In libreria dal 31 gennaio Nessun futuro (Casini Editore 2010), il nuovo libro di Luigi Milani, un thriller con venature sovrannaturali ambientato nel mondo del rock.
Il libro
Nessun futuro è un romanzo a cui la categoria di romanzo va stretta. Potremmo chiamarlo romanzo/backstage, visto che descrive una storia che si svolge negli ultimi mesi del 2001 ma in cui magicamente si affaccia mezza storia del rock, dai Beatles al fantasma di Jim Morrison alla urban legend della “finta morte” di certe rock star, da Paul McCartney a Elvis a Michael Jackson, o proprio a Phil Summers, il protagonista “sotterraneo” del libro. Ma in realtà Nessun futuro sfugge a qualsiasi classificazione: come il vero rock, in fondo. E come il vero rock, ci trascina con sé e ci trasporta nel suo mondo. Lo fa attraverso l’io narrante, Kathy Lexmark, giornalista televisiva ultratrentenne, con un divorzio alle spalle e un futuro professionale quanto mai problematico. E lo fa lasciando aleggiare sempre sullo sfondo la sensazione che stia per succedere qualcosa, e poi qualcos’altro, e poi ancora qualcos’altro, in un crescendo vorticoso di suspense e adrenalina.
Il volume contiene un codice che, inserito nell’apposita http://www.casinieditore.com/ fornisce l’accesso a numerosi “extra”.
Il fan trailer:
L’autore
Luigi Milani, giornalista, traduttore e editor, ha pubblicato racconti per Giulio Perrone Editore, Akkuaria Edizioni e su alcune riviste letterarie. È uno dei soci fondatori della casa editrice Edizioni XII. Ha curato le edizioni italiane degli ultimi due libri di Jasmina Tesanovic, Processo agli Scorpioni (Edizioni XII – Stampa Alternativa 2008/2009) e Nefertiti (Stampa Alternativa) e le versioni italiane di alcuni racconti di Bruce Sterling (40k eBooks). Nel 2010 ha pubblicato La torre, un racconto horror d’ambientazione medievale, inserito nell’antologia di racconti Bassa Marea (Historica Edizioni) e il suo primo romanzo Ci sono stati dei disordini (Arduino Sacco Editore)
“Camminando attraverso il prato percepivo le sensazioni della mia infanzia. le preghiere di mia madre e la palla che rimbalzava monotona contro le pareti della casa. Mio padre che spaccava la legna nel capanno e i tuoni che facevano tremare il pavimento della mia stanza. Come due ladri arrivammo di fronte alla porta d’ingresso. Una nube, sopra la casa, aveva chiuso la luna fuori dalla notte. ”
Il destino di due bambini è segnato da un mistero spaventoso. Qualcosa li lega a un luogo abitato da presenze oscure: un bosco dove la luce della luna danza con il fuoco e con le ombre. Il loro incontro da piccoli è l’inizio di un continuo sfiorarsi, nel corso degli anni, all’interno dei sogni. Per loro due, la realtà si mescola alla memoria fino a confondere. Per loro due, l’idea dell’amore come salvezza dovrà inevitabilmente scontrarsi con la morte.
Gianluca Chierici è nato nel 1977 a Milano. Ha pubblicato: Il libro del mattino (Acquaviva, 2005); L’eterno ritorno (Sentieri Meridiani, 2007, Premio Castelpagano); La madre delle bambole (Tracce, 2008, Premio Fondazione Caripe); Il nome del confine (Joker, 2009); La stirpe del mare (L’arcolaio, 2010). È autore del cortometraggio L’ultimo compleanno di Venere, pubblicato in Sguardi Inquieti (Barbieri, 2003). Ha scritto e diretto per il cinema la trilogia di lungometraggi La crudeltà dell’angelo; Dannati; La chiave dei grandi misteri. È tra i fondatori dell’avanguardia video ManyHands Entertainment.
“Hanno amore” – Gianluca Chierici
Prezzo euro 10,00 Pagine 128
Isbn 978-88-8372-498-5
“Io osservavo, ascoltavo accantonavo per le ore quiete da passare in cucina, quando Selma mi avrebbe detto, come mi disse: – Raccontami di quel posto, ma cose vere, non bugie. Ma furono quasi tutte bugie le cose che dissi: perche’ era come se fossi stato in uno di quei castelli incantati, una volta fuori di la’, non si ricorda, tutto cio’ che rimane e’ l’eco spettrale di una meraviglia che non da’ tregua.”
(Truman Capote, “I cani abbaiano”)
A notte fonda, il ragazzo e’ di la’ a calcolare la distanza tra San Francisco e New York su una mappa elettronica. Sono circa duemila chilometri e lui dice che dobbiamo essere pronti a percorrerli da un momento all’altro.
New York puo’ ancora ferirlo ma San Francisco e’ un albore verde filtrato da una tenda, un neon che illumina l’interno della stanza in cui Kim Novak appare a James Stewart – con quel completo grigio, i capelli ossigenati e raccolti, le sopracciglia ben disegnate – ne La donna che visse due volte. Vertigo, nel titolo originale. Hitchcock, quel perfezionista.
Sua moglie era la sua editor piu’ attenta a quanto pare, dopo le proiezioni private per gli amici intimi e prima di ogni distribuzione, diceva la sua e tutti smettevano di ridere, di colpo. Fu la signora infatti – silenziosa al centro dell’entusiasmo generale – a far notare a suo marito che durante una sequenza chiave di Psyco, l’attrice deglutiva dopo essere stata uccisa.
Ha ragione Stephen King quando, nella prefazione a un suo libro sulla scrittura, puntualizza: Scrivere e’ umano, editare e’ divino. Credo sia per questo motivo che un’ironica mezzoinglese sforna-bestsellers ha dettato il suo ultimo romanzo a una segretaria scialba, confidando nei prodigi postumi del suo editor italiano.
(l’innocente dattilografa)
Non riesco a immaginare un piacere sprecato peggiore del dover dettare un romanzo. A costringerla, in quel caso, era un nervo della mano. Doveva raggirare l’ostacolo e aveva gia’ incassato l’anticipo.
Eravamo nel suo salotto londinese – tra orchidee bianche e riedizioni in tutte le lingue possibili dei suoi libri – la prima volta che l’ho ascoltata parlare del suo editor mentre – con lo stesso candore pratico di chi ti spiega per la prima volta come usare una lavatrice – consigliava l’asportazione delle ovaia per evitare inutili deconcentrazioni: “Hai ancora le ovaia, mia cara? Fattele togliere subito, sono solo una seccatura per gli scrittori.”
Ci credeva veramente? Non ha importanza. Si divertiva a recitare una parte, trovavo divertente il cinismo col quale si sventagliava con calma.
Poi mi disse di questo ragazzone che resta dietro le pagine degli altri pur avendo il merito di farle funzionare fino in fondo, olio anche per i meccanismi piu’ complessi.
Mi fa pensare alla doppiatrice italiana che per tutta la vita ha prestato la voce a Marilyn Monroe.
Si chiamava Rosetta Calavetta, la sua scia e’ una lunga traccia audio. Fu anche la voce della Novak, di Biancaneve e una lista piena zeppa di mitologia cinematografica.
Al suo arrivo nella sala di doppiaggio, ripeteva un rituale: indossava guanti bianchi e puliva le cuffie con l’alcol preso da una boccettina che si portava nella borsetta.
(Rosetta Calavetta)
Lo racconto’ l’attore Elio Pandolfi all’autrice televisiva Valeria Paniccia durante una visita nel cimitero monumentale di Roma, il Verano, dove la doppiatrice e’ sepolta. Una piccola fotografia in bianco e nero incornicia i tratti salienti del suo viso, minuto come un ninnolo incastrato in un fermacarte di vetro, del tipo che Colette collezionava.
Si e’ sempre detto e sentito che i doppiatori italiani sono i piu’ bravi del mondo, ci si fa caso quando muoiono e le loro voci vengono sostituite. Quando e’ morto Oreste Lionello, per esempio, il doppiatore storico di Woody Allen, il regista statunitense constato’: Con la sua voce mi ha reso un attore migliore.
A volte mi domando se non succeda la stessa cosa con i personaggi dei libri, a volte lo so, altre volte puo’ essere un rischio.
(Oreste Lionello)
Percio’, quando finisco di leggere un libro in cui la voce dello scrittore non doppia mai, nemmeno una volta, i suoi personaggi – lasciandoli liberi di essere mediocri e crudeli, provinciali e feroci, grezzi come un colore locale e veri come un’illusione – mi commuovo.
Fa parte del mio modo di stare al mondo questo improvviso affetto che mi prende mentre non rispondo al citofono, non accendo i telefoni, non apro la posta che si accumula e quasi smetto di parlare.
Tra le seccature del dover tirare le cuoia (mi fa sempre sghignazzare questo modo di dire da film anni ’40), “prima o poi” – come dice, lavandosi le mani, quel sadico vagamente somigliante a Sean Connery che e’ il mio ginecologo – c’e’ sicuramente il termine delle letture possibili. A meno che, come scrisse – nel suo diario, mi pare – Virginia Woolf: “Il paradiso e’ un infinito leggere“. Magari.
(Marilyn Monroe legge)
Questo pensiero se srotolato sembra lungo ma in realta’ dura un istante, e mentre leggo Capote, a notte fonda, il ragazzo sta ancora considerando la distanza tra New York e San Francisco, e’ ancora rapito dal Teatro di Figura di Bruno Pilz; siamo andati a vederlo esibirsi per due spettatori alla volta qualche sera fa, il suo spettacolo, Lacrimosa, e’ una specie di incanto cupo.
Continuo a leggere Truman Capote, che e’ cosi’, come l’effetto che fa, mi fa smettere di parlare, lo leggo mentre passano le ore e sento scivolare nella mente vagonate di idee multiformi, che lampeggiano e svoltano, nelle pieghe galattiche della mia immaginazione.
(Truman Capote)
Suppongo derivi anche dal fatto di capire profondamente quel suo sostenere per primo che il reportage puo’ essere un’arte raffinata “e nobile quanto qualsiasi altra forma di prosa“. Mi interessa il modo in cui riusci’ a trasformare, tenendo a mente intere conversazioni e senza l’uso di fastidiosi registratori o block-notes, il livello piu’ basso del giornalismo, ovvero l’intervista, in modelli perfetti come Il duca nel suo dominio, il ritratto di Marlon Brando.
Doveva essere uno stronzo irresistibile Truman, il tipo che finisci col cercare sempre per primo, capace di trasformare una conversazione origliata in un’opera d’arte.
Sei anni a sgobbare su un romanzo, senza la smania di pubblicare – mi vien voglia di abbracciarlo, di prendermi delle confidenze insomma – che lavoro, una cosa meravigliosa, e’ sempre duro, non c’e’ flemma. L’altro giorno, me ne stavo dietro le quinte di un antico teatro di provincia con un amico poeta, Pierluigi Mele, parlando di lui e di altri americani.
Da li’ a poco ci saremmo fatti strada, nel buio fitto del dietro le quinte – quando l’occhio di bue illumina il centro del sipario chiuso – per entrare in scena e introdurre il suo reading poetico.
(Pierluigi Mele)
Faceva freddo e Pierluigi non voleva togliersi la giacca, temperava la sua ironia sfottendo le ballerine che si riscaldavano coi loro esercizi nel favo di luce dei camerini, “attenta bella mia, cosi’ ti viene la sciatica!”, il libro che stavamo per presentare e’ profondo venticinque anni.
Venticinque anni di poesie come pesci presi in una rete e sgusciati via da un buco sul fondo, condensati nella mia preferita che a un certo punto fa cosi’: “… Lingua per nove natali/glossa ja’ ennea Kristu/ nove pasque le strofe/ennea Paskata es tiritere/nove mele d’addio/ennea mila sti kalin ora/nove veli la sorte/ennea veli i sorta/nove letti la luna/ennea krovattia ‘o fengo/nove orci di fichi/ennea kifinizzi afse’ sika/nove mandorle in dote/ennea mendule ja’ rucho/nove anelli di pane/ennea dattilidia afse’ fsomi’/nove gonne sfilate/ennea fustianu spammenu/lega un’alfa ai capelli/ denni mian alfa ta maddhia.”
(le correzioni di Bob Dylan)
Mentre lui la leggeva, quella sera, pensavo a un personaggio ancora segreto, uscito dalla penna di Patrizia Caffiero per un testo che stiamo scrivendo a quattro mani. Ero andata a sedermi accanto a lei dopo aver introdotto la performance, sentivo Patrizia fare eco alla voce di Pierluigi, nove anelli di pane, sentivo rotolare come un cerchio d’oro la sua risata piccola, ridanciana.
In scena, mentre il poeta attore leggeva, con la sua bella voce arcobaleno, una ragazza bellissima danzava il suo assolo rovesciandosi i capelli neri nelle mani, allora Patrizia mi sussurrava all’orecchio: “Ecco, vedi? Quella e’ la sua proiezione”. Con la sua bellezza di moneta d’argento nella polvere, la danzatrice stava doppiando i versi, era un tradurre in sincrono, un mischio di mestieri.
(Bruno Pilz, mago e burattinaio)
Ho provato a non somigliarti e’ il titolo che raccoglie le poesie di Mele, lui ha superato i quaranta con la sua mimica irresistibile. Il teatro era pieno ed io non riuscivo a non pensare che in sala c’era, tra i pochi altri narratori e poeti viventi che posso dire di rispettare, Giuliana Coppola. Corti capelli bianchi, voce di mollica calda.
Mi venne in mente la volta in cui, durante un tragitto serale in automobile verso qualche presentazione, mi racconto’ di Maria Corti, che voleva essere portata nei luoghi segreti del confine di cui non si sentiva solo ospite. Credo di aver provato qualcosa di simile girovagando in Lucania, dentro una vegetazione fitta che mi arrivava ai fianchi, nei giorni in cui mi faceva da guida un’esile ninfa superba e liquida di vita.
Mentre Pierluigi leggeva le sue poesie, mi rendevo conto di quante scialuppe avesse lanciato alle parole nel corso degli anni, di quante finestre avesse scavato nel muro. Quel suo fare del linguaggio un’architettura e, da uomo di teatro, scipparti da dentro le emozioni.
Mi aveva colpito cio’ che aveva detto del suo editore, Cosimo Lupo, un omino impavido, felicemente assurdo, “l’unico capace di vendersi un furgoncino pur di consentire a un libro di poesia di nascere”. Del resto e’ stato il primo, che io ricordi, a credere in Fanculo pensiero, il romanzo d’esordio di Maksim Cristan, poi giunto alla corte di Feltrinelli.
(Maksim Cristan)
Ricordo ancora il giorno in cui invitai Maksim in redazione per un’intervista, non erano lontani i tempi del suo banchetto vendita improvvisato con una cassetta della frutta, la tovaglia presa in prestito da una chiromante, l’angolo di luce scavato ai bordi di una vetrina di libreria luminosa dove poi sarebbe entrato da protagonista.
Mi precipitai giu’ per le scale e lui disse, con tenerezza: “Piano Luisa, piano. Non correre cosi’ solo perche’ sono povero”. E comunque non solo gli artisti sono uno scherzo di natura, lo sono anche quelli che gli fanno avere carta sufficiente per farsi ascoltare fino alla fila piu’ lontana possibile. Me ne rendo conto ogni volta che sono costretta a ordinare un libro che non trovo subito sugli scaffali delle librerie, le ragioni possono essere le piu’ svariate.
(Maria Corti)
Il tempo e’ un buon lettore, meno superficiale di tutti gli altri, e spesso ripesca dei titoli dall’oblio, e’ il caso di Goliarda Sapienza e del suo L’arte della gioia. E’ il caso, a meta’, di Vittorio Bodini e penso, a proposito di doppiatori, alla sua traduzione del Don Chisciotte di Cervantes per i Millenni Einaudi.
Qualche settimana fa, raccontavo in una mail alla scrittrice e traduttrice Clara Nubile – bloccata dalla neve ad Anversa – della mattina in cui ho assistito alla cerimonia raccolta nel cimitero di Lecce, dove i resti del poeta e ispanista sono tornati, dopo un lungo esilio pieno di amore e odio per il Sud che osservava e raccontava.
Conoscevo molte delle persone presenti, Livio Muci, che da anni e’ il mio editore e che riedita da un pezzo l’opera bodiniana, lo scultore Ugo Malecore che ha firmato il bassorilievo in terracotta, sotto i lineamenti di Bodini le sue parole tratte da La luna dei Borboni: Tu non conosci il Sud, le case di calce/da cui uscivamo al sole come numeri/dalla faccia di un dado.
Quel sud del mondo che Clara conosce e che ha riempito di viaggi e di distanze, nella sua ultima mail mi avvisa che e’ in partenza per l’India, piu’ che altro un ritorno. Da laggiu’ vengono molti dei suoi racconti migliori, quelli che ti afferrano la gola quando leggi il suo Tabaccherie orientali.
(Clara Nubile)
A parlarmi di lei la prima volta fu la libraia Teresa Romano, eravamo nella libreria che apre i suoi battenti davanti alla fermata del bus, un pomeriggio, mi porse il libricino che ha come copertina la fotografia di un paio di piedi nudi su un lungomare. “Sono i piedi di Clara Nubile”, mi disse, poi chiuse gli occhi muovendo piano la testa, i bei capelli scuri, come chi ha appena annusato un aroma irresistibile, l’aroma di uno stile.
Da Clara avrei sentito dire, mesi dopo, la definizione migliore circa il mestiere del traduttore: “Tradurre è come fare una seduta spiritica. Spesso mi sento proprio così: una spiritista.” Per la puttana si’, ho pensato. E subito mi sono tornate in mente le traduzioni di Le ore, di Cunningham, a cura di Ivan Cotroneo e Alice nel paese delle meraviglie secondo Aldo Busi. Traduttori, doppiatori, romanzi viventi che impegnano le loro voci, come la Sirenetta di Andersen.
(Pasolini in sala di doppiaggio)
Voci oscure, congegni trasparenti, luminosi come gioielli di Faberge’. E’ afferrando la treccia delle loro voci che si scala la torre senza porte, quell’altezza traguarda il mondo e, per un momento, ogni elemento della vita e’ il suono caotico, eppure abbagliante, di un’orchestra che accorda gli strumenti, prima di cominciare.
Immagino che Rosetta Calavetta si portasse la sua voce a spasso come se niente fosse, alla stregua della diva che doppiava, Marilyn Monroe, cosi’ brava a mimetizzarsi nella folla di New York, passeggiate intere senza mai essere stata riconosciuta, nemmeno dai taxi che cercava di prendere.
(Kim Novak ripassa il copione di Vertigo)
E avra’ fatto caso, doppiando Kim Novak ne La donna che visse due volte che il suo personaggio e’ un impostore che dice la verita’?
E, cosa ancora piu’ interessante, James Stewart non si accorge che la Novak non interpreta per lui solo la parte di una donna perduta ma e’ quella donna.
E’ affascinante, se ci si pensa, e insieme crudele: spesso veniamo scambiati per altri proprio quando siamo noi stessi.
… niente è lasciato al caso nell’accumulazione apparentemente casuale e caotica di oggetti ed eventi e luoghi e momenti e sensazioni e persone e ricordi e nomi, tutti evocati per virtù di parola dalla melassa della quotidianità e infilati un verso dopo l’altro, come in uno svogliato inventario, a far da cornice alla rassegnazione e al lasciarsi andare ai capricci della sorte. Sono impressioni volute, generate apposta dall’effetto tonale della voce poetica, dall’uso scaltrito del linguaggio, dello stile. Dunque impressioni menzognere, come tutto, nella rappresentazione letteraria, è invito alla menzogna: menzogna buona, si capisce, per meglio demistificare la realtà e snidare il vero che in essa si celi.
Niente di meno rassegnato di chi cerca un senso nel caos.
[…]
In quell’invisibile intervallo tra palpebra e occhio rivive così tutto il film insensato del mondo esterno, e insensato resta finché non passa attraverso il filtro della parola poetica, attraverso la rappresentazione di un mondo altro, riscattato dal buio, dal silenzio, o al contrario dalla chiassosa insignificanza, rinnovato dal pensiero, vivificato dal sentimento, offerto ad altri col bisogno di relazione. Insomma un ‘vissuto’ che non perde affatto consistenza di realtà oggettiva, anzi acquista coscienza e parola, assume spessore morale, si lascia afferrare come corpo vivo, vive di un’altra vita in cui non siano spersi per sempre il senso e la speranza.
dalla prefazione di Carmine Tedeschi
Tra la palpebra e l’occhio
le unità di misura
il tempo e lo spazio la carne
e le carte da gioco l’asso di denari
la scintilla dei fuochi d’artificio
i dialoghi coi nomi poi il lavoro
le leggi del mercato la televisione
tra quello che si vede e non si vede.
Tra la palpebra e l’occhio
Ignoro se
la mia inesistenza appaga il tuo destino,
se la tua colma il mio che ne trabocca
Eugenio Montale
Ignoro se l’essenza
sia questa giacca che perde i bottoni
i microfoni spenti sul palco
o ci sia ancora un raschio perché tutti
i vestiti tornino al loro posto
e i calzini nell’ultimo cassetto
del comodino.
*
Metto ordine sul sedile
posteriore ma vago
e apparente. Nelle zona industriale
di notte resta qualche luce accesa
e cani randagi si accoppiano
senza prendere precauzioni.
*
C’è un odore forte di lattice
stamattina in via Ripamonti
come se tutti gli amori del mondo
si fossero consumati qui la notte
scorsa.
[…]
Unità di misura
Che forse non è questo il mio mestiere?
Perdere tempo, questo è il mio mestiere,
e il bello è perdere quel che non si ha.
Patrizia Cavalli
I regali che non ho mai fatto
i baci che non ho dato li ho stampati
sullo specchietto retrovisore
insieme alle cartoline spedite
senza nemmeno una parola. Sono
maturi i tempi per continuare
a non fare niente dalla mattina
alla sera.
*
Il furgone è parcheggiato sulla fetta
d’asfalto riservata ai disabili. Esco
a prendere un po’ d’aria. Non si vede
l’ombra di un bar all’orizzonte. Non resta
che aspettare la prossima partenza
per approdi già noti. Che si torni
ogni volta per gli stessi punti
è rassicurante in fondo.
[…]
*
Nel cielo di Milano
il nero non esiste. La giornata
dura mezz’ora in più ma il sole
non c’è e le stelle. Il cielo da grigio
si fa arancio e poi rosso alle quattro del mattino.
Sarà l’effetto dell’inquinamento
o forse la metropolitana
di giorno succhia il cuore ai passeggeri
sudati raffreddati incravattati
e di notte lo sputa in alto. Nudo.
Le leggi del mercato
Dunque ti prego non voltarti amore
e tu resta e difendici amicizia.
Vittorio Sereni
In principio è il conflitto
duro metallico. Basta spogliarsi
per prendere parte allo scontro
dei corpi all’incrocio delle braccia
fino all’esplosione della luce.
Poi le lingue si sciolgono
non esistono nemici ed amanti
la voce perde consistenza
si fa liquida fa finta di niente
il sesso ritorna nei pantaloni
ma resta duro resta in testa
la finzione di negare il futuro.
Ma chi è che scrive la sceneggiatura?
*
La guerra fredda l’hanno
messa in un altoforno
a sciogliersi e si è liquefatta
l’odore ha invaso pure il terzo mondo
in forma di piatto fumante
hanno però dimenticato l’ultimo
braccio armato del novecento
un verso la solitudine il fumo
di una sigaretta di mano in mano.
Dialoghi con i nomi
Edoardo
di un uomo sopravvivono, non so,
ma dieci frasi, forse
Edoardo Sanguineti
Ho lasciato la testa e gli occhi
su Mikrokosmos ogni parola
una goccia di liquido seminale
una lacrima rossa. E pensare
avevo fatto un lungo viaggio
per una conferenza su Dante
ma il corpo cantava ormai i suoi lamenti
gli aneurismi di ieri. Oggi i figli
dei borghesi prendono il sole
alle Colonne di San Lorenzo
mentre sfoglio i quotidiani le pagine
di commiato. Ne porto i segni
sulla cravatta e porto i tuoi
nel taschino della giacca.
Vito Russo è nato a Putignano (Bari) nel 1981.
Giornalista pubblicista, si è laureato in Economia e specializzato in Diritto del Lavoro.
Dal 2008 vive e lavora a Milano.
“Il 13 luglio 2008, domenica, ero a casa di Alda Merini. D’improvviso ella prese il registratore che avevo in mano e cominciò a parlare… Fu un monologo tutto d’un fiato… Ve lo propongo affinché, nel rispetto della sua figura possiate, voi che leggete, commentare e magari trarre conclusioni che possano portare un arricchimento personale a me oltre che a voi, ed una maggiore conoscenza di questa poetessa eccezionale. Ho chiesto il parere di Flavia su questa postazione, la quale si è detta d’accordo di proporla… Grazie amici, anche a nome di Alda che ha voluto attraverso queste parole lasciare un ulteriore messaggio a quanti la amano…”
Carmen Togni
“Monologo di Alda Merini”, riproposto con il permesso di Flavia Carniti
Buongiorno, io ho qui la signora Carmen, parliamo della laurea di Messina che mi ha commosso ma anche molto stressato. Non in quanto laurea ma perché avevo diverse paure, come quella dell’aereo, l’emozione, dei problemi miei in ballo per cui accantonare dei problemi per andare a ricevere la laurea è stato un colpo forte diciamo, un’emozione. Però tornata a Milano ho ricevuto un colpo di ritorno per la freddezza e l’antipatia generale dei milanesi. Mi spiace di essere stata così mal ripagata.
Subito dopo mi è saltato tutto l’impianto della luce e secondo me è stata una grande vendetta maschilista.
Sono una donna che non nutre grande simpatia per i movimenti femministi, ma comincio un po’ ad odiare i maschietti, li odio perché non capiscono che la donna ha bisogno di uno spazio di vita e di intelligenza.
La Laurea ha significato molto e niente perché sono state due facce diverse, tra l’altro un signore che qui non voglio nominare che è venuto con me e mi ha accompagnato, non per arraffare la Laurea ma qualche bella donna. Io su queste debolezze maschili avrei molto da dire perché la laurea e la cultura sono cose serie.
Devo dire che per quello che mi riguarda sono molto sconcertata dall’ignoranza di quello che può essere il maschio poeta. Insomma ho trovato un tale gelo al mio ritorno che ad un certo punto ho dato la mia laurea al parroco… ho detto non la voglio più vedere, perché più che la Laurea è il rispetto per la persona che ci vuole io a questo ci tengo specialmente…, le mie sigarette…
La cosa che più mi ha meravigliato è che Milano non me l’ha mai data, la laurea, anzi c’era un tale qui che si chiamava dottor “S…”, che m’ ha rotto l’anima per parecchio tempo poi non mi ha dato niente, mi ha preso in giro, ma la Laurea di Messina mi fa pensare anche a come ha fatto mio marito con una moglie poetessa a cacciarla su in un solaio maledetto che a quei tempi era il manicomio.
E sono rimasta male e avrei voluto che questa laurea… guardi, è passato di qua un signore di media cultura che guardando il tocco mi ha detto, avrei dato la vita per averlo, per tutta la vita ho sognato la laurea, e io gliel’ho regalato, perché desiderare un riconoscimento mi sembra umano, mi sembra giusto e abbiamo avuto fior di persone intelligenti che sono naufragate in un pantano per colpa dell’invidia, del fatto che non han potuto studiare, anch’io non ho mai avuto una laurea. Gli ho dato questo tocco e quest’uomo sembrava che si fosse sollevato da terra, come ho dato anche, diciamo la mia veste…, l’ho data a mia nipote che si è laureata in legge. Diciamo, so che era una cosa preziosa ma prima che la rubassero i miei vicini di casa, e lo voglio proprio dire perché Messina mi senta, proprio perché ho dei vicini di casa che non mi danno nemmeno un bicchier d’acqua, mi derubano, donna di servizio compresa, per la paura che me le rubassero ho dato via queste onorificenze e Manganelli dice appunto che gli anziani devono privarsi di tutto per paura che gli altri rubino, arrivati a questo punto che cosa si può sperare da un’Italia. E’ vero o no?
D’altra parte c’è anche tanta gente ammalata di questo buonismo, che vogliono entrare nelle case degli anziani e adagio adagio li derubano delle loro piccole proprietà, del loro disordine, dei loro piccoli comodi.
C’è questa geriatria che vede che uno a quarant’anni è già vecchio…, però c’è gente che a quarant’anni è già vecchia, mentre alla mia età c’è gente che è ancora vispa ma non può muoversi per altri impedimenti fisici.
E qui è un lungo discorso su quello che può essere la depressione. La depressione è un male che capita ma va centellinato, una volta nei manicomi c’erano le lungodegenze e grazio a Dio davano tutto il tempo alla malattia di dipanarsi e di risolversi, io sono riuscita dal manicomio proprio perché m’han dato tutto il tempo possibile di curarmi, riflettere, rivisitar-mi e guardare anche gli altri, sono stati dieci anni, di più ,in cui non ho fatto che ispezionare sia il mio io che quello degli altri, ho imparato una cosa, che ciò che ci accomunava non era certo l’ambizione o la voglia di scampare alla morte eravamo entrati in manicomio per morire ed eravamo pronti a morire, abbiamo fatto un patto di solidarietà con la morte e diciamo che l’abbiamo amata. Io non ho paura di morire ma mi danno molto fastidio i tafani e tutti quelli che vogliono mangiare su carni come la mia, ormai morte non di vecchiaia ma di crepacuore che è il peggiore dei dolori che ci possa essere per un essere umano, morire di crepacuore perché ci si vede schiantati dall’ignoranza, quindi il male che noi dobbiamo combattere non è tanto la mancanza di cultura, ma l’ignoranza cattiva che persiste nel proprio errore, alle volte sono sola, ho bisogno dell’aiuto di molti, e mi da proprio fastidio personalmente perché sono ringraziamenti che non finiscono più. Quello che Raboni diceva, l’ignobile ricatto del solo…, sono ignobili ricatti quelli della psichiatria, e ho visto e ne voglio parlare qui e spero che i medici e i docenti ne prendano atto, …purtroppo la depressione è un male lungo, e nessuno ha pazienza, e non si è amati abbastanza. Quindi la mia disperazio-ne…, per me ci vuole amore, bè certo il farmaco è cerusico, quello che opera, però la cattiveria di certi psichiatri, la tortura psichiatrica, l’insistenza a voler curare un male che non conoscono, cioè l’accanimento terapeutico è uno dei mali più tremendi e soprattutto più costoso e più redditizio per loro.
Quindi creiamo per il malato di mente, io che sono autrice del “Diario”, un ambiente sereno e confortevole senza continuare a domandare…, ma soprattutto è l’ambiente che crea la depressione, la disperazione e spesso il suicidio.
Naturalmente l’ignoranza di questi presunti psichiatri di questi presunti geriatri, di questa massa di ignoranza, perché lo diceva anche Monsignor R., siamo un popolo di ignoranti, di geni ma anche di ignoranti. Noi che siamo un popolo di geni coltiviamo l’ignoranza che è grossa come una casa, a questo punto il genio, come Pavese, adesso c’è il centenario, si uccide perché capisce che con le sue forze fisiche non può combattere questa marea di solitudine, di vuoto d’amore creato dall’ignoranza e non sappiamo più cosa fare, perché ignoranti siamo tutti ma abbiamo voglia di imparare, c’è invece chi persiste nella non voglia di apprendere e invidia colui che ha fatto tanta fatica per ricevere qualche nozione di vita.
Io poi devo dire che qui a Milano quando proprio ero emarginata dagli amici milanesi, ho avuto salva la vita dai meridionali, esercenti, gente che mi portava su da mangiare, da bere, ho sempre avuto mariti e amori meridionali perché erano uomini tutti d’un pezzo, mentre devo dire che i milanesi son dei gran sbruffoni, all’atto pratico non ti danno niente, assolutamente niente, è vero, sono dei chiacchieroni, ma in effetti la mano tesa, la mano anche…
Devo dire che ho sposato il dottor Pierri di Taranto, ho avuto De Pascal che è stato un medico meridionale che mi ha guarito la bambina, amici per la pelle proprio, che mi hanno difeso fino all’ultimo, veri cavalieri della ragione. Però se guardo i milanesi veramente, io sono milanese e rimango male, parole, parole…, Portare a casa la laurea e vedersi ancora sbattere la porta in faccia…, mi ha fatto doppiamente male, però ringrazio ugualmente il Meridione perché… vorrei spendere una parola per dire di tenere conto della depressione perché può diventare mortale e morire per dei cretini dispiace molto, grazie.
E anche ho voglia di fare dei nomi perché ho notato che nel Meridione quando una donna veniva calunniata, subito si ricorreva alla difesa e vorrei parlare del signor G… che è amico di tutte le donne l’amante confidenziale che io non capisco e, però toccare l’onore di una donna, io sono molto siciliana in questo, è un reato, è un reato perché una donna ha già il suo peso di sofferenze di maternità, e dire o che è squilibrata o è vagheggina, quando io come persona, come Alda Merini ho perso…, mi sono vista portar via dei figli e mi sento deridere eh…, magari da questi ganimedi che hanno i capelli bianchi e fanno presa sulle ragazzine, e vorrei spendere due parole anche in difesa della chiesa perché è un periodo che tutti ce l’hanno con la pedofilia dei preti, mentre invece quello che fanno certi signori attempati che vanno all’estero a fare turismo sessuale, io mi domando come si può toccare un bambino, questa è gente da legare, da mandare in galera, no? Perché io personalmente sono stata una bambina, di pedofili non ne ho mai incontrati e andavo a scuola da sola, adesso sono tutti pedofili, o sono certi uomini sposati che fanno certe cose, perché a me non è mai capitato benché andassi a scuola da sola, adesso tutti i preti sono pedofili, la signora Carmen ama i bambini, io anche, ma che razza di educazione o di follia abbiamo in Italia, sono delle madri folli che mandano in galera anche la chiesa che è vergognoso perché è meglio un bello schiaffone dato da una madre con santa cognizione che tanti vizi. Sono molto amareggiata per queste cose e ho visto cose pornografiche in mano di padri di famiglia… io mi domando come può uno che ha generato dei figli, toccare i propri figli e magari anche quelli degli altri… e lo dico perché noi in manicomio eravamo pieni di questi bambini che erano stati violentati da padri e madri e uomini sposati, più che la Chiesa sono questi da condannare…
Devo dire che oggi la visita della signora Togni, con il caldo che fa e con la cattiveria del signor G… mi abbia un poco salvato la vita. Vorrei che le donne la finissero di subire queste angherie da parte di uomini malviventi, devo dire malviventi, perché io sono in una Milano, oggi sola, deserta e abbandonata, non ho neanche le sigarette, e nessuno m’aiuta, se non passava la signora ero sola e dimenticata da tutti, senza trovare neanche le chiavi. Quindi se la signora Togni vuole pubblicare queste mie affermazioni, volentieri… nel “Sogno di Alda”, io non ho più sogni ormai.
Domenica, 13 luglio 2008
ALDA MERINI
§
Carmen Togni, che ci ha dato la possibilità di estendere ai lettori di Musicaos.it questo monologo registrato il 13 luglio del 2008 è autrice di diversi libri, l’ultimo dei quali, edito di recente, si intitola proprio “Il sogno di Alda” (Edizioni Del Poggio, 2010). La ringraziamo per averci fatto conoscere questo ‘frammento’ di vita di questa grande poetessa.
“Dopo aver saputo della morte di Alda Merini, sono rimasta in silenzio per tutti i giorni seguenti leggendo e meditando tutto ciò che veniva riportato sulla stampa e mediante internet. Il venerdì successivo, in mattinata, la mia mano, guidata da non so quale input, ha cominciato a scrivere. Le parole sono uscite spontaneamente. Alla fine, quando misi il titolo ‘Canto ultimo per Alda Merini’, la mia mano tremava… L’impressione era che quelle parole me le avesse dettate lei mentre stava continuando il suo viaggio da pochi giorni intrapreso…” (C. Togni)
Se c’è qualcuno che dev’essere veramente grato a mia madre, sicuro quello è l’Amministratore Delegato dell’industria dello Scotch, non di quello scotch che uccise mio padre quando io ero ancora una bambina, ma di quello con cui mia madre ci faceva sentire povere in un modo speciale: né triste né arrabbiato, ci faceva sentire povere in modo intelligente.
Bastava infatti lo Scotch – che potremmo chiamare nastro adesivo, se mia madre non avesse più volte espresso la sua inflessibile fedeltà ad un marchio, attribuendogli proprietà semi-magiche – bastava quello per riparare quanto non andava in casa: i ripiani del frigorifero, il dorso del vocabolario Devoto Oli 1971, il sifone del lavello, la manopola del termosifone, il tavolino del salone (quello rotto dalla mia migliore amica che lì sopra ci aveva ballato per ore durante la nostra prima sbronza colossale).
Tutte cose troppo care da ricomprare o comunque tutte cose che per essere riparate in modo canonico avrebbero richiesto l’intervento di personale specializzato che ci avrebbe costrette a stare per ore attaccate al telefono con la speranza di prendere un appuntamento, senza mai tuttavia ricevere risposta, o che comunque, anche nel caso assai improbabile in cui una di noi fosse riuscita a stabilire un contatto, quello – il tecnico specializzato – ci avrebbe salassato con un costo pari alla metà dello stipendio di mia madre per la sola trasferta dalla sua pidocchiosa officina alla nostra splendida casa che sembrava un enorme pacco postale, tutta ricoperta di nastro adesivo com’era; e nel caso in cui ci fossimo rifiutate di pagare il conto, quello -sempre il tecnico specializzato- avrebbe colto l’occasione per approfittare sessualmente di mia madre, giovane vedova dalla sensualità un po’ sbiadita, e delle sue giovani bellissime figlie, cioé di me e delle mie due sorelle in realtà ancora in età puberale con brufoli, tette incerte, annessi e connessi. Insomma, per farla breve, mia madre aveva questa teoria sugli idraulici e sui riparatori in genere; la scoperta del nastro isolante le aveva poi conferito il potere di spodestare anche gli elettricisti da quel posto di riguardo che, per imprescindibili motivi di sicurezza, aveva dovuto riservar loro fino ad un certo periodo della nostra povertà.
Nonostante l’invidiabile esprit che mia madre sembra aver dimostrato sino a questo punto del racconto, è mio dovere sottolineare quanto rudimentale fosse in realtà nel rapporto con noi figlie, adolescenti brufolose orfane bruttine e peraltro con scarsa inventiva; quella donna, affannandosi per non negarci niente, ci negava in sostanza quello sguardo in più che ci avrebbe fatto sicuramente sentire meno orfane, meno bruttine e che ci avrebbe donato un briciolo della sua inventiva (poco, invece, avrebbe potuto il suo sguardo corvino contro le nostre brufolose adolescenze).
E sono sicura che se fosse stata capace di riparare i rapporti con un po’ di Scotch, allora mia madre non avrebbe scelto di andare via quella mattina, dopo averci chiuse nelle nostre stanze, serrando ogni via d’uscita con nastro, travi e quant’altro, dando poi fuoco alla casa.
[Ora potrei lasciare la chiusura del racconto sospesa in questo finale turpe, o potrei spiegare se, come e grazie a chi ci siamo salvate – perché è chiaro che se sono qui a scrivere, altri aneddoti da raccontare ci saranno di sicuro – ma quello che mi preme maggiormente è stilare una lista di “Cose non riparabili con il nastro adesivo” e proporla all’Amministratore Delegato di cui sopra – quello che sicuramente grazie ai soldi sborsati da mia madre ha ricevuto una promozione ed ora si ritrova a gestire una vera impresa, prepotentemente presente sul mercato italiano, ed è riuscito ad ottenere una macchina aziendale e carte di credito aziendali e tutto quello che potete e non potete immaginare- invitandolo ad apporla sull’etichetta di ogni confezione di Scotch con il fine di prevenire altre inspiegabili tragedie familiari. Nella lista inserirò la cirrosi alcolica, la depressione, la bulimia nervosa, l’ulcera, il cuore spezzato per la prima delusione d’amore, l’amenorrea, l’incomunicabilità umana, le manie di onnipotenza e tutte quelle cose che solitamente si presentano spalmate su un’ampia fetta della popolazione e che invece nella mia famiglia si sono presentate tutte insieme, tenute vicine dal più potente dei collanti, altro che Scotch]
Sabato 22 e Domenica 23 c/o Nuovo Spazio Scenastudio
via Sozy Carafa 48 Lecce
Associazione Culturale Fondo VerriTeatroBlitz
presenta
Che Fortuna…sono qui
Teatro-Poesia e musica in un atto unico
Testi da: D. Campana / A. Verri / M. Gualtieri / S. Toma / V. Bodini / E . De Candia
Di e con Giovanni Piero Rapanà musiche originali Roberto Gagliardi
note
Per primo c’è Campana, Dino Campana e la sua “follia” lucida, saggia, di pura visione che sa, sa dire da dove viene il “guasto”, sa con chi prendersela, su chi scaricare la propria inquietudine… e allora…Guglielmo, il Principe del progresso, il Principe delle onde magnetiche, Guglielmo Marconi, ”despota” e “padrone” del progresso, inventore, scienziato… e da lì che viene il cambiamento, la spinta che ha “mutato” la qualità della vita, dell’esistere , del ritmo stesso dello stare quotidiano, della possibilità della comunicazione che sempre di più perde la sua carica di necessità, di poesia, di sentimento.
Discorsi di un “folle”, uno spunto necessario per poter formulare un ode a ciò che è rimasto indietro, inesorabilmente perso nello stritolante andare del “progresso”.
E la memoria diventa protagonista… saperla, proteggerla, considerarla madre necessaria del sapere, della conoscenza.
E vengono odori e paesaggi descritti e sognati attraverso un percorso poetico che coinvolge nel dire, la sensibilità creativa e umana del pittore Edoardo De Candia, degli scrittori Verri e Colella, della poetessa Mariangela Gualtieri, nostri contemporanei, lontani dalla “follia” del poeta di Marradi ma ugualmente consapevoli della necessità di un’inversione, di un rallentamento capace di ridefinire, la natura del nostro vivere. L’incontaminato passato, i piaceri della semplicità, di un vivere fragile e denso, di poco,
un vivere attaccato al tempo, al suo scorrere naturale, senza essere travolto “consumato” dalla frenesia del non avere mai tempo abbastanza… dell’essere sempre e comunque al passo del tempo, pari alla sua velocità, a ciò che impone… consumi, mode, vanità… incapaci di fermarsi a dire Che fortuna essere qui… nella pausa del contemplare, del cantare alla natura la Bellezza.
Lo spettacolo,ironico,grottesco delicato, si sviluppa per quadri… quadri di poesia e musica. La musica in questo nuovo viaggio di –Che fortuna…sono qui – è compostada Roberto Gagliardi ed eseguita in scena con Piero Rapanà regista e attore .
A chiudere lo spettacolo e congedarsi dal pubblico la proiezione del corto
“Fate fogli di poesia… di Gianluca Camerino ricordo ad Antonio Verri
Info e prenotazioni
0832.523264, 320.8888371, 348.1731100
Il premio che fa emergere il meglio della narrativa, della poesia e della saggistica italiana! NOVITÀ: Le opere inedite possono partecipare anche con il solo formato elettronico
Bando
qui di seguito il bando di partecipazione, potete scaricarlo anche in formato pdf cliccando qui, nel bando in pdf c’è anche la scheda di partecipazione al concorso.
Regolamento: Edizioni Creativa bandisce l’edizione 2011 del concorso “Premio Creativa”.
Il premio si suddivide in 6 sezioni:
a) NARRATIVA INEDITA
b) NARRATIVA EDITA
c) SAGGISTICA INEDITA ED EDITA
d) RACCONTO INEDITO
e) POESIA INEDITA
f) POESIA EDITA
a) NARRATIVA INEDITA: Possono partecipare al concorso romanzi inediti, a tema libero, scritti
da autori italiani ed in lingua Italiana.
Novità a partire già dalla IV° edizione : il testo può essere inviato anche in formato elettronico (word o pdf, altri formati non saranno valutati) all’indirizzo: premio@edizionicreativa.it Per il formato digitale: L’opera deve essere inviata in duplice versione, una riportante i propri dati, l’altra anonima riportante solo il titolo. Al testo deve essere allegata una sinossi dell’opera e un breve curriculum vitae dell’autore.
L’opera va accompagnata dalla scheda di partecipazione accuratamente compilata e firmata. La scheda di partecipazione deve essere inviata per posta ordinaria (no raccomandate). Per il cartaceo: gli autori devono inviare, all’interno di un unico plico, 2 copie di cui una anonima e l’altra con allegata la scheda di partecipazione e un breve curriculum vitae dell’autore. La copia anonima non deve contenere alcun segno di riconoscimento (disegni, timbri, intestazioni o simili).
Sulla busta non deve essere apposto il mittente.
b) NARRATIVA EDITA: Possono partecipare al concorso romanzi editi a tema libero, scritti da autori italiani ed in lingua Italiana. Gli autori devono inviare, in formato cartaceo, 2 copie del libro, all’interno di un unico plico, con allegata la scheda di partecipazione una breve sintesi e un breve curriculum vitae dell’autore.
c) SAGGISTICA INEDITA ED EDITA: Possono partecipare saggi editi o inediti in lingua italiana. Gli autori devono inviare, in formato cartaceo, 2 copie dell’opera, con allegata la scheda di partecipazione e un breve curriculum vitae dell’autore.
Per la saggistica inedita il testo può essere inviato in formato elettronico, vedi narrativa inedita.
d) RACCONTO INEDITO: Possono partecipare favole o racconti inediti scritti in lingua italiana di massimo 15 cartelle (60 battute X 30 righe). Ciascun autore può partecipare al concorso con un massimo di cinque racconti.
Novità, a partire dalla IV° edizione, per le opere inedite il testo può essere inviato anche in formato elettronico (word o pdf, altri formati non saranno valutati). Vedi narrativa inedita.
Per il cartaceo: gli autori devono inviare 2 copie di ciascun racconto, all’interno di unico plico, di cui una anonima e l’altra con allegata la scheda di partecipazione e un breve curriculum vitae dell’autore . La copia anonima non deve contenere alcun segno di riconoscimento (disegni, timbri, intestazioni o simili). Sulla busta non deve essere apposto il mittente.
e) POESIA INEDITA: Possono partecipare al concorso poesie inedite composte da un massimo di 30 versi. Ciascun autore può partecipare al concorso con un massimo di 6 poesie. Novità, a partire dalla IV° edizione è che il testo può essere inviato anche in formato elettronico (word o pdf, altri formati non saranno valutati) in duplice versione: una con i propri dati e l’altra anonima riportante solo il titolo. Per ogni poesia che partecipa ci deve essere quella anonima e quella con i recapiti.
Per il cartaceo:gli autori devono inviare le poesie in 2 copie, all’interno di unico plico, di cui una anonima e l’altra con allegata la scheda di partecipazione e un curriculum vitae dell’autore. La copia anonima non deve contenere alcun segno di riconoscimento (disegni, timbri, intestazioni o simili). Sulla busta non deve essere apposto il mittente.
f) POESIA EDITA: Possono partecipare al concorso raccolte di poesie edite. Gli autori devono inviare la raccolta in 2 copie più la scheda di partecipazione, e un curriculum vitae dell’autore. Le opere iscritte al concorso non saranno restituite.
La presentazione delle proprie opere per la partecipazione al Premio sottintende la presa visione e comporta l’accettazione incondizionata del presente regolamento da parte dell’autore.
La casa editrice Edizioni Creativa si riserva la possibilità di effettuare una proposta di pubblicazione agli autori delle opere inedite iscritte alle sezione a) e c) e non classificate vincitrici ma ritenute comunque di particolare interesse letterario ed inerenti con la linea editoriale della casa editrice.
Potranno partecipare al Premio solo autori maggiorenni.
Quota di partecipazione:
a) NARRATIVA INEDITA: La quota di partecipazione per la sezione a) è di euro 25.00 per ogni romanzo.
b) NARRATIVA EDITA: La quota di partecipazione per la sezione b) è di euro 20.00 per ogni romanzo.
c) SAGGISTICA INEDITA ED EDITA: La quota di partecipazione per la sezione c) è di euro 20.00 per ogni saggio.
d) RACCONTO INEDITO: La quota di partecipazione per la sezione d) è di euro 15.00 per ogni racconto. Ciascun autore può inviare massimo cinque racconti.
e) POESIA INEDITA: La quota di partecipazione per la sezione e) è di euro 10.00 per ogni poesia.
Ciascun autore può inviare massimo sei poesie.
f) POESIA EDITA: La quota di partecipazione per la sezione f) è di euro 15.00.
Pagamento della quota:
La quota può essere pagata:
1) Versamento sul ccp n° 70188222 intestato a Gianluca Ferrara
2) Bonifico intestato a Gianluca Ferrara BONIFICO: Intestato a Gianluca Ferrara – Iban
IT76M0760103400000070188222
3) Assegno non trasferibile intestato a Gianluca Ferrara ed inserito nel plico
4) Quota inserita nel plico, il mittente riceverà una e-mail di avvenuta ricezione
Modalità di spedizione:
In formato elettronico le opere vanno inviate a con oggetto PREMIO CREATIVA V° Edizione ed inviati a premio@edizionicreativa.it
Nella mail deve essere inviata anche la scansione del pagamento della quota d’iscrizione. Non verranno valutate opere non accompagnate da copia del versamento
1) Gli elaborati in formato cartaceo dovranno essere spediti a:
Premio Creativa sezione: a) ,b),c),d) o e)
c.a. Fabiola D’Agostino
Via Benedetto Cozzolino 134
Parco dei Cedri 80056 Ercolano (Na)
2) Le opere dovranno essere spedite entro il 31 gennaio 2011 farà fede il timbro postale.
3) Per il cartaceo in un unico plico devono essere inserite due buste: una anonima contenente l’opera, l’altra nominativa contenente l’opera la scheda di partecipazione e la ricevuta di avvenuto pagamento della rata d’iscrizione.
4) Deve essere allegata copia del pagamento della quota d’iscrizione. Non verranno valutate opere
non accompagnate da copia del versamento.
5) Le opere devono essere spedite con posta prioritaria. Le raccomandate non verranno ritirate.
6) Per le sezioni c) e d) ciascuna poesia o racconto deve essere spedito in una propria busta e bisogna compilare una scheda di partecipazione per ciascuna poesia o racconto.
7) Non verranno valutate opere prive di scheda di partecipazione o prive di autorizzazione al
trattamento dei dati personali.
La giuria:
Le opere verranno valutate da una Giuria composta da 5 esperti nel settore letterario e dal direttore editoriale dott. Gianluca Ferrara.
L’operato della Giuria è insindacabile.
I premi:
a) NARRATIVA INEDITA:
1° classificato: La pubblicazione dell’opera con la casa editrice Edizioni Creativa.
2° classificato: All’autore dell’opera seconda classificata di tale sezione verrà assegnata una coppa della misura 25 cm.
b) NARRATIVA EDITA
1° Classificato: All’autore dell’opera prima classificata di tale sezione verrà assegnata una coppa della misura di 40 cm.
2° Classificato: All’autore dell’opera prima classificata di tale sezione verrà assegnata una coppa della misura di 25 cm.
c) SAGGISTICA INEDITA ED EDITA:
Vincitore assoluto: All’autore dell’opera vincitrice assoluta di tale sezione verrà assegnata una coppa della misura di 40 cm. L’opera vincitrice se inedita verrà presa in considerazione per la pubblicazione.
d) RACCONTO INEDITO:
Gli autori dei 10 racconti vincitori di tale sezione, avranno la pubblicazione del racconto nel testo: “Racconti creativi” Edito da Edizioni Creativa.
e) POESIA INEDITA:
Le migliori poesie di tale sezione, avranno la pubblicazione della poesia nella raccolta: “Versi creativi” Edita da Edizioni Creativa.
La miglior poesia verrà premiata con una coppa di 25 cm
f) POESIA EDITA
Vincitore assoluto: All’autore dell’opera vincitrice assoluta di tale sezione verrà assegnata una coppa della misura di 25 cm.
I risultati Entro il 31 maggio 2011 i risultati del concorso verranno resi pubblici sul sito: www.edizionicreativa.it
Telefono segreteria del Premio: 081 359 70 90 Fax: 081 882 20 48
I vincitori verranno informati tramite e-mail o telefonicamente.
I premi saranno spediti direttamente a casa dell’autore entro 90 giorni dall’assegnazione.
Ho un minareto/un acquario di plancton/una micro coreografia che avanza,/
fa piccoli passi il moltiplicato esercito americano/inconsapevole del grande musical
e tip e tap e tip e tap/mentre scorre “ by this river “/mi sento strana.
FOTO N.2
Un giorno ti racconterò della guerra d’Abissinia/mescolerò i deserti e i silenzi delle foto
chissà se starò sfavillante o rintanata/
confonderò la distanza galattica a quella di una vecchia telefonata
e tu sarai la Luce documentaria.
FOTO N.3
Ora sei l’armata genetica/tutto quello che abita dopo l’abitato/anche dopo gli sfollati
anche dopo i deportati/e io non sono più poeta, sono la medium dell’Hammond/
e tu il coagulo dei musici.
FOTO N.4
<Vedete questo puntino intermittente? è il cuore che batte.>
Come la lucina di un aereo lontano di notte/mi hai detto.
FOTO N.5
Prima sei un indizio,/ poi sei un’immagine,/
poi sei un suono,/poi sei un immagine.
FOTO N.6
Fin da ora tieniti forte/a ogni istante il sangue scorre, è un abitudine:
tu che ancora sei compagno della luce/vieni vieni al buio, al nostro buio pazzesco.
Le parole più adatte alla circostanza le ha trovate Serge Quadruppani. Le abbiamo tradotte dal francese, eccole:
«Di fronte all’imbecillità fascistoide, si resta come ammutoliti: l’idiota enormità di certe dichiarazioni potrebbe lasciarci senza voce. E’ una cosa talmente stupida che si ha soltanto voglia di alzare le spalle e pensare ad altro. Ma questa enormità e quest’idiozia hanno effetti molto concreti. Se si lascia diffondere la sola idea (per non parlare della prassi reale) che si possano ufficialmente compilare liste nere contro chi non cede alla dittatura della tristezza, chi non si adegua alla visione dominante di questo o quell’aspetto del passato, allora si capitola a una concezione della società più vicina a quella della Tunisia di Ben Ali che a quella sognata in Europa dagli illuministi e dalla Resistenza.
Per fortuna la storia recente dimostra che, a conti fatti, i piccoli e grandi Ben Ali non sempre sono vittoriosi.»
Avvertenza preliminare: il caso Battisti qui è solo un pretesto. Non ci fosse stato quello, ne avrebbero cercato un altro. Ragion per cui, in questo post non si parlerà dello specifico di quella vicenda. Chi conosce soltanto la campana battuta a martello dai media e dai politici e volesse sentirne altre, può informarsi su Carmilla [1]. Chi vuole discuterne, è pregato di farlo altrove (la rete è piena di blog e forum). Come la pensiamo noi è sufficientemente noto, a suo tempo ne abbiamo scritto, soppesando ogni parola, sforzandoci di mantenere un equilibrio [2]. Ma oggi la questione è un’altra, come ha capito benissimo il collega Carlo Lucarelli, che ci manda questo messaggio:
«Sul “caso battisti” – sia l’uomo che la vicenda – abbiamo posizioni differenti, ma quello che stanno cercando di fare con questa lista di proscrizione è veramente una porcata ed è pura censura del dissenso. Io non sono uno dei firmatari dell’appello pro Battisti ma sono disponibile ad appoggiare comunque qualunque iniziativa condivisibile nel contrastare questa squallida operazione da dittatura stupida.»
E ora raccontiamo cosa sta succedendo.
L’assessore alla cultura della provincia di Venezia, l’ex-missino-oggi-berlusconiano Speranzon, ha accolto il suggerimento di un suo collega di partito e intimerà alle biblioteche del veneziano di:
1) rimuovere dagli scaffali i libri di tutti gli autori che nel 2004 firmarono un appello dove si chiedeva la scarcerazione di Cesare Battisti;
2) rinunciare a organizzare iniziative con tali scrittori (vanno dichiarati “persone sgradite”, dice).
Il bibliotecario che non accetterà il diktat “se ne assumerà la responsabilità”.
Si allude forse al congelamento di fondi, al mancato patrocinio delle iniziative, al mobbing, a campagne stampa ostili?
La proposta ha avuto il plauso del COISP, un sindacato di polizia. Così il bibliotecario ci pensa due volte, prima di mettersi contro l’ente locale e le forze dell’ordine.
Una cricca di “sinceri democratici” si sta già muovendo per estendere la cosa a tutto il Veneto, ed è probabile che l’iniziativa venga emulata oltre i confini regionali.
Ecco cosa si può leggere sul “Gazzettino” [3]:
«Scriverò agli assessori alla Cultura dei Comuni del Veneziano perché queste persone siano dichiarate sgradite e chiederò loro, dato anche che le biblioteche civiche sono inserite in un sistema provinciale, che le loro opere vengano ritirate dagli scaffali […] Chiederò di non promuovere la presentazione dei libri scritti da questi autori: ogni Comune potrà agire come crede, ma dovrà assumersene le responsabilità. Inoltre come consigliere comunale a Venezia, presenterò una mozione perché Venezia dia l’esempio per prima […] Scriveremo agli assessori regionali Marino Zorzato e Elena Donazzan, perché estendano l’iniziativa in tutto il Veneto.»
Ora, il fatto stesso che uno possa concepire una cosa del genere indica che lo sprofondamento italico sta toccando nuove, nauseanti bassezze. Stiamo ormai trivellando il fondo della Fossa delle Marianne, circondati da pesci ciechi e deformi, in cerca dell’oscurità più oscura che possa prodursi nell’universo.
Vogliamo stare in fondo alla fossa insieme a questi tetri, squallidi palombari della censura, o vogliamo impegnarci a riemergere?
Lassù c’è il sole, per chi desidera rivederlo.
Nella lista di proscrizione siamo in tantissimi: noi, Valerio Evangelisti, Massimo Carlotto, Tiziano Scarpa, Nanni Balestrini, Daniel Pennac, Giuseppe Genna, Giorgio Agamben, Girolamo De Michele, Vauro, Lello Voce, Pino Cacucci, Christian Raimo, Sandrone Dazieri, Loredana Lipperini, Marco Philopat, Gianfranco Manfredi, Laura Grimaldi, Antonio Moresco, Carla Benedetti, Stefano Tassinari e molti altri.
Praticamente dovrebbero svuotarli, gli scaffali.
E forse è quello che sognano.
Ha ragione Quadruppani: non si può reagire con un’alzata di spalle, dire “è solo una provocazione”, consigliare l’indifferenza “per non fare pubblicità a certa gente”. A volte bisogna fare così, ma non sempre.
Certo, questa è anche una provocazione, ma è soprattutto altro:
1) è una minaccia a un’intera categoria di lavoratori (i bibliotecari), che dovrebbero accettare un ultimatum autoritario e anti-costituzionale altrimenti la pagano cara. 2) è un atto finalizzato a isolare e censurare scrittori e artisti in quanto “complici” del terrorismo. Un atto compiuto da un amministratore, una figura di potere che, agitando uno spauracchio per distogliere l’attenzione da altri problemi, si appella alle reazioni viscerali del “popolo”. Un atto che vuole intimidire e “mettere in riga” chi produce discorso pubblico.
Come ha dichiarato il collega Tiziano Scarpa: «Così si colpisce la cittadinanza di uno scrittore, che è nella lingua e nelle sue opere.» [4]
A questa schifezza dovremmo reagire tutti, non solo gli scrittori direttamente coinvolti o i bibliotecari direttamente minacciati.
– Dovrebbero farsi sentire i cittadini, i lettori, i frequentatori delle biblioteche.
– Dovrebbero farsi sentire amministratori, forze politiche e associazioni di Venezia e dei comuni circostanti.
– Dovrebbe cercare di scriverne chiunque lavori nell’informazione o abbia un blog et similia;
– Dovrebbe dire qualcosa l’Associazione Italiana Biblioteche.
– Dovrebbero dire qualcosa i sindacati dei dipendenti pubblici.
– Dovrebbero muoversi gli editori, anche legalmente, con querele e cause civili, a fronte di un’azione che procura loro danni materiali e morali.
– Andrebbero mandate mail di protesta ai giornali (non solo a quelli veneti), andrebbero affissi volantini e lettere aperte alle bacheche di biblioteche e sale di lettura.
– Andrebbero diffusi e linkati post come questo (in calce al quale metteremo gli aggiornamenti sulla vicenda) e qualunque altro articolo, testo o video che informi su questo personaggio, sulle sue intenzioni liberticide e su eventuali iniziative dei suoi emuli e sodali.
Alcuni degli scrittori finiti in lista nera (insieme ad altri che non ci sono finiti ma sono solidali) stanno discutendo, si stanno coordinando, stanno valutando quali azioni (anche legali) intraprendere. Ma se si muoveranno solo loro, la censura passerà. La minaccia è rivolta a tutti: a chi scrive, a chi legge, a chi ha a cuore la molteplicità dei punti di vista su qualunque argomento. Se sottovalutiamo l’iniziativa perché è stupida, si crea un precedente. E’ un’iniziativa tanto più pericolosa quanto più è stupida. Come acutamente fa notare il blogger Mazzetta, si intende affermare il principio secondo cui sarebbe perfettamente normale
«applicare un filtro morale, selezionando i libri in base ai comportamenti degli autori e alla loro aderenza ideologica e politica al volere delle maggioranze di governo.
Come se, un domani che Berlusconi dovesse cadere in disgrazia, qualcuno proponesse di bandire da tutte le biblioteche del regno i libri di quanti lo hanno sostenuto o difeso, come se le opere letterarie potessero e dovessero essere selezionate in base alle credenziali morali e politiche dell’autore.» [5]
Lino Angiuli – “L’appello della mano” (Nino Aragno Editore) di Vito Russo
Leggere un libro di Lino Angiuli significa farsi delle domande, ma significa anche trovare delle risposte alte, che centrano le questioni poetiche ed esistenziali dritte al cuore, senza comode scorciatoie.
L’appello della mano, il suo ultimo lavoro letterario, è un manifesto poetico, ma insieme morale e religioso.
Angiuli elabora il suo messaggio senza la minima concessione alla retorica letteraria tradizionale, senza assecondare nessun cliché, usando sempre l’ironiacome fil rouge e strumento comunicativo privilegiato. Se questi elementi sono una costante nell’opera del poeta di Valenzano, sorprende, nell’ultima silloge, una tensione etica insperata per qualsiasi lettore che si cimenti e confronti con la poesia degli ultimi anni. Lontano da localismi, autoreferenzialismi, lirismi, relativismi, insomma, come lui stesso ama dire, da tutti gli -ismi mai concepiti, con L’appello della mano Angiuli fa un ulteriore salto di qualità sul piano dei contenuti, ma il racconto resta fresco, grazie alla vis ironica che ne è il tramite.
La poesia di Angiuli, lungi dal soffermarsi sulle miserie della contemporaneità con piagnistei altrove troppo presenti, e senza alcun indugio nel privato, tiene fermo il baricentro su una concezione collettiva dell’esistenza tutta. Lino Angiuli è un poeta che ha qualcosa da dire, e lo dice senza artifici, elaborando un umanesimo moderno, scevro da atteggiamenti nostalgici, nel quale tutto è al centro dell’attenzione del poeta.
Ne risulta un’unione carnale e insieme spirituale tra gli uomini, le stagioni, il mare, il Creato intero, in cui l’autenticità è ”intravedere il firmamento / buttarsi addosso a un lenzuolo di terra / per il forte desiderio d’accasarsi con l’argilla”. Anche la morte smette di essere uno spartiacque (“vivi o morti che differenza fa?”). Nel panteismo angiuliano (“è una vita che mi giro di qui e di lì senza accorgermi / che tu stai dentro una boccata d’aria come a casa tua”), la materia si personalizza fino a spiritualizzarsi: “si alleggerisce il rimorchio delle ossa e / niente più siepe caro giacomoleopardi”.
Ancora una volta, e con maggiore evidenza rispetto alle raccolte precedenti, la silloge è incastonata in una struttura metrico-stilistica che rende omogeneo il discorso letterario, colonna portante di quello linguistico ed etico.
La tensione morale tocca il suo apice nelle orazioni settimanali della seconda sezione, di sette prose composte da sette mini-prose di sette versi ciascuna. Angiuli compone la sua dichiarazione programmatico-poetica: “Intanto io mi darò da fare per rispolverare una ad una / quelle invisibili parole da voi depositate nei saecula / saeculorum dentro l’umido cavo dell’orecchio buono / parole scasate dal vocabolario dove abitiamo adesso”. Angiuli prosegue il suo percorso letterario teso a ridare dignità alle lingue non ufficiali. Stavolta però non usa il suo dialetto, ma sviluppa una lingua altra e universale, frutto di mille contaminazioni lessicali e sintattiche: notevoli sono latinismi, inglesismi, francesismi, ispanismi, germanismi, e persino slavismi e arabismi, ma, soprattutto, emerge l’utilizzo frequente di espressioni ricavate da un parlato basso di derivazione dialettale: verbi come screscere, acquacquagliare, scarvottare, scassare, trapanare, sdivacare, abbottare, scimunire, stipare, arricreare, o aggettivi e sostantivi come tiraturo, guantiera, arruzzinito, abituro, zoche, lastro, solo per citarne alcuni.
Il poeta è un giullare che registra le contraddizioni della contemporaneità, ma non si limita ad osservare e denunciare con sdegno, ad esprimere il suo j’accuse all’Occidente, né ad arroccarsi su posizioni teocentriche, poiché “mi chiedo ognittanto perché poi dovrebbe farlo lui / quando volendo potrei imparare benissimo da solo / ad assaggiare uno stozzo di fame da spartire con voi”.
Per Angiuli la poesia è quindi strumento comunicativo e morale insieme, utile ad unire ciò che appare (o si vuol far apparire) diviso dai mille fondamentalismi, valorizzando le specificità: “Tutto quello che volete ma non venitemi / a dire che giuseppe vale più di yussef / solo perché è spuntato qui anziché lì”.
Mai come ne L’appello della mano il senso diviene esplicito, manifestato senza esitazioni, e si capisce come ci sia una corrispondenza stretta tra significante e significato: così come il poeta abbatte qualsiasi barriera linguistica, lasciando intendere un superamento delle divisioni culturali (“mi pento e mi dolgo nella tua lingua se necessario”), allo stesso modo la sua poesia si fa testamento esistenziale e sociologico della memoria, degli affetti, fondato su una pietas non cristiana, ma squisitamente umana e universale, perché “adesso che il nespolo d’inverno non si usa più / dobbiamo rappezzarlo noi e ripiantarlo insieme”.
L’impressione che si riceve dalla lettura dei suoi libri è che Cosimo Argentina si serva della scrittura come strumento per “elaborare un lutto”; come mezzo per sublimare il dolore e racchiuderlo nelle pagine; come tramite per trasformare in energia creativa la rabbia che sente implodere in sé; come sistema per commutare i vibranti sentimenti che lo animano in parole scritte.
Parole che necessitano di un’attenta lettura per poter recepire i messaggi in esse sottese. Occorre, infatti, saper leggere tra le righe più che le righe di quelle pagine per ritrovarvi le spinte emozionali che a quei racconti danno vita senza mai essere apertamente palesate, al massimo alluse: l’amore viscerale per la propria città; i legami indissolubili con quel “cumulo di pietre e di cristiani”; lo stupore davanti agli incredibili colori dei tramonti occidentali; l’orgoglio dell’appartenenza ostentato attraverso il ricorso ad un lessico famigliare strutturato su un vernacolo blindato e codici comunicativi fatti di versi della bocca supportati da cenni della testa.
La nostalgia originata dall’assenza di tutto questo e molto altro, il dolore generato dalla forzata lontananza dalla sua città, pari per intensità al patimento di un innamorato respinto, alimentano la scrittura torrenziale di Argentina definendone le cifre stilistiche ma anche i condizionamenti più evidenti.
E’ una narrazione avviluppata a luoghi situazioni e personaggi che hanno segnato la sua crescita; radicata nella cultura della terra d’origine ,alle usanze, alle abitudini, ad un modo confidenziale di relazionarsi tipico delle piccole comunità, dove tutti hanno un soprannome identificativo, dove si tende a consorziarsi in una comune rete di protezione e di sostegno.
E’ una narrazione espressa attraverso un gergo colloquiale e localistico che non facilita Argentina nel trovare editori disposti a riconoscergli i meriti dell’autenticità del sentire,della libertà d’espressione, del rifiuto delle snaturanti rivisitazioni dei consulenti letterari,del sentirsi svincolato dai tempi “dell’umano sistema fognario”.
E’ una narrazione fremente di passione che, con la portata di un fiume in piena, rompe gli argini imposti da precise indicazioni editoriali e travolge il lettore anche con la sgradevolezza di alcuni dettagli ma con la leggerezza dell’ironia quale sublimato dell’ira; con uno stile vivace in cui il sorriso amaro ha il sopravvento sullo sdegno per le ingiustizie sociali e sulle avversità della sorte in cui si dibatte una popolazione che ci rimanda al “ciclo dei vinti”.
In Vicolo dell’Acciaio Mino Palata racconta l’evolversi di una generazione del quartiere nel quale Cosimo Argentina è realmente cresciuto. La scenografia è resa dai profumi, suoni, rumori di quelle strade; dalle voci della tribù tarantina, dai rituali tipici del familismo meridionale. E’ il quartiere della mitica e mitizzata Via Calabria dove il 90% delle famiglie ha il capo che “se la spassa nel siderurgico”, beve caffè Ninfole, tracanna birra Raffo.
Quella dei capifamiglia è una carovana di antieroi che avanza su colline di carbon fossile e polveri ferruginose con genetica rassegnazione; con la consapevolezza che nel caravanserraglio dell’acciaio si baratta la vita per la sopravvivenza; che a nessuna caduta seguirà un pronto riscatto; che una naturale selezione della specie permetterà solo ai più forti di concludere il ciclo lavorativo nei gironi infernali dell’industria siderurgica, esentandoli da malattie invalidanti, rare forme tumorali, mutilazioni nel corpo e nell’anima. Una ingenerosa predestinazione sembra condannare i maschi del vicolo al ruolo di vittime sacrificali secondo un copione che si ripete per generazioni con scontata prevedibilità e passiva accettazione.
Inutili le manifestazioni di protesta contro gli sbuffi venefici del mostro d’acciaio; c’è il rischio di rimanere vittime dei raggiri delle associazioni degli “ambientalisti del giovedì”, personaggi incompetenti desiderosi solo di strumentalizzare il dolore della gente per acquisire un potere contrattuale.
Alle famiglie colpite resta il conforto del “consolo”, un rituale di solidarietà dell’indotto umano che comunque si sforza di migliorare l’avvenire dei propri figli attraverso gli studi universitari, guardando alla laurea come documento valido per espatriare dal vicolo e sdoganarsi dal destino di “gechi” attaccati al muro del bar di Mest’Arturo.
Gli studi di Mino però sembrano arenarsi al capitolo “Prescrizione e Decadenza” di un esame duro da superare quanto le prove che gli riserva il destino: l’impatto con l’amore, il peso dell’assenza, l’addio di Isa; la morte dei primalinea;il sogno proibito della dea condominiale, un nastro di Mobius da “percorrere” all’infinito; l’incomunicabilità col “generale dagli occhi lisergici” suo padre, ingombrante e assoluto,ma per lui un mito vivente;la compassione per la madre, una santa donna che “si riprende sempre”, con la bussola sempre in mano a segnalare il nord magnetico in una casa dove domina l’anarchia.
Il racconto è alleggerito da riferimenti a reali fatti di attualità e a citazioni che rimandano alle passioni del nostro scrittore: la musica di James Brown; il calcio dell’Audace Usac; la poesia del Pascoli nel Gelsomino Notturno; Manzoni con le risposte della sciagurata Gertrude-Vincenzina; André Brink, in Un’arida stagione bianca;le donne tarantine, le più belle del sistema solare; i fumetti di Tom Mix.
Ma, leggendo tra le righe ,scopriamo ciò che Cosimo ha voluto comunicare attraverso Mino: la rassegnazione uccide più della diossina. E Cosimo parla della sua rabbia quando Mino fa l’amore con Isa “…non c’è passione , c’è solo un maschio furioso, incalcolabile…con uno straccio di anima nera che lotta contro qualcosa che si arrotola nel buio del suo cervello…un animale ferito che cerca di bucare il manto nel quale è costretto a vivere….le ferite vengono a galla e combatto contro i demoni…Il piacere porta alla luce il terrore a cui è vincolato”. E’ la rabbia del lutto non elaborato; di chi non si arrende davanti allo spettacolo della sua città violata, della decadenza che distrugge quotidianamente strutture e speranze; di chi si aspetta delle reazioni forti da parte di chi invece ha scelto di lasciarsi vivere o morire; di quello a cui la laurea ha meritato l’esilio,ma che anche da lontano urla la sua rabbia attraverso i suoi libri o la rubrica sul nostro quotidiano locale, manifestando un amore che se fosse nell’animo di tutti i tarantini basterebbe a contrastare le mire dei colonizzatori e la rassegnazione di una classe politica che cambia colore ma non l’arrendevolezza di fronte al ricatto occupazionale. E’ Cosimo quando Mino fa l’amore , e noi l’amiamo perché è così.
tra i prossimi interventi che verranno pubblicati su Musicaos.it: due interventi critici di Luisa Ruggio, un racconto inedito di Evelyn De Simone, un intervento critico di Vito Russo
Ci sono intese che non si possono spiegare, si possono solo raccontare.
Conobbi Tabù una sera d’inverno. Ricordo ancora la sensazione del freddo pungente oltrepassare la lana del mio cappotto e insinuarsi prepotentemente tra le mie membra. Avevo camminato per ore senza una meta precisa, spinta dall’unico, essenziale bisogno di perdermi tra le vie del centro storico, lontana dal caotico vociferare della gente che assale i negozi e da clacson assordanti di macchine puntualmente in coda. Ad avvolgermi solo il silenzio e la luce diafana di lampioni senza tempo, spettatori attenti e disinvolti di mille storie, mille volti, che affondano le loro menti tra quegli anfratti secolari. Ero stanca, smarrita, lacerata da ricordi che non lasciavano più spazio a fragili malinconie, ma solo a un vuoto lacerante che presiedeva a buona parte della mia anima e a interi momenti delle mie giornate. Il mio umore oscillava tra desiderio di rivalsa e pura catatonia. Difficile dire quanto mi ci sarebbe voluto per riemergere, chi o cosa, avrebbero provocato il mio risveglio frantumando il muro di cristallo che avevo attentamente costruito tra me e il mondo esterno. Diveniva forte l’urgenza di comunicare quella tempesta emotiva che mi accompagnava da un tempo indefinito.
Assorta, mi addentrai in una viuzza stretta e umidiccia, intrisa di profumi un po’ acri e speziati di cucina d’oltremare. La mia attenzione fu catturata da un portone spalancato che lasciava intravedere l’androne di un antico palazzo e il suo cortile di verdi piante che disegnavano un semicerchio color bosco intenso. Alla destra del portone, in alto, su una piccola targhetta sbiadita poteva ancora leggersi “Centro Accoglienza Immigrati”. Oltrepassai speditamente il portone, ma la mia risolutezza fu presto arrestata dalla figura di un giovane uomo, alto, che mi bloccò all’ingresso spiegandomi che l’orario di apertura del Centro era già stato superato da un pezzo e, che per ricevere informazioni sarei dovuta ritornare il pomeriggio seguente e chiedere di Tabù. Tabù… che strano nome – pensai – è la marca di una liquirizia!
L’indomani ero lì, stesso percorso del giorno precedente, ma con l’accesa curiosità di dare un volto a quel nome così insolito. Entrai in una stanza modestamente arredata: una scrivania con su un vecchio computer che ricordava i primi Commodore 64, schermo grande e mobiletto laterale, un piccolo armadietto contente probabilmente la documentazione degli utenti del Centro e un’enorme finestra che lasciava intravedere la strada esterna in tutto il suo ovattato silenzio.
Mi accolse una donna giovane, occhi profondi nero petrolio e pelle scura che risaltava dalle vesti colorate. Parlava un italiano fluente accarezzato da un morbido accento francese: era Tabù. Aveva un fare garbato, quasi familiare, come se quello non fosse stato il nostro primo incontro, ma uno dei tanti, innumerevoli, già condivisi. Scrutava in fondo ai miei occhi, senza diffidenza, forse in cerca di complicità. Tabù mi descrisse il ruolo di mediatrice culturale che svolgeva per il Centro, spiegandomi del suo impegno verso coloro che oltrepassando l’Oceano, lungo il Mediterraneo, giungevano in Salento con l’unica certezza di cercare un’occasione in più di giustizia e libertà. Negli occhi di Tabù una luce inconfondibile mescolava speranza, a voglia di cambiamento e desiderio di ribellione. Era giunta in Italia dalla Somalia all’età di 18 anni, circa. La scelta di abbandonare il suo Paese d’origine era stata dettata dal bisogno di distruggere i vincoli con una società in cui non s’era mai riconosciuta, che rischiava di annullare per sempre il suo essere donna in difesa di modus vivendi anacronistici, ostinatamente tramandati di generazione, in generazione. Tabù aveva detto no ad un’educazione rigida e spersonalizzante, in cui l’unico ruolo della donna era costituito da un atteggiamento di assoluta abnegazione verso il proprio marito, la casa, i figli e dall’accettazione incondizionata e acritica delle leggi dettate dalla religione che finivano per trasformarsi in vere e proprie abitudini culturali. Tutte queste consuetudini rientravano in uno schema ben più profondo e complesso secondo cui le scelte degli individui non contano, in particolare se si tratta di donne.
Tabù aveva però, sogni troppo grandi e una mente troppo aperta e desiderosa di trasformarsi per accettare la battuta d’arresto che si voleva porre alla sua anima. L’integrazione in Italia e a Lecce, non era stato un processo semplice per lei. Aveva dovuto combattere la diffidenza di quanti continuavano a considerarla solo una profuga, un’intrusa, in una città gravemente segnata dal fenomeno della crisi occupazionale. Per l’ennesima volta, di lei si oscurava il suo essere individuo, la sua identità, lasciando avanzare pericolose stigmatizzazioni. Il peso profondo di tale percorso si scorgeva nel suo narrarsi, nel rapido movimento degli occhi che scivolavano verso il basso e negli accenti forti che vibravano a tempi alterni nella sua voce.
Decidemmo che avremmo iniziato subito a collaborare in vista di un evento che si sarebbe svolto di lì a poco e che coinvolgeva le donne immigrate presenti nella nostra città. Si trattava di una conferenza organizzata dal Centro, il cui tema emblematico rappresentava la principale battaglia di numerose donne straniere: “La donna nella società musulmana: ruoli, difficoltà, possibili trasformazioni”.
Ero entusiasta. L’immobilità della mia vita veniva spezzata da un fatto quanto mai inaspettato. Tabù non si limitava ad una semplice richiesta di cooperazione nella quale la mia professionalità di psicologa sarebbe stata inevitabilmente chiamata in causa; c’era molto di più : desiderava rapportasi con la parte più profonda di me, farmi addentrare pian piano, nella sua realtà per poi oltrepassare io stessa la mia anche a rischio di sperimentarne una nuova più cruda, ma altrettanto vera. Entrambe stavamo gettando le basi per un autentico processo di trasformazione che ci avrebbe condotte oltre noi stesse, oltre tutto ciò che fino a quel momento avevamo vissuto, oltre ciò che eravamo sempre state.
Campo profughi Daadab, uno tra i più grandi del mondo, abitato da circa 270.000 profughi somali. Situato a 500 km a nord di Nairobi e 80 dal confine con la Somalia, il campo è stato creato nel 1991. I profughi vivono qui, quindi, da oltre 20 anni e la maggior parte di loro ci è nata. Le condizioni di vita sono difficilissime e pessime quelle climatiche.
I giorni seguenti li trascorsi a ricercare del materiale che mi consentisse uno studio più consapevole della condizione femminile in Africa. Le ricerche lasciavano emergere imparità e violazione dei diritti umani, portando alla luce una condizione mortificante in cui la donna è oggetto di piani precostituiti a cui non è concesso opporsi, pena il disconoscimento totale da parte della società.
Mi resi conto che affrontare la questione con Tabù e con le altre donne presenti alla conferenza non sarebbe stato semplice. Non volevo essere fraintesa. Volevo essere incisiva, spronare al cambiamento, senza dimenticare il rispetto per una cultura “altra”.
Invece tutto accadde nel modo più naturale possibile. Ci ritrovammo nuovamente sole in quella piccola stanza, io e lei: Tabù con un mare di esperienze vissute sulla sua pelle, troppo giovane, in fondo, per essere già così adulta; ed io con tutto il mio universo emotivo in perenne moto, stringendo forte tra le mani articoli di giornale attentamente selezionati, quasi temessi di perderne il controllo. Quei resoconti erano vivi quanto noi stesse, squarciavano tenacemente la carta per liberare infinte voci che urlavano la loro solitudine, denunciavano violenze fisiche e psicologiche quotidiane rompendo un silenzio fatto di lacerazioni permanenti e perdita di sé.
Iniziai a leggere quelle testimonianze con la voce un po’ tremula. Ero visibilmente tesa, profondamente toccata da ogni parola. Non avevo ancora ben chiaro quali argomenti avremmo potuto affrontare durante la conferenza o se c’erano aspetti legati alla religione che avrebbero messo Tabù in seria difficoltà. Lei fissò intensamente i miei occhi, poi sorrise con quel mare calmo di dolcezza che la caratterizzava. Stai tranquilla, – disse – vorrei trasmettere una speranza di cambiamento combattendo per quanto possibile ogni forma di torpore e resistenza. Tutti abbiamo diritto a qualcosa in più della semplice accettazione della nostra esistenza, non credi? –. Come darle torto? Era stata sempre la mia lotta più precoce, una battaglia che negli ultimi tempi rischiava di consumarmi senza ritorno. Stavo per cedere, sarei potuta scoppiare in un pianto inarrestabile: autocontrollo zero.
Tabù prese ancora la situazione tra le mani, quasi volesse liberarmi dall’impasse che stava per immobilizzarmi. Mi parlò di sé, ma in modo più profondo. Sentivo che stava per regalarmi qualcosa di valore inestimabile, di non tangibile se non tra le corde della propria anima, in quella sfera recondita del sé che abbraccia il comune bisogno di tutti gli uomini di “sentirsi parte” di qualcosa e che tanto mi era mancato negli ultimi anni! Avvertì un immediato senso di condivisione che alleviava la morsa della mia angoscia: non ero più sola, inspiegabilmente alleata di una donna la cui vita difficile richiamava la mia nel suo percorso di ribellione, non accettazione, urgenza di rielaborare e ridefinire prospettive risolutrici.
Mi raccontò dell’infanzia che le era stata negata, dell’istruzione che non le era stata concessa; della fuga dalla sua famiglia e del viaggio in Italia tra incertezze e sogni; della tanto attesa rinascita resa possibile dall’incontro con il marito senegalese, Lai, già da anni integrato nel nostro Paese e attivamente impegnato nel lavoro del Centro con i Servizi Sociali. Un uomo unico che l’aveva fin da subito rispettata, autenticamente amata, facendole scoprire una vita degna d’essere chiamate tale. Eravamo ormai giunte ad un punto di contatto tale da far cadere ogni difesa e prima ancora d’accorgermene, stavolta ero io a raccontarle di me senza freni di sorta: mi stavo narrando, mi stavo svelando in quanto avevo fino ad allora vissuto, sperato, cercato.
Parlai a Tabù del mio incessante desiderio di interagire con una cultura diversa da quella in cui ero cresciuta, per decentrarmi dal mio universo che avvertivo ormai sempre più limitato. Avevo voglia di addentrarmi in ciò che non conoscevo abbastanza e al tempo stesso di offrire un po’ di me, del mio mondo, a quanti avessero cercato di scoprirlo avventurandosi in esso. Era l’unico modo per rialzarmi anch’io ad un’ esistenza nuova, intrisa di stimoli ben più profondi, in grado di dissolvere i vecchi fantasmi che si agitavano costantemente all’ombra delle mie notti bianche.
Tabù mi strinse forte le mani: avevamo un mondo da condividere e scambiarci! I nostri occhi, di colpo, si attraversarono come due pianeti in viaggio da milioni di anni con l’unico intento di incontrarsi e fondersi in un elemento solo.
Decidemmo che gli argomenti da trattare avrebbero toccato temi come la sessualità femminile nelle società musulmane; il problema del controllo della verginità; la difficoltà del farsi strada di un’istruzione per le donne con le relative implicazioni che ne conseguivano; il ruolo della donna nella complessa relazione del matrimonio. Entrambe eravamo d’accordo a dedicare una parte della conferenza alle testimonianze dirette di donne africane che avevano deciso di raccontarsi, confrontarsi e riscoprirsi: riscoprirsi esseri nuovi con pari diritti, opportunità e dignità.
Il giorno della conferenza fu indimenticabile. La discussione fu viva e partecipata da parte di ogni presente. Donne di città differenti si ritrovarono riunite ad affrontare problemi della realtà quotidiana di ognuna, vissuti su pelli ora stanche, ora deluse, ora speranzose, ora accese dalla necessità di conquistare più spazio e voce in una società che per tanto tempo le aveva relegate al ruolo di spettatrici passive di una vita che scorreva troppo velocemente per poterla fermare. Ancora più forte era la necessità di far emergere il rispetto della propria libertà in tutte le infinite sfaccettature che il termine racchiude, prima fra tutte, quella di lasciar correre l’ immaginazione alla ricerca di un miglioramento della propria esistenza.
Molte si preoccupavano di ridefinire il concetto di “rispetto” nei confronti di religioni e culture non occidentali: il rispetto – affermò una di loro – non può coincidere con un atteggiamento semplicistico di eccessiva conciliazione, ma deve tradursi nel riconoscimento e valorizzazione dell’identità di ognuno in funzione di una crescita su più livelli, il cui evolversi non potrà mai arrestarsi.
Ascoltavo con interesse interiorizzando il più possibile quanto si stava discutendo come spugna assorbente, lasciando ampio sfogo a quella tempesta di emozioni, riflessioni, domande provocatorie che si agitavano nella mia mente in modo così rapido. Le ovvietà della mia vita quotidiana mi davano un senso di sconfinata miseria rispetto a ciò che ognuna di loro aveva dovuto conquistare, difendere, per il solo fatto d’essere nata in un luogo geograficamente diverso dal mio. Le sentivo tutte vicine per i loro desideri, la motivazione, i sogni, le delusioni subìte. Ero parte di loro e di quella forza di dire “no”, di afferrare il presente e ridisegnare un futuro dalle pennellate più calde, più colorate, accese e rasserenanti.
Potevamo farcela tutte: ognuna con il nostro percorso da seguire, con la voglia ardente di impegnare noi stesse in qualcosa che lasciasse scorgere in quella faticosa salita, una più dolce e soleggiata discesa. Identità da ridefinire coraggiosamente e limiti da oltrepassare in virtù di nuovi spazi da riempire con noi stesse nel modo che più ci rispecchiava.
Un momento particolarmente lieto fu il buffet di dolci con tutti gli intensi profumi caratteristici della cucina etnica: dall’estrema delicatezza dei dolcetti al cocco, alla morbidezza dei koeksisters; dalla semplicità dei budini di riso, ai mille colori del couscous; tutto accompagnato dall’aroma amarognolo tipico del the verde. La mia mente corse rapida all’Africa, sforzandosi di immaginare la preparazione di ciò che il mio palato si apprestava ad assaporare, alla ricerca di odori, sapori, istantanee di paesaggi da catturare e tradizioni antiche quanto il mondo da scoprire, da sempre intrecciate alla luce di suoni neri frutto di percussioni dai ritmi serrati e incalzanti.
A quell’incontro ne sarebbero seguiti altri: una sera a settimana da dedicare alla narrazione di ciò che stavamo vivendo e all’analisi delle difficoltà che quotidianamente provavamo a gestire con gli strumenti di cui disponevamo, primo fra tutte, una maggiore fiducia in ciò che siamo e che vorremmo essere.
Per comprendere la complessità della realtà che ci circonda occorre necessariamente ampliare il nostro sguardo; ciò richiede continui aggiustamenti del nostro raggio d’azione, ma ci regala l’occasione di sperimentarci individui nuovi, dotati di un’umanità innegabilmente più profonda.
Io e Tabù, due oceani sconfinati in perenne moto: ora tumultuoso e ora quieto, in virtù dell’arrivo di venti d’oltreoceano portatori di significati sconosciuti, che attendono solo d’emergere in tutta la loro essenza più autentica attraverso lo scambio profumato dei nostri animi caldi.
Di me e Tabù: due donne, due vite, un’unica storia… la continua ricerca di se stesse.
§
Moira Fusco ha 34 anni, è insegnante di Psicologia. Ha studiato Scienze dell’educazione a Lecce, frequentando un master in Progettazione pedagogica nell’ambito della giustizia a Milano e si è abilitata in Psicologia presso l’Università di Ferrara. Negli ultimi anni ha viaggiato molto e in tutto il mondo, nello scorso Ottobre, grazie a una borsa di studio della Comunità Europea ha insegnato italiano e psicologia in Portogallo, nel paesino di San Teotonio.
doppio appuntamento al Teatro Paisiello per Teatri Abitati
lunedì 10 gennaio, h. 19, ingresso gratuito
presentazione del video
POESIA DAL SUD DEL MONDO
IL SALENTO DEL XX SECOLO
di Astràgali Teatro – Eufonia Multimedia
regia Fabio Tolledi
martedì 11 gennaio, h. 21, ingresso 5 €
NOVECENTO
di Alessandro Baricco
di e con Raffaele Braia
Skenè produzioni teatrali – Gravina
PER GLI STUDENTI
RIDUZIONE DEL 50% SUL PREZZO DEL BIGLIETTO DA RITIRARE PRESSO GLI UFFICI ADISU
Le attività di Astràgali Teatro al Teatro Paisiello rientrano in TEATRI ABITATI – UNA RETE DEL CONTEMPORANEO Regione Puglia – Teatro Pubblico Pugliese – FESRinfo e prevendita: 0832-306194 320-9168440
Vogliamo richiamare la vostra attenzione sulla nascita della nuova associazione Osons Savoir, il cui obiettivo è realizzare un web-documentario per sensibilizzare una larga parte di pubblico sulle problematiche relative al complesso fenomeno migratorio.
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Esternalizzazione delle politiche migratorie, diritto d’asilo, aiuto condizionato allo sviluppo, slittamento tra verità e realtà nei discorsi mediatici, indifferrenza e paura degli altri, questi sono alcuni dei campi che ci proponiamo di indagare.
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Incrociando diverse competenze, differenti supporti multimediali, diversi modi di vedere, differenti esperienze di vita, vogliamo comprendere le storie di questi uomini e parlarne, per poter sensibilizzare un vasto pubblico alla causa dei diritti umani. Interviste, fotografie interattive, video, suoni, scritti e collegamenti esterni saranno le componenti principali del docuweb.
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Luciano Pagano
La ‘performance’, nel catalogo di espressioni possibili di cui dispone l’artista contemporaneo, è forse il terreno più difficile e delicato, ma senza dubbio quello che regala più soddisfazioni quando si riesce a cogliere nel segno. Cosa intendo? Tanto per cominciare la performance si configura fin da subito come esperienza di ‘arte totale’. La performance è infatti un gesto d’arte che va letto criticamente sia dal punto di vista dell’artista che dello spettatore. Esistono performance in cui ogni aspetto viene curato in modo maniacale e performance che lasciano molto margine nella loro realizzazione al caso, all’improvvisazione, all’intervento materiale degli spettatori presenti. Massimiliano Manieri, non nuovo a questo tipo di esperienze, ha scelto la prima strada, quella cioè di realizzare nello spettatore una performance di arte concettuale che oltre a comunicare un idea estetica si fa portatrice di un messaggio culturale. Massimiliano Manieri ha trovato nella performance l’espressione artistica che modifica il mondo in tutte le sue forme, ampliando la percezione del reale, un modo di fare arte che è vigile, critico, utile. La cosa che più apprezzo delle sue performance è il non voler ammiccare ad altre forme di scena come il teatro o il reading ma di essere sempre e solo performance, ovvero sia realizzazione eventuale di una metafora/messaggio “del mondo” che è “nel mondo”.
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Fotografie di Dario Manco, Eva De Guz
“È la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani… A ogni piano, mentre cade, l’uomo non smette di ripetere: “Fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene”. Questo per dire che l’importante non è la caduta ma l’atterraggio.” [da “L’odio” di Mathieu Kassovitz]
Questo intervento inaugura una breve serie di appunti e note, dedicate ognuno a una performance del percorso artistico di Massimiliano Manieri. Iniziamo con “Plink (…l’uomo caduto in cattive acque)”, del quale potete apprezzare qui sopra uno slideshow essenziale. Agosto 2008, comune di Sannicola (LE), un uomo caduto dal cielo viene trafitto da una lancia conficcata nel terreno e con la punta verso il cielo. L’uomo giace trafitto per diverso tempo, sanguinante, morto. I riferimenti sono molteplici, quello filmico più diretto e non del tutto inquietante è forse l’incipit di Magnolia, quello dove il sub viene catturato da un canader e scaraventato su una foresta infuocata insieme a tutta l’acqua che viene utilizzata per spegnere un incendio. Il modo migliore di accostarsi alla performance PLINK di Massimiliano Manieri è quello di immaginare una fusione ideale tra altri due marziani/alieni/umanoidi caduti sulla terra, David Bowie e Ennio Flaiano, autore di quel “Marziano a Roma” che approfittava del marziano per mettere in luce i difetti dell’umano. Chi è e perché è caduto sulla terra? È venuto per farsi uccidere all’istante? Il pensiero è naturale, venire al mondo per farsi trafiggere all’istante, cadere da una realtà ovattata e celeste quale può essere quella dei nove mesi in cui siamo nel ventre materno, vestiti da sub, coccolati, per poi essere proiettati nel mondo ancora con la muta (elemento che ritornerà nelle performance di Manieri) e trafitti. Il testo di “PLINK” che potete leggere qui sotto tenta forse il percorso a ritroso della goccia d’acqua che cade dal cielo, quasi a confermare la natura ex-amniotica di questo viaggio. C’è un percorso verbale che circonda il tappeto nero, black hole sul quale è caduto Plink. C’è lo scorno per non essere lì, in quel momento, per vedere con i nonstri occhi l’attimo della caduta sulla terra. Lo avremmo salvato?
Dato che la performance è un luogo attuale di avvenimenti, è possibile ripercorrere l’evento artistico a posteriori soltanto con le tracce dell’evento. Nella fattispecie di “Plink” disponiamo di un video che riassume la performance nel PRIMA e di alcune foto che realizzano nel DOPO la visione di ciò che è accaduto. Il video realizzato da Masismiliano Manieri è a sua volta, per la cura nella realizzazione, una piccola opera d’arte.
PLINK
Cronaca di Plink, malgrado…
Nel giorno che scelse per gocciolare via
nell’ultimo mondo scelto per la sua rovina
Tradito dall’ultima goccia raccolta,
Mentendo sulla mano inumidita,
Insalivando pietre per negare il maltolto
Parleremmo volentieri di lui, qui…
Se solo non si fosse fatto sorprendere
dalla coincidenza dell’acqua colata alludendo…
Sbrodolava liquido masticando asciuttezze,
mentre costui si lascia trafiggere ligneo.
Come un corpo segnalibro si abbandona
Così il pelo dell’acqua può specchiarlo…
E digrigna la sabbia che non sa di contenere
Mentre il sole ingialliva il liquido restato,
ed il freddo invadeva il ventre pallido trafitto…
l’aria stessa poteva tornare a star zitta…
PLINK (…L’UOMO CADUTO IN CATTIVE ACQUE)
Un telo nero occupava uno spazio permesso
Una filastrocca macabra ne raccontava le incongruenze
E, nel centro, lui, l’autore del ladrocinio più stupido
E l’acqua, l’elemento più libero, ridotto in “scipperia” da quartiere
Togliere al mondo circostante si tradusse nel togliere a noi stessi
In una lancia che partiva dal suolo e lo attraversava
la restituzione di un peso malmesso più che del maltolto
nell’acqua che cola tutte le nostre equazioni errate
nella pistola stretta tra le mani il gioco della guerra
dell’unica guerra che non fummo in grado di vincere
Nella morte che sopraggiunse la quadratura superandoci
La rivincita dell’acqua ci colse alla sprovvista, infine
Ed il ladro, fece la fine del tordo…
§ LINK §
LUOGHI DELLA PERFORMANCE (e link per ricerca in rete dell’evento)
mostra LE MILLE BOLLE BLU: PLINK [installazione performativa] in collaborazione con l’OFFICINA DELLA PAROLA & RAGGIO VERDE (Sannicola, Le – agosto 2008)
Con questo articolo inauguriamo, su Musicaos.it, una serie di approfondimenti dedicati alla performance. Massimiliano Manieri e il suo ‘mondo’ inaugura questa serie, i primi interventi saranno dedicati alle sue performance realizzate negli ultimi due anni, fino a oggi. Buona visione.
Il 10 febbraio 2011 sarà finalmente in libreria “Vizio di forma” di Thomas Pynchon, ambientato tra il 1969 e il 1970 si tratta di un romanzo atipico per chi è abituato agli ‘affreschi’ pynchoniani (vedi Arcobaleno della gravità o Contro il giorno). Un romanzo godibile, un poliziesco, in America è piaciuto molto di più al grande pubblico e ai giornalisti piuttosto che ai critici bacchettoni. Non vedo l’ora di leggerlo. Quella che sentite nel video è la voce fuori campo di Thomas Pynchon. Mentre l’immagine è la copertina dell’edizione americana, che potete acquistare in originale cliccando sul link.
Posizione nella classifica Bestseller di Amazon: n. 8.092
California, inizio anni Settanta. Doc Sportello, investigatore privato con una passione smodata per le droghe e il surf, viene contattato da una vecchia fiamma, Shasta, che gli rivela l’esistenza di un complotto per rapire il suo nuovo amante, un costruttore miliardario. L’investigatore non fa neanche in tempo ad avviare le sue indagini che si ritrova arrestato per l’omicidio di una delle guardie del corpo del costruttore, il quale è intanto sparito, come pure Shasta. Sembrano le premesse del più classico dei noir, ma ben presto le coincidenze più strane si accumulano e il mistero si allarga a macchia di leopardo. Doc inciampa così in collezioni di cravatte con donnine discinte, in falsi biglietti da venti dollari con il ritratto di Richard Nixon, in un’associazione di dentisti assassini nota come Zanna d’Oro, che è però anche il nome di un sedicente cartello indocinese dedito al traffico di eroina. Come sempre nei romanzi di Pynchon, l’indagine genera misteri anziché risolverli, e ben presto ci troviamo in un mondo a parte, uguale ma anche diversissimo rispetto a quello che scorre sulla superficie delle nostre vite.
Grazie ai lettori, ai collaboratori, e a tutti quelli che chi hanno aiutato e che ci continuano a sostenere.
“Musicaos.it – uno sguardo su poesia e letteratura” è una rivista online di letteratura, che è un portale, che è un sito. All’indirizzo di Musicaos.it potete trovare le istruzioni per collaborare. All’indirizzo musicaos.wordpress.com, questo sito, trovate le coordinate e i link per navigare nell’archivio della rivista, dal 2004 in poi. A questo indirizzo trovate tutto il materiale che viene pubblicato, i racconti, le recensioni, gli articoli, i suggerimenti di lettura.
“Anche quando i costi della rete saranno abbattuti, anche quando l’elettricità necessaria per accendere i computer, ai server e collegarsi ad internet sarà fornita da fonti energetiche rinnovabili e disponibili il libro non potrà essere rimpiazzato dall’e-book. Ci sarà sempre un servizio il cui accesso prevede un pagamento. Guattari in anticipo sulla diffusione della rete pensò un futuro ricco di password che aprono e password che chiudono, rubriche digitali dense di pin e numeri di accesso. Il tempo della lettura ed il tempo della scrittura, il tempo dell’ascolto e il tempo della ricezione. Il tempo è la misura dentro cui si iscrive la ricezione di un testo. Immettere contenuti, sia su internet che nell’editoria, in modo sempre più facile e veloce, dovrebbe responsabilizzare maggiormente chi questi contenuti gestisce. Le pagine su internet e le pagine di carta stampata sono miliardi. Come trovare la qualità? La qualità di una scelta, di una selezione, di un filtro, con l’avvento di internet hanno raggiunto lo stesso grado di importanza della qualità del testo stesso. E torniamo al punto di partenza. Le differenze tra internet e libro sono puramente tecniche. In sostanza i due mezzi seguono gli stessi percorsi di funzionamento. Sui manuali di html-design è consigliato di dare molta importanza ai contenuti nello sviluppo dei propri siti. Un sito può essere strabiliante dal punto di vista grafico della presentazione, tuttavia il motivo che ci fa tornare a visitare quel sito è il fatto che lì troviamo quel che ci serve. Lo stesso accade nei libri. Il libro dovrebbe essere l’oggetto par excellence orientato ai contenuti.”
Luciano Pagano, Webook, 9 gennaio 2004/3 febbraio 2004
Se volete comunicare direttamente con la redazione inviate un email a lucianopagano [at] gmail [punto] com
se non ti esplode dentro
a dispetto di tutto,
non farlo.
a meno che non ti venga dritto dal
cuore e dalla mente e dalla bocca
e dalle viscere,
non farlo.
se devi startene seduto per ore
a fissare lo schermo del computer
o curvo sulla
macchina da scrivere
alla ricerca delle parole,
non farlo.
se lo fai per soldi o per
fama,
non farlo.
se lo fai perché vuoi
delle donne nel letto,
non farlo.
se devi startene lì a
scrivere e riscrivere,
non farlo.
se è già una fatica il solo pensiero di farlo,
non farlo.
se stai cercando di scrivere come qualcun
altro,
lascia perdere.
se devi aspettare che ti esca come un
ruggito,
allora aspetta pazientemente.
se non ti esce mai come un ruggito,
fai qualcos’altro.
se prima devi leggerlo a tua moglie
o alla tua ragazza o al tuo ragazzo
o ai tuoi genitori o comunque a qualcuno,
non sei pronto.
non essere come tanti scrittori,
non essere come tutte quelle migliaia di
persone che si definiscono scrittori,
non essere monotono e noioso e
pretenzioso, non farti consumare dall’auto-
compiacimento.
le biblioteche del mondo hanno sbadigliato
fino ad addormentarsi
per tipi come te.
non aggiungerti a loro.
non farlo.
a meno che non ti esca
dall’anima come un razzo,
a meno che lo star fermo
non ti porti alla follia o
al suicidio o all’omicidio,
non farlo.
a meno che il sole dentro di te stia
bruciandoti le viscere,
non farlo.
quando sarà veramente il momento,
e se sei predestinato,
si farà da
sé e continuerà
finché tu morirai o morirà in
te.
non c’è altro modo.
e non c’è mai stato.
Charles Bukowski, E così vorresti fare lo scrittore? Guanda, 2009, €9,00 traduzione di Simona Viciani poesie tratte dal volume Sifting through the Madness for the Word, the Line, the Way