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Le Mani e l’Ascolto 2009-2010


Città di Lecce / Assessorato alla Cultura
Associazione Culturale Fondo Verri, Presidio del libro di Lecce

Le Maniel’Ascolto
IX edizione
28 dicembre ’09 / 6 gennaio ‘10


Torna Le Maniel’Ascolto. Come consuetudine – con il sostegno dell’Amministrazione Comunale di Lecce – un pianoforte abiterà il Fondo Verri. Un appuntamento che si rinnova in occasione delle festività per il Capodanno, una rassegna di parole e di suoni giunta quest’anno alla nona edizione. Libri, esperienze autoriali e ricerche sonore in una maratona di ascolti che avrà luogo e pubblico dal 28 dicembre al 6 gennaio nella saletta di Via Santa Maria del Paradiso.

Il costante contatto con la scena creativa (musicale e letteraria) è una delle prerogative del Fondo Verri. Le Maniel’Ascolto rinnova il desiderio di costruire avventure sonore proponendo repertori che hanno il pianoforte come elemento di guida e di raccordo delle performance, pretesto di incontri, scambi, creazioni, in una tensione di ricerca che attraversa i generi, i modi d’espressione, l’arte con le sue con-fusioni esistenziali e con il rigore che interviene a fare stile, segno, lingua.

Otto serate di incontro di contaminazione tra suono, poesia, scrittura, teatro e immagini.

Il primo appuntamento il Lunedì 28 dicembre, dalle 20.30, con il libro di Manila Benedetto, Donne e altri animali feroci, edito da Coniglio. La tastiera del pianoforte è affidata alle Interferenze di Stefano Pellegrino.

A seguire:

29 dicembre
Il libro di Pierluigi Mele, Da qui tutto è lontano, Lupo
La musica di Raffaele Vasquez, Nicotina 06

30 dicembre
La poesia di Giuseppe Greco
La musica di Roberto Gagliardi e Massimiliano Ingrosso, Melting pot duo

2 gennaio
Le poesie di Guido Picchi e Maurizio Nocera che legge Totò
La musica di Raffaele Casarano e Marco Bardoscia
Ospite della serata l’arpa di Keti Giulietta Ritacca

3 gennaio
Il libro di Vito Antonio Conte, Fuori i secondi, Luca Pensa
La rivista, Palascia, l’informazione migrante
La musica di Emanuele Coluccia, Volo e di Claudio Prima, Dentro la città

4 gennaio
La poesia di Daniela Liviello con Il segno e il suono
per la musica di Rachele Andrioli e Donatello Pisanello

5 gennaio
La poesia di Anna Maria Mangia e Patrizia Ricciardi letta con
Giovanni Santese e Fernando Bevilacqua
La musica di Mauro Tre e Irene Scardia, Piano Duet

6 gennaio
Da Qui Salento, Salento da favola, storie dimenticate e luoghi ritrovati”
Letture di Andrea Contini, Antonella Iallorenzi, Ippolito Chiarello,
Angela De Gaetano, Piero Rapanà, Mauro Marino,
Simone Franco, Simone Giorgino, Fabrizio Saccomanno

Tutte le serate dalle h. 20.30

Io sto alla poesia come mia madre all'aspirapolvere


Giovanni Santese
10 Poesie



Io sto alla poesia come mia madre all’aspirapolvere

Avevo
non senza fatica
trovato la chiave
per scardinare riserve pregiudizi
e invidie (che non si sa mai).
Avevo
non senza fatica
ravanato fra l’humus di parole
sparse nei fogli disposti
a raggiera
fra il pavimento e la scrivania.
Avevo
non senza fatica
allontanato la confezione tentatrice
di antidepressivi
sciolti nella vodka
prima che nel mio sangue.
Avevo
non senza fatica
legato insieme parole eterne
(avrei scoperto poi)
che lette d’un fiato
potevano stordire il cervello
prima di sciogliersi nel sangue.
Avevo
non senza fatica
creato parole immortali
(avrei scoperto poi)
e pure mia madre quando aprì
la porta
ebbe modo di farmi notare:
“Pensa alle cose serie meglio
che la poesia non ha mai dato da mangiare
a nessuno.
Tieni, passa l’aspirapolvere che fai una cosa utile!”
Per la prima volta ho faticato a darle torto.


Commiserie

Entrava
con l’arroganza
e con
gli orpelli consueti
stentava l’italiano
e la sincerità
“Tu dai soldi per latte
lui fame”diceva
indicando il bambino
che intanto trafficava
sotto il banco dei dolci
e dei soldi.
“io no soldi”risposi
“se vuoi mangiare dare panino
e un latte bambino”
preso da una forte crisi
d’identificazione (un po’ comune
invero)
“sei stronzo…
bastardo che la morte sia
per te un sollievo….
per la vita che ti aspetta.”
Ribattè lei in un italiano
perfetto.

27 ottobre 1996
A CLAUDIA RUGGERI

La luce di poche stelle
segna il limine oscuro
tra il davanzale e il solco profondo
nella tua anima.
E’ una vertigine che cresce
e offusca e divora
che spinge all’urgenza del verso
che sia forte, riconoscibile, devastante.
E’ una musica che accompagna
i tuoi piedi scalzi
che ti fa girare in tondo
giro giro tondo
giro intorno al mondo.
E’ ancora vertigine urgenza
che ti fa pensare ai tuoi versi
e ti lancia nella tua ultima danza semiotica.
” volli/ il folle volo delle streghe/volli”


Alla corsa dei cavalli

Penuria
di pecunia
la pelle
ruvida sotto i rivoli
di sudore
i numeri
scorrono veloci
dentro i cristalli
liquidi
Il respiro aumenta
avvicinandosi l’arrivo
insieme ai santi
di tutto il paradiso.


Apparenza e facciata

Le porte dei sinonimi
si aprirono
alla creatività dei singoli
per sciolinature
che si volevano perfette

Le porte delle scuole
ludico-creative
si aprirono
per insegnare a essere bambini
o ad opporre l’aggettivo
al verbo

Le porte della politica
si aprirono
al sociale in difesa della forma
del politicamente corretto
i ciechi dunque non vedenti
i sordi non udenti
i paralitici diversamente abili
si aggiunsero poi
i bidelli operatori scolastici
gli spazzini operatori ecologici

Domani
qualcuno aprirà ancora
quelle porte
vorrà arricchirle della beneficenza pubblica
resa mediatica
da studiosi di marketing
accenderà pozzi in Africa
filmerà i sorrisi
dei bambini più poveri
del mondo intero
lui
sarà quello in disparte
appena dietro il gruppo

Poi
verranno loro
i turisti giapponesi
ai quali le porte
si apriranno
i flash dei loro scatti
illumineranno le tante
cornici vuote ma lucide
tenute ben spolverate
i loro scatti
fermeranno la forma
impressa con la pressa
delle pari opportunità
respireranno l’aria linda
delle pari dignità
mentre qualcuno
sarà ben attento
con i piedi
a tenere nascosta
la polvere
e le incrostazioni
negli angoli
o sotto profumati tappeti.

P.E.

Dialogo principiato, abbandonato e mai ripreso con Antonio Verri

Perché vedi Antonio
ad uno scrittore capita, di trovarsi di fronte una campagna arida,di parole, estesa fin dove posano gli occhi, polverosa e sbrindellata quanto basta (e se non capita è perché non si è scrittori), matta e spessa ad assorbire i raggi dell’ispirazione, del tumulto, dell’abbrivio poetico potente quanto serve ad arare di solchi immortali tanta arsura spianata.

perché vedi Antonio
in quei momenti, in quei momenti là dico,è bello (o utile, dico) avere un alter ego, che parli per noi, che come un menestrello riunisca in uno spartito parole vuote apparentemente senza senso, ma che assumono leggendole una musicalità strabiliante, un alter ego insomma…con panni d’arlecchino, la faccia impiastricciata di neve e di farina, al lieve andare sbandando la figura, mima, sorride, fa boccacce..oh grandioso figlio del nulla, ma…è stefan, è stiffan l’inventore, il solitario impostore, lo svagato cercatore di lucchi, l’eterno pellegrino suasore, il sognatore cocente, babelico, fumoso..ma è proprio galateo questo mago che viene, questo diavolicchio che cresce come il timo..tira una parola dietro l’altra, simula uno squilibrio, continua il gioco..è tanto preso, però, che il tutto spesse volte gli sfugge di mano: ecco, allora è qualcosa di divino, piroettante, aristocratico (per usare i suoi suoni), allora nient’altro che parole, neologismi, accettazione propria, doppie, elisioni, d’una musicalità strana, umorale, faticante..(da parte, la mar: istigazione a movimenti lenti, riflessivi,a godere del tempo, istigazione al tabulare, all’intrico di fatterelli, numeri, folletti, cuoricini..istigazioni, istigazione alla cabala..) oh no, guatarazzi no, scalcioni puttenosi, minnàculi spersi, sguanci, ronze, parse, pizzi, gustose pasticche, quaresimali, mustocciomini, non v’è più alto mondo di questo vigneto,cellule serrate, rami a stella familiare..; e sotto questo vigneto, vi dico, è luce, è luce che pressa sul gran vuoto, che arrotonda l’idiozia dei caseggiati – questi che sono cristalli, questi che sono sorde caccole di luce, cadute in terra, diventate costoni pali treni, muntagne staziose, burri, corpi di luce melampina, croste graalitiche, varicellose, foolmoni e sarsi ferrosi,cloache..sono diventati

perché vedi Antonio
se la paura di dare mortal sospiro aguzza l’ingegno e rende impavidi quel lunghissimo secondo di agonia celeste, innocuo il dolore, arioso il corpo e leggero, come parole posate sulle nuvole e con le nuvole lasciate andare, o ancora se dato mortal sospiro io continuo a parlarti fusse ca fusse ca su nu pocu fessa?

perché vedi Antonio
io direi poco umilmente- datemi un fonema e vi racconterò il mondo-mentre tu
da come arrotoli la lengua di pesce, sembri dire, mio stiffan, l’ordito d’o mundo è intrigante, l’òrrito delle cose di voialtri è sconvolgente, perciò i miei scoppi di vuoto, perciò le finezze malianti, le rughe color croco, lo stupore profondo, smemorante, le cische caddenti, i frisi festonnati..perciò perciò s’arrischia la lengua, quando spunta s’arrotonda- fummi, corsieri, busti, corpetti- è di un biancore a pois, gelide chiazze, tepori rosati, petaccio però: che sia petazzo, sfiziomio, che lascimpiedi la tremolante cassarmonica, che tutto scoperchi, tutto sprofondi in una nuova scia sotterra, che porti con se la mia metà faccia, qualche foca che ho per troppo fuoco, per veluscio, per vinetto..che porti via tutto ‘nsomma, che porti di me quel che vi ho detto, che scivoli senza arresto senza fondo

perché vedi Antonio
se dall’evoluzione della specie l’uomo, somiglia sempre meno a se stesso… allora
io tanto fervore non lo capisco, questa ostinazione a voler salvare i poeti dalle fiamme dell’inferno più inferno della terra, questo voler liberare i poeti dal loro impegno di buffoni di corte, dalla malasorte, con quell’ondeggiare fra la vita e la morte, ma poi ..a noi che ce ne frega, noi sappiamo come è iniziato tutto..e come andrà a finire tutto questo..perché noi vediamo all’orizzonte che corre, già corre la tila corre…e noè noè galleggia, non s’accorge ma perde consonanti, gemendo, tondeggia..e la tila intanto corre e corre…la luce stupirà…stupirà i suoi occhi…e i miei così vergini di luce…che corra dunque… che corra questa scia, che giri sul giro della terra..che scinda, che scanni se vuole, porti erva di taglio e, nelle isazze gli sfinimenti di un dio vendicativo, che ama le fòffule e i miraggi, corbelle frottole appannaggi..cantate cantastorie cantate, mimate cavalieri mimate le imprese dell’orzo bollito, suonate suoni suonatori suonate suoni non trasportabili in codici tipografici

perché vedi Antonio
o animale favoloso, o mio sperso, gnorreo, ciciarroso, o dolloso, o dolloso mio vecchio sogno che consumo in una città di boati o beoni, in un tempo che non tollera più buffonerie…ma pitto, farro, sbarro…cazzo…buffonerie saranno.

Eccome.

Nota: liberamente tratto e ispirato da ” Il Fabbricante Di Armonia- Antonio Galateo ” di Antonio Verri

P.E.


Dissoluzione dissolvente

Ero a un passo dalla poesia di peso
-se posso dare un peso al passo della poesia-
quando una nuvola oscurava il cielo
rubando il passo alla poesia di peso
-se posso dare un peso al passo della poesia.-
Così mi ritrovai
da – solo un passo dalla poesia di peso
-se posso dare un peso al passo della poesia-
da – un verso che l’umano sentire oltrepassa
al vuoto di una nuvola che passa.


Oh Desdemona!

Fu
il giorno primo
di quel mese
che alle pene d’amor
m’opposi
e
all’idillio che la notte
mi destava
fine posi.
A rallentare il cuore
che batteva con tedio
m’aiutò la chimica
a porre rimedio.
Immobile la barca
di Caronte resterà
e
se Ade nel suo regno
m’aspetta…
aspetterà.

L’araldo

Parlava a bocca pienal’araldo
negli occhi della platea
si accompagnava a Nietzsche
durante l’antipasto
gli occhi puntati degli astanti
a sorreggere parole nuove
bene impostate scandite a colpire
nel giusto cuore
il lavoro dei figli la pensione dei padri
una casa per tutti per tutti l’ascolto
Parlava a bocca piena
l’araldo
ma si spiegava bene
durante il primo
chiedeva a Proust della sua ricerca
e consigliava a tutti di decidere
da che parte stare
facendo notare che la sua strada
era l’unica percorribile
perché spianata da lui personalmente
e dalla sua mole imponente
“che presto sarò Presidente
e avrò ai miei piedi la gente”
Parlava a bocca piena
l’araldo
ma si faceva capire bene
viveva di parole e la gente le ascoltava
la sua retorica era nota a tutti
dava ai ciechi l’illusione di vedere
ai poveri la certezza del pane
alle madri il latte per i figli
prometteva pani e pesci
a chi gli chiedeva semplicemente dell’acqua
non risparmiandosi mai quando
c’era da distribuire una buona parola di conforto
non era un materialista
tanto che nulla può essergli attribuito
ma le parole quelle si
sono rimaste nel cuore della gente
e quel modo gentile di sussurrarle
con la mano sul cuore
e il tono mesto proprio delle persone sensibili
Parlava a bocca piena
l’araldo
ma sapeva bene cosa dire
agli assetati l’acqua
agli affamati parlava del pane
ai disoccupati di come li aiuterebbe un lavoro
capiva bene le disgrazie
e le plasmava con parole che
lui ben conosceva e che
liberava accendendo la speranza
ridando la vita a chi altrimenti
sarebbe morto
non perdeva occasione per aumentarsi
diminuendo con pervicacia
chiunque gli fosse contro
Parlava a bocca piena
l’araldo
ma sapeva cosa dire
poco prima della frutta
ebbe modo di confermare
che Berto per vincere il suo “Male oscuro”
si era aiutato con le pastiglie di litio
aveva una risposta per ogni domanda
e quando risposta non c’era lui
la inventava
di lui si diceva fosse nato per fare politica
di quelli come lui in Italia
si dice siano “forgiati per la politica”
Parlava a bocca piena
l’araldo
ma sapeva cosa dire
anche quando gli elettori stanchi
di vederlo mangiare
gli si rivoltarono contro negandogli il voto
Qualcuno gli sentii dire
“sono quarant’anni che faccio politica
qualche incarico il partito me lo darà comunque
e la farò pagare a questi ingrati”

Parla ancora a bocca piena
l’araldo
la vita sembra non gli abbia
insegnato nulla
“quello che semini raccogli”
“quando pensi che la gente sia stupida…”
“non fare mai il passo più lungo della gamba”
Ma è la saccenteria la pienezza di se
quell’arroganza spesso fuori posto
e con persone umili
ad avergli dato il colpo più forte
quel luogo comune che ormai da tempo
gira negli ambienti intellettuali e politici
della Città, e cioè:
“E’ l’unico politico in Italia
che viene pagato
purchè (basta che) non faccia niente”

L’araldo
appunto.

Dei ventenni è il mondo

Si crede all’amoreterno
che non muore mai
a ventanni
si deve credere.
Sale la luna
prima che sia sera
a ventanni
e la si vede con chiarezza
il sangue ribolle
si odia con forza
e non c’è posto al mondo
che resista
a ventanni.
La luce acceca
e il vento libera i capelli
a ventanni
si sente il sangue ribollire
per le ingiustizie
si lotta per uno sconosciuto
e si vince
a ventanni
non esiste causa
che non sia la nostra
trionfi della fierezza
possiamo farci carico
del peso del mondo interno
e non ne sentiremmo la fatica
ne siamo certi
a ventanni.
Si sposano le cause
le più derelitte
le più sballate
le più lontane
le più contrarie
perché a ventanni
il nervo è scoperto
e vibra forte ché l’impeto si plachi.
È per questo
che vi prego
giovani ventenni
lasciate stare le vostre playstation
il vostro cazzeggiare
da nullapensanti obliqui
i vostri vitabassa
e i concerti dei negramaro
e svegliatevi
cominciate a muovervi
nei vostri ventanni
magari potreste
spaccare qualcosa
anche solo per capire
cosa significhi
porre rimedio.
Spaccate cazzo.
Spaccate.

Teo e i suoi fratelli. Divagazioni da Vito Antonio Conte


1. Dopo il suo esordio poetico (Blues delle 14.30, Luca Pensa Editore), e quasi contemporaneamente alla pubblicazione di una seconda raccolta di versi intitolata ‘Polvere di sesso’, Vito Antonio Conte ha pubblicato il suo primo romanzo, intitolato ‘L’improbabile vera storia di un uomo chiamato Luna’.
L’esordio narrativo di Conte è misurato e gli da la possibilità di delineare e raccordare meglio le sfaccettature che compongono il suo modo di scrivere, perchè un modo, l’autore, sembra averlo individuato.
Le vicende del romanzo, ad eccezione di qualche viaggio o ricordo, sono tutte ambientate nell’Ovest salentino, un Ovest mica tanto selvaggio, abulico, sospeso tra l’incertezza dell’oggi e le mille titubanze per ciò che porterà il domani.
E’ difficile definire Teo come protagonista del romanzo, è infatti protagonista chi prende parte ad un dramma e, soprattutto, rende vive le azioni. A Teo tutto ciò non accade, la storia procede tramite accensioni e successivi spegnimenti di fuochi fatui che sfociano nelle elucubrazioni mentali di Teo. E’ bello notare, tuttavia, che tranne in alcuni passi, la prosa di Conte non sia mai ridondante, né risulti in alcun modo autocmpiacente.
Nelle sue (tre) opere l’autore mette le sue carte in tavola senza timore, le letture che lo hanno influenzato e soprattutto la musica. Già, la musica. Qui la mia lettura deraglia binario e la mia recensione cambia. Perchè? La prima volta che conobbi Vito Antonio Conte fu ad una presentazione di un mio libro, dopo aver discusso per un’ora ci furono domande dai presenti. L’argomento era Celle, la domanda che mi fece Vito era attinente al fatto che nel mio testo non ci fossero suoni, né rumori, né musica; aveva ragione. Questo aneddoto rende ragione dell’importanza che la musica ricopre nella scrittura e nell’universo conoscitivo di questo autore. Questo ‘modo’ diviene evidente nella scrittura delle recensioni e degli interventi di Conte, dove raccolte poetiche e brani di album musicali assumono il medesimo status di importanza, come è giusto che sia quando il livello degli oggetti trattati è simile per qualità. Detto semplicemente, il suo è un modo ‘immediato’ di rapportarsi alla sfera della scrittura, un modo che ricorda vagamente il gioco, un modo inconsueto, avulso da ogni accademismo; ecco perchè Vito Antonio Conte piace, con tutte le riserve ascrivibili all’esordio ed al fatto che di certo, i suoi prossimi lavori, lasceranno più spazio alla storia; piace perchè nell’attuale porzione temporale e incidentale che potrebbe cader sotto al nome di ‘produzione letteraria salentina’, Vito Antonio Conte è una delle poche voci della sua generazione (è nato nel 1961) che hanno deciso di esporsi in modo così fresco, privo di retorica, disincantato.
2. Nel parlare di queste opere traggo un bilancio circoscritto (per ampiezza temporale e di catalogo) delle pubblicazioni dell’editore Luca Pensa, approfitto di questa recensione e deraglio binario una seconda volta.Insieme a Conte, infatti, esistono altri tre autori del catalogo non ancora nutrito di questo editore, sui quali mi voglio soffermare, essi sono Agostino Casciaro, Giovanni Capodicasa e Giovanni Santese. Questi quattro autori, se si ‘esclude per includere’ Antonio Errico, rappresentano un tratto d’unione non consapevole di un ‘momento’ particolare della produzione letteraria di questa provincia/regione (il Salento).
Agostino Casciaro è maestro cartapestaio, notevole la sua capacità di sintetizzare lo ‘spirito della terra’, al di là di lusinghe e armamentari retorico ideologici che gli/ci sono totalmente estranei, il suo non è un desiderio di evocare, quanto di ‘ascoltare’ in meditazione, meditazione operativa, la natura. Ha dato vita ad una serie autoprodotta di pubblicazioni, una rivista intitolata ‘Il foglio della noce marcita’. Se si eccettua il suo ‘La notte dei miracoli’, nonostante sia presente da oramai vent’anni sulla scena dell’azione espressiva di questa regione/ragione, non aveva ancora pubblicato per un editore.
Diverso sotto questo punto di vista l’excursus di un autore come Giovanni Capodicasa. Chi abbia avuto modo di leggere tutti i suoi libri può essersi reso conto della poliedricità espressiva di quest’autore. Poliedricità così spiccata da indurre il pensiero che dietro alla sua produzione non sia rintracciabile un percorso linguistico netto di ricerca netta. Ciò è vero in parte perchè una delle caratteristiche nascoste di Gianni Capodicasa, un pregio, è proprio questo carattere anche per lui di gioco e disincanto, lo stesso che trovo in Vito Antonio Conte, il quale però si fa cogliere più facilmente dalle stasi del pensiero. Interessante è anche il percorso editoriale compiuto da Capodicasa negli ultimi anni, egli ha pubblicato per i tipi di Liberars, Acustica Edizioni, Manni Editori e Luca Pensa. Raccolte di versi (Le ali di Uriel, Liebrars), di racconti, romanzi. Indice di una predisposizione dialogica nei confronti del libro più che dell’opera, degli autori/persone ed editori/persone prima che della funzione sociale nonché economica da loro svolta sul territorio. Indice ulteriore di questo interesse è la partecipazione attiva di Gianni Capodicasa nell’organizzazione dell’annuale manifestazione ‘Città del Libro’ di Campi Salentina, città dove peraltro risiede l’autore e, parallelamente, dell’istituzione dell’Accademia Letteraria Salentina, organo per nulla accademico che raggruma intorno a sé diversi autori leccesi che, vuoi per intenzione o vuoi per congiuntura, sarebbero difficilmente ascrivibili ad altri microsistemi salentini (penso, ad esempio, a Raffaele Polo), dove microsistemi va inteso nel senso di raggruppamenti di affinità.
Giovanni Santese ha invece esordito (solamente e bene) quest’anno, con la raccolta intitolata ‘Amore lavati che ti porto a ballare’ (sempre con Luca Pensa Editore). Le sue poesie sono state e vengono spesso paragonate a quelle di Charles Bukowski, per la crudezza ed il taglio, senza ragione. Senza ragione perchè le poesie di Santese offrono uno sviluppo differente ed il paragone con il grande Chinaski rischia di apparire come una scorciatoia critica, un riferimento che somiglia più ad un riflesso condizionato sul lessico udito, piuttosto che un attento e meditato paragone. Tanto è vero che certi versi di Santese sono ancora più taglienti, e che l’amarezza ed il cinismo di Santese non sono mai deplorevoli (non che lo sia Bukowski). Per non parlare del fatto che i riferimenti e le letture di Santese sono più ‘alte’, ed egli è un attento lettore della poesia altrui, caratteristica difficilmente riscontrabile in altri autori. Il fatto è che le poesie di Santese sono i suoi racconti di vita, e che la sua sensibilità è tutta salentina. Si aggiunga la giustezza del ‘dettato’, né alto (nonostante certi temi trattati) né basso (nonostante certi vocaboli utilizzati), che fa di quest’autore un elemento di raccordo necessario, con una vena ‘materiale’ del fare versi in questa terra.
3.Questi autori, insieme ad altri, rendono la misura di un fenomeno di cui qualche critico letterario dovrà sicuramente azzardare una soluzione, per quanto riguarda la funzione di aggregazione sociale che la letterature e il fare letteratura hanno avuto nel Salento degli ultimi venti anni, cruciale sarà l’analisi delle opere scritte prima ancora del colloquio diretto con gli autori delle stesse, scripta manent. Uno studio del genere potrebbe individuare, ad esempio, il momento esatto in cui il discorso antropologico ha fatto irruzione nelle narrazioni di questa terra. L’operatività letteraria e il fare (circolare) cultura, la produzione, meritano un’analisi che abbia il coraggio di non arrestarsi anche di fronte a risultati dubbi. Ecco perchè più risalto hanno (e avranno) figure di intellettuali che all’operatività sono riuscite anche ad affiiancare buone opere (A. Verri, A. Errico, F. Tolledi, C. A. Augieri, M. Nocera) insieme a coloro che non riuscirono per tempo a dotare di un sistema la propria dirompenza espressiva (C. Ruggeri, S. Toma).
A questi nomi si aggiunga un poeta come Elio Coriano, le cui performance sono (sempre) accompagnate a veri e propri consigli, quasi esortazioni, ad aprire gli occhi nei confronti dello squallore politico del quotidiano, con un consiglio particolare ai poeti, giovani e non, di ‘andare a studiare le opere di storia e i trattati di economia’, piuttosto che le antologie, perchè uno scrittore deve conoscere il mondo che lo circonda., affinchè esso non frani in un crogiuolo insignificante di parole. Torniamo a “L’improbabile vera storia di un uomo chiamato Luna”, l’occasione è stata questa, per discutere insieme a Conte di altri suoi coetanei e colleghi. L’importanza della sua opera, in questo momento, come di quella degli altri autori summenzionati, sta anche nel fatto che, in alcuni di questi lavori è resa un’immagine diversa del Salento, un’immagine che è attuale, ancorata al vissuto cittadino, con la memoria della campagna rurale. Tuttavia, ripeto, a prescindere dai mezzi espressivi dispiegati, il passaggio dalla campagna alla città è compiuto. Da loro in poi, passando da sfumature di contrasto più tenui ed emotive (V.A. Conte, A. Casciaro) fino a culmini conflittuali (Santese, Coriano), si può scrivere in maniera differente.
Questi autori sono spesso in dialogo con la città e la realtà quotidiana, eppure mai come in alcuni di essi lo stesso relazionarsi è altro rispetto ad un agire territoriale non inerte, ben localizzato e contestualizzato. Penso alla Martignano di Elio Coriano, alla Vignacastrisi di Casciaro, alla già detta Campi di Capodicasa, o alla Badisco di verriana memoria o ancora alla Copertino di Maurizio Leo (Il bardo e i Quaderni del bardo). Il non riuscire a comprendere l”attinenza’ del luogo all’autore ha in parte limitato la ricezione di questi autori da parte dell’editoria locale, con poche eccezioni, o forse la mancanza è stata semplicemente una mancanza di perlustrazione. Fortunato, nei tempi passati, un Comi, abitante di Lucugnano. Ogni paese un poeta, solo che a Maglie c’era un Toma, a Caprarica un Verri, a Copertino un Pagano, a Lucugnano un Comi, in una provincia di cento comuni che ha fatto sfiorare alla sua produzione letteraria i vertici del lirismo contemporaneo, quanto meno nella qualità dei risultati, una provincia di micro-macrosistemi letterari e artistici.
4. Cogliendo tutte le componenti (positive e negative) in questo spaccato possibile di autori così contemporanei e così diversi tra loro, soltanto in questo modo, a mio parere, si può comprendere l’importanza di un autore come Antonio Verri, nelle cui opere trovavano ottima confluenza ed equilibrio le dicotomie di spirito/materia, contemporaneo/rurale, forma classica/sperimentazione linguistica, con un anticipo di anni rispettoi ai tempi con cui questi stessi temi, senza essere accompagnati agli stessi risultati, sono comparsi nelle opere di altri autori. Da questa forbice escludo volontariamente la generazione di chi è nato tra la fine degli anni ’60 e quella degli anni ’70, e rimando ad altro o ad altri un giudizio in merito ad esperienze come quella dell’Incantiere. E rimando ad altri una attenta considerazione dei rapporti intercorsi tra l’ambito accademico universitario attorno al quale sono gravitati certi fenomeni, e l’ambito della città, della terra, ricolma di ‘accademie’ teatrali e palestre di cultura.

“L’improbabile vera storia di un uomo chiamato Luna”, Luca Pensa Editore
pp. 112, ISBN 88-89267-28-3, prezzo 8€