummo in grado di vincere
Nella morte che sopraggiunse la quadratura superandoci
La rivincita dell’acqua ci colse alla sprovvista, infine
Ed il ladro, fece la fine del tordo…

§ LINK §

LUOGHI DELLA PERFORMANCE (e link per ricerca in rete dell’evento)

mostra LE MILLE BOLLE BLU: PLINK [installazione performativa] in collaborazione con l’OFFICINA DELLA PAROLA & RAGGIO VERDE (Sannicola, Le – agosto 2008)

http://www.lecceweb.it/eventi/1031/le_mille_bolle_blu.html

mostra NATURE MUTATIONS: PLINK [installazione performativa] (Primo Piano LivinGallery, Lecce – marzo 2009)

http://stefanodonno.blogspot.com/2009/02/nature-mutations.html

http://www.articoweb.it/2009/03/02/nature-mutations-lecce-primo-piano-livingallery-fino-al-18309/

http://terpress.blogspot.com/2009/03/nature-mutations.html

http://www.eosarte.eu/?p=6192

PLINK [installazione performativa]

In collaborazione con Mujmuné e Atlantide città dei sogni per mostra RISCARTIAMOCI (centro storico Leverano, Le – giugno 2010)

http://www.connectmagazine.it/?p=1313

http://comitatoambientesano.blogspot.com/2010/05/ri-scartiamoci-leverano-dal-29-maggio.html

per CONTATTI: Massimiliano Manieri – terredimax@libero.it

Thomas Pynchon. Inherent Vice. “Vizio di forma” (Einaudi Stile Libero), dal 10 febbraio in libreria


Il 10 febbraio 2011 sarà finalmente in libreria “Vizio di forma” di Thomas Pynchon, ambientato tra il 1969 e il 1970 si tratta di un romanzo atipico per chi è abituato agli ‘affreschi’ pynchoniani (vedi Arcobaleno della gravità o Contro il giorno). Un romanzo godibile, un poliziesco, in America è piaciuto molto di più al grande pubblico e ai giornalisti piuttosto che ai critici bacchettoni. Non vedo l’ora di leggerlo. Quella che sentite nel video è la voce fuori campo di Thomas Pynchon. Mentre l’immagine è la copertina dell’edizione americana, che potete acquistare in originale cliccando sul link.

Posizione nella classifica Bestseller di Amazon: n. 8.092

California, inizio anni Settanta. Doc Sportello, investigatore privato con una passione smodata per le droghe e il surf, viene contattato da una vecchia fiamma, Shasta, che gli rivela l’esistenza di un complotto per rapire il suo nuovo amante, un costruttore miliardario. L’investigatore non fa neanche in tempo ad avviare le sue indagini che si ritrova arrestato per l’omicidio di una delle guardie del corpo del costruttore, il quale è intanto sparito, come pure Shasta. Sembrano le premesse del più classico dei noir, ma ben presto le coincidenze più strane si accumulano e il mistero si allarga a macchia di leopardo. Doc inciampa così in collezioni di cravatte con donnine discinte, in falsi biglietti da venti dollari con il ritratto di Richard Nixon, in un’associazione di dentisti assassini nota come Zanna d’Oro, che è però anche il nome di un sedicente cartello indocinese dedito al traffico di eroina. Come sempre nei romanzi di Pynchon, l’indagine genera misteri anziché risolverli, e ben presto ci troviamo in un mondo a parte, uguale ma anche diversissimo rispetto a quello che scorre sulla superficie delle nostre vite.

Einaudi, Stile libero big, pp. 400, 9788806202828

Gennaio 2004 – Gennaio 2011 – Sette anni di Musicaos.it


2004 – 2011 Sette anni di Musicaos.it.

Grazie ai lettori, ai collaboratori, e a tutti quelli che chi hanno aiutato e che ci continuano a sostenere.
Musicaos.it – uno sguardo su poesia e letteratura” è una rivista online di letteratura, che è un portale, che è un sito. All’indirizzo di Musicaos.it potete trovare le istruzioni per collaborare. All’indirizzo musicaos.wordpress.com, questo sito, trovate le coordinate e i link per navigare nell’archivio della rivista, dal 2004 in poi. A questo indirizzo trovate tutto il materiale che viene pubblicato, i racconti, le recensioni, gli articoli, i suggerimenti di lettura.

“Anche quando i costi della rete saranno abbattuti, anche quando l’elettricità necessaria per accendere i computer, ai server e collegarsi ad internet sarà fornita da fonti energetiche rinnovabili e disponibili il libro non potrà essere rimpiazzato dall’e-book. Ci sarà sempre un servizio il cui accesso prevede un pagamento. Guattari in anticipo sulla diffusione della rete pensò un futuro ricco di password che aprono e password che chiudono, rubriche digitali dense di pin e numeri di accesso. Il tempo della lettura ed il tempo della scrittura, il tempo dell’ascolto e il tempo della ricezione. Il tempo è la misura dentro cui si iscrive la ricezione di un testo. Immettere contenuti, sia su internet che nell’editoria, in modo sempre più facile e veloce, dovrebbe responsabilizzare maggiormente chi questi contenuti gestisce. Le pagine su internet e le pagine di carta stampata sono miliardi. Come trovare la qualità? La qualità di una scelta, di una selezione, di un filtro, con l’avvento di internet hanno raggiunto lo stesso grado di importanza della qualità del testo stesso. E torniamo al punto di partenza. Le differenze tra internet e libro sono puramente tecniche. In sostanza i due mezzi seguono gli stessi percorsi di funzionamento. Sui manuali di html-design è consigliato di dare molta importanza ai contenuti nello sviluppo dei propri siti. Un sito può essere strabiliante dal punto di vista grafico della presentazione, tuttavia il motivo che ci fa tornare a visitare quel sito è il fatto che lì troviamo quel che ci serve. Lo stesso accade nei libri. Il libro dovrebbe essere l’oggetto par excellence orientato ai contenuti.”

Luciano Pagano, Webook,
9 gennaio 2004/3 febbraio 2004

Se volete comunicare direttamente con la redazione inviate un email a lucianopagano [at] gmail [punto] com

Per festeggiare il settimo compleanno postiamo una poesia postuma di Charles Bukowski, “e così vorresti fare lo scrittore?“.

“e così vorresti fare lo scrittore?”. poesia postuma di Charles Bukowski


se non ti esplode dentro
a dispetto di tutto,
non farlo.
a meno che non ti venga dritto dal
cuore e dalla mente e dalla bocca
e dalle viscere,
non farlo.
se devi startene seduto per ore
a fissare lo schermo del computer
o curvo sulla
macchina da scrivere
alla ricerca delle parole,
non farlo.
se lo fai per soldi o per
fama,
non farlo.
se lo fai perché vuoi
delle donne nel letto,
non farlo.
se devi startene lì a
scrivere e riscrivere,
non farlo.
se è già una fatica il solo pensiero di farlo,
non farlo.
se stai cercando di scrivere come qualcun
altro,
lascia perdere.

se devi aspettare che ti esca come un
ruggito,
allora aspetta pazientemente.

se non ti esce mai come un ruggito,
fai qualcos’altro.
se prima devi leggerlo a tua moglie
o alla tua ragazza o al tuo ragazzo
o ai tuoi genitori o comunque a qualcuno,
non sei pronto.

non essere come tanti scrittori,
non essere come tutte quelle migliaia di
persone che si definiscono scrittori,
non essere monotono e noioso e
pretenzioso, non farti consumare dall’auto-
compiacimento.
le biblioteche del mondo hanno sbadigliato
fino ad addormentarsi
per tipi come te.
non aggiungerti a loro.
non farlo.
a meno che non ti esca
dall’anima come un razzo,
a meno che lo star fermo
non ti porti alla follia o
al suicidio o all’omicidio,
non farlo.
a meno che il sole dentro di te stia
bruciandoti le viscere,
non farlo.

quando sarà veramente il momento,
e se sei predestinato,
si farà da
sé e continuerà
finché tu morirai o morirà in
te.

non c’è altro modo.

e non c’è mai stato.

Charles Bukowski, E così vorresti fare lo scrittore? Guanda, 2009, €9,00
traduzione di Simona Viciani
poesie tratte dal volume Sifting through the Madness for the Word, the Line, the Way

“Saluti e baci”, un racconto di Dino Mimmo


“Saluti e baci”
di Dino Mimmo

La notte è tutta mia, è una donna incinta, ha le doglie, me la sento addosso, appiccicosa, vinavil. Sono in apnea, nel buio del mio camerino, in una feroce attesa. Boys and girls inneggiano cori da stadio, là fuori, pogano come cavallette, vogliono un rock di fuoco e fiamme e aria alcolica puzzolente e canne e fumo e gel per capelli e sunglasses. Annaspo, ansimo solitario, la band è nel backstage che accorda chitarre e scatarra, sono un semitono sotto, o sopra, sottosopra, gli acuti sottosopra, erano il mio orgasmo, il mio sangue, il mio sudore, rapido e graffiante, ma un semitono sotto, all’inizio sembri fuori tonalità ma poi, poi ti esce un sound tutto allucinato, tutto allucinato, e all’improvviso, come sempre, da un po’ di tempo a questa parte, ho voglia di correre fuori, al freddo, a piangere, bambino, eccomi, ho paura ho paura ho paura.

La notte è ancora giovane, come me, non voglio cantare, no, lasciatemi uscire da qui, non voglio nessun suono, nessun rumore di guitar, lasciatemi ridere, anche se, anche se, no, non ho il coraggio di farlo, mi dico, mi ripeto, da sempre, da un po’, ed è vero, datemi dissonanze, ammutolite la platea, spegnete quella folla lì fuori, non c’è verso di fermarli, non c’è verso di fermarmi, lasciatemi ululare, scale semidiminuite come vendette.

La folla è accesa, e le luci, e la scena, e lo show: solo buio e freddo, ho buio e freddo, apnea, lasciatemi uscire dal mio corpo, questo vuoto è soltanto mio, la testa diventa quadrata, una sensazione di immobilità, qui dentro, lì fuori, no-ritmo, afasia, aspetto sempre, da un momento all’altro il buio, in contropiede, mandare a fanculo tutto quello che abbiamo, lo show studiato pazientemente in sala prove, le mie allucinazioni, la realtà che non mi guarda affatto, ritmo di un metal duro, gotico, angosciante, cruel, dritto e lungo, come un cazzo, freddo, per niente sensuale, un metal proprio del cazzo, che non mi riguarda più, non guardo in faccia a nessuno, tiro solo per me, mondo marcio, e ipnotico, e io, a ripensarci adesso, avrei voluto essere uno normale, in un mondo normale, in un tempo normale.

Cosa cazzo ci faccio in questo lurido camerino da quattro soldi? Dov’è il resto della mia vita? Cosa vuole da me questa gente schizzata e delirante e colorata e infiammata? In quanti sono, in quanti siamo, in quanti siete contro di me? Voi lo sapete cos’è il vuoto? E’ uno, è singolare, è fatto di blocchi di cemento, di rimpianti e di cemento, e di sangue non coagulato, bloccato, sventrato, addensato di piastrine, e voi, voi ballate, ballate pure, voi, che il vuoto balla con voi, un vuoto unico, soltanto io lo capisco, voi ballate pure, soltanto io lo vedo, ballate pure, mes petit zombie…

Sto sudando freddo, sudo e comincio a ridere, rido nel mio vuoto peggiore, quest’incubo, non voglio salire sul palco, fanculo la band, fanculo loro, se mi sentono, mi muovo in un tempo ossessivo, i suoni di una techno apripista che sparano per scaldare la folla, ballo l’ultimo fandango, corteggio questa notte di merda per riuscire a farla mia, questo urlo dentro di me, non so cosa ci faccio tra queste mura sbiadite, tra queste voci sussurrate nel mio vuoto, tempo pompato a centoquaranta decibel, sotto la soglia del dolore, rido, senza ascoltare le voci nella mia testa, rido e non connetto, rido, e sudo, e il mio vuoto balla con me, lasciatemi fuggire, in una vita normale, sono lento, ma corro al limite delle mie possibilità, cour dans les nuits de l’aime, sono l’icona di un rock feroce, tiro e tiro, nudo e crudo, entre dans le vide de l’aime, sono l’Icona, la vostra unica vera sana follia, il vostro ego sospeso, vi voglio distorti, dentro una follia tutta nuda, nudo come lo show, e rido sudo rido, vedi che sudo amico mio, vedi che sudo anch’io, travestito nel vuoto infame, la technorock nello stomaco, e rum e crack e merda che si mescola nel cervello ai ricordi, la voglia di vomitare tutto, rock guasto e pensieri, e caffè, non voglio questo show, non voglio questi odori finti, voglio esserci, voglio mollare tutto e scappare, urlare al soffitto di questo posto, e rido, e ballo, rabbioso come un cane, voglioso di azzannare, cannibale…

Ecco, mi chiamano, lo show comincia… Stanotte voglio ballare per sempre, non fermarmi, sudare sudare sudare, salire sul palco ballando, ridendo, alzare al cielo il microfono, urlare ANDATE A CASA!, e dissolvermi, sparire nel nulla, fanculo l’Icona, lasciatemi andar via, lasciatemi la mia vita, c’ho da vomitare e non voglio cantare, non sono la vostra Icona, sono pallido, la band è già tutta sul palco, tranquilla, nel proprio mondo, ho i conati di vomito, con un balzo felino salto sulla scena, si accendono milioni di luci, la folla di boys and girls ulula, in delirio, la sua Icona, un boato festante.
Alzo le braccia al cielo, sono un dio, il vostro Dio rassegnato e castigato, e urlo, e rido, e urlo e rido.

Saluti e baci dal vostro merdoso rock del cazzo…

§

È la volta di un racconto di Dino Mimmo, intitolato “Saluti e baci“. È il racconto che abbiamo scelto per chiudere l’anno 2010. La prossima recensione che verrà pubblicata sarà di Daniela Gerundo, che ha scritto su “Vicolo dell’acciaio” (Fandango) di Cosimo Argentina, uno dei più talentuosi autori pugliesi degli ultimi anni.

“Saluti e baci”, un racconto di Dino Mimmo su Musicaos.it


Musicaos.it augura un felice anno nuovo a tutti i suoi lettori, con un racconto di Dino Mimmo, che potete leggere qui: https://lucianopagano.wordpress.com/2010/12/31/saluti-e-baci-un-racconto-di-dino-mimmo/

Il Libro del 2010 salentino consigliato da SalentoWeb.Tv: “È tutto normale” di Luciano Pagano (Lupo Editore 2010)


Potete acquistare “È tutto normale” in formato epub (per ebook reader, ipad, pc): http://alturl.com/sgtst su Ebookyou.it

in libreria, oppure ordinarlo a ordini@lupoeditore.com, oppure su ibs.it: http://alturl.com/pao3y

Riporto qui di seguito l’articolo comparso ieri su SalentoWebTv:

“Respiri nuovi si aggrovigliano sopra il cielo della carta stampata presagendo l’inizio di una nuova Era. L’esplosione del fenomeno iPad ha generato un vero e proprio tsunami mediatico e l’impero che i libri stampati stancamente ma orgogliosamente si sono guadagnato sembra ormai finire nelle tenebre del dimenticatoio tecnologico rischiando di essere completamente soppiantato dalla controparte digitale.

Alle porte del 2011 si profilano nuove creature letterarie, siano esse ebook multimediali o opere digitali open-source.

Per questo motivo la redazione di SalentoWeb.Tv si è sentita in dovere di raccogliere nelle pagine delle sue memorie digitali un elenco di alcuni libri, di vario genere, che hanno fatto brillare questo ultimo decennio di carta.

Scegliere non è stato un compito facile, abbiamo dovuto lasciare in panchina capolavori fondamentali, ma ognuno ha il suo libro del cuore, quello che “deve esserci assolutamente” ed eventuali assenze, siamo certi, non inficeranno il resto.

1. Esperimento di verità di Paul Auster (Einaudi, 2001)
2. “Dire quasi la stessa cosa” di Umberto Eco (Bompiani 2003)
3. Caos Calmo di Sandro Veronesi (Bompiani 2005)
4. Gomorra di Roberto Saviano (Mondadori 2006)
5. “Che fine ha fatto il futuro? Dai non luoghi al non tempo” di Marc Augè (Elèuthera 2009)

Il Libro del 2010 salentino consigliato da SalentoWeb.Tv:

6. “È tutto normale” di Luciano Pagano (Lupo Editore 2010)”

Fonte dei video: Youtube

Daniela Gerundo recensisce “La melodia del corvo” (Bompiani) di Pino Roveredo


Pino Roveredo - La melodia del corvo - Bompiani

Un immondo Grand Guignol di nefandezze, un circo animato da “equilibristi della provvidenza” e “giocolieri della disgrazia” è il microcosmo in cui riecheggia, roca e sgradevole, “la melodia del corvo”; un sottoscala della vita abitato da personaggi grotteschi che hanno derubricato l’amore dalla loro antologia della sopravvivenza, scritta con l’inchiostro della bile nera e con la mano scossa dai fremiti delle crisi d’astinenza.

Nelle zone d’ombra della loro “Corte dei Miracoli” si aggira un substrato di umanità con la coscienza narcotizzata da una permanente anestesia affettiva: prestigiatori abili nel trasformare il denaro in fumo e il fumo in delirio; temerari saltimbanchi che valicano la montagna della vita con “capriole in salita”; picchiatori scelti pronti ad avventarsi con inaudita violenza sugli insolventi compratori di illusioni in bustine; funamboli maldestri nel loro deambulare in perenne equilibrio instabile, sulle corde tese ai confini di una umanità possibile, senza la sicurezza della rete di protezione ad attutire le inevitabili cadute. Una rete predisposta ad accogliere, come in un amorevole abbraccio, chi è lontano dagli schemi della perfezione che il mondo al di fuori della tenda esige.

Situazioni estreme, personaggi esasperati, il tempo della vita scandito da un ritmo concitato che Pino Roveredo traspone sulle pagine del suo ultimo romanzo con una scrittura affannosa, sincopata, con le approssimazioni della lingua parlata, col ricorso ad incisivi ossimori,allitterazioni, onomatopee; con una narrazione che, discostandosi dalla linearità temporale ricorre a continui flashback e flashforward a giustificare lo stato confusionale in cui si trova il protagonista, sprofondato nel buco nero dell’Io, nel vuoto interiore evidenziato dalla insicurezza e dai bisogni. Il bisogno d’amore, in particolare, crea in Gino una dipendenza affettiva dalla persona sbagliata:Giuliana, la dispensatrice di dolore, la vigliacca ipocrita opportunista capace di mille travestimenti, la passione dei vent’anni dall’incedere sicuro con la sua “prorompente bellezza caricata sui tacchi”, la predatrice entrata nella sua vita e nella sua anima per derubarlo della propria libertà interiore, della dignità, dell’autostima; per distruggergli la famiglia, il lavoro e tutto quanto faticosamente costruito fino a quel tragico 18 ottobre.

Devastata dall’incapacità di elaborare i lutti provocati dalle esperienze negative vissute col padre e con il suo primo amore, Giuliana “ingrassa la sua rivincita” usando gli uomini per vendicarsi, andando all’incasso dei crediti che la vita le porta calpestando chiunque si trovi sulla sua strada, inseguendo un benessere borghese travestita da “sinistroide sinistrata”, cantando Bandiera Rossa e Contessa con la sua voce roca da corvo, spacciando sostanze mortali.

Una di queste sostanze ucciderà Riccardo , che da quel momento va ad abitare la mente di Gino diventandone l’alter ego, la coscienza, la sua parte razionale, l’istinto di conservazione, colui che gli impedirà di traslocare “dalla preoccupazione della vita alla soluzione della morte”.

È un ipersensibile Gino; ama Paperino, la rima dolce di Prévert,i piaceri semplici della vita; reclama coccole dalle donne della sua vita, la moglie e la figlia, che gli riservano il gelo dell’indifferenza. Arrabbiate con la vita, prive di qualsiasi entusiasmo Luisa e Martina sembrano geneticamente predisposte alla tristezza, alla malinconia e alla depressione. Gino al mattino prepara loro la colazione mettendo anche i fiori a tavola, sia pure di plastica, e le sveglia con un bacio, ma “non è facile amare senza avere poi indietro il conforto di un ritorno”.

La loro vita “quadrata, con gli animi a spigolo” scorre con la noia di un treno accelerato sui binari della normalità, con gesti che si reiterano quotidianamente senza suscitare la benché minima emozione, con la comunicazione affidata a sguardi imbronciati e invettive urlate. Una situazione stagnante in cui Giuliana trova un fertile humus per radicare e poter neutralizzare la volontà di Gino, che si ritrova proiettato in una dimensione costituita da molte ipotesi ( ipotesi di una fuga…di un amore…di un tempo…di un luogo…di un incastro…) e una sola certezza : la voglia di regalarsi il grande piacere di restare. Malato di possessione amorosa, terrorizzato dalla paura del distacco Gino troverà la forza di compiere un gesto che legherà per sempre a lui la sua Giuliana.

Scritto in tre mesi, in contemporanea con altri due libri che usciranno nel 2011, Roveredo non ha concesso distrazioni alla velocità, rimanendo nelle cifre stilistiche della sua scrittura asciutta e immediata ma anche avvolgente e appassionante, ricca di spunti autobiografici nei contenuti.

Dalle pagine del romanzo prende corpo la tormentata vicenda esistenziale dei suoi primi 40 anni; un percorso consumato nelle costrizioni del letto di contenzione e dell’Hotel Millesbarre ma illuminato dalla scoperta di una dimensione totale della libertà che può derivare solo dalla cultura.

I testi divorati nei lunghi periodi di isolamento hanno medicato le offese subite nel corpo e nello spirito, contribuendo a restituire alla società un uomo consapevole, che ha imparato a rispettare sé stesso e gli ultimi, quella parte di umanità che non tace le difficoltà del vivere quotidiano e i rischi di rimanere vittime di autoinganni senza possibilità di riscatto. Lui che a riscattarsi ci è riuscito ora si occupa di chi è ancora dentro il vortice dell’autodistruzione, e li aiuta a venir fuori seguendo gli insegnamenti di Basaglia. È uno scontro titanico tra Eros e Thanatos, una scommessa tra la vita e la morte perché, se è vero che ci vuole coraggio per morire è maggiormente vero che ci vuole eroismo per vivere.

http://bompiani.rcslibri.corriere.it/libro/6534_la_melodia_del_corvo_roveredo.html

Il prossimo post che pubblicheremo su Musicaos.it sarà racconto di Dino Mimmo intitolato “Saluti e baci”.

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