29 Dicembre 2013, Cisternino (BR) – Parole serrate – Chiavi mascoline e scanalature del linguaggio / Reading poetico


29 Dicembre 2013

‘PAROLE SERRATE’

Cisternino (BR)
Ore 22.00
Vico Pietro Micca

Parole serrate.
Chiavi mascoline e scanalature del linguaggio

Reading poetico – Microhabitat 0.4

‘Tre stanze per sei poeti’

Partecipano Pierluigi Boccanfuso, Antonella Chionna, Vittorino Curci, Antonio Natile, Gianni Mastromarini, Pasquale Lucio Losavio.

“Avrei bisogno di parlarti” un video e una canzone di Vittorio Merlo


"Avrei bisogno di parlarti"
di Vittorio Merlo

"Siamo a Castelleone (Cremona), 1953. Nel film in bianco e nero si vede il matrimonio dei miei genitori. Sembra passato più di un secolo: si vede di sfuggita una topolino, sono tutti magri ma felici, è il secondo dopoguerra. Io sono nato poi nel 1959 ed ero già il quarto di cinque figli. Mio padre ci ha lasciati nel 2000 a 73 anni e ci siamo lasciati tante cose ancora da raccontarci tra Inter, Ferrari e politica nelle nostre telefonate tra Lussemburgo e Milano.

Ho cercato di racchiudere tutto questo in questo piccolo video, è stato molto emozionante montarlo e mi fa piacere condividerlo"

"Avrei bisogno di parlarti" è una canzone pubblicata nel mio primo CD “Ho sognato Bruno Vespa” prodotto da Vince Tempera nel 2005. L’idea di riproporre questo brano viene dalle esperienze live, ogni volta che canto questa canzone si crea una forte convergenza emotiva tra il pubblico e il palco e questo mi ha convinto ha rilanciarla anche in rete insieme a un suggestivo video con le rare immagini del matrimonio dei miei genitori in formato 8 del 1953.

Vittorio Merlo

info:
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Roberto Saporito è il caso editoriale dell’anno.


Roberto Saporito è il caso editoriale dell’anno.”
Luciano Pagano

La prima volta che ho incontrato la scrittura di Roberto Saporito è successo quasi per caso. Collaboravo, una decina di anni fa, per una casa editrice nella quale oltre che a svolgere sporadicamente il lavoro di editing su testi tradotti da altre lingue, mi occupavo anche della schedatura di manoscritti e proposte editoriali. Mi imbattei, allora, in una storia che raccontava il passato prossimo e il presente incerto di personaggi che provenivano dall’ambiente della lotta armata.

Il romanzo in questione, poi pubblicato, presentava una nota che spiccava sulle altre caratteristiche, ovvero sia la capacità di raccontare l’animo dei personaggi nell’essenzialità di una narrazione senza orpelli, con uno stile maturo. I caratteri e i sentimenti comparivano nella giusta misura dei vari ruoli, le diverse scene, in sequenza, erano iscritte in un affresco omogeneo, dove una storia inaspettata riusciva a intrattenere e allo stesso tempo coinvolgere il lettore.

Tutti elementi presenti nelle successive prove di Roberto Saporito, che ho imparato, romanzo dopo romanzo, ad apprezzare per le doti di autentico story-teller. Un percorso inconsueto, il suo, proposto con cura e dedizione al raccontare, che fa di lui un autore vero e indipendente. Prima ancora di proseguire in questa analisi, senza citarli uno per uno, mi sento di suggerirvi la lettura di tutti i suoi romanzi, magari a partire dai più recenti: “Carenze di futuro” (Zona, 2009), “Il rumore della terra che gira” (2010, Perdisa Pop), i racconti di “Generazione di perplessi” (2011, Edizioni della sera), senza dimenticare l’ebook “Un’educazione parigina” (Perdisa Pop).

“Il caso editoriale dell’anno” (edizioniAnordest), sia per il lettore che per lo scrittore, è uno shock all’ennesima potenza, dove Saporito sfrutta al meglio le sue potenzialità di padrone del ritmo narrativo. Ci sono la virulenza e la rapidità di Bret Easton Ellis, la crudezza di Charles Bukowski, il disincanto e la ‘dipendenza’ dalla scrittura di John Fante, l’impossibilità di ogni artista onesto, letterario o meta-letterario, nel riuscire a fare a comando ciò che gli potrebbe riuscire solo naturalmente: scrivere e vivere.

Questa storia infatti è intrattenimento puro, è la dimostrazione di ciò che si può scrivere quando ci si accosta a una trama con un’esatta cognizione dei propri mezzi e, allo stesso tempo, di ciò che si vuole trasmettere al lettore, uno spaesamento e un’inadeguatezza che bandisce da subito quell’atteggiamento confortante da giudice super partes della vicenda osservata.

C’è una frase mancante, a mio parere, tra il frontespizio e l’incipit di quest’opera, un viatico, un disclaimer, un “allacciatevi alle cinture”, che viene spontaneo invocare dopo nemmeno cinque pagine di vortice narrativo. Nel suo ultimo romanzo Roberto Saporito presenta in sequenza tutti i momenti della catarsi ideale di uno scrittore italiano contemporaneo. Il protagonista, in partenza, è un autore di romanzi interessanti ma modesti, usciti con piccoli editori, e si dedica alla scrittura di un ‘capriccio’ letterario, senza neppure crederci troppo.

Ciò che gli accade è inaspettato, proprio il romanzo in cui crede di meno gli apre le porte di un successo incontenibile, e, specie agli occhi dello stesso autore, privo di merito. Ciò che succederà, in sequenza, è un’autentica giostra di situazioni, così verosimili, così plausibili, che nessun lettore (o scrittore), volente o nolente, leggendo questo romanzo, non può non riconoscerne qualcuna che gli sia realmente accaduta. Quello che ne consegue è un viaggio in un circo non più circuito letterario, una giostra, un inferno a gironi multicolori, accompagnato e condiviso con gli incontri del destino.

È questa la dimensione in cui Roberto Saporito esterna un’altra caratteristica, così rara nella recente narrativa italiana, ovvero sia lo ‘spasso’, quel naturale gioco di invenzione autoriale che si traduce in distacco da ciò che si racconta, e ottiene un’immediata adesione da parte del lettore.

“Il caso editoriale dell’anno” è, con molta probabilità, uno dei romanzi più riusciti di questo 2013, riuscito nei tempi e riuscito nella distanza dalla materia narrata, figlia di una vicinanza estrema alla stessa unita a una capacità immediata di far presa sull’attenzione e la curiosità di chi legge.

Ma soprattutto è riuscito, il libro di Saporito, perché arriva con leggerezza dove altri autori, pur con ottime premesse, non hanno ottenuto lo stesso effetto; penso ad esempio al romanzo di Antonio D’Orrico, “Come vendere un milione di copie e vivere felici”, uscito nel 2010. Di recente Marco Cubeddu, con il suo romanzo di esordio, “C.U.B.A.M.S.C.” ha giocato una carambola simile, anche essa altrettanto azzardata e vincente.

Roberto Saporito qui si confronta con i suoi miti, i suoi colleghi, le sue nemesi, è una dimensione metaletteraria, la sua, in cui leggiamo una fotografia divertita, scritta da un autore che ha percorso ‘palmo a palmo’ l’industria culturale, e che qui rimescola le carte nell’invenzione. Il risultato è semplicemente, mi ripeto, spassoso, molto al di là delle premesse ‘esistenziali’ contenute in quarta di copertina. Saporito è un autore completo che, al momento presente, può permettersi il privilegio di tradurre in scrittura la realtà, un desiderio che non tutti gli scrittori sono capaci di attuare così spesso e in così tanti luoghi della propria produzione.

Interessante anche la possibilità di scarto offerta dall’anonimato, per rimescolare le identità del proprio sé autoriale, mettendosi in gioco da zero, al puro giudizio del lettore, non solo critico, ma anche umano. Una prova riuscita e un romanzo che è capace di tenere banco dal solstizio d’estate al solstizio d’inverno, in una stagione insolitamente lunga per i tempi (letterari) che corrono.

Il caso editoriale dell’anno, Anonimo, edizioniAnordest, €12.90, isbn 9788896742839

(foto Franco Giaccone)

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“Le Belle Creature”, di Martina Melgazzi. Un racconto inedito.


“Le Belle Creature”

Martina Melgazzi

Quattro ragazzi diversi, ma non troppo: legati dalle ombre e dai morsi di un’età inquieta. Un’estate estremamente calda, che passa come un battito d’ala, lasciandosi alle spalle domande e futuri sospesi.

Marco, Amanda, Giulietta e Filippo non sono ragazzi speciali e non vogliono stupire nessuno: la loro esistenza e la loro età sono le basi per il racconto.

Scrive l’autrice, Martina Melgazzi: “Le Belle Creature parla dei ragazzi inquieti che affollano le strade, i bar, gli angoli bui dei parchi, i social network. Marco, Filippo, Amanda e Giulietta raccontano la mia generazione e sono, come io amo definirli, quattro dinamiti discrete: come ogni giovane adulto, sono pronti ad esplodere rumorosamente, ma sfogano la rabbia nel silenzio delle loro stanze isolate. Noi ragazzi siamo Le Belle Creature che tutti osannano e che tutti temono.”

§

Marco

Imprecai quando la bottiglia di birra mi scivolò dalle mani. Era estate piena e la mia pelle si ricopriva costantemente di sudore, nonostante gli strati di vestiti fossero ridotti al minimo: pantaloni corti e maglietta, certe volte nemmeno quella. Per una questione di principio e di abitudine, la sera non era veramente ben spesa se non la si passava al parco vicino al fiume, decorata da numerosi mozziconi di sigarette, gettati con noncuranza vicino alle bottiglie mezze piene. Ce ne fregavamo dell’ecologia, ce ne fregavamo dei rifiuti sporchi che abbandonavamo in giro. Eravamo sempre i primi a manifestare, a scioperare, a latrare contro le ingiustizie e le superficialità, ma, in fondo, eravamo sempre i primi anche a chiudere un occhio davanti alle bugie di tutti i giorni e a proteggere le nostre illegalità sottobanco. Capisco solo adesso le parole di mio padre, quando mi diceva che facevamo casino per tutto e che se avessero deciso di dipingere di azzurro le strisce pedonali, avremmo organizzato dei cortei di capi popolo starnazzanti anche per quello. Paladini davanti alla folla, criminali nelle nostre stanze. Io, che mi svagavo fingendo di essere un blogger alternativo, questa grottesca contraddizione, in qualche modo, l’avevo percepita e costellavo il mio blog con frasi di accusa e di protesta all’ipocrisia generale. In pratica, avevo esteso nell’infinito virtuale il mio sporco conformismo reale. Mi pavoneggiavo con i miei occhiali neri dalla montatura spessa e con la mia pietosa barba da acerbo cerbiatto in crescita. Ero un principe dalle mille false corone e credevo di avere una marcia in più rispetto agli altri. Probabilmente, ero certo del fatto che, prima o poi, sarebbe sceso in terra il Padre Eterno in persona ad ammirarmi. Lo schianto del vetro per terra fece calare il silenzio per qualche secondo, poi alcuni dei presenti addirittura applaudirono. Quella sera eravamo almeno una quindicina di ragazzi, tutti appollaiati sui gradini che circondavano il campetto da basket, in cerca della posizione più fresca e rilassante da adottare. Erano soltanto le dieci, ma già non c’era quasi più niente da bere: ogni bottiglia era stata aperta e scolata con foga, per impedire al caldo di rovinare il sapore delle bevande. Filippo si avvicinò e, a voce bassa, mi propose di andare a casa sua con il solito gruppo. Io, lui, Amanda e Giulietta: gli inseparabili o quasi. C’era una ragione a noi sconosciuta che ci legava e ci faceva ruotare attorno agli stessi posti, alle stesse frasi. Semplicemente, dal nostro primo incontro tutti insieme i problemi e i dubbi che ci agitavano si erano amalgamati profondamente in un unico collante. Eravamo tutti e quattro diversi, sempre pronti ad azzannarci o a parlare per ore. In fondo, avevamo paura di indagare sui nodi che ci stringevano gli uni agli altri. Salutammo senza molto entusiasmo gli altri e uscimmo dal cancello principale del parco, per poi dirigerci verso i marciapiedi che affiancavano i condomini alti e scuri del quartiere. Sui balconi degli appartamenti si potevano vedere alcune sagome indistinte, mollemente accasciate su delle sedie, per godere della relativamente fresca aria notturna. Da quando era iniziata l’estate, avevamo trascorso quasi tutte le nostre serate in quel parchetto, incontrando sempre le solite persone, le solite storie. Abitavamo, pressappoco, nella stessa zona della città, che non mancava di bar e di locali, ma ogni giorno fissavamo il nostro appuntamento lì, al chiosco del parco. A volte capitava di andare a casa di uno di noi, per stare tranquilli in compagnia, senza la presenza scomoda di tutti gli altri ragazzi del quartiere. La casa di Filippo era la meta che preferivamo: era la più vicina al parco e spesso era libera, poiché Filippo abitava solamente con sua madre, una divorziata alla disperata ricerca di comprensione tra le braccia delle amiche, o di qualche amico, di vecchia data. Le serate che la donna trascorreva fuori di casa erano molte e, quasi sempre, accompagnate anche da qualche bicchiere di vino di troppo, che le rendeva impossibile tornare dal figlio in un orario accettabile e dignitoso. Quest’ultimo sembrava non soffrire affatto per questa situazione. In verità, Filippo sembrava non soffrire mai per niente e per nessuno. Poche volte metteva a nudo i suoi sentimenti, senza nascondere la fatica, il dolore e il fastidio con i quali sceglieva le parole adatte per sfogarsi. Sapevamo che qualche cosa non andava e sapevamo anche che trascorreva alcune notti fuori di casa fino all’alba, vagabondando con una compagnia di ragazzi più grandi: la tipica banda di venticinquenni tutti ossa e occhiaie che si vedono nei tetri reportage sulla droga. In fondo, era anche per questo motivo che sceglievamo di terminare le nostre serate a casa di Filippo: per cercare di stancarlo il più possibile, in modo da non lasciargli più le energie per scappare e passare la notte in qualche vicolo. Quando arrivammo all’appartamento, ci accorgemmo dalla polvere e dal disordine che sua madre doveva essere fuori di casa da alcuni giorni. Ci sedemmo sui divani sgualciti e ci ipnotizzammo davanti ad un documentario sugli animali più feroci del mondo. Un leone, straordinariamente in basso nella classifica, si tuffò su di una gazzella e la uccise con pochi ed eleganti morsi. Non provavo alcun disgusto per questo tipo di scene, perché sapevo che la carne ben cotta che ero abituato a trovare nel mio piatto era stata ottenuta con metodi anche peggiori. Verso mezzanotte, l’aria nella stanza iniziò a diventare pesante e densa di stanchezza: Filippo dormiva con la testa piegata di lato e la bocca aperta, spossato dalle ultime due birre bevute in mezz’ora, Amanda fissava il vuoto con lo sguardo perso, svanita nelle sue mille fantasticherie. Giulietta mi guardò, si alzò in piedi e disse che era ora di andarsene, sperando che Filippo non fosse in grado di uscire a fare cazzate. Giulietta era bassa, magra, troppo magra, con due piercing, uno al naso e l’altro al labbro inferiore, e con i capelli corti rossi. Era più simile ad un folletto, che ad un essere umano, a dire la verità. Quando parlava, tutti la ascoltavano: perché era rispettata, perché aveva una voce roca e affascinante, perché era bella. Lasciammo Filippo accasciato sul divano e ci dividemmo dopo un saluto veloce, andando ognuno per la sua strada.

Amanda

“…Perché ti ho giurata bella e ti ho pensata pura, tu che sei nera come l’inferno, e buia come la notte.” Adoravo Shakespeare. Molti mi prendevano in giro per questa passione, come se ci fosse stato un qualche motivo di vergogna nell’ammirazione per il lavoro di un grande poeta. Anche Filippo mi derideva, ogni tanto, per la mia abitudine a citare spesso i paroloni di un qualche artista artisticamente morto, perdendo la capacità di parlare con i vivi. Io non avevo abbandonato la capacità di comunicare, ma, sicuramente, avevo ben pochi motivi validi per farlo. Era sublime per me la gratificante abitudine dei morti di ignorare e di non rispondere. Stavo attraversando a fatica un periodo esistenziale particolarmente rumoroso e denso di presenze sgradevoli: erano troppe le persone che ambivano alla mia amicizia. Forse, perché ero lesbica e l’amico o l’amica omosessuale era un’altra di quelle scialbe mode alternative, proprio come l’adozione sfrenata dei levrieri sfruttati per le corse clandestine. Erano in molti ad aspettare il proprio turno per farsi ammirare in giro con me e per darmi una compassionevole pacca sulla testa. In verità, odiavo le tenerezze, ma amavo il fascino della poesia in generale, anche se Shakespeare rimaneva il mio punto di riferimento: per quanto morto possa essere, sicuramente i temi da lui trattati non condividono con lui l’oscurità silenziosa della tomba. E se l’è cavata egregiamente a scrivere di amore, di gelosia, di anime corrotte, di tenebre e dello scorrere famelico del tempo. Egregiamente, certo. Amavo la poesia istintiva, esplosiva: è la forma primitiva e più rovente del pensiero fatto parola. Se dovevo parlare d’amore, la mia mente scivolava tra immagini di corpi, di umori e di sangue: avrei rovinato la mia anima animalesca se avessi tentato grottescamente la sublimazione dei miei pensieri deliranti e fisici. Rantolii, carne, nebbia, saliva, seni e sudore. Questa era la mia poesia ed era l’unico estro artistico concepibile per me. Credevo di avere una propensione innata per lo scrivere e traevo le mie ispirazioni da due muse incantevoli: l’alcol e una ragazza, Barbara. Non ero sicuramente una di quelle persone sdolcinate e con la testa fra le nuvole, al contrario, vivevo perfettamente in sintonia con la mia estrema e schietta praticità, senza provare un particolare imbarazzo per la scarsa delicatezza che manifestavo. Eppure, c’era qualche cosa nell’alcol che mi faceva cambiare modo di essere e di pensare: quando ero ubriaca, amavo scrivere e lasciarmi trasportare dalle mie stesse parole. Erano parole dolci, parole rabbiose, ma, comunque, parole più profonde e sorprendenti di quelle che avessi mai scritto da sobria. Scrivevo poesie, le cosiddette poesie alcoliche, e le scrivevo bene, molto bene. Mi chiamavano scherzosamente Shakespeare ubriacona, ma ero veramente vicina al livello del mio adorato poeta. Barbara era la seconda musa ispiratrice. A scuola, l’avevo urtata sulle scale, mentre lei stava girovagando senza una meta apparente. Per prima cosa, l’avevo insultata e poi, ad un secondo sguardo, me ne sono innamorata violentemente. Aveva uno sguardo perso e preoccupato, dei capelli lunghi e biondi e possedeva una grazia particolare, timida. Era la mia fiamma, la mia coniglia ingenua, da sempre. Non eravamo mai state insieme sul serio e forse nessuna delle due lo desiderava, ma vivevamo in un continuo inseguimento, cercandoci con appassionata foga per alcune settimane e poi ignorandoci silenziosamente in altri periodi. Barbara era sempre presente in qualche angolo malsano della mia mente, nonostante tutte le mie varie cotte occasionali. A nostro modo, ci completavano a vicenda e la presenza altalenante della malinconia e dell’armonia mi dava un vivo desiderio di scrivere, per sfogarmi e per esorcizzare tutti i graffi letali dei miei pensieri.

Filippo

Io una fiamma non l’avevo, mi tiravo indietro all’ultimo momento, per paura di vivere l’amore come nei disgustosi telefilm americani che trasmettevano alla televisione. In compenso, avevo un ottimo e gratificante rapporto con la droga. Era stato come uno spontaneo percorso di crescita: le compagnie che frequentavo cambiavano velocemente e velocemente mutava il tipo di droga utilizzata per sopportarsi al meglio. Ero partito serenamente dal fumo, ma avevo iniziato presto a desiderare che tutta la sostanza galvanizzante che ingerivo non svanisse in una nuvola evanescente, ma penetrasse totalmente, integralmente, sensualmente in me. Nel mio sangue ruotava un intero cosmo chimico. Passavo i miei pomeriggi estivi in giro con gli amici o in casa, da solo, chiuso nella mia stanza a leggere e a guardare il soffitto, sciogliendomi per il caldo. In verità, era uno strano periodo: i miei pensieri erano solo pessimistici, grotteschi e affannosi, vivevo in una pesante nebbia di confusione, dalla quale evitavo di uscire, minimizzando ogni sforzo di cambiare. Sentivo, ormai, di non essere più al mondo, di avere ogni cellula del mio corpo racchiusa in una bolla di sapone, in attesa di rinascere. Forse, facevo parte della schiera di tutte le belle creature rovinate che spariscono da un momento all’altro. Anche mia madre si era accorta del mio cambiamento e si adattò ai miei tempi dilatati e alla mia intermittente presenza mentale. Se prima, in un tempo remoto, eravamo abituati a parlare molto, ora le nostre discussioni si limitavano a stringati scambi di opinioni a cena, sempre che lei fosse presente a quel mediocre momento conviviale. Mia madre aveva diverse compagnie maschili che la trattenevano fuori dalla mia realtà: si considerava ancora troppo giovane e appetibile per potersi sacrificare completamente ad un figlio. Ad ogni modo, ringraziavo per la monotona placidità della mia vita. Vivevo privo di un padre e abbandonato a me stesso da mia madre. Nemmeno gli altri, in fondo, se la passavano meravigliosamente: Giulietta poteva contare solo su di un padre sconsolato dopo la morte della moglie e Amanda fingeva di amare la propria smisurata indipendenza, concessa da due genitori assenti e schifati dall’omosessualità della figlia. Marco viveva senza grandi intoppi o, per meglio dire, sopravviveva alle moine di due genitori iperprotettivi. Uscivamo di casa e lasciavamo ogni problema nelle nostre stanze, ma la loro ombra terribile ci seguiva e ci faceva tremare di rabbia o abbassare gli occhi per la vergogna. Avevo un immenso bisogno di alcolici forti, perché la mia era una natura irrimediabilmente vigliacca e volevo essere cieco di fronte a me stesso. Ero stanco delle solite birre che mi scolavo con gli altri per scacciare il caldo, ma sapevo che nessuno di loro tre avrebbe capito il mio disagio e, invece, avrebbe immediatamente tentato di aiutarmi, ma la comprensione era un lusso che ormai non desideravo più. L’unica a non giudicarmi era Benedetta, la mia vicina di casa. Era più grande di me di quattro anni ed era stata lei a presentarmi i suoi amici: un branco di drogati senza speranza ed era esattamente quello che cercavo. Non so che cosa mi legasse a lei, forse il suo modo indecente di ridere di ogni problema, forse il fatto stesso di piacerle o forse l’aria beffarda con la quale m’invitava a fare l’amore a casa sua. Era talmente superficiale, da non essere in alcun modo il mio tipo, ma, allo stesso tempo, da farmi sentire vivo e pulsante per un attimo.

Giulietta

Ero uscita con Marco. La mattina mi ero alzata, liberandomi dal caldo soffocante delle lenzuola, e avevo trovato sul cellulare un suo messaggio. Usciamo? Dall’ora di arrivo del messaggio, capii che era stato inviato a notte fonda. Mentre io stavo dormendo e sognavo le scene selvatiche e paranoiche che il caldo notturno mi suggeriva, Marco pensava a me e m’invitava ad uscire, senza grandi giri di parole. Faccia a faccia sarebbe stato diverso, forse avrebbe balbettato o sorriso goffamente: aveva un bel caratterino sarcastico, ma, in realtà, era timido. Per messaggio, per chat o per telefono, sembrava sempre assorto, quasi come se fosse infastidito e replicava a fatica con monosillabi o brevissime frasi. Non era maleducato o scortese, ma era il suo modo di vivere le comunicazioni fredde e senza contatto fisico offerte dalla quotidiana tecnologia. Per lui i social network erano un mondo a parte, una comunità di sconosciuti che lo metteva a disagio. Marco non riusciva a dare una legittima giustificazione alle finte espressioni del volto che si potevano comunicare attraverso la tastiera e la punteggiatura. Forse, però, si nascondeva semplicemente dietro al fascino primitivo di questa sua incapacità, perché il paradosso inquietante risiedeva nelle ore che trascorreva a curare e a diffondere il suo blog. SdegnosaMente si chiamava e lui era estasiato dal doppio significato cinico e altezzoso di quel nome: giustificava quella strana ossessione, che lo faceva apparire tutt’altro che inorridito dal mondo virtuale, con l’idea di poter spingere i nostri coetanei all’indignazione e all’informazione. Quando mi chiedeva di leggere i suoi post, io, per la maggior parte delle volte, fingevo vagamente di essere interessata. In realtà, la colpa della mia ritrosia non stava in lui, ma in me: provavo un senso di agitazione nel leggere le sue parole grondanti sarcasmo e moralismo. Non era lo stesso Marco che conoscevo quello che sperava di diventare l’idolo degli alternativi. Aveva un estremo bisogno del mio consenso, lo sapevo. Fa così freddo, nel web. Sono circondato da un gelido rumore, ma le mie frasi virtuali si irrigidiscono nel silenzio indifferente, mi diceva, ma io non potevo aiutarlo. Era un eroe goffamente inesistente e galleggiava nel caos informatico. A parte questo, io, in fin dei conti, con le emozioni virtuali non avevo troppi conflitti psicologici e ricevere il suo messaggio mi aveva fatto piacere: lo apprezzavo per ciò che era realmente ed era da troppo tempo che non parlavamo seriamente da soli. Non avevo intenzione di inviargli un altro messaggio per avere più informazioni sull’ora e sul luogo dell’appuntamento ed ero sicura che, comunque, non lo avrebbe letto. Dopo pranzo, uscii e mi diressi verso il suo quartiere, lasciando la mia via alle spalle. Casa mia era piccola, una macchia gialla in mezzo ad altre banali villette a schiera. Il giardino davanti all’entrata era mal tenuto e squallido, decorato tristemente con qualche vaso impolverato di fiori ormai trascurati. Sapevo che mio padre si impegnava come poteva per tenere in vita il ricordo della moglie, ma la stanchezza lo stava distruggendo senza pietà e il cortile, che un tempo era stato ben coltivato, ormai era uno spiazzo di erba bruciata e le stanze della casa si erano impregnate dell’odore angosciante di chiuso, di vecchio e di terra marcia. Saltellavo dall’ombra di un albero ad un’altra, per godere di quel poco fresco disponibile. Non c’era quasi nessuno per le strade, solo alcune sagome trafelate che ondeggiavano nell’aria calda. Era una giornata strana, nauseante: il cielo sembrava una cupola dipinta a grandi linee, il sole luccicava come un faro da set cinematografico e il mio corpo procedeva senza la mia mente. Ad un certo punto, credetti di essere la spettatrice di me stessa, posta all’esterno di un dramma psicologico colmo di primi piani silenziosi e di riprese dettagliate dello sguardo della protagonista. Marco era in giardino a leggere. Alzò lo sguardo verso di me, sorrise e mi raggiunse. Quel pomeriggio camminammo per tutto il quartiere, senza mai fermarci o dirigerci verso le invitanti panchine del parco. Ci capitò di ripercorrere la stessa via per due, tre volte, ma lo spazio attorno a noi iniziò a non esistere più. Il calore dei muri, le foglie profumate d’estate e i sassi spezzati dell’asfalto si zittirono e fecero un passo indietro per ascoltarci. Parlavo con un fremito nella voce, ma cercavo di dare il giusto peso a ogni parola. Le mie mani e i miei gesti erano il teatro di ciò che non esprimevo oralmente. La mia mente era piena e pronta ad esondare, come anche il mio cuore. Riflettevo su molto e rispondevo a poco, sempre con un tentennante sapore di tristezza o ironia. Gli stavo dicendo che ero incinta di un ragazzo che loro non avevano mai conosciuto. Ero quasi alla sesta settimana di gravidanza e avevo deciso di tenere il piccolo: il vuoto di sterile depressione che aleggiava in casa era più che sufficiente e non volevo aggiungerci un’assenza fredda e forzata dentro il mio ventre. Sentivo che mia madre, se fosse stata al mio fianco, mi avrebbe consigliato di tenerlo e di amarlo: c’era già un legame con quel fragile fagiolo. Mio padre ancora non lo sapeva, ma mi importava poco di come avrebbe potuto reagire. Il padre del bambino era per tutti loro uno sconosciuto e presto si sarebbe allontanato anche da me. Quello che c’era stato tra di noi stava collassando silenziosamente, soffocato da un deserto di responsabilità e di affetti indesiderati. Mi sentivo come un serpente gonfio e ben nutrito all’inizio della muta; sentivo di avere due cuori, due teste, due anime. Forse, se questa fosse stata una storia meno reale, Marco ed io ci saremmo innamorati perdutamente: io dei suoi silenzi pazienti e lui della mia buffa confusione. Magari, mi avrebbe anche aiutata a crescere il bambino e tutto si sarebbe sintonizzato su strade migliori. Forse, un tempo, ero stata innamorata di Marco, ma non in quel momento. Io gli parlavo e lui mi ascoltava; non c’era amore, ma solo desiderio di fiducia.

Marco

D’estate si facevano molte feste, ma poche erano veramente degne di questo nome. Sembrava quasi che ci fosse uno stampino preconfezionato dal quale ogni festa era ricalcata con cura: musica ad alto volume, tanti, troppi ubriachi e coppie impensabili rannicchiate negli angoli, intente a leccarsi e baciarsi ogni centimetro di pelle scoperta. Era un ritratto inquietante della nostra infinita solitudine, quasi da film scadente trasmesso in seconda serata, ma era la nostra più familiare fuga dal mondo ed io non mi tiravo indietro. Era la mia occasione pubblica di indossare il travestimento da giovane e ribelle artista che preferivo. Per me non era semplice imitare per ore ciò che non ero affatto, ma godevo nel fingere svogliatamente di essere capitato a quelle feste per puro caso, lasciando a tutti l’impressione di doversi sentire onorati della mia presenza. Inventavo progetti che non avevo e bevevo molto, per accentuare la mia aria da colto menefreghista. Se tutto andava per il meglio, riuscivo anche a mettere le mie mani attorno ai fianchi di una ragazza. Quando ero più piccolo e inesperto, era il desiderio di un timido bacio a muovermi; poi, fu il sesso rapido e piacevole ad attirarmi e mi accontentavo di poco. Il copione delle feste rimaneva pressoché immutato e a cambiare erano i luoghi. Ovviamente, nessuno metteva la propria casa a disposizione per più di una volta. La casa di Filippo era in cima alla classifica delle abitazioni preferite per questo genere di incontri, essendo spesso libera e talmente trascurata da non poter temere nulla di peggio. Una festa era in programma per quella sera a casa di Filippo, che era vuota da quasi una settimana. La madre era andata a cena da una sua amica ed era stata invitata improvvisamente a partire per qualche giorno di vacanza con dei perfetti sconosciuti. La donna non era nemmeno ritornata a casa prima di sparire e al figlio aveva inviato un vago e breve messaggio.

Amanda

Quel pomeriggio mi chiusi in camera mia, ignorando i miei genitori appisolati sul divano, storditi dal caldo. Ormai erano diventati come ombre per me, due coinquilini che ogni tanto facevano con discrezione la loro comparsa nelle mie giornate troppo lunghe. In un certo senso, mi sentivo in colpa, perché era una situazione di totale assenza che io avevo creato giorno dopo giorno, trasformandomi in un’eremita esiliata nel mondo della mia stanza. Da quando i miei genitori mi avevano sorpresa sull’uscio di casa con le mani inequivocabilmente appoggiate sul seno di una mia amica, non c’erano più stati momenti di spontaneo affetto familiare e vedevo chiaramente nei loro sguardi tutte le domande e i rimproveri che avrebbero voluto farmi. Io, semplicemente, avevo imparato a voltare le spalle ai loro sdegnosi sospiri e avevo capito come l’avere una figlia omosessuale potesse non essere altrettanto alla moda e alternativo. Ascoltai della musica scaricata casualmente dal computer, sperando che un’atmosfera diversa potesse portare l’ispirazione adatta per scrivere. Fu così, almeno in parte: partorii un racconto di due pagine, ma, più lo leggevo, meno lo sentivo aderire alla mia mente e ai miei pensieri. Provai quasi disagio e imbarazzo ripensando a ciò che avevo scritto, ma non scartai il testo e lo misi da parte. C’era una scatola nera sotto al mio letto e io immaginavo che fosse lo scrigno impenetrabile dei miei aborti letterari più oscuri e immaturi. Il contenitore era piuttosto spazioso, ma era quasi del tutto colmo dei miei scarti: avevo la speranza di poter ridare, prima o poi, un senso ad ogni tentativo, ad ogni errore.

Giulietta

Mio padre bussò ed entrò in camera mia, con la scusa di dover prendere un libro. Mi guardò e sorrise, chiedendomi che cosa stessi facendo. Risposi mettendo in fila le prime quattro parole che mi vennero in mente e poi mi voltai verso la scrivania, lasciandolo uscire in silenzio. Sapevo che la scusa del libro era finta, ovviamente, perché in verità quello era il suo modo di controllare che fossi ancora viva, che fossi ancora sua figlia e che non avessi scambiato la mia anima con la tranquillità immobile di un pezzo d’arredamento. Il mio ventre vibrò impaziente per alcuni secondi: il bambino, di già? Mi chiesi, ancora una volta, se fosse sufficiente avere nel proprio corpo un pugno di geni altrui per essere un figlio, ma non trovai una degna e schietta risposta che giustificasse il mio atteggiamento distaccato con mio padre. Forse, essere un figlio è come tentare di essere uno scrittore: non basta giocare ogni tanto con le belle parole per essere in grado di comporre una vera poesia. Avevo chiesto ad Amanda di scrivere qualche cosa sulla mia gravidanza. Non era stato difficile percepire chiaramente il distacco che la mia condizione inaspettata aveva creato tra noi due: lei non era in grado di accettare l’atteggiamento maturo e adulto che stavo cercando di assimilare. Solo la scrittura poteva creare ancora un affettuoso e intimo ponte. Si espande la pancia del vento e tutte le nuvole vengono a galla, mi scrisse.

Filippo

Verso l’una di notte mi sedetti esausto e frastornato per terra, in camera mia. Era spoglia e desolata: sembrava che ogni oggetto superfluo fosse stato distrutto e poi gettato dalla finestra, verso la strada stretta e sempre poco affollata. In verità, lì dentro non c’era mai stato alcun tipo di arredamento giovanile o accogliente. Passavo intrappolato in quella topaia il minor tempo possibile e non sentivo il bisogno di lasciare una traccia del mio passaggio, del mio carattere. Le pareti erano dipinte di rosso, ma avevano perso molto della vivacità iniziale del colore. C’erano un letto, una poltrona e un comodino sparsi casualmente per la stanza, nient’altro. La festa stava andando bene: la sala e la cucina assomigliavano ad un girone infernale, gonfio di persone euforiche e in pulsante movimento. La serata procedeva per brevi e strozzati flash nella mia testa; mi muovevo a tentoni nelle immagini e il filo logico della mia memoria si srotolava a onde, come me. Non mi ricordavo esattamente il momento in cui mi ero spostato nella mia stanza, ma mi tranquillizzava il fatto che non ci fosse nessun altro dentro. Anche quella sera eravamo tutti e quattro nello stesso luogo, lasciandoci ogni tanto ruotare l’uno attorno all’altro in quella folla di carne sudata, fissandoci dai lati opposti della stanza o ridendo insieme per qualche secondo, senza davvero conoscere il motivo dell’ilarità. Come amici eravamo anomali, ma come osservatori e comparse avevamo talento.

Marco

Avevo visto Giulietta stretta contro un muro, intenta a parlare con un paio di ragazze, mentre dentro di lei cresceva una piccola vita che si cullava nel suono ritmico e monotono della musica. Il suo corpo pallido non sembrava neanche minimamente toccato dallo sporco denso e appiccicoso della stanza e delle persone, ma i suoi occhi stanchi si erano colmati dell’opacità dell’aria umida e mi avevano fatto capire che quella sera, anche lei, era una creatura di questo mondo, per una volta lontana dai suoi modi arruffati. Il folletto burrascoso e vitale che fremeva in lei era stato schiacciato dall’imperfetto camuffamento da donna che ogni bambina deve indossare, quando la vita vera bussa indiscretamente alla porta. Amanda entrò nella stanza e si lasciò cadere vicino a me sulla poltrona, con grande pesantezza, appoggiandosi allo schienale come un sacco inerte imbottito fino all’orlo. Aveva bevuto e il suo sguardo non mi piaceva: era rovinato da un’acquosità ottusa e quasi animalesca, ma quella sera mi guardò poche volte seriamente negli occhi, lasciandomi solo con la sua voce. Non parlò molto, ma pretese che io la ascoltassi come se solo lei in quel momento avesse il diritto di porsi al centro delle mie attenzioni e mi zittì bruscamente quando cercai di tranquillizzarla con qualche parola.

Amanda

C’era anche Barbara alla festa, pur non essendo particolarmente amica di nessuno e la sua estraneità si era notata subito, grazie ai movimenti incerti e svagati, che l’avevano fatta rimbalzare senza sosta per tutte le stanze. Era venuta per me e lo sapevo. Aveva la timidezza di una giovane cerva, ma sapeva bene come gestire le sue voglie e come insediarsi silenziosamente nelle esistenze degli altri. Da tempo, era ormai diventata un dolce parassita accucciato negli angoli dei miei ricordi Le avevo parlato, l’avevo baciata con insolita tenerezza e l’avevo stretta a lungo. Non immaginavo che mi fosse mancata a tal punto e mi vergognai immensamente, pensando a come fossi diventata una creatura vuota e arrogante, paralizzata nell’eterna attesa che fosse l’amore a muovere il culo per trovarmi. La serenità dell’incontro tra noi due si era seccata quasi subito, strangolata dal disagio e dal risentimento, spingendomi a trascinarmi a fatica sul divano, vicino a Marco. In verità, mi sarebbe piaciuto riuscire a scrivere qualche cosa per Barbara. L’avrei adorata mansuetamente e lei si sarebbe concessa con naturalezza alle mie parole, ma quella sera chiedermi di comporre avrebbe portato alla creazione di lettere di odio a tutto il mondo.

Filippo

Non c’era nulla di nuovo in quelle ore confuse e sfumate che scivolavano lontane, una dopo l’altra: il bere, le confidenze e l’atmosfera densa di sudore rispondevano ad un passato già intensamente abbracciato. Eppure, non era una storia che si ripeteva, ma un processo di necessaria monotonia che, come in un grande e magnifico atto finale, ci aveva condotti a quella particolare sera. Tutti gli attori erano in scena: benedetta fine, aspettami.

Giulietta

Erano quasi le tre e Filippo era sparito, ma pochi se ne erano accorti. Avevo intravisto più volte il suo sorriso sempre dubbioso, ma, improvvisamente, fu come se lui non fosse mai nemmeno stato presente. All’inizio della festa mi era sembrato bello come un re, bello come non lo avevo mai visto. Era un leone dallo sguardo malizioso e dal corpo teso al balzo, vibrante. Avevo faticato a riconoscerlo nel suo atteggiamento insolito, ma ero rasserenata dal fatto che quella sera si fosse impegnato per non ringhiare e brontolare. Filippo era sparito da almeno un’ora, ma nessuno lo aveva visto andare via o, tanto meno, lo aveva cercato. Marco scese in strada a chiamarlo, Amanda mi guardò preoccupata e forse stava sperando quanto me che Filippo non avesse deciso di lasciare tutti noi per raggiungere le gioie chimiche offerte da alcuni suoi conoscenti. Scesi in strada anche io, lo chiamai ad alta voce più e più volte, come se stessi cercando un cane. Camminai per qualche minuto nelle vie vicine e poi mi fermai, forse per caso, forse perché sentivo che allontanarmi sarebbe stato da vigliacchi. Eravamo giovani e sciocchi, ma avevamo abbastanza fiuto per percepire l’odore forte del dolore.

Marco

Non dissi nulla ad Amanda e Giulietta, non cercai nemmeno di guardarle e andai direttamente nelle cantine dietro al piccolo cortile del palazzo; ne trovai aperta solo una. Ci sono innumerevoli modi per parlare della morte, tranne quello giusto. Filippo era morto e non sembrava nient’altro che morto. La prima cosa che feci fu chiedermi come fosse riuscito a trovare una pistola, la seconda fu guardare il suo corpo rigido senza muovermi, credo per più di un quarto d’ora. Non c’era nulla di poetico o di eroico: non ebbi l’impressione che anche lui mi stesse guardando, non provai l’illusione che fosse ancora vivo, non mi sembrò né addormentato, né un angelo. La morte puzza di umori rancidi e il sangue è un oceano nero che cola inesorabilmente. Era morto e non ci aveva scritto nessun addio, non aveva programmato niente di teatrale per il suo copione: era un’uscita di scena che non richiedeva applausi o inchini. Mi allontanai e misi fine alle ricerche preoccupate di Amanda e Giulietta.

Amanda

“…Persino gli uccelli ammutoliscono, o se cantano è con una gioia così triste che le foglie impallidiscono, timorose del vicino inverno.” L’estate era finita e l’erba dorata già tremava. Non andavamo più al parco e ci siamo visti poche volte, con fatica e voglia di non essere al mondo. Scrissi qualche cosa, ma mi sentivo sempre più lontana da ogni umano pianto e molte delle mie parole rimasero in letargo sotto al mio letto. Il ventre di Giulietta iniziava a gonfiarsi, per fare spazio al bambino che sarebbe venuto. Rimasero delle ombre e dei brividi che s’irradiavano dalla testa ai piedi, generati dagli echi di sguardi abbassati e di frasi non terminate. Con la mediocrità dell’autunno, trasformai la mia stanza in una fortezza degna di un animale freddoloso alle porte del grande sonno. Mi avvicinai alla finestra, con in mano una fotografia di noi quattro insieme, una delle pochissime e non era nemmeno la migliore: eravamo a casa di Filippo, agli inizi della primavera scorsa, già pronti a tendere desiderosi la nostra pelle ai morsi dell’estate. Pensai che il tempo stava proseguendo, in fondo, e che le persone si avvicendavano sulla giostra, turno dopo turno, anche se uno dei cavallini dipinti si era spezzato nella sua ruggine. Appoggiai la fronte sul vetro ancora tiepido e sollevai gli occhi verso il cielo limpido e vuoto.

FINE

martinamelgazzi

Martina Melgazzi nasce a Brescia, l’8 agosto del 1993. Ottiene nel 2012 il Diploma di Maturità Scientifica e si iscrive alla Facoltà di Lettere Moderne. È un’amante delle parole, una malata di scrittura (patologica) e una tremenda guascona. Scrive per vivere e vive per scrivere. Si indigna e si impegna.

Nel tempo libero, studia. Scrive come articolista per la rivista giovanile Storie Cultural Pop, ha pubblicato con la casa editrice digitale Wannaboo, “Tanto, non ne uscirai vivo”, un eBook di racconti e cura un suo blog di scrittura creativa, chiamato Sono, dunque scrivo.

Info e contatti
http://www.sonodunquescrivo.blogspot.it/

Così lontane, così vicine. Su “Le Belle Creature” di Martina Melgazzi


Anticipo qui di seguito la postfazione a “Le Belle Creature“, il racconto inedito di Martina Melgazzi che pubblicheremo nei prossimi giorni su musicaos:ed.

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abbraccio_Così lontane, così vicine. Su “Le Belle Creature” di Martina Melgazzi

La prima cosa che mi ha colpito del racconto inedito di Martina Melgazzi è stato il titolo, diretto, semplice eppure così nuovo, perfettamente atto a racchiudere la vicenda raccontata nello spazio breve di un’estate. La definizione di ‘dinamiti discrete‘ che l’autrice stessa affida ai protagonisti, Marco, Amanda, Giulietta e Filippo, descrive un mondo che è quello che troveremo nella lettura, un universo costituito dalla forza che hanno, i protagonisti, di attraversare quella terra così sconosciuta, densa di premesse e pericoli che è l’adolescenza.

Ecco Marco, il primo dei protagonisti, che si presenta in prima persona. Marco parlando di sé approfitta per descrivere i propri ‘compagni di viaggio’: “Paladini davanti alla folla, criminali nelle nostre stanze […] Io, che mi svagavo fingendo di essere un blogger alternativo, questa grottesca contraddizione, in qualche modo, l’avevo percepita e costellavo il mio blog con frasi di accusa e di protesta all’ipocrisia generale. In pratica, avevo esteso nell’infinito virtuale il mio sporco conformismo reale.” Marco non è differente da molti adulti, che un po’ per paura di crescere e un po’ per le necessità imposte dalle scuse dei tempi, preferiscono apparire su uno scenario virtuale piuttosto che entrare nel gioco della vita vera. Ma siamo proprio sicuri che siano soltanto i giovani a essere coinvolti in questo tipo di scenario? Basti pensare alle ultime etichette che sono state coniate per descrivere la generazione di coloro che vivono attraverso la continua esposizione sui social media, pinterest, instagram, facebook, per l’appunto quella degli “expo-teen”. Quella caratteristica che un tempo veniva additata come superficialità è divenuta l’essenza stessa della propria profondità da esprimere. Come trovare un senso, qualcosa di tangibile e profondo in queste esistenze?

imgimgI sentimenti, le emozioni, la poesia, sembrano essere i primi antidoti al deserto, a quel rumore bianco e sordo costituito dalle migliaia di interferenze e moltiplicazioni di immagini che però non costruiscono un immaginario, ma sono fotografie di un momento storico nel quale l’immagine e la parte si sostituiscono al tutto, senza descriverlo, risucchiando la realtà nel vortice dell’istantaneità e del momento. Poi c’è Amanda, innamorata della letteratura, appassionata di Shakespeare, coinvolta dal dialogo con coloro che solo in apparenza sono “morti”, dato l’effetto che hanno sulla sua formazione di giovane poetessa ‘alcolica’ e lesbica. La prima cosa che ci resta, leggendo di Amanda, è questo suo rifugiarsi nella scrittura per difendersi, unito al desiderio di tagliare via il mondo, creare una zona di tranquillità emotiva nella quale può entrare solo Barbara, la ragazza che desidera, con alti e bassi, sempre avvicinandosi ma senza mai volersi prendere realmente.

Interessante, fin da subito, il modo che l’autrice escogita per descrivere i lati oscuri dei personaggi, cioè attraverso le lucide interpretazioni degli amici del ‘gruppo dei quattro’ che si frequentano di più astraendosi dagli altri compagni. I quattro ragazzi si scrutano a vicenda, giudicandosi nel silenzio della propria anima. Filippo è il primo, con la sua solitudine, a interpretare e cogliere subito la solitudine dei suoi vicini, Giulietta può fare affidamento solo sul padre, la madre non c’è più, Amanda finge di essere indipendente, ma in realtà sono i suoi genitori a essere schifati dall’omosessualità della figlia, e Marco, che apre il racconto, figlio di genitori iperprotettivi, se la cava a modo suo restando in un limbo di timida affettività. Filippo e Amanda sono accomunati dal desiderio di alcol, il primo per fuggire, la seconda per ispirarsi. Marco, secondo Giulietta è “un eroe goffamente inesistente e galleggiava nel caos informatico”, dedito al suo blog e poco avvezzo alla socialità, perfino a quella più comoda e meno implicante dei social network. Giulietta prova qualcosa per Marco, e da circa sei settimane è in attesa di un bambino, avuto da un ragazzo sconosciuto ai suoi amici. Giulietta è in cerca di amore, protezione, ma soprattutto di fiducia.

imgimg_Un giovane insoddisfatto, troppo presto dedito alla droga e all’alcol, una giovane ragazza in attesa di un piccolo miracolo, dentro di lei, una giovane poetessa che prova amore per le ragazze, e non è accettata dai suoi genitori, e, infine, un ragazzo che non ha il coraggio di essere ciò che è, e si maschera dietro una maschera fittizia. L’alchimia di questi quattro caratteri è una miscela destinata a esplodere, forse.

Forse il pretesto sarà futile, forse ciò che deve accadere per dare un senso alle loro vite potrebbe avvenire da un momento all’altro, magari durante una festa, una di quelle feste fotocopia alle quali i quattro prendono parte durante l’estate, un’occasione come un’altra, solo in apparenza. Una festa come quella che sta avvenendo adesso, in casa di Filippo.

Martina Melgazzi è una brava autrice, ha dimestichezza con i tempi della narrazione e i modi dello stile, sta costruendo un percorso personale e, soprattutto, le sue dichiarazioni di impossibilità a vivere senza scrittura (e lettura) fanno ben sperare sul suo futuro, non solo letterario. Ma soprattutto Martina Melgazzi scrive bene adesso, con un buon margine di miglioramento, e ciò è un vantaggio. Non c’è niente di cui si sente di più il bisogno, in questo momento.

Luciano Pagano

18, 19, 21 e 28 Dicembre 2013, Roma – “CAMERA POESIA”, a cura di Giulio Marzaioli, incontri con Simona Menicocci, Renata Morresi, Fabio Teti, Marco Giovenale, Luigi Severi, Nanni Cagnone


Centro Culturale

LA CAMERA VERDE

via Giovanni Miani n.20
Roma

CAMERA POESIA
I EDIZIONE – DICEMBRE 2013
A cura di
Giulio Marzaioli

18, 19, 21, 28 dicembre 2013
ore 19:00

Mercoledì 18 dicembre 2013
Le poesie di Simona Menicocci, Renata Morresi e Fabio Teti
19:00 Presentazione dei libri
Posture Delay
di Simona Menicocci
…..
La signora W
di Renata Morresi
…..
b t w b h
frasi per la redistribuzione del sensibile

di Fabio Teti
(Collana Calliope)

Giovedì 19 dicembre 2013
Criteri e altre curvature, la poesia di Marco Giovenale
19:00 Presentazione del volume
Tagli / tmesi
di Marco Giovenale
(Collana Elzeviri)

e della cartella d’artista

Syn sybilles
di Marco Giovenale

Sabato 21 dicembre 2013

19:00 presentazione del libro
Specchio d’imperfezione – Corona
di Luigi Severi
(Collana Metra)

Sabato 28 dicembre 2013

19:00 presentazione del libro
Perduta comodità del mondo
di Nanni Cagnone
(Collana Metra)

§

Centro culturale
LA CAMERA VERDE

direttore
Giovanni Andrea Semerano
via Giovanni Miani 20, 20a, 20b – 00154 Roma
tel. 3405263877
info@lacameraverde.com
www.lacameraverde.com

In arrivo…


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Sacra e profana la bellezza. Su “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino.


Sacra e profana la bellezza.
Su “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino.

toniservillo_lagrandebellezza_paolosorrentinoQuando “La grande bellezza”, di Paolo Sorrentino, nel maggio scorso è stato presentato al Festival di Cannes e, negli stessi giorni, è uscito nelle sale, uno dei temi sui quali si è subito insistito da parte della critica è stato il più evidente, quello forse più coinvolgente proprio per la stessa critica, ovvero sia il fatto che la pellicola di Sorrentino fosse una sorta di lucida critica, dal sapore vagamente felliniano, della città di Roma e di un indeterminato jet-set che in essa si muove, come una nebulosa.

Un po’ come se questo, insieme a altri del passato, fosse (solo) l’ennesimo film su Roma. Indubbio il fatto che molti dei personaggi ai quali si è ispirato Sorrentino potrebbero essere dei ‘tipi’, ‘caratteri’ realmente esistenti, inevitabile anche perché il grande cinema, come la grande letteratura, si nutre di questi compositi, veri e propri rifiuti spazzati via dalla realtà. Oltretutto quanto più ci si avvicina alla superficie, nel descrivere il mondo, tanto è più facile incontrare i propri conoscenti. Inevitabile anche perché nel nostro paese, la letteratura e la cinematografia, e di conseguenza anche la critica letteraria e cinematografica, transitano dalla Capitale, quindi è evidente che i primi ‘lettori’ di un fenomeno di questo genere non possono non appartenere a questo ambiente così circoscritto e allo stesso tempo così influente. Mi sembrava, leggendo certi articoli, di cogliere una filigrana sporca del manuale per diventare intellettuali redatto da Luciano Bianciardi, con tutti i consigli per i giovani Gambardella ante litteram che si avvicendano nella città eterna e che devono ‘simulare’ prima ancora di essere.

Allo stesso modo il paragone con Fellini e con la sua ‘Dolce vita’, molto più che con ‘8½’, mi era sembrato quasi automatico, come se una certa ‘distanza’ morale dalla narrazione, unita al cinismo, fossero più una scusa per liquidare l’immediatezza di alcune verità. Non ho creduto fin dall’inizio all’immagine offerta da questo tipo di lente deformante, perché c’erano alcuni elementi, soprattutto la fotografia e la musica, che mi facevano intravedere un utilizzo dell’immagine molto più che descrittivo, in questa pellicola.

È proprio grazie a un equilibrio tra montaggio (Cristiano Travaglioli), colonna sonora e fotografia (Luca Bigazzi), che l’occhio dello spettatore ha la possibilità di percorrere i diversi nuclei senza mai soffermarsi troppo, quasi che questo film presentasse un’analisi istantanea, senza troppi ragionamenti, delle profondità che si mascherano nella superficie. Si tratta della percezione immediata dell’oggetto così come è descritta nella ‘Fenomenologia dello Spirito’ di Hegel, qualcosa di cui, almeno fino a oggi, non si potrebbe dubitare, quell’agnizione bruta dove, per usare le parole di Jean Hyppolite: “il momento della coscienza compare come quello della separazione, della distizione fra soggetto e oggetto, fra la certezza e la verità”. C’è una volontà continua, che all’inizio sembra non conoscere cedimenti, che è quella di Jep Gambardella, teso nel suo non volersi occupare proprio della profondità, di ciò che sta dietro alle cose. Il vacuo è ciò che importa, ovviamente quando questo è il vacuo che avviene e ha dignità di esistenza nel recinto per animali anestetizzati, in quel vero e proprio acquario che è la casa con terrazzo in pieno centro, a Roma.

toniservillo_lagrandebellezza_paolosorrentino_03L’inizio tuttavia è già inizio della fine, nel creparsi di questo quadro così splendido. Le cose compaiono e scompaiono, ma non come la giraffa del commiato di Romano – Carlo Verdone, che avviene in uno scenario felliniano, degno del nomen-omen scelto da chi a sua volta ha eletto Jep a suo unico confidente e amico. Quando le cose scompaiono, in quest’opera, devono pagare il loro pegno nel dolore. Non si tratta della bellezza del Nulla, né della possibilità di scriverci sopra un romanzo, come preconizzato nelle parole di Jep attraverso Flaubert. Si tratta piuttosto di un elemento isolato che, giorno dopo giorno diviene somma di elementi, fino a costruire una nuova coscienza e, in questa, far avvenire la volontà di recuperare il proprio rapporto umano con la realtà, prima, e poi con la scrittura.

Il percorso ascensionale, dantesco, di Jep Gambardella, fino al ricongiungimento con il proprio passato, ha una sua specularità nell’arte. Incomincia con la ‘fuffa’ della pseudo-performer che ha il pube tinto di rosso e con rasato il ‘logo’ falce & martello, si incrina con le foto ‘anche da nuda’ del ricco e annoiato personaggio interpretato da Isabella Ferrari e muta radicalmente quando Toni Servillo visita la mostra di un fotografo, impersonato dal giovane e talentuoso Ivan Franek, che ha fermato sulla pellicola, giorno dopo giorno, il suo volto. Nella storia qualsiasi di un volto Gambardella rivede la propria storia.

Col tempo mi sono accorto, riflettendo su “La grande bellezza”, che uno dei temi principali che fanno da filo conduttore del racconto in questa pellicola, è il dialogo tra il ‘sacro’ e il ‘profano’, un tema che ha come sfondo la città di Roma, che probabilmente unisce più di altre questi due elementi, proprio forse per il fatto di essere la sede ufficiale del nostro ‘sacro’ (il Vaticano, la Chiesa), e, di conseguenza, rendendo più facile un accostamento al profano. Detto questo il paragone tra la poetica presente ne “La grande bellezza” e certa scrittura/fotografia felliniane, è più facile accostando questo film a Roma o, addirittura, al Satyricon, prima pellicola che mi è venuta in mente vedendo il film di Sorrentino, proprio forse per via della fotografia e di quel ‘vagare tra gli inferi’ così simile al passeggiare solitario di Gambardella.

Non sono il primo, né l’ultimo ad accorgersi dell’importanza che hanno, in questa pellicola, le citazioni e i rimandi a Céline e al suo “Viaggio al temine della notte” (http://segnavi.blogspot.it/2013/06/la-passione-di-sorrentino-per-celine.html), già seminati in altre opere del regista, specie ne “Le conseguenze dell’amore”. Paolo Sorrentino sarebbe, per usare i criteri ‘morettiani’ (vedi il corto del regista romano “Il giorno della prima di Close Up”), un autore infante, molto meno che giovane, proveniente da una generazione che è sicuramente stata influenzata da certe letture & visioni, e che adesso ha raggiunto una maturità espressiva simile a quella di cui disponevano, tra gli anni Novanta e Duemila, autori come Virzì, Luchetti, Mazzacurati. Riconsegnare alle masse l’etica del disincanto e l’immagine spietata, ma poeticissima, del Voyage, è un merito per Sorrentino, l’ultimo che aveva portato Céline alle masse del pop nazionale, infatti, è stato un altro giovane autore, il trentaseienne Alessandro Baricco, nel suo Pickwick (1994).

toniservillo_lagrandebellezza_paolosorrentino_02La morte, in questo gioco di rimandi tra sacro e profano, non è una cifra che ci permette di capire. La morte ne “La grande bellezza”, in tre casi, viene occultata, ci vengono presentate le sue premesse e le sue conseguenze, ma il ‘processo’ è nascosto; Elisa, per prima, poi Andrea (Luca Marinelli) e Ramona (Sabrina Ferilli) scompaiono. Ciò che interessa è lo squallore del momento, non tanto l’inadeguatezza nei confronti della morte, quanto l’impossibilità di cogliere un nesso con ciò che resta della vita. È il tempo, che scorre rapidamente nel montaggio a porre lo spettatore nell’obbligo di fare i conti in fretta con tutto ciò che accade. Tanto che al di fuori del tempo, ad esempio come succede con le epifanie del super latitante Moneta/Denaro, e fuori dal flusso vorticante della vita quotidiana di Jep Gambardella (Toni Servillo), il protagonista è spiazzato e lo spettatore trova un appiglio guardando al di sopra della corrente.

Il sacro e il profano tornano, in modo più prepotente, con l’ultimo dei nuclei narrativi, quello dedicato alla ‘Santa’, immagine speculare di Madre Teresa, della quale viene presentato anche l’aspetto spettacolare, sia nel pubblico che nel privato. In precedenza, durante una festa alla quale Jep era andato con Ramona, nella casa di uno dei più importanti mercanti d’arte della Capitale (Lillo De Gregorio), una bambina-artista, un monstrum di bellezza e inquietudine, aveva ritratto un fenicottero durante un action painting. Saranno proprio i fenicotteri, animali totem, a fare da tramite tra il cielo e la terra, il sacro e il profano, ricongiungendo a quelle “radici” di cui la Santa si nutre e che Jep riesce, nel percorso compiuto, a recuperare, riappropriandosi del sentimento di grande bellezza che aveva conosciuto da ragazzo, con Elisa.

Lo stesso sentimento di nostalgia e ritorno aveva fatto produrre a Jep Gambardella l’unica opera letteraria della sua vita. Era proprio la scomparsa di quel distacco, con molta probabilità, che lo aveva condannato a non scrivere più nulla, salvo poi fargli recuperare l’ispirazione nel filo delle cose accadute, nel passato prossimo immediato, di cui il film di Sorrentino, “La grande bellezza”, è un lungo e riuscito prologo.

Luciano Pagano

13 Dicembre 2013, Campi Salentina (LE), Città del Libro 2013. “Un teatro in palestina” (Astràgali), Fabio Tolledi dialoga con Carla Petrachi


Fabio Tolledi, regista e curatore di “Un teatro in palestina” (Astràgali), il prossimo Venerdì 13 Dicembre 2013 alle ore 21:00, dialogherà con la giornalista Carla Petrachi presso la Saletta Cultura, all’interno della Città del Libro di Campi Salentina, edizione 2013.

L’esperienza di Astràgali nei Territori Occupati da Israele in Cisgiordania risale al 2010, in occasione del progetto Roads and desires, theatre overcomes frontiers.
Ne nasce un libro che raccoglie una parte significativa dei materiali prodotti e sviluppati intorno a questa esperienza. Il fare concreto del teatro e la pratica della ricercazione sociologica sono stati gli strumenti con cui si è condotto questo intervento.

Cosa sono le pratiche culturali in un territorio che vive da più di cinquanta anni un’occupazione militare ed un costante esproprio delle proprie terre? Come pensare un intervento culturale in un contesto stravolto da uno straor dinario processo di colonizzazione e pulizia etnica? Queste sono alcune delle domande da cui si dipanano i numerosi interventi riportati in questo libro.

Emerge la consapevolezza che nelle dinamiche di conflitto uno degli elementi caratterizzanti è costituito dal mancato riconoscimento dell’altro. Ed è proprio in questo contesto di isolamento che la pratica culturale diventa una forma di resistenza, un elemento cruciale di rivendicazione e di affermazione di un diritto di esistenza per donne e uomini altrimenti condannati alla sparizione.

Info:
http://www.astragali.org/publishing!2

Novità: “t.A.T.u. story.” di Alessandro Paolinelli (Phasar Edizioni)


"t.A.T.u. story. Ricostruzione dell’ascesa e declino del duo Pop più controverso degli anni 2000" di Alessandro Paolinelli (Phasar Edizioni)

http://www.phasar.net/catalogo/libro/tatu-story-ricostruzione-ascesa-declino-duo-pop-anni-2000

La storia di uno spregiudicato progetto musicale nato senza grandi prospettive nella Russia post crisi economica del 1998 e sorprendentemente esploso a livello internazionale dando vita al gruppo pop più malizioso e controverso del nuovo secolo, in grado di affascinare milioni di teenagers e di turbare i sonni dei dirigenti delle emittenti televisive di mezzo mondo.

Una ricostruzione puntuale e documentata della parabola del successo delle t.A.T.u. e del fenomeno sociale rappresentato dallo "scandaloso duo saffico" che infrangeva tutte le regole dello showbusiness occidentale, dai 25 dischi d’oro e platino del primo album fino allo scioglimento del 2011, attraverso la diretta testimonianza dei protagonisti.

Alessandro Paolinelli, classe 1962, entra nel mondo della radiofonia privata ben prima di conseguire la laurea in ingegneria elettronica curando la regia di alcune trasmissioni dell’emittente storica romana GBR Radio nonché la programmazione della fascia della domenica mattina e il tappeto musicale notturno. Negli anni ’80 partecipa al primo esperimento in assoluto di rete radiofonica privata diffusa in diretta sul territorio nazionale, Antenna Italia.

Negli anni ’90 passa alla televisione, curando la produzione delle trasmissioni in diretta di TVR Autovox, del notiziario “CTG” e della rubrica di cultura e spettacolo “Night & Day”. Negli anni 2000 pianifica la realizzazione della rete di diffusione pluriregionale di Teleitalia 41 e crea il canale monotematico XX Secolo.

Nel 2013 è produttore esecutivo della videoclip del secondo singolo da solista di Lena Katina Lift Me Up.

so we’ll fall if we must
‘cause it’s you, me,
and it’s all about us

così cadremo, se dobbiamo

perché ci sei tu, ci sono io,
ed è tutto ciò che importa

da “All about us”

t.A.T.u.

"t.A.T.u. story. Ricostruzione dell’ascesa e declino del duo Pop più controverso degli anni 2000" di Alessandro Paolinelli (Phasar Edizioni)

Prezzo: 14,00, Prezzo ebook: 4,99, ISBN: 978-88-6358-225-3, PAGINE: 232, Anno pubblicazione: 2013, Genere: Musica

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http://www.phasar.net/docs/estratto_tatu_story.pdf

Dal 7 al 20 Dicembre 2013 a Cosenza: “U PANARU”. Una mostra e 27 artisti presso VERTIGOARTE


“U PANARU”

La mostra si terrà dal 7 al 20 dicembre 2013 – inaugurazione 7 dicembre ore 17,30

a cura di Ghislain Mayaud,

Vertigo Arte, presente nel territorio calabrese da più di dieci anni, si fa promotore, sotto le ricorrenze natalizie, di un’esposizione dal carattere identitario, rendendo omaggio all’etno-antropologia culturale della terra di Calabria. La rassegna “U panaru” vedrà coinvolti ventisette artisti di area nazionale legati alle attività di ricerca che Vertigo porta avanti nelle sue annuali programmazioni. Ventiquattro nomi che produrranno ventiquattro interventi artistici su un oggetto (il “panaru”, appunto) legato alla civiltà contadina calabrese.

Una rassegna curata dal critico d’Arte Ghislain Mayaud, documentata da un catalogo, collocato nelle collane di pubblicazioni d’Arte dell’Istituto Vertigo, che rappresentano una utile occasione di promozione degli autentici contenuti storici ed antropologici, oggetto di approfonditi studi di ricerca di notevole qualità.

Gli artisti partecipanti sono:

Salvatore Anelli, Caterina Arcuri, Angela Barbera, Renata Boero, Dario Carmentano, Lucilla Catania, Bruno Ceccobelli, Giulio De Mitri, Teo De Palma, M. Elena Diaco Mayer, Franco Flaccavento, Giovanni Leto, Oronzo Liuzzi, Ruggero Maggi, Alfredo Maiorino, Albano Morandi, Max Marra, Gianfranco Neri, Antonio Noia, Tarcisio Pingitore, Cloti Ricciardi, Emiliano Sacco, Giuseppe Salvatori, Leonardo Santoli, Gianfranco Sergio, Vincenzo Trapasso, Fiorenzo Zaffina.

Trasportata sotto il braccio del linguaggio, duramente urtata dalle smisurate scosse nel viaggio, dalla cugina Francia la parola “panier” (dal latino panarium) ritorna nelle terre della Calabria come “panaru”.

Micro spazio teatrale del dono, simbolo per eccellenza della pancia della madre (il primo cesto è stata creato da una donna, ha modellato con cura una grande pancia di fango con semplice dignità posandola sulla superficie desolata dell’eterno) e della salvezza di Mosè dalle acque, “u panaru,” colmo di presenti aspetta la mezzanotte sotto l’albero decorato.

Da Lamezia Terme a Cosenza sfiorando la nevicata Sila Grande, dopo “Epifanico” (2007), “Lettera a Babbo Natale” (2009), “Nevica nella Dimora” (2008) e “Stella Cometa” (2011), “U Panaru” salda un fortunato ciclo natalizio. Come nelle “Scatole in valigia” di Marcel Duchamp, le plein créatif colma l’impaziente visitatore. Le “Panier mystérieux” arriva nello studio dell’artista già imbevuto di speranza.

Segnato e farcito dal linguaggio, “u panaru” in vimini sarà esposto seguendo le precise indicazioni di istallazione dell’autore. Si tratterà di “mettere in scena” nel consueto rigore espositivo i segnali mandati nel o dal cestino per ridonare un senso delle molteplici e sincroniche esperienze dei 27 artisti presenti.

Ghislain Mayaud

Catalogo in galleria

Centro VERTIGOARTE – Via Rivocati 63 Cosenza. vertigoarte
Vertigo Centro Internazionale di ricerca per la Cultura e le Arti Visive Contemporanee
Via Rivocati 63, 87100 Cosenza, cell. 3427186496 – 3299832347

Cosa preferireste per Natale, un milione di euro o la pace nel mondo?


Cosa preferireste per Natale, un milione di euro o la pace nel mondo?

Molti confondono la pace con la felicità, ma la felicità è una cosa, l’ebetudine è un’altra. Ci potrebbe essere, ad esempio, la pace nel mondo con alti e bassi di felicità, con una parentesi sempre aperta per gli sbalzi di umore premestruali di metà del genere umano, quello femminile. Di recente ho notato che la sindrome premestruale ce l’hanno anche alcuni uomini.

In alcune zone poi la pace potrebbe essere temporaneamente sospesa, giusto per verificare se gli f-35 funzionano o se sono come l’f-14 dei G.I. Joe che mi regalò mio padre per il natale dell’83, un sogno di plastica.

Ho capito. Facciamo prima col milione di euro.

Del “quando”. Su “In ordine sperso” di Vito Antonio Conte (Luca Pensa Editore)


Del “quando”. Su “In ordine sperso” di Vito Antonio Conte (Luca Pensa Editore)

[intervento pubblicato il 5 dicembre 2013 su SPAGINE Periodico Culturale dell’Associazione Fondo Verri un omaggio alla scrittura infinita di F. S. Dodaro e A. Verri, curato da Mauro Marino]

Il “quando” è un momento terribile. Il “quando”, nel discorso, è quasi sempre utilizzato in accezione interrogativa, di rado mi è successo di leggerlo, con così tanta forza, in accezione affermativa, quasi accusatoria, così come accade nella nuova raccolta di versi che Vito Antonio Conte ha pubblicato con Luca Pensa Editore, “IN ORDINE SPERSO”. Pensa Editore, sodale amico, oltre che editore storico dei versi di Conte, dieci anni alle porte per un connubio che è tipico nel mondo della poesia e, più raro, in prosa.

Ma torniamo al “quando”, ad esempio al più forte di tutti, quello contenuto in uno dei titoli secondo me più belli della recente letteratura italiana. Mi riferisco a quel “Se non ora, quando?” in cui Primo Levi raccontava le vicende dei partigiani ebrei in fuga. Il “quando” si accompagna a un sentimento, l’attesa, che è il contrario del hic et nunc, il “qui e ora”, che a volte giunge improvviso, inaspettato. Il “quando” è, in sostanza, la petizione di un desiderio. Quando ci vedremo? Quando sarai mia? Quando finirà tutto questo? Quando saremo liberi? Quando capiremo? Quando avrò ciò che mi spetta? Quando riuscirò? Più numerosi sono i desideri, innumerevoli quelli nella vita di un uomo, e più si moltiplicano i ‘quando’ che li accompagnano, il tempo dell’attesa e il desiderio, infatti, sono due volti diversi di un’identica sofferenza.

Cosa succederebbe, invece, se i “quando” fossero tappe cronologiche compiute, momenti irripetibili, attimi scolpiti nel ricordo?

Vito Antonio Conte sceglie una strada differente, controcorrente come la cifra che ha tracciato con la sua produzione, che con garbo e senza finzioni riesce a svelare ciò che spesso altri usano come pretesto per nascondersi, fuggire. Verità, che si traduce come forte responsabilità della propria scrittura in relazione a ciò che si è vissuto. Ed è così che i “quando” di Conte risultano essere i momenti veri, lucidi, perfetti, “quando riuscii a fotografare / Pino Daniele in concerto / incorniciato da un applauso”, “quando mio cugino / e la sua alta sposa / (in viaggio di nozze) / vennero a trovarmi / e (io universitario / di soli dieci anni più giovane) / pensai: sono vecchi”, e ancora “quando il campo era tondo / il cielo stava oltre la rete / insieme a un sorriso / e la terra segnata da tacchetti / non scottava”. Ne rubo un ultimo: “quando emendai / tutti i quando / da chi mi stava sul cazzo / ché se così è / (e così è) / non ha senso / immortalare zombi / che si credono vivi”.

Il colloquio dei lettori con i versi di Vito Antonio Conte si è sempre giocato sul filo del tempo, delle attese, dei viaggi e dei ritorni. In questa sua ultima raccolta il Poeta si comporta con il tempo come se il tempo fosse spazio materiale, fisico, scolpendone gli attimi, “quando scrivevo poesie edulcorate / per donne mai incontrate / regalandole a innamorate / appena sfiorate”. È una selezione dei giorni migliori e peggiori, dei momenti migliori e peggiori, degli incontri migliori e peggiori. Sono le epifanie di una vita che scorrono, una dopo l’altra, in quella che, forse non in modo premeditato, ma riuscitissimo, diventa una vera e propria biografia raccontata in versi.

Ne ho contati 47, di questi attimi, e spero di leggerne altrettanti in futuro, al più presto possibile, perché una cosa che apprezzo, da sempre, nella scrittura di Vito Antonio Conte, è la capacità di non temere la verità che erompe dalla vita, e di riuscire a diradare, con la propria scrittura microscopica, le nebulose barocche che spesso ammantano la poesia salentina, riportando con i piedi per terra il gesto creativo e la sua attinenza alla vita.

Un’ultima nota: il libro in questione, IN ORDINE SPARSO, è edito in una tiratura limitata di 53 esemplari, come dire: quanti ne salverà, la poesia, in questi foschi dintorni… 50? E se fosse per quei 50, a quando la speranza? E se fossero 40? 30? 20? Quanti sono i lettori che sono disposti, oggi, a immergersi capofitto in una scrittura che richiede di ripercorrere una vita a ritroso, con tutti i suoi fantasmi e senza i riguardi delle buone maniere? John Fante, Charles Bukowski, Louis-Ferdinand Céline, José Saramago, Antonio Tabucchi, Corto Maltese, assieme a una manciata di amici e amiche che non hanno spedito un email ufficiale per autoinvitarsi prenoterebbero volentieri una di quelle 53 copie. E io con loro.

Luciano Pagano

IN ORDINE SPERSO, Vito Antonio Conte, Luca Pensa Editore, Collana Graffiti, ISBN 978-88-6152-197-1, 7€, edizione limitata 53 copie

Info:
http://www.pensaeditore.it/

6 Dicembre 2013, Medimex, Bari – BandAdriatica in concerto.


BANDADRIATICA @ MEDIMEX!

bandadriatica

BandAdriatica is among the 21 artists selected to showcase at Medimex 3rd edition at Fiera del Levante of Bari, from Friday 6th to Sunday 8th, December, 2013. This year again Medimex showcases will take concertgoers on a journey through a variety of genres and styles of the Italian music scene, giving room to a remarkable lineup of Apulian artists, as well as to some of the most interesting international music projects. BandAdriatica will showcase on Friday 6th December at 9.20 pm – stage 3.

If you want to get in touch with musicians and staff, BandAdriatica will be in Medimex at stand N° 4. For more informations and details write to info@adriatik.it or contact@adriatik.it or visit www.adriatik.it

MAIN REVIEWS

“Frastornante, immensamente vitale l’incrocio di micidiali uptempo dispari e quattro quarti, ruggenti e precisi i fiati. Una magnifica turbolenza insomma, che si nutre, a maggior caratura, di testi ben scritti: “C’è un mare da morire, noi partiamo”. Guido Festinese – Il giornale della musica

“This is an interesting project that superbly integrates new composition with roots and demonstrates how easily music can cross national and linguistic barriers.” Michael Hingston – Folk Roots

“Certaines orchestrations avec clarinettes me font penser à celles des musiques de N. Piovani et l’ambiance n’est parfois pas si éloignée de celle de certains films des fréres Taviani” Jean-Luc Matte – Trad-Magazine

Claudio Prima‘s mutinous crew keeps setting stages on fire all over Italy and Europe. The powerful, energetic live show contains several songs from the latest release. The brass and rhythm sections stretch the envelope of Adriatic grooves and styles, while voices, cello and accordion emphasize the melodies.

During last 6 years BandAdriatica played with Boban and Marko Markovic, Naat Veliov and Original Kocani Orkestra, Raiz e Radicanto, Eva Quartet (from Les mystere des voix Bulgares), Dario Marusic (Istria), Bojken Lako, Redi e Ekland Hasa (Albany), Ivo Letunic, Mateo Martinovic (Croatia) and in 2008 realized the project “Rotta per Otranto“: 15 musicians, a sailboat and 400 miles in the Adriatic sea became a documentary about an extraordinary tour of concerts and meetings in the Adriatic harbours.

Are you interested in booking BandAdriatica? CONTACTS:
Claudio Prima
+39 347 5468393
info@adriatik.it
contact@adriatik.it
www.adriatik.it

Nelson Mandela.


"L’uomo coraggioso non è colui che non prova paura, ma colui che riesce a superarla."

("Long Walk to Freedom", 1995)

6 Dicembre 2013 – AIDA SAMB primo concerto in Italia, per SALAM LECCE, CITTÀ DI PACE, Manifatture Knos


VENERDÌ 6 DICEMBRE 2013 alle ore 22.00
MANIFATTURE KNOS (Via Vecchia Frigole, Lecce)

AIDA SAMB per la prima volta in concerto in Italia
chiuderà la prima due giorni di
“SALAM LECCE, CITTÀ DI PACE”

Immagine in linea 2

AIDA SAMB, giovane e talentuosa cantante proveniente da Dakar, è tra le più amate artiste africane. Aida Samb è una cantante senegalese della linea di Gawlo, nota in tutta la nazione per la padronanza della musica. Figlia di genitori che appartengono alla grande famiglia griot è nipote di Samba Diabaré Samb, icona della musica tradizionale senegalese, nominato “tesoro umano vivente” dall’Unesco, perché incarna il patrimonio culturale, tradizionale e i valori e la storia del Senegal.

AIDA SAMB è l’ultima rivelazione della musica senegalese, ed è una delle voci che collaborano con Youssou Ndour, star di fama internazionale e, dal 2012, ministro della Cultura e Turismo del governo del presidente Macky Sall, in Senegal.

Il video del suo primo singolo, intitolato SARAABA pubblicato nel maggio dell’anno scorso, è stato visto, su youtube, da oltre 500.000 persone.

La giornata di domani sarà aperta da un Incontro/Dibattito, alle ore 17.00, sul tema “Dall’immigrazione all’intercultura“, al quale prenderanno parte Simona Manca (Vice Presidente Provincia di Lecce), Carmen Tessitore (Vice Sindaco del Comune di Lecce), Michele Bee (per Manifatture Knos), Dahirou FAYE (operatore economico e universitario nel campo della comunicazione, per il Senegal), insieme alle testimonianze di Amadou, Papa Ngady FAYE (operatore economico e editore) e Abdoulaye SY (Presidente dell'”Association des Sénégalais di Lecce), Simone Franco, attore, performer, “fabbricante d’armonie” e coordinatore per l’Italia del progetto SALAM LECCE.

Alle ore 18.00 sono previste le proiezioni di “AFRICAN EXPRESS” di Claudio Celentano e di “JE NE VEUX PAS QUITTER LE SENEGAL” di Luciano Schito, i due documentari che, insieme alla mostra ‘solidale’ “CLICK CONTES D’AFRIQUE” di Luciano Schito, hanno creato un ponte visivo e tangibile di testimonianza dal Senegal.

Il progetto SALAM LECCE, CITTÀ DI PACE, rientra nel BidBook della candidatura di Lecce a Capitale della Cultura 2019, ed è realizzato da La Factory (Dakar), Modu Modu (Lecce) e Multisciplinary Art (Lecce), ed è sostenuto da Provincia di Lecce, Comune di Lecce e Ambasciata Italiana in Senegal.

Ore 22.00 – Concerto di AIDA SAMB, ingresso 5€
(Ingresso libero per mostra e proiezioni)

Referente del progetto per l’Italia: Simone Franco
Mail: simonemartinofranco@gmail.com

Per info: Manifatture Knos, Via Vecchia Frigole, 34- Lecce

mail: info@manifattureknos.org
tel. 0832.394873

“Riccardino III, uno scandalo del potere”.


“Riccardino III, uno scandalo del potere”.
di Luciano Pagano

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1. Il guaio.

“L’impossibilità di mettere in scena l’illusione è dello stesso ordine dell’impossibilità di ritrovare un livello assoluto del reale. L’illusione non è più possibile, perché non è più possibile il reale. Tutto il problema politico della parodia, dell’ipersimulazione o simulazione offensiva, si pone proprio qui.”  (Jean Baudrillard, Simulacri e impostura)

Il guaio è che il potere è inadeguato al potere, e Riccardino III sembra voler questo, aspirare a un adeguamento, cercare di essere all’altezza del potere, a costo di divenire un’Altezza reggente. Tutto quindi è un fare e spiegarsi, agire e giustificarsi, ambire e allo stesso tempo contenere. Nell’opera di cui Davide Morgagni è scrittore e regista si comprende il meccanismo del potere quando si accetta il ruolo della Donna come elemento di comando (da non confondere con il dominio), questo sembra essere uno dei primi registri di questo Riccardino III.

Il teatro è femminile, femminile è la prima sottrazione del potere, dato che il potere del matriarcato è quello che comanda senza comandare. Non si tratta di ubbidire, bensì di seguire un riflesso. La Donna non è confondibile con il Femminile, e mentre Riccardino III, come un semplice apprendista, si dedica al consolidamento del potere, tra una sigaretta accesa e un’altra spenta, è la donna che detta lo spartito, l’uomo cantilena il ritornello del potere, e le molteplici “lei” scandiscono il ritmo, lo spettacolo, in tre luoghi separati nei quali si alternano emozioni, picchi e abissi del racconto.

“Riccardino III” è il potere che si mette da parte, segue un copione, una traccia, evocando Shakespeare e in suoi fantasmi, contemporanei e futuri, Louis-Ferdinand Céline operaio, Arthur Rimbaud commerciante e trafficante in Africa, l’Allen Ginsberg dell’Urlo. Davide Morgagni, nella sua riduzione/effrazione è attento al testo almeno quanto è attento a far capire-non-capire, allo spettatore, che il Duca di Gloucester, poi Riccardino III, pur trovandosi quasi per un caso sulla scena, vuole che tutto venga svolto nel modo più sbrigativo e sfilacciato possibile, senza teoria, ma con una prassi ferrea.

Davide Morgagni, con Luciana Franco, esegue tutto ciò che può essere fantasia del potere sul teatro spogliatoio del potere territoriale, depauperato dell’eccesso, eppure tale da risultare uno spreco di mezzi nel quale c’è addirittura un suggerimento nascosto, quello di lasciarsi alle spalle la tragedia, pur nel mezzo della tragedia.
“Riccardino III” si porta appresso un copione… è la storia che è già scritta e alla quale è possibile, ma non utile, adeguarsi? Nascere, iniziare, debuttare, in realtà si prende in prestito qualcosa che già è stato scritto, sognato, e lo si porta attraverso il tempo, verso una dimensione scenica in cui anzitutto bisogna restituire una sospensione della credulità. Il veicolo di Davide Morgagni procede fin da subito su un binario in cui tragico e comico si alternano, ma è un effetto ottico, testuale, chi vede e sente fino all’ultimo non capisce se la messa in scena del potere farà piangere, meditare, sorridere o inquietare, ma è un effetto, il potere è sempre tragico, altrimenti non è dominante.

Non esiste nulla di più vietato che debuttare, incominciare, è come se il teatro non ammettesse un incominciamento, bisogna sempre stabilire da dove si arriva e quale ‘attrezzatura’ si adopera, quali sono le intenzioni. E in più, oggi, bisogna attrezzarsi per andar contro ai ritmi imposti dalla televisione detergente. Come se l’intenzionalità extrascenica inferisse un’intenzione, una volta saliti sulla scena, e da questa, come un automatismo, derivasse l’urgenza del proprio teatro. Intenzione e urgenza così vengono confuse, quando manca la seconda, ci si accontenta di rinforzare un’immagine della prima.

Il teatro di Davide Morgagni, nel “Riccardino III”, è urgenza che una volta sul trono smarrisce l’intenzione, e cerca di ricostruirne, frammento dopo frammento, l’amnesia che ne deriva. Chi scrive è debitore delle proprie influenze, che si perdono nella scrittura, così come il Duca, una volta incoronato, dimentica ciò che è stato, la microfisica della sua carriera dissoluta. La scena però è azione e quindi ci si chiede da dove questa azione provenga e dove sia diretta. La ‘sufficienza’ è una delle misure del “Riccardino III” di Davide Morgagni. Una ‘sufficienza’ che diviene distacco dalla propria vicenda, come a dire, siamo qui, abbiamo apparecchiato il disastro, facciamo in fretta e sgomberiamo la scena.

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2. Il potere domato.

“Che cos’è un ossessivo? In sostanza è un attore che gioca la sua parte ed esegue un certo numero di atti come se fosse morto. Il gioco a cui si dedica è un modo per mettersi al riparo dalla morte. È un gioco vivente che consiste nel mostrare che è invulnerabile. A tale scopo, si esercita in un domare che condiziona tutti i suoi approcci con l’altro. Attua una sorta di esibizione per dimostrare sin dove può arrivare nell’esercizio, che ha tutte le caratteristiche di un gioco, compreso il carattere illusorio – vale a dire sin dove può spingersi l’altro, il piccolo altro, che è il suo alter ego, il doppio di sé. Il gioco si svolge davanti a un Altro che assiste allo spettacolo. Egli stesso è solo spettatore, e in questo sta la possibilità stessa del gioco e il piacere che vi trova. Ma non sa quale posto occupa, ed è questo a essere inconscio in lui. Ciò che fa, lo fa allo scopo di avere un alibi.” (Jacques Lacan, Il seminario, Libro IV, La relazione d’oggetto, 1956-1957)

Dove avviene il “Riccardino III”? Cosa c’è prima del “Riccardino III”?

La cronaca quotidiana ci ha abituato all’andirivieni di intrighi e sesso nelle anticamere del potere. Gli scandali sessuali sembrano essere la misura dell’installazione del potere al di sopra della vita dei sudditi. Lo scandalo sessuale è l’ultima misura dell’intensità di campo di un potere, più esso è forte e minori sono le conseguenze dello scandalo presso gli affiliati delle molteplici linee del potere. In realtà quando il potere genuino funziona nessuno se ne accorge. Il potere che domina non lo fa nella conoscenza. La verità del potere è chiusa.

Il potere entra nella vita dei sudditi, tramite le forme del comando, per ovviare alla mancanza d’affetto da parte dei sottomessi, per legarli alla parte di sé che richiede un consenso pubblico. Il sesso e lo scandalo sono il viatico della possibilità, da parte degli ‘ultimi’, di entrare nelle stanze del potere e non soltanto per deriderlo. Il sesso demolisce il potere dal suo interno, sgretolandone la credibilità.
Nel “Riccardino III” c’è un regnante senza potere in uno scandalo del quale ci vengono proposte solo le conseguenze, nascondendo le cause come fantasmi del sogno.

Il sadomasochismo da camera, la frusta e le pantofole imbottite con Topolino, il naso rosso del clown-attore, sono assimilabili al ‘naturale’, non sono protesi di un tempo pop che finisce nel tempo del racconto, è tutta l’opera che potrebbe essere un sogno finito per sbaglio tra le pareti anguste di un separé. La Donna, che è il vero potere, del potere conserva il carattere della transizione, il tramonto, il passaggio che consegue. Perfino Saul deve cedere il proprio posto a Davide, la Donna invecchia sulla scena mentre Riccardino III si svaga.

Non c’è nulla che possa essere ricondotto ad altri che a Shakespeare, per quanto riguarda il teatro. L’extraterritorialità di questo esperimento è nell’espulsione del dettato psicoanalitico, nella derisione dello specchio, nell’immagine deformata del cavallo che oltre a essere un elemento paterno, sempre edipico, è anche l’animale che compare più di frequente nel sogno, associato al dominio, al domare, all’assoggettamento domestico.

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3. Gloucester.

“In tre mesi, al mare, abbiamo finito di scrivere La dolce vita e cominciano i soliti guai. Il produttore rifiuta di fare il film. Ha dato in lettura il copione a quattro o cinque critici che ora ci guardano desolati e scuotono la testa: la storia è scucita, falsa, pessimista, insolente: il pubblico invece vuole un po’ di speranza. «No,» diceva Eliot «il pubblico vuole soltanto un po’ di spogliarello, ma quel che conta è ciò che riusciamo a fare alle sue spalle, senza che se ne accorga». (Ennio Flaiano, La solitudine del satiro)

Il ritornello ha una funzione? Dappertutto non è inconscio, ma teatro. Riccardino III, nelle pause tra un affondo muliebre e l’altro, immerso nella solitudine del satiro, rende il pubblico partecipe di un ritornello, privo di qualsiasi atteggiamento derivante dalla consapevolezza del mettersi in scena.

Cosa resta dunque dell’ambizione? Una serie estenuata e ripetibile dei suoi tic? Ricontando: Riccardino III è un re che non sembra essere preoccupato più di tanto dalla sua ansia di dominio, le donne, tutte interpretate da Luciana Franco, lo accompagnano in uno strenuo non-assecondare il potere. Un potere che già sul nascere è monco, storpio, dove è proprio la Donna a ricordargli tutti i suoi errori. E questo, prima dell’epifania finale, è più che un ritornello, perché si trasforma in un’alternativa alla stessa legge del potere.

Lo scandalo è un correttivo, e il potere uno swing. Il potere e la politica sono scissi, se c’è potere, come oggi accade, non c’è politica, e dove c’è politica si stenta a credere che ci sia un potere oltre la pura rappresentazione dello spettacolo. In tutto ciò, il teatro di “Riccardino III”, costituisce un precedente.

Visioni parallele

Jean Baudrillard, Simulacri e impostura. A proposito di illusione e realtà nella visione di ciò che accade tra la scena e lo sguardo.

Jacques Lacan, Il seminario, Libro IV, La relazione d’oggetto, 1956-1957 A proposito di illusione e realtà nella visione di ciò che accade tra lo sguardo e il soggetto.

Ennio Flaiano, La solitudine del satiro. A proposito di illusione e realtà nella visione di ciò che accade tra il soggetto e il demi-monde del territorio.

“Storia di Irene” (Feltrinelli) di Erri De Luca, recensione di Daniela Gerundo.


errideluca_storiadiirene_feltrinelli“Storia di Irene” (Feltrinelli) di Erri De Luca

Una fiaba in prosa poetica. Versi profondi come il Mar Egeo che circonda l’isola di Flores; lievi come le onde “a riccioli di burro” che ne lambiscono le coste; leggeri come la brezza che smuove la folta e bionda capigliatura di Irene, l’adolescente che lì dimora. Creatura venuta dal mare della quale nulla si conosce se non l’evidente stato di gravidanza, Irene è guardata con diffidenza e sospetto dagli abitanti della piccola isola, che si percorre “da un capo all’altro con un giorno di cammino”. Non se ne cura la silenziosa fanciulla, abituata ad essere trattata da tutti come “un’ombra sul muro”.

Matrigna è la terraferma con Irene, mentre il mare, nel quale si immerge nelle ore notturne, l’abbraccia e l’accarezza. Nuota con i delfini Irene; con loro vive e comunica da amica, sorella, madre; li considera la sua vera famiglia. La comunità dei cetacei l’ha amorevolmente accolta più di quanto non abbiano fatto le donne e gli uomini del posto.

Solo con lui Irene comunica, con lo scrittore anch’egli venuto dal mare che le racconta storie e vuol conoscere la sua storia. Hanno bisogno di storie gli uomini per “accompagnare il tempo e trattenerne un poco”. Sono storie senza finale, osserva Irene; storie che si fermano un attimo prima. Ne è consapevole lo scrittore che le storie non le inventa; le raccoglie come “resti lasciati dalle processioni della vita”. Ma della storia di Irene conoscerà il finale perché lui è lì, in stato di emozionata latenza, a viverla con lei, a prospettare evoluzioni differenti che il futuro potrebbe riservarle: giovani maschi, musica, balli, amore, bambini e il rispetto della gente. Sorride Irene e si discosta dallo scrittore lasciandolo ancora una volta senza il finale, perché la storia di Irene comincia da sé stessa, senza il tempo accordato prima, senza le lusinghe del futuro …. è bellezza pura che si immerge nel mare, con un sorriso “a tutte le Irene che non sono lei stessa, però potevano”.

Un finale didascalico come si conviene ad ogni fiaba; la consapevolezza delle priorità della vita reale mediata da una storia fantastica; la solitudine vissuta non come forzato isolamento ma come sublime forma di libertà costituiscono gli spunti di riflessione sui quali la storia induce a meditare. Le nuotate notturne della bimba delfino che non teme il buio e gli abissi rimanda al gabbiano uomo che non ha paura di volare sempre più in alto; Irene e Jonathan Livingston, nella bellezza di tuffarsi nel mare o librarsi nel cielo , esprimono il significato profondo della vita: la ricerca della libertà.

Quella libertà alla quale tante persone ambiscono ma a cui rinunciano per paura di essere giudicati, per becera ipocrisia, per falsa morale. Irene incarna quella meravigliosa idea di tensione sincera e decisa verso la verità; aspira ad un ideale diverso di libertà, di spazi e cieli azzurri, di soffio di vento e mare spumeggiante. Diventa così il simbolo di chi ha il coraggio di seguire la propria legge interiore senza lasciarsi influenzare dai pregiudizi degli altri e tutta la sua storia si connota come una metafora per riflettere sulla condizione umana troppo spesso costretta in schemi e ruoli ingessati che non lasciano spazio alla fantasia, alle aspirazioni, ai sogni.

Daniela Gerundo

5 Dicembre 2013, Palazzo Reale di Milano, presentazione di “DIARIO DI UNA HOSTESS” (Phasar Edizioni) di Serena Fumaria


PRESENTAZIONE DI “DIARIO DI UNA HOSTESS” DI SERENA FUMARIA,
5 DICEMBRE 2013, PALAZZO REALE DI MILANO.


Giovedì 5 dicembre, presso l’esclusiva location del Palazzo Reale di Milano, Serena Fumaria presenta “Diario di una hostess”, suo primo libro edito da Phasar.

Per l’occasione gli ospiti esclusivi, potranno partecipare all’appuntamento che si terrà alle ore 20.00 presso la sala Superiore del Caffè Giacomo.

L’oratore della serata, Sabrina Antenucci, aprirà la serata dedicata all’opera prima di Serena Fumaria, introducendo l’autore e scandendo i momenti di riflessione per lasciare spazio al lettore dei brani Cinzia Cileo e moderare gli interventi successivi.

Diario di una hostess”: Il diario di Alice. Una hostess che in un vortice di emozioni racconta sette personaggi che intrecciano le loro vite in un cocktail frizzante e divertente. Amori, amicizie reali e virtuali, viaggi e colpi di scena frizzanti, per un libro da leggere in un “sorso”. Perfetto per sorridere e sognare. L’opera prima di Serena Fumaria, ha riscosso successi nella critica fin da subito:

"Fresco, agile, accattivante: queste le caratteristiche principali dell’opera prima di Serena Fumaria intitolata Diario di una hostess. Si legge in un sorso e, come avviene per le più sacre bevande, alla fine resta uno squisito sapore di ricordi e stimoli di riflessione. Belli inoltre gli intrecci e le soluzioni conclusive: vuole forse Serena sottolinearci che non ci accorgiamo mai delle "gioie" che abbiamo accanto?"
Anna Menichetti

"Serena è coinvolgente tanto di persona quanto nella lettura. Comincio a leggere di Alice, la protagonista del libro, che fa una vita tanto simile a quella che ho fatto io, ma da passeggera. Perché Alice è un’hostess. Ma ha un amico gay, che mi ricorda tanto il mio, e ha una vita incasinata, che mi ricorda tanto la mia in un certo periodo. Solo che vive una storia d’amore fuori dagli schemi, e io sono una donna… più curiosa di un gatto.(omissis) Mi ha talmente coinvolta che mi sembrava di far parte del team, vorrei prendere il telefono e chiedere a Serena com’è andata a finire, se stanno tutti bene, se la storia è andata avanti… Perché i libri scritti con il cuore sono così, ti tirano in mezzo. Ti sembra di esserne parte, di vivere la storia con un gruppo di amici." Blondinella

Serena Fumaria con “Diario Di una Hostess” L’esclusivo evento verrà accompagnato da un dj set esclusivo, Swingarms, che annunceranno la collaborazione con Serena Fumaria per l’anno 2014 , e a seguire dj set Bolla. Si ringraziano: l’esclusiva location del Palazzo reale, Guido d’Annunzio per Royal dancing aperitif by Lift, Sabrina Antenucci per il ruolo di oratore e moderatore della presentazione, la stampa, Phasar editore.

Dress code: Casual-chic.

5 e 6 Dicembre 2013, Lecce – SALAM LECCE, Città di pace. Incontri, dibattiti, proiezioni, concerti. Manifatture Knos


SALAM LECCE, CITTÀ DI PACE
5-6 dicembre 2013
LECCE, Manifatture Knos
(Via Vecchia Frigole, 34)

5-6-Dicembre-2013-SALAM-LECCE-Manifatture_Knos-locandinaSALAM LECCE, 2 GIORNI di incontri, dibattiti, proiezioni, concerti e tavola rotonda, che si terranno presso le MANIFATTURE KNOS il 5 e il 6 dicembre 2013, e che vedranno per la prima volta, insieme, la partecipazione di alcune delle realtà più interessanti della scena musicale e culturale del Senegal, in un progetto di cooperazione culturale senza frontiere coordinato da Simone Franco,

Il progetto, che rientra nel BidBook della candidatura di Lecce a Capitale della Cultura 2019 è realizzato da La Factory (Dakar), Ass. Modu Modu (Lecce) e Multisciplinary Art (Lecce) è sostenuto da Provincia di LecceComune di Lecce e Ambasciata Italia in Senegal  si svolgerà presso le Manifatture Knos.

– il 5 dicembre concerto che prevede la partecipazione di Sambe Rythme Percussion, (ensemble di percussionisti provenienti dal Senegal), Pino Basile e InCupaTrance (Italia), Ceptik (scrittore e cantante franco–senegalese), Roberto Chiga, percussionista, e l’attore e regista Simone Franco (Italia),che sarà per l’occasione fabbricante d’armonie/EMCEE della performance poetico musicale sui maggiori poeti salentini che incontreranno quelli senegalesi (Sengor, Diop, Cesaire). Seguirà una Jam session con Aida Samb nelle lingue wolof, francese e italiano.(concerto e jam, ingresso libero)
– il 6 dicembre 2013, evento speciale: per la prima volta in concerto, in Italia, AIDA SAMB, proveniente da Dakar, tra le più amate artiste africane. Aida Samb è una cantante senegalese della linea di Gawlo, nota per la padronanza della musica. Figlia di genitori che appartengono alla grande famiglia griot è nipote di Samba Diabaré Samb, icona della musica tradizionale senegalese (ingresso 5€)

Durante la due giorni, presso le MANIFATTURE KNOS, sarà allestita la mostra fotografica solidale di Luciano Schito intitolata “CLICK CONTES D’AFRIQUE”, e ci sarà la proiezione gratuita di ‘African Express’ un film di Claudio Celentano e Incontro–dibattito sul tema ‘Dall’immigrazione all’intercultura’.

Referente del progetto per l’Italia: Simone Franco
Mail: simonemartinofranco@gmail.com

Per info: Manifatture Knos, Via Vecchia Frigole, 34- Lecce
mail: info@manifattureknos.org
tel. 0832.394873
SALAM LECCE
pagina ufficiale Facebook
https://www.facebook.com/pages/Salam-Lecce/1428615100690267

SALAMLECCE_LogoSALAM LECCE  – CITTÀ DI PACE
PROGRAMMA

SALAM LECCE, CITTÀ DI PACE
5- 6 dicembre 2013
LECCE, Manifatture Knos
(Via Vecchia Frigole, 34)

Nei giorni 5-6 dicembre 2013 si svolgerà Salam Lecce, città di pace il progetto di cooperazione culturale italo-senegalese atto a rinsaldare i legami di amicizia e fratellanza fra le popolazioni autoctone e migranti. I popoli, da qualsiasi paese provengano, appartengono tutti allo stesso mondo. Da sempre viaggiano, si sfiorano, si parlano e si scambiano modi di essere, di vivere, di agire.

In una fase storica in cui il Vivere insieme è messo in discussione, sono numerose le associazioni e le singole persone di buona volontà che, animate dal desiderio di abbattere le frontiere, coniugano le loro forze per mobilitare i popoli attorno all’ideale della Pace. La creazione di un evento culturale, nel quadro di un vasto programma d’incontro e di scambio interculturale italo-senegalese a Lecce denominato “Salam Lecce, Città di Pace” sarà un’occasione per favorire gli scambi fra artisti senegalesi e italiani.

Il progetto, realizzato da La Factory (Dakar), Ass. Modu Modu (Lecce) e Multisciplinary Art (Lecce) è sostenuto da Provincia di Lecce, Comune di Lecce e Ambasciata Italia in Senegal si svolgerà presso le Manifatture Knos che ben hanno accolto le molteplici iniziative.
Il progetto rientra nel BidBook della candidatura di Lecce a Capitale della Cultura 2019.
Sono previsti incontri-dibattito, video proiezioni, mostre e due concerti d’eccezione. Per la prima volta, sullo stesso palco, in due giorni, si alterneranno alcune delle realtà più interessanti della cultura musicale senegalese, un metissage di esperienze che farà incontrare due continenti al ritmo delle percussioni e sul solco della ricerca musicale, sonora, poetica.

5 Dicembre 2013 ore 21
Sambe Rythme Percussion, Pino Basile e InCupaTrance
e Ceptik in concerto jam
Fabbricante d’armonie/EMCEE Simone Franco

Il primo concerto il 5 dicembre vede la partecipazione di Sambe Rythme Percussion, (ensemble di percussionisti provenienti dal Senegal), Pino Basile e InCupaTrance (Italia), Ceptik (scrittore e cantante franco–senegalese), Roberto Chiga, percussionista, e l’attore e regista Simone Franco (Italia), che sarà per l’occasione fabbricante d’armonie/EMCEE della performance poetico musicale sui maggiori poeti salentini che incontreranno quelli senegalesi (Sengor, Diop, Cesaire) .

Seguirà una Jam session con Aida Samb nelle lingue wolof, francese e italiano.
(Ingresso gratuito)

AIDA_SAMB6 Dicembre 2013 ore 22
Aida Samb in concerto

Il 6 dicembre sarà la volta della cantante Aida Samb proveniente da Dakar, tra le più amate artiste africane. Aida Samb è una cantante senegalese della linea di Gawlo, nota per la padronanza della musica. Figlia di genitori che appartengono alla grande famiglia griot è nipote di Samba Diabaré Samb, icona della musica tradizionale senegalese.
(Ingresso € 5)

 

MOSTRA
CLICK_Contes_d_Afrique_Mostra_fotografica_di_Luciano_Schito“CLICK. Contes d’Afrique”.
Mostra fotografica solidale, di Luciano Schito
5-6 dicembre 2013 – Salam Lecce – Manifatture KNOS
Nei giorni di SALAM LECCE, presso le Man
ifatture KNOS, sarà ospite “CLICK. Contes d’Afrique” la “mostra fotografica solidale” di Luciano Schito. Luciano Schito, autore del documentario “Je ne veux pas quitter le Senegal” ha realizzato questa mostra fotografando la realtà del Senegal, i suoi sogni, le sue aspirazioni, il percorso della vita quotidiana di adulti e bambini, il paesaggio e l’istruzione. Nasce così “CLICK. Contes d’Afrique”, una mostra fotografica che è “solidale” perché si propone come obiettivo, grazie alla vendita delle riproduzioni ospitate nella mostra, di assicurare un anno di scuola ai bambini della “Ècole Martenelle Publique Josè Jeannés”, nel comune di Mbour, Senegal, perché l’educazione formativa è alla base dello sviluppo di un Paese.

Luciano_Schito_photo_01

PROIEZIONE
claudiocelentano-africanexpress5 e 6 Dicembre alle ore 18.00
proiezione con l’autore di
“AFRICAN EXPRESS”, un film di Claudio Celentano
produzione D4 Roma – Francesco Lauro
sinossi e testo di Luca Anastasio

L’African Express, un improbabile treno assemblato con vagoni di seconda mano donato da governo dalla Francia, vi si trascina sopra senza fretta, creando, una volta alla settimana, un collegamento fra due centri urbani: Dakar e Bamako. Il treno che da Dakar porta a Bamako è un treno carico di storie, una miniera di racconti, inganni, incontri, speranze, che sfilano in lento movimento nel cuore dell’Africa immobile dei baobab, dei villaggi di paglia e fango, dei tramonti preistorici. E’ l’Africa che si muove, dignitosa, nell’Africa che non si è mai mossa.

INCONTRO – DIBATTITO

6 dicembre ore 17
Incontro Dibattito su ‘ Dall’immigrazione all’ intercultura’

Intervengono:
Simona Manca – Vice Presidente Provincia di Lecce, Michele Bee – referente Manifatture Knos, Dahirou FAYE – Opérateur économique, universitaire – Communication, Amadou, Papa Ngady FAYE – Opérateur économique, éditeur – témoignage, Abdoulaye SY – Président Association des Sénégalais de Lecce – témoignage.

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Simone Franco, attore-regista-performer.
Vive e lavora tra Lecce e Roma. Come attore si forma frequentando laboratori e workshop di alcuni fra i maggiori registi ed interpreti del teatro di ricerca italiani ed esteri: Pippo Del Bono, Danio Manfredini, Eugenio Barba, Armando Punzo, Cesare Ronconi, Mariangela Gualtieri, Carla Tatò e Carlo Quartucci, Marcel Marceau, Cesar Brie, Nicolaj Karpov; rivolge la sua ricerca artistica sulla drammaturgia della voce seguendo numerosi corsi con: Carmelo Bene, Edda Dell’Orso, Andrea Simone, Gabriella Rusticali.

Come attore è in teatro con gli spettacoli: ‘Dignità Autonome di prostituzione’ uno spettacolo di Luciano Melchionna (2013), “Trattato di pace” di Antonio Tarantino (2010), “Grazia de’ fiori” tratto dal poema di C. Bene con Simone Giorgino e Orodè (2010), ‘W l’Anarchia’ per la regia di W.Wass di Induma Teatro (2009), “Moby Dick” da Melville di Michele Sinisi (2002), “La bottega del caffè” da Carlo Goldoni di Simone Franco, Nico Moretti e Ascanio Celestini (1996). Come regista ha scritto diverse drammaturgie, rivolgendo particolare attenzione a temi quali il disagio psichico, l’immigrazione e la persecuzione politica. “Sulle ali della libertà: il volo contro. Il volo ed il processo di Giovanni Bassanesi” documentario teatrale (2008), “L’amore è uno straniero” recital tratto dai poeti mistici di tutte le religioni (2007), “Il mulino degli sconcerti- la memorie di Gino Sandri” di e con Simone Franco sulla storia dell’ internamento forzoso con motivazioni politiche del pittore Gino Sandri. Una vita si fa emblema dell’arte come forma di resistenza (2004) “Li mari cunti” drammaturgia sul fenomeno dell’immigrazione con Michele Sinisi (2001).

Gli ultimi lavori di regia e attore si spingono sempre più verso la musica e la poesia: ‘Fabbricanti d’Armonie’ ispirato alla vita ed alle opere letterarie di Antonio Verri con Simone Franco –regista e voce recitante, Admir Shkurtaj – fisarmonica, Pino Basile e Ensemble cupacupe, Pierpaolo Leo – honde martenot e elaborazioni elettroniche (2013). “Artisti Perbene in Campana per Bene” con 30 artisti (musicisti, performer, danzatori, visual) per la Giornata Mondiale della Poesia col Comune di Lecce (2012 – Teatro Paisiello, Lecce), “Shana Tovà” recita e canta in Yddish con Nadia Martina -voce, Francesco Zurlo -fisarmonica, Marcello Zappatore- chitarra, Roberto Chiga –tamburello (dal 2011 ad oggi).

La sua azione artistica incontra le diverse arti: teatro, musica, pittura, visual art. Da diversi anni si dedica, come performer, allo stone balancing, arte meditativa rivolta a porre in equilibrio pietre e massi di varie forme senza alcun supporto ulteriore a quello delle stesse forze di gravità. Il balancing ha una stretta relazione con la pratica ZEN, sia nell’esecuzione che nel risultato, in quanto è essenzialmente un viatico per la meditazione, l’aumento della sensibilità mentale e la percezione dello scambio di energia tra il soggetto e la pietra da porre in equilibrio.

Luciano Schito
Luciano Schito Si laurea al DAMS Cinema di Bologna, vincitore del Premio Dams/Cinema nel 2006 con “Amore Frollo”. Frequenta il Master Film Art Management, Università La Sapienza, Roma. Collabora nel reparto regia di numerosi set cinematografici. Fin dai primi anni universitari si occupa di autoproduzioni curandone scrittura, regia e montaggio.
“Il click deve essere come il respiro: naturale. Se ci pensi, la fotografia muore. L’istinto, stremato, si guarda intorno. Si suda. La Luce è forte. Pensi che sia l’estate europea, ma d’un tratto il sole si ritira in fredda solitudine. È notte. La luna illumina le strade e le stelle sono più vicine. Ripenso a quell’attimo di Luce spettacolare che non riuscii ad immortalare e questo mi avvilisce. La mia stanza, inaspettatamente, diventa una sauna. Esco. Ed eccomi con due amici a girovagare nel buio. Camminare di notte per le strade sterrate di Mbour mi rilassa. Si respira un’aria di intima cordialità tra vicini e lentamente mi lascio trasportare dai ricordi. Rammento i racconti dei miei nonni, quelli di come si viveva un tempo nell’Italia dell’anteguerra. Mi sembra di riviverli e tutto mi sembra più sincero, più genuino, qualcosa del passato mi lega a questa terra. Si origina un nuovo giorno. L’aria è fresca, ma il piacere dura poco. Le auto vecchie di trent’anni iniziano a solcare l’unica strada asfaltata e l’aria si fa pesante. Il rallenty ha inizio, le ore, al mattino, passano lente. Dopo pranzo, per chi arriva al pranzo e tutti cercano tenacemente di arrivarci, ha inizio il relax. Solo i matti girano nel primo pomeriggio. Ma giuro di averlo fatto solo una volta. Poco dopo, alle sei, la Luce decide di farsi baciare e bisogna fare veloce! Sono stato sedotto e faccio all’amore con lei. Il trasporto amoroso se è molto intimo ti fa perdere qualcosa di cui potrai pentirtene. Devi cercare di non “fissarti” su una singola situazione. In questa danza d’amore tra la luce ed il mare, sulle onde plastiche di un oceano a volte avaro, ritornano i pescatori dalle barche lunghe e colorate. Il contrasto si attenua e nei visi scuri, la Luce, si lascia raccontare.” (LUCIANO SCHITO)

PINO BASILE e InCupaTrance ensemble di strumenti effimeri

L’esperienza In Cupa Trance, per sua natura sperimentale, è anche esperienza visivo/gestuale.
Gli antichi ci insegnano che una rappresentazione è fondamentalmente celebrazione di un rituale, di una cerimonia. A partire da questa consapevolezza il lavoro drammaturgico dell’ensemble pone molta attenzione agli elementi non musicali che sulla scena condizionano e guidano la percezione del suono. Nell’utilizzo di strumenti come la cupa cupe, il tamburrello e la canna, il gesto sonoro è gesto visivo. Immaginando di vivere un vero e proprio rituale, la presenza sonora scenica è integrata in un’unica entità attraverso la fisicità degli oggetti e degli interpreti/attori/performer.
http://pinobasile.com/

‘African Express’ di Claudio Celentano

Dakar, Senegal: ritmata, ipercromatica, materica, africana. Tesa anima e corpo verso l’occidente, la città più importante dell’Africa centro occidentale, si affaccia sull’Oceano Atlantico all’estremità della penisola di Capo Verde. E’ una metropoli con più di un milione di abitanti e un’economia discretamente ricca e votata al commercio sin dai tempi del colonialismo francese.

Bamako, Mali: polverosa, affannata, antica, disgregata. Situata accanto alle rapide del fiume Niger, poco distante dalle porte del deserto, conta oltre un milione e mezzo di abitanti in cerca di fortuna.
Fra le due capitali: un pezzo di continente. Pianure rosse dove improvvisamente svetta un’acacia, valli rocciose percorse da torrenti, villaggi di capanne, periferie fatiscenti, acquitrini, foreste di baobab, il deserto, la savana, orizzonti troppo vasti, fuori portata anche per un grandangolo. 1280 Km d’Africa, solcati da due binari discretamente paralleli risalenti all’epoca del colonialismo.
L’African Express, un improbabile treno assemblato con vagoni di seconda mano donato da governo dalla Francia, vi si trascina sopra senza fretta, creando, una volta alla settimana, un collegamento fra i due centri urbani. E’ l’Africa che si muove. Placida, ritmica, quasi mai disperata, ostacolata dalla forza di una natura che sa ancora farsi rispettare, da mille intoppi, da frequenti deragliamenti. E’ l’Africa che prova a muoversi.

Stipati assieme a sacchi di farina, balle di indumenti, bidoni di pesce e mercanzie di ogni genere, a ogni viaggio l’African Express trasporta circa mille fra uomini, donne e bambini. Sono famiglie in pellegrinaggio, giovani che vanno a trovare i propri familiari, studenti islamici, nullatenenti in cerca di fortuna, uno o due turisti europei e, soprattutto, commercianti in viaggio di lavoro.

Il treno che da Dakar porta a Bamako è un treno carico di storie, una miniera di racconti, inganni, incontri, speranze, che sfilano in lento movimento nel cuore dell’Africa immobile dei baobab, dei villaggi di paglia e fango, dei tramonti preistorici. E’ l’Africa che si muove, dignitosa, nell’Africa che non si è mai mossa.

L’African Express parte da Dakar nella luce accecante del primo pomeriggio, puntando il sole dritto negli occhi. A mano a mano che procede la sua corsa si lascia alle spalle la più occidentale delle città africane per inoltrarsi nel cuore del continente. Quando ancora dai finestrini si possono vedere vecchi motorini ronzare attorno ai binari, ci si accorge di come la temperatura non sia più mitigata dal mare, di come gli odori siano cambiati gradualmente e, a poco a poco, ci si ritrova immersi, a 30 Km all’ora, in qualcosa di silenzioso, eterno, uterino. All’interno invece il treno si trasforma in un microcosmo caotico, rumoroso, estremamente eterogeneo, simbolo della capacità di aggregazione e delle contraddizioni tipiche del continente africano. Tutti, quelli che hanno un posto prenotato in prima classe, quelli che si sono guadagnati con destrezza un sediolino di pelle logora in seconda, quelli che sono rimasti seduti a terra, quelli che viaggiano senza biglietto sul tetto dei vagoni, tutti, vanno a formare un unico organismo perfettamente integrato e in splendido contrasto con l’immobilità del contesto esterno. Un turbine di ruote, mani, corani stampati, cibi di ogni genere, orecchini, bagagli, mappe, sguardi, parole pronunciate negli idiomi più disparati. Si mangia, si prega, ci si difende dal caldo e dagli insetti e, soprattutto, si racconta. Attraversando le pianure, rasentando i termitai, il deserto, in giro per i vagoni o distesi sull’erba all’ombra di un grosso albero in attesa che il treno riparta, è impossibile non inciampare in una storia, una cantilena, un aneddoto…
E c’è, a parte la carovana dei viaggiatori, anche tutto un universo di personaggi che ruota attorno al leggendario African Express e al suo passaggio. Gli addetti ai lavori, orgogliosi della propria funzione e sempre pronti a raccontare la storia dell’epico treno, le schiere di mendicanti, invalidi, bambini che alle stazioni si accalcano ai finestrini elemosinando qualche spicciolo, i ragazzini ammassati ai lati dei binari che rincorrono, gridano, ridono, le orde di venditori ambulanti, che ad ogni sosta assaltano il treno propinando ai viaggiatori carne di montone, frutti tropicali, sigarette scadenti, vecchi walkman e cappellini.
È questo il tesoro nascosto dell’Express, è questa la magia che lo avvolge. Sul treno per Bamako si intraprende un viaggio diretto al cuore dell’Africa, e i volti della gente sono le sue stazioni.

Un viaggio alla riscoperta del significato della parola “tempo”, quello più antico. Il tempo dei giorni, caldi e insopportabilmente luminosi, e delle notti, buie come un occidentale non sa immaginare. Un tempo dilatato, che comincia a essere tale già in stazione, nell’attesa rassegnata della partenza, e poi si espande, nelle pianure attraversate a passo d’uomo, nelle soste interminabili in mezzo al nulla, di notte, dove a nessuno viene in mente di domandarsi a che ora il treno ripartirà.
Forse, domani, l’African Express arriverà a Bamako.

Il logo e il design di SALAM LECCE sono di “Honor Design / Eugenio Palma”

VIDEO

AIDA SAMB – Saraaba http://www.youtube.com/watch?v=L7WgmpHsM5s

CEPTIK http://www.youtube.com/watch?v=tfMbZd_50Zc

 

TRAILER del documentario di Luciano Schito, “Je ne veux pas quitter le Senegal” https://www.youtube.com/watch?v=Gz4yNgt9FTQ

PINO BASILE e InCupaTrance ensemble di strumenti effimeri http://www.youtube.com/watch?v=koCvU3bQqj0