
“partono tutti incendiari e fieri
ma quando arrivano sono tutti pompieri”

“partono tutti incendiari e fieri
ma quando arrivano sono tutti pompieri”
12 Gennaio 2008, 21:00
beckett suite
anteprima nazionale al teatro illiria di poggiardo
poggiardo (le)
teatro illiria
“Sono solo. Nel presente ancora come ero. È inverno. Senza itinerario. Il tempo passa”.
Queste sono le parole finali di “Cosa, Dove” (1983) ultima opera scritta dal grande drammaturgo irlandese Samuel Beckett.
“Cosa,Dove” è anche uno dei sei dramaticules che Fabio Tolledi, regista e direttore artistico di Astràgali Teatro, ha scelto per “Beckett Suite”, l’ultimo spettacolo internazionale di Astràgali che verrà presentato in anteprima nazionale il 12 Gennaio prossimo al Teatro Illiria di Poggiardo.
Astràgali Teatro torna a parlarci al cuore con Beckett. Lo spettacolo ” Beckett Suite”, infatti, per la regia di Fabio Tolledi e musiche originali di Mauro Tre, si terrà il 12 Gennaio a Poggiardo.
L’innovatività di Beckett Suite consiste anzitutto nella scelta del multilinguismo, dal momento che i testi dello spettacolo saranno in italiano e in albanese.
E’ inoltre inusitata la scelta delle opere che sono messe in scena, da parte del regista Fabio Tolledi, per “Beckett Suite”: “dramaticules” meno noti come “Quella volta”,”Improvviso dell’Ohio”,”Non Io”,”Passi”,”Cosa, Dove”,”Quad”.
Nello spettacolo si passerà dalle atmosfere sospese di Quella volta a quelle rarefatte e inquisitorie di “Improvviso dell’Ohio”, dal fiume di parole di “Non io” al dialogo straziane a più voci di “Passi” , dall’ironia pungente e divertita di “Cosa, Dove” al finale di “Quad”., scandito dalla musica e dal silenzio.
L’anteprima assoluta di “Beckett Suite” al Teatro Illiria di Poggiardo, il 12 di Gennaio 2008 per la regia di Fabio Tolledi, sarà essenzialmente un lavoro sulla voce che si piega al suono e sul corpo che diviene esperienza audio-visiva, un transito sul silenzio e sulla fisicità del sentire.
Info 0832 306194, 320-9168440
Enrico Pietrangeli
su “Cannabis, come perdere la testa e a volte la vita” di Claudio Risé

Quello di Risé è, sicuramente, un libro di cui si è già parlato, tanto da generare subito toni allarmistici in un paese così permeabile come il nostro. La copertina, possibile evocazione del martirio nel chiodo che trafigge la foglia sul legno, è, forse, l’unico spiraglio di compassione per una pianta che, nel corso dei millenni, è stata tramandata come una sorta di “maiale vegetale” per il suo complessivo utilizzo da parte dell’uomo. Non solo droga, se di questo si tratta, ma anche ottime fibre, risorse bio-energetiche a basso costo e applicazioni terapeutiche, nonché importanti risvolti agro-alimentari. Argomenti che Risé, consapevolmente o meno, si guarda bene dall’affrontare. Che la marijuana non sia un semplice ricostituente da prendere indiscriminatamente e senza conseguenze, dovrebbe, a mio parere, essere già una nozione comune a tutti. Se così non fosse allora anche questo libro, nonostante tutto, potrebbe avere un senso, tanto più se rivolto ai giovani. Metterli in guardia, comunque, è sempre un lodevole intento e non andrebbe vanificato dietro un fazioso integralismo proibizionista. Nobile e sacrosanto occuparsi degli adolescenti e tutelarli al meglio, ma perché addossare ogni colpa alla canapa? Perché basarsi su ricerche che, di fatto, risultano controvertibili ed inefficaci? Molti adolescenti, infatti, fanno un uso promiscuo dei più svariati intrugli chimici insieme allo spinello a causa di una politica ancora non in grado di compiere un adeguato distinguo. Altrettanto non marginale, anzi associato, è lo strisciante fenomeno dell’alcolismo giovanile, come Risé stesso non può fare a meno di rilevare. L’equilibrio psico-fisico dei nostri ragazzi è minato a partire da additivi ed inquinamento piuttosto che dal solo uso pregresso di spinelli. Semmai il consumo di cannabis si sovrappone a comportamenti già connaturati nelle psicosi della nostra società. “Disturbi della personalità e dell’umore” sono rilevabili in qualsiasi uso continuativo di sostanze, inclusi farmaci, alcol, tabacco e caffeina, ma anche in condizioni di stress come pure nella carenza di riferimenti. Va da sé poi che alla guida, come durante la gravidanza e, più in generale, negli stadi di crescita, l’uso di sostanze alteranti è non solo altamente sconsigliabile ma anche da interdire in quanto rappresenta un più accertato pericolo per sé e la vita altrui. A partire dalla dichiarazione ONU tanto ostentata nel libro: “nel mondo attuale la cannabis è la droga illecita più prodotta e consumata”, si deduce l’esistenza di droghe lecite; dopo l’esperienza del proibizionismo americano, nessuno pretenderebbe ancora di vietare l’alcol, tanto meno Risé, allora perché lasciare l’erba in mano alla criminalità? Scorrendo la lunga bibliografia riportata a tergo dell’opera, risalta subito il primo testo elencato: Fecondazione, aborto, droga, eutanasia. Trovo comprensibile un non appiattimento su questioni laiche da parte dei cattolici, ma ostinarsi contro la canapa è fuori luogo, tanto più in una religione che prevede l’uso simbolico del vino nell’eucaristia. Anche i cattolici, per lo meno una parte, hanno attraversato il ’68 che, a mio giudizio, non è un’esclusiva di sinistra, e, perché no, sarebbero ben disposti a trattare diversamente l’argomento. Interessanti le note di Marco Pistis, neuro-scienziato che, come riportato nelle pagine del libro, ribadisce che “alcol e cannabis sono due delle droghe più diffuse” e “per molti versi molto simili”. Ma non del tutto, come Risé stesso documenta, noi già possediamo “cannabinoidi endogeni”, mentre la molecola dell’alcol è completamente estranea al nostro corpo. La sezione più avveduta del trattato è, a mio parere, quella più strettamente attinente la “psicologia del maschile” e la “figura paterna”, ma a condizione di depurarla dalla canapafobia caratterizzante l’autore. Qui sono ravvisabili spunti più convincenti e, non a caso, coincidono con le effettive capacità e professionalità dell’autore. L’identificazione della cannabis come strumento di follia e morte, è tipico di culture rigide e moraliste. L’Iran, pur rimanendo, se non un produttore, un importante crocevia internazionale della droga, è arrivato ad eseguire decine di condanne a morte per uso di stupefacenti in un solo giorno. Risulta poco credibile una morte da overdose di spinello, poiché è praticamente impossibile riuscire ad assumere un quantitativo tale da cagionarla; tutt’al più, in quei rari malaugurati casi in cui è maturato qualche fattaccio, la canapa è stata sempre e solo una concausa tra altri fattori determinanti. Verosimile, al contrario, è il coma etilico, spesso sottovalutato, seppure non frequente, ma scientificamente accertato come causa di morte. Sebbene frutto di opinabili statistiche, s’insiste ancora sul concetto che dallo spinello si passi all’eroina, convinzione vecchia oltre quarant’anni e suffragata dal solo nefasto esito proibizionista di lasciare liberi gli spacciatori di manipolare il mercato a loro piacimento. Nelle tematiche di fondo addotte, emerge l’incremento di THC nella canapa sino a toccare punte del 20% rispetto al 3% degli anni Settanta. Una concentrazione del principio attivo tutta a vantaggio degli spacciatori, consente loro, nella diminuzione di massa, d’incorrere in rischi più calcolati incrementandone penetrazione e competitività. Questa è l’evidente conseguenza di “alterne politiche” comunque unidirezionali nel loro intento proibizionistico. Certo è che la droga in mano a talebani e consimili non può che essere alterata a loro piacimento quale ennesima arma da rivolgere contro gli occidentali. Non dimentichiamo, quindi, il terrorismo; i finanziamenti prodotti dalla droga illegale aumentano il rischio dei nostri soldati e le spese per mantenere la pace nel mondo, nonché espongono la nostra sicurezza in prima persona. E Risé riconosce che siamo “assediati dai produttori e commercianti islamici”. I recenti dati rilevati con la Giovanardi-Fini, scampolo di fine legislatura della destra messo sotto la naftalina dalla sinistra, sollecitano l’emergenza. Il proibizionismo sancisce la deriva di un popolo, tanto lo fu un tempo nella trasgressione di tossici distillati clandestini quanto lo è ora nel perseguire una politica che anziché smitizzare ed arginare la droga, di fatto, la favorisce. La questione droga, non dimentichiamolo, va articolata e affrontata su più fronti: regolamentazione, prevenzione e repressione dell’illecito. Se viene meno una di queste componenti, siamo comunque destinati ad un inevitabile fallimento. Impossibile poi non fare i conti con una spesa sanitaria che aumenta e grava su tutti noi. Una sanità costretta a sopravvivere tra la droga illegale è una sanità destinata a spendere sull’imprevedibile e non curare con quanto possibile. La dedica del libro al compianto Muccioli, conduce ad una tradizione che, ai giorni nostri, riporta alla ribalta delle cronache Don Gelmini. Di fatto, purtroppo, continuare ad elargire soldi dei contribuenti a comunità inneggianti all’integralismo proibizionista e che, forse non del tutto a caso, finiscono poi inquisite, non ha portato ad altro che ad estendere il fenomeno e arricchire i trafficanti rendendo il cittadino sempre più povero e in pericolo. E il cittadino comune vuole ordine, non solo una gratuita ed inefficace repressione. Vuole regolamentazione, perché ognuno svolga le sue attività nel luogo più appropriato e nelle modalità predisposte, senza offendere il pudore altrui e, soprattutto, nella legalità e con opportune tasse pagate da tutti, perché è stanco del pusher e della meretrice esentasse! Dopo la lettura di questo libro, non resta che sperare in un dibattito più consapevole. L’augurio è che anche l’antiproibizionismo sia sempre più moderato e meno integralista nell’esigere un altrettanto nociva generica liberalizzazione. Ma la depenalizzazione e la regolamentazione sono vie percorribili, le sole in grado di riportare alla legalità, vista l’entità del fenomeno.
Se riusciremo ad attuarle, tutelando tanto gli interessi sociali quanto il libero arbitrio dell’individuo adulto e consapevole, saremo ancora in grado di tramandare una civiltà e di offrire un futuro.
Claudio Risé, Cannabis. Come perdere la testa, Edizioni San Paolo, 2007
Luciano Pagano
Selvaggio a chi?
su “Carni paesane” di Giovanni Matteo

Nel novembre del 2004 al gennaio del 2006, sulle pagine elettroniche di Musicaos.it, venne pubblicato “Carni paesane” di Giovanni Matteo, una serie di storie disegnate ambientate in Salento negli anni ’80. Perché riproporre il fumetto quest’oggi, a così breve distanza e in un formato differente? Tanto per cominciare perché anche se a soli due anni di distanza e anche se sullo stesso sito, “Carni paesane” è un insieme di storie che vanno lette nel loro insieme, con le duecento tavole in bianco e nero in formato pdf. Giovanni Matteo oltre che a essere pittore e musicista è un artista eclettico che utilizza il suo tratto per raccontare storie. Un altro esempio della sua bravura di sceneggiatore, anche esso scaricabile gratuitamente da Musicaos.it, è “Mignotta“, liberamente ispirato a un soggetto cinematografico scritto da Pier Paolo Pasolini (pubblicato nella raccolta Alì dagli occhi azzurri). Le storie di “Carni Paesane” sono ambientate a Serragliano, comune immaginario della provincia salentina, così simile alle decine e decine di paesini che si affastellano come semi di sesamo sulla crosta di un pane arrugginito. Sono raccontati con realismo e crudeltà i giorni di Pero e Carlo, dove ogni cosa nella vita si rimpicciolisce, così piccola da finire più veloce nello stantuffo di una siringa, piccoli mafiosi, piccoli faccendieri, piccoli politici, piccoli delinquenti. Difficile compiere tentativi di fuga da una realtà simile, dove lo squallore e la desolazione della droga sono niente se paragonati allo squallore circostante. Se proprio un viaggio deve esserci, tanto vale fare il corriere e approfittare dell’occasione. La poesia di Giovanni Matteo e il suo sguardo, tuttavia, sono in ogni luogo, e traducono una storia dove i reietti meritano un posto in paradiso, senza accorgersi di nulla. Il linguaggio è un dialetto basso, mescolato all’italiano, con espressioni che non richiedono difficoltose traduzioni. “Carni Paesane” è una delle tante fotografie che potevano essere scattate da queste parti quando la generazione dei nati negli anni settanta muoveva i primi passi nell’adolescenza. Che dire quindi di un Riccetto che si incontra a braccio con Pompeo? La bravura di Giovanni Matteo sta nell’aver colto quei motivi dell’ambiente del Sud che tanto rischiano di rimanere stereotipi se vissuti passivamente, senza l’energia che può imprimere una narrazione; la parrocchia barocca con le statue infinite, le campagne desolate, i motorini, i video poker, la nonna che prepara la crostata super-calorica, i collassi chimici e i recuperi sul limite dell’overdose, il tutto sotto lo sguardo vigile delle forze dell’ordine che viaggiano nelle campagne del paese alla velocità media di 20 km/h. Buona visione!
Al Caffè del Silenzio di Giorgio Todde
tra Cagliari e Belvì
9 e 11 Gennaio 2008
www.myspace.com/andreacongia
www.myspace.com/xxxxzzz
www.myspace.com/gitebelle
Mercoledì 9 e Venerdì 11 Gennaio 2008 alle ore 21:00 porterò in scena (con Gianluca Medas) la narrazione musicata dal vivo “Al Caffè del Silenzio di Giorgio Todde” rispettivamente presso il Sandy Ristopub (Via Malta 22, Cagliari) e presso il Caffè Edera (Via Roma 36, Belvì – Nu). Due note sull’autore:
Giorgio Todde vive e lavora a Cagliari. Il romanzo d’esordio Lo stato delle anime (Il Maestrale 2001; Il Maestrale/Frassinelli 2002) inaugura la serie dell’imbalsamatore-detective Efisio Marini, proseguita con Paura e carne, L’occhiata letale e E quale amor non cambia (Il Maestrale/Frassinelli 2003, 2004, 2005). A questa serie, Todde ha accompagnato e accompagna la fabbricazione di singolarissimi romanzi improntati ad un noir metafisico ed esistenziale, pubblicati da Il Maestrale: La matta bestialità (2002), Ei (2004). I suoi libri sono tradotti in Olanda, Francia, Spagna, Germania, Brasile e Russia.
www.edizionimaestrale.com
www.frassinelli.ws
Gli intepreti:
Gianluca Medas
Regista, narratore, scrittore, attore, autore.
Proveniente dalla Famiglia Medas, la più antica famiglia d’arte sarda, Gianluca Medas, dal 1985, si occupa attivamente di tenere in vita la tradizione della famiglia senza trascurare la realizzazione di nuovi progetti che traggono la loro ispirazione dalla cultura popolare.
Di particolare importanza è il progetto Paddori, l’ipotesi di una maschera sarda, che coinvolge tra tutti Fabio Mangolini, docente di Commedia dell’Arte all’Accademia di Recitazione di Madrid e Donato Sartori del Centro Internazionale delle Maschere.
Tra le manifestazioni organizzate, la rassegna Famiglie d’Arte, attraverso la quale porta avanti l’intento di proporre percorsi artistici che valorizzino la tradizione popolare nell’arte, e il recente Festival della Storia.
Dal 1989 si dedica ai Contos, narrazioni su canovaccio, con più di un migliaio di repliche.
In particolare, dal 1999, ogni anno, nel cortile del Comune di Cagliari, durante la festa di Sant’Efisio mette in scena la narrazione de Su Contu de Sant’Efis.
Dal 1998 collabora con la Fondazione Dessì per la realizzazione di spettacoli tratti dalle opere dello scrittore villacidrese Giuseppe Dessì.
Diverse le collaborazioni e i progetti nel mondo della televisione, del cinema e dell’editoria.
Tra le collaborazioni più importanti si ricordano quelle con Danilo Dolci, Otello Sarzi, Enzo Favata, Bepi Vigna, Donato Sartori, Ferruccio Soleri, Giovanni Muriello, Elio (de Le Storie Tese) e i Fratelli Mancuso.
Andrea Congia
Nasce a Cagliari nel 1977. Laureato in Filosofia e laureando in Etnomusicologia presso il Conservatorio di Cagliari. Chitarrista (chitarra classica, baritono e fretless) e autore nelle formazioni musicali sperimentali Nigro Minstrel e Mascherada negli anni 2000-2006.
Da anni prosegue sulla strada della coniugazione di Parola e Musica in collaborazione con diversi artisti. Diversi i titoli che l’hanno visto protagonista in tal senso: Ecate in Flags (2001 – 2007), Ereignis (2004), Delta Slave – Lo schiavo e il Caso (2004 – 2005), Zoe l’accalappiabambini (2005), Atto Unico (2005), I delitti della Rue Morgue di Edgar Allan Poe (2006), Il segugio, la Notte e l’Inferno Terrestre (2007), Il Canto del Dominatore (2007), Campanas, una lettura di Francesco Masala (2007), Il demonio è cane bianco – di Sergio Atzeni (2007), Passaggio alle Colonne d’Ercole (2007), Memoria del Vuoto – di Marcello Fois (2007), Diavoli di Nuraiò – di Flavio Soriga (2007), La vedova scalza – di Salvatore Niffoi (2007), Il dono di Natale – di Grazia Deledda (2007), Al Caffè del Silenzio – di Giorgio Todde (2008).
Al Caffè del Silenzio
di Giorgio Todde
Una narrazione musicata del vivo dell’ultimo romanzo di Giorgio Todde, Al Caffè del Silenzio, all’insegna del Noir e dell’andirivieni della Memoria e dell’Indagine. Un tortuoso viaggio investigativo dove corpo e psiche si fondono in una misura di follia. Un nuovo capitolo di Amore e Morte, dove la natura umana è forzata, giocata in una partita a scacchi con l’Assurdo e con il Tempo. Una lenta e letteraria rivelazione che, “pagina su pagina”, svela la nostra apparente normalità quotidiana.
Gianluca Medas – voce narrante
Andrea Congia – chitarra classica
Mercoledì 9 Gennaio 2008 ore 21:00
Sandy Ristopub, Via Malta 22 – Cagliari
Menù del Giorno (1) 13 euro
Aperitivo di benvenuto, 1 primo, 1 secondo, 1 contorno o 1 dessert, 1 bibita (0,20 lt)
Menù del Giorno (2) 15 euro
Aperitivo di benvenuto, bistecca di cavallo, 1 contorno, 1 bibita (0,20 lt)
Per informazioni e prenotazioni:
Sandy Ristopub (Gianluca Muggianu) 3473443711 – 3498666578
http://myspace.com/xxxxzzz
Venerdì 11 Gennaio 2008 ore 21:00
Caffè Edera, Via Roma 36 – Belvì (Nu)
Per chi lo desiderasse è anche possibile cenare (Tagliere di salumi e Grigliata mista – 12 euro) e pernottare (con prima colazione – 30 euro) presso il Caffè/Hotel Edera.
Per informazioni e prenotazioni:
Caffè Edera (Bachisio Cadau)
0784629825 – 3467402408
http://myspace.com/gitebelle
Un Monte di Poesia
3a edizione

ACCADEMIA VITTORIO ALFIERI
Tiziana Curti,Pro Loco Abbadia San Salvatore, Assessorato alla cultura comune Abbadia San Salvatore, Associazione Culturale accademia Vittorio Alfieri
Indirizzo:
Pro Loco di Abbadia San Salvatore
via Renato Rossano 2
53021 Abbadia San Salvatore (SI)
Email: atondi@terreditoscana.net
Telefono:0577 778324
Info:
http://www.comuneabbadiasansalvatore.it
www.accademia-alfieri.it
http://tizianacurti.spaces.live.com
Sezioni:
– tema libero (adulti)
– tema la montagna
– tema libero (giovani)
Lunghezza opere ammesse: 30 versi
N° 2 poesie in 4 copie
Quota di adesione: 10 euro per ogni sezione scelta ,escluso la sez gionani
Premi:
1° 200 euro coppa e pergamena
2° 3° coppa e pergamena
4° 5° targa e pergamena
per la sezione giovani
1° 100 euro coppa e pergamena
2°3° coppa e pergamena
4°5° targa e pergamena
Premiazione: 12 ottobre 2008 in occasione della festa d’autunno presso il Cinema Teatro Amiata via Matteotti 10 ore 10, e notizie sui risultati verranno comunicate ai partecipanti attraverso la stampa e web, i vincitori saranno avvertiti a mezzo posta, la giuria è composta da esponenti del mondo della cultura e dell’amministrazione locale
Patrocinio – Comune di Abbadia San Salvatore Sponsors Banca Toscana ,Monte dei Paschi di Siena
Note: insieme agli elaborati dovrà essere riportata su un foglio la liberatoria relativa ai dati personali in materia di privacy “io sottoscritto … autorizzo l’uso dei dati personali ai sensi della legge 675/96 in fede … per i minori è obbligatorio il consenso dei genitori e la fotocopia del documento d’identità”
Scadenza 30 giugno 2008
Ettore Maggi intervista Pietro Grossi

Pietro Grossi è un giovane scrittore (ha meno di trent’anni, in un paese in cui si è adolescenti fino a quaranta, ormai…) che un pubblicato due libri con Sellerio (Pugni e L’acchito), dopo il lungo Tre racconti lunghi sui quali svetta soprattutto il primo, Boxe. Grossi è, secondo il nostro personalissimo giudizio, il miglior scrittore uscito dalla Holden. Molto gentile e disponibile (senza l’arroganza tipica dei giovani Autori con la A maiuscola. che pensano di cambiare la storia della letteratura, o di alcuni giovani scrittori di genere, che pensano di essere trasgressivi e contro il sistema perché pubblicano storie truculente) ha acconsentito a fare una chiacchierata su scrittura, boxe e altro…
Ettore Maggi: Per iniziare, dato che io collaboro (tra le altre cose) con una rivista di letteratura giallo-noir-poliziesca, ti chiederei se tu apprezzi questi generi, attualmente molto di moda.
Pietro Grossi: E se la risposta fosse negativa? Il fatto è che per essere onesto non leggo granché gialli-noir-polizieschi, ma un passato da legare al genere c’è, e pure piuttosto importante. A nove anni cominciai un romanzo su due ragazzini che scappano di casa ed eventualmente se ne vanno dalla nonna di uno dei due a Napoli, infilandosi poi in una storia di camorra. Visti i successi dell’argomento devo ammettere che l’avevo vista lunga. Due o tre anni più tardi iniziai un altro romanzo ambientato in Florida, che aveva come protagonista un investigatore privato. E se devo pensare al mio primo vero amore come lettore, il nome che balza alla mente è Sam Llewellyn, autore di diversi gialli ambientati nel mondo della vela. Insomma, purtroppo ho iniziato a leggere tardi e sono un lettore lento, dunque finisce che per riprendere il tempo perso il genere passa in secondo piano, ma senza dubbio i primi passi li ho mossi là, a cavallo proprio tra giallo, noir e poliziesco. Chissà che non fosse stato meglio continuare su quella strada.
La tua risposta apre una questione per me fondamentale: il dualismo Letteratura vs. Letteratura di Genere. I rispettivi esponenti continuano a sparlarsi addosso (tranne alcune eccezioni: ad esempio quello che l’ottimo Maurizio Maggiani, vincitore del Campiello e dello Strega, ha detto a proposito dell’importanza della lettura di S. King, nella sua formazione letteraria).
Spesso non è molto convincente quello che viene detto da entrambe le parti: molti Autori con la A maiuscola lamentano la qualità scadente degli autori “di genere”, ma poi non hanno la capacità
di “costruire” storie, mentre molti scrittori di genere rovesciano le accuse, ma effettivamente scrivono male. Ad esempio, adesso c’è questa ondata di noir, che secondo alcuni sarebbe (pretenziosamente) l’unico strumento per descrivere la società moderna, i meccanismi di potere e per recuperare la Memoria Storica ecc. In realtà poi questo succede soltanto per alcuni scrittori, più sensibili (e forse più bravi), come ad esempio Juan Madrid in Spagna e Didier Daeninckx in Francia, mentre spesso, purtroppo, la maggior parte del noir si limita a rappresentare una realtà da Real TV, oppure si preoccupa soltanto di descrivere dettagli morbosi, per accontentare quelli che si fermano davanti agli incidenti.
Cosa pensi di questa contrapposizione?
Diciamo innanzi tutto che questa è una domanda da un milione di dollari, e soprattutto una domanda a cui chiunque può dare una risposta giustificata.
Io in ogni caso sono dell’idea che l’uomo è pervaso dalla debolezza di giustificare il proprio mondo denigrando gli altri. Mi pare in sostanza piuttosto fine a se stesso fare una graduatoria di merito tra Letteratura “vera” e Letteratura di genere, che a mio avviso può anche essere definita di intrattenimento.
Siamo d’accordo: la grande letteratura ci insegna qualcosa del mondo; direttamente o meno quando finiamo un grande libro – grande per noi stessi, beninteso – abbiamo la più o meno consapevole
sensazione che il mondo intorno a noi ha acquistato una piccola ma fondamentale e inaspettata nuova sfumatura. Ma siamo pronti a scommettere qualunque cifra che questo sia in fin dei conti più rispettabile dell’intenzione di travolgere un lettore con una storia appassionante (di qualunque colore essa sia: rosa, gialla, nera o a pallini)?
Insomma: è più importante una vita di qualità o la qualità di vita? Ovviamente siamo qui per porre delle domande e non per dare delle risposte: sono faccende queste che ognuno – con tutta libertà – deve dare a se stesso. E per quanto mi riguarda è proprio questo il bello della letteratura e dell’essere
uomini: la libertà.
Poi diciamocelo, c’è letteratura di genere bella e brutta, allo stesso esatto modo in cui c’è molta più
letteratura scadente che di qualità, e allo stesso modo in cui diversi autori hanno scritto le loro migliori pagine immersi nei loro filoni di genere piuttosto che quando ne uscivano. Ripeto: chi a priori denigra l’uno o l’altro mondo letterario mi fa solo venire il sospetto di doversi riparare
dietro le accuse. Per uscire un attimo dalla letteratura e dare un po’ di credito anche al cinema: se ci penso non sono affatto sicuro che le riflessioni simboliche di Tarkovsky mi abbiano giovato tanto più delle grasse risate di Mel Brooks.
Dato che hai parlato di cinema, chi è il tuo regista preferito?
Anzi, nell’ordine: regista e film preferito, scrittore e romanzo preferito e soprattutto pugile e incontro di boxe preferito… Sono ammesse risposte multiple, ovviamente.
È sempre il vecchio dramma fare delle classifiche: forse è per questo che in Alta Fedeltà se ne gode così tanto. Allora: regista preferito direi senz’altro Kubrick, e devo dire che dopo aver visto al cinema “2001: Odissea nello spazio” di solito metto questo come film preferito: non credo che nessuno sia mai arrivato a significare tanto e al tempo stesso estetizzare tanto in una pellicola. Al secondo posto butterei forse “C’era una volta in America”, o per citare l’amico Antonio Monda “Il Padrino”.
Scrittore e romanzo preferiti è tosta. Non so se ho uno scrittore e un romanzo preferiti. Sicuramente in ogni caso non coincidono. Per quanto riguarda il romanzo mi riparo citando il libro che più mi ha fatto godere nel leggerlo: “Il Conte di Montecristo”, ma per ricalcare il dilemma tra intrattenimento e piacere intellettuale non è certamente quello che più mi ha cambiato. Per quanto riguarda l’autore citerò invece quello che in questo momento ammiro di più e sono più in sintonia: Saul Bellow. Ma è
davvero difficile dire chi è l’autore preferito: sono talmente diversi tra loro che è un po’ come chiedermi se mi amo più la bistecca alla fiorentina o il gelato alla crema: senza entrambi la mia vita sarebbe parecchio più triste. Per quanto riguarda invece pugile e incontro – rischio di essere scontato – non ho un dubbio al mondo: l’incontro è quello tra Alì e Foreman del 1974 a Kinshasa, nello Zaire: nessun match è mai stato scritto dalla vita con maggiore dovizia di epica e colpi di scena; il pugile invece è senz’altro
lo stesso Alì, e per descriverlo non serve dilungarsi molto su quel corpo che danzava sul ring come una libellula, mandando al tappeto uomini ben più grandi e forti di lui: bastano le parole con cui George Plimpton – dopo aver raccontato di un incontro tra Alì e gli studenti di non ricordo quale università, in cui recitò una sua poesia: Me, We (Io, Noi) – chiude il documentario di Leon Gast sullo stesso incontro in Africa: What a fighter he was, what a man! (che pugile era, che uomo!).
L’immagine di Alì che combatte, a 32 anni (se non ricordo male) contro il 26enne Foreman, lento ma dalla potenza devastante, con tutto il pubblico di Kinshasa che lo incita, è qualcosa che non potrò mai dimenticare. Tornando a te, mi sembra di ricordare che hai fatto la Scuola Holden.
Domanda scontata: cosa pensi delle scuole di scrittura? Se riesci a dare una risposta non banale a una domanda così banale (lo confesso), complimenti…
Allora, prendiamola un attimo alla larga. Ieri sono stato a girare in pista con la moto insieme a un mio cugino. Lui tornando e facendo i conti della giornata diceva che aveva voglia le prossime volte di aggiungere qualcosa al semplice girare – garettina, tempi, qualunque cosa – che gli desse uno
scopo più preciso del semplice strusciare i ginocchi in terra. Chiacchierando gli ho detto a un certo punto che si sarebbe prima o poi potuta considerare l’idea di fare un buon corso di guida. Lui mi ha risposto “Mah, non lo so. Se devo essere sincero non vedo granché cosa possano insegnarmi”. “Magari a guidare meglio”, ho detto io. Lui è stato in silenzio un momento, poi ha proseguito:
“Boh sarà anche, ma ormai vado in moto da vent’anni e per dirla tutta mi sa che vado piuttosto bene (anzi, secondo me ha usato l’espressione ho un certo talento), quindi che mi possono insegnare?”
“Se si sapeva cosa ci potevano insegnare non ci si poneva il problema”, ho detto io. Poi abbiamo parlato un altro po’ di questa storia dei corsi e alla fine il succo è stato che andare a un corso non è altro che mettersi in mano a gente che ne sa più di te e che magari ti dà qualche dritta. Ecco, secondo me la questione delle scuole di scrittura sta lì a metà strada tra me e il mio amico: è vero che non si può insegnare a scrivere, che è una faccenda talmente personale che ognuno deve imparare a gestirla per conto suo (dico sempre che è come imparare a suonare uno strumento senza però avere lo strumento: ti devi trovare te i pezzi e montarli e accordarli via via senza sapere mai granché dove stai andando a parare); è vero quindi che nessuno ti può raccattare i pezzi, ma magari trovarti per un po’ in mezzo a gente che un giorno ha avuto le stesse difficoltà e farsi raccontare come le ha risolte non fa male: o se non altro ti fa sentire meno solo.
Hemingway, a chi gli chiedeva cosa fosse necessario fare per diventare uno
scrittore, rispondeva: “Tre cose: leggere, leggere, leggere.” QuaIcuno dice che il problema, in Italia, è che ci sono più scrittori che lettori. Sicuramente ci sono tanti aspiranti scrittori, che magari hanno letto pochino. Forse sarebbe necessario che si insegnasse di più a leggere, che a scrivere… D’altro canto anche insegnare a leggere non è semplice. Che ne pensi?
Diciamo tanto per cominciare che alla maggior parte delle persone che amano scrivere avrei voglia di chiedere perché lo fa, e sono parecchio convinto che a buona parte delle loro risposte saprei attaccare un’attività più adatta e soprattutto più sana. Insomma: il problema del sovrappopolamento di sedicenti scrittori – a cui probabilmente appartengo – non dipende secondo me dal come lo si fa o come lo si impara ma dal perché lo si fa e lo si impara.
Sulla faccenda di leggere e scrivere invece devo purtroppo – e credo per la prima volta – controbattere il primo dei miei maestri da sempre: proprio Hemingway. Per scrivere non basta leggere, per scrivere bisogna imparare a scrivere, e prima di tutto è una faccenda fisica. Mi fa sorridere tra l’altro che sia proprio lui a dire “leggere, leggere, leggere”, lui che ha speso così tanto a trovare dei trucchi e dei metodi e dei riti per trascinare la penna sulla carta o le mani sulla tastiera. La cosa più onesta da dire sul rapporto tra scrittura e lettura è che l’una non esiste senza l’altra – in tutti i sensi – e chiunque intenda isolare uno dei due aspetti azzoppa il discorso e niente più. Non esiste scrivere senza leggere, non esiste scrivere senza ri-leggere; ma non esiste leggere o ri-leggere senza qualcosa che si è scritto sudando e bestemmiando alla cieca per settimane o mesi. È un po’ come stare a domandarsi se una grande storia d’amore vive più di sentimento o di impegno e ragione: chiunque difenda esclusivamente uno dei due aspetti ha buone probabilità di andare presto a gambe all’aria.
Visto che prima ho citato la moto torno sui motori: se l’atto di scrivere è la camera di scoppio, leggere è la benzina, e sfido chiunque a far camminare una ruota senza una delle due.
Credo che tu abbia ragione dicendo che scrivere è una faccenda fisica. Forse questo è il motivo per cui ci sono tanti aspiranti scrittori. Molta gente si culla nell’idea “Scrivo, quindi sono uno scrittore.” La pittura, la scultura, e altre forse d’espressione artistica sembrano più difficili, la scrittura sembra più facile. Certo, quando sento alcuni scrittori lamentarsi, oltre che della fatica mentale di scrivere, anche di quella fisica, mi viene da ricordargli la fatica di un minatore, ma d’altronde è vero: per scrivere ci vogliono costanza, disciplina, allenamento…
Un po’ come la boxe, con le dovute differenze.
Per concludere, quindi, ti farei un’ultima domanda: hai visto Million Dollar Baby, e hai letto i racconti di Felix Toole, da cui è stato tratto il film?
Questa volta sono costretto a essere secco, anche perché per mia fortuna me ne sto per andare a fare qualche giorno di bella barca nell’arcipelago toscano: non ho letto Toole, purtroppo; e sì, ho visto Million Dollar Baby, ma se devo essere sincero, pur amando molto Clint Eastwood soprattutto come regista e amando anche parecchio i film di Boxe, non riesco a farlo entrare tra i film su cui valga la pena spendere troppe parole. In fin dei conti ha quello che un film sulla Boxe deve avere – a parte il gratuito finale strappa lacrime – ma se sei cresciuto vedendo anche solo Rocky e Toro Scatenato il resto scompare quasi tutto in una nebbia monotona e indistinta.
L’anaconda
Bianca Madeccia

La mamma lo tiene prigioniero da quarantacinque anni. Non si può allontanare da lei. Questi sono gli ordini. Allora lui, allora lui, dicevo, allora lui, per sopravvivere si è trasformato in anaconda. Non viaggia molto, anzi per niente. Sta perlopiù fermo, striscia attorno alla casa. Oppure guarda le foto delle bambine discinte attraverso l’oblò sul mondo, la scatola elettronica dei giochi, insomma, lì, dove ci sono le bamboline vive, quelle che puoi circondare e stritolare con un click. A lui piacciono quelle che hanno quella bella luce luminosa attorno. E più sono morbide, più sono “puff”, più sono irragiungibili, diverse da lui, insomma, lontane (è importante che siano lontane), e più desidera stritolarle.
Lui non sa nulla di umanità, è un rettile, sa solo di fame. Quella roba gli è necessaria per vivere. La mamma non vuole che lui si allontani troppo da casa e così lui è costretto a trascinare le prede nella tana e mangiare le vite degli altri sottoterra, anzi, nell’attico, perché lui abita in un appartamentino con vista su una palma.
Per sopravvivere cattura principalmente piccole bestioline di sesso femminile, preferirebbe i maschi, ma i maschi sono troppo grossi, e, in generale più attaccati alla vita, spesso anche violenti e non si lasciano sbranare così facilmente. Poi non hanno l’alone luminoso attorno, non nutrono.
Così, ripiega sulle femmine. Sono stupide, credono in quella cosa sciocca che loro chiamano amore. E’ più facile soppraffarle.
Le segue, le spia, le traccia e quando riesce a portarle nella tana, con un lavaggio subitaneo ma metodico di coscienza, diventa loro per un po’. Così diventa organizzatore di viaggi con la bambina luminosa viaggiatrice, critico d’arte con la bambina di luce pittrice, regista con la bambina attrice, editore con la bambina poetessa e così via. Deve dominarle, avere un potere. Si convince di essere stato loro per un po’, di aver avuto il loro nome, i loro interessi, di averle capite e respirate, persino di esserne stato vittima. Attribuisce a loro la sua fame, la colpa, la violenza, insomma, quella cosa che succede sempre, ogni volta.
È l’unico modo che ha di viaggiare e nutrirsi: attraverso le vite delle bambine luminose. Non è colpa sua. La mamma non lo lascia allontanare.
Scrive anche strane parole gelide e oscure che nessuno capisce, neanche lui. Suoni quasi sempre separati e svincolati tra loro, spesso inframmezzati da parole come “torbido” e “vago”. Tutta la sua vita era stata vagamente torbida. Le parole che scrive le ruba dai libri, oggetti con cui cercava di nutrirsi prima delle bambine luminose. Ma poi aveva letto che le anaconde non si cibano di cellulosa, lo sanno tutti.
Da una vita ruba parole a caso che poi lascia decantare tanto tempo per dimenticare che appartengono ad altri. Lui questo lo chiama “labor limae”. Le parole che ritaglia e mette in una scatola gli servono a costruire storie con cui pesca le bambine luminose nella scatola di vetro.
Ogni tanto si arrabbia, picchia le bambine che è riuscito ad attirare fuori dalla scatola luminosa, soprattutto quando parlano e fanno domande che non dovrebbero fare. Ma questo per lui non è importante.
Ama fare foto, soprattutto alle donne africane svestite e incinte sui marciapiedi. Sono tutte lì lungo la strada, quando torna dal lavoro, prima di andare a pranzo dalla mamma. Pensa anche di farne un cd, con le ragazze svestite lungo la strada, come un vero fotografo. Lui pensa sia arte. Le chiama poesie-oggetto.
Ogni tanto si sposta e va al porto. Vive accanto al mare. Ama sbirciare la risacca mentre parla di prostitute con i suoi amici d’infanzia: il fotografo di cadaveri parenti, l’installatore balbuziente, il cocainomane impotente con i capelli unti.
La mamma è sempre contenta quando le bambine della scatola spariscono e lo aiuta in fretta a farne scomparire i resti e a cambiare le lenzuola del letto. Ora sono di nuovo solo loro due. Possono di nuovo amarsi e incrociarsi con gli occhi e con le parole. Le anaconde vivono così, avvitate nelle loro spire.
Senza muoversi troppo e divorando d’amore (o di quella cosa che loro pensano sia amore) tutto quello che si muove nel raggio della loro breve vita senza luce.
Ma anche i coccodrilli e le loro lacrime, vanno tenuti accuratamente in considerazione nello studio psicologico del poeta-personaggio. Dal nostro studio preparatorio non escluderemmo i documentari sui crotali e sulla loro cecità violenta e assassina ma NECESSARIA, come può esserlo solo la vera poesia.
dalla raccolta “Serial Killer Italiani”
Claudio Prima, Emanuele Coluccia e Simone Giorgino al FondoVerri

Prosegue la rassegna “Le mani e l’Ascolto”, il Settimo appuntamento della rassegna di parole e suoni che il Fondo Verri organizza presso la sua sede in Via Santa Maria del Paradiso a Lecce, per il settimo anno consecutivo, con il patrocinio del Comune di Lecce, venerdì 4 gennaio, dalle ore 20.00. In scena Claudio Prima all’organetto diatonico ed Emanuele Coluccia al pianoforte. Due voci musicali sodali di numerose avventure di ricerca e di suoni che si confrontano sui tasti. Gioco improvvisativo, arie mediterranee, tempi ska, jazz e canzoni nel loro repertorio che ha radici nei Manigold e germogli recenti nell’esperienza straordinaria della Banda Adriatica. La spazio della poesia è di Simone Giorgino con il suo Asilo di mendicità (Besa Editrice). Voce da bar, densa di colori che accoglie versi per dirli. Una poesia viva tesa nell’ascolto per essere vivi, presenti: “per gioco, per scherzo, per una volta, per provare”.
Dichiarazione Universale dei Diritti Umani – Una cover
di Orodè

Il 10 dicembre 1948, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò e proclamò la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, il cui testo completo è stampato nelle pagine seguenti. Dopo questa solenne deliberazione, l’Assemblea delle Nazioni Unite diede istruzioni al Segretario Generale di provvedere a diffondere ampiamente questa Dichiarazione e, al fine, di pubblicare e distribuirne il testo non soltanto nelle cinque lingue ufficiali dell’Organizzazione Internazionale, ma anche in quante altre lingue fosse possibile usando ogni mezzo a sua disposizione. Il testo ufficiale della Dichiarazione è disponibile nelle lingue ufficiali delle Nazioni Unite, cioè cinese, francese, inglese, russo e spagnolo.
DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI UMANI
Cover – Riadattamento all’ambiente
Preambolo?
Articolo 1
Tutti gli esseri umani nascono in qualche modo e sono dotati di un corpo evidente e di tanta, quasi infinita ignoranza.
Articolo 2
Ad ogni individuo spetta davvero poco che sia suo, amato, interessante aldilà delle chiacchiere. Con incredibili e forse genetiche distinzioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica e di altri generi, di origine nazionale e sociale, di ricchezza, di nascita e di altra condizione.
Articolo 3
Ogni individuo è un’illusione. Forse arriverà a vivere abbastanza nonostante la confusione generale, le insicurezze sul lavoro e le ingiustizie dei ricchi e dei potenti.
Articolo 4
La schiavitù e la tratta degli schiavi sono state mascherate, in questi regimi democratici. Pare che nessun individuo possa essere tenuto in schiavitù. In realtà, ci sono solo prostituzione e mercenari, pochissimi uomini liberi, pochissime donne libere.
Articolo 5
Tutti coloro che non accettano la lobotomia imposta dal regime democratico verranno puniti senza che gli altri se ne accorgano.
Articolo 6
Solo gli individui lobotomizzati possono aver diritto al riconoscimento della loro personalità giuridica, ma non è sicuro…
Articolo 7
La legge è un libro letto con discriminazione. Chiunque voglia far rispettare l’ordine e dominare il Caos viene eliminato. In poche parole, i ricchi e i potenti sanno come far leggere il libro della legge ai giudici.
Articolo 8
Ogni individuo ha diritto ad una teorica possibilità di ricorso a competenti tribunali contro altri che violino i diritti fondamentali a lui riconosciuti da qualche tavola della legge. Tuttavia gran parte di questi ricorsi si disperderà in un mare di codici e codicilli o cadrà in prescrizione.
Articolo 9
La legge fa quel che può, come in guerra fa il fuoco amico.
Beati i poveri perché riceveranno il fuoco amico.
Articolo 10
Ogni individuo ha diritto ad un’equa e pubblica udienza davanti ad un tribunale che sarà indipendente e imparziale a seconda del caso.
Articolo 11
1. La legge è così ridicola in mano agli uomini. Non lo sarebbe di più in bocca agli squali. La legge, a parte le chiacchiere e le procedure verso i poveri cristi, è come un pacchetto di fish & crock.
2. La legge è in mano a uomini che non hanno risolto il loro destino. La legge è nelle mani di lobotomizzati ed incute timore a cittadini anch’essi lobotomizzati.
Articolo 12
Ogni individuo ha diritto ad essere travolto dal destino e dalla storia.
Articolo 13
1. Ogni individuo è buono solo se sa far muovere gli ingranaggi del regime di turno (vedi democratico) e se paga al suddetto regime fino al 50% dei propri guadagni, sottoforma di tasse per ogni movimento- esclusa solo la tassa per l’aria da respirare, al momento. Ad oggi, l’aria è gratis. Affrettatevi a consumarla che per domani non si sa.
2. Tutti i pesci piccoli che pagano le tasse risultano essere delle brave persone.
Articolo 14
1. Ogni individuo ha il diritto di cercare un angolo di mondo in cui la lobotomia non esiste ma questo è davvero difficile perché il regime è subdolo ed utilizza strategie di marketing convincenti.
2. Il Regime si nasconde sugli scaffali.
Articolo 15
Ogni individuo è segnato dal luogo in cui nasce. Alcuni nascono ed ingrassano per tutta la vita.
Altri nascono e vengono sterminati per discorsi sulle diverse etnie o per degli studi che dimostrano la necessità di continenti poveri, affamati o per malattie.
Articolo 16
Uomini e donne anziché pensare ad amarsi devono sposarsi per essere ancor più vittime del regime e sottostare definitivamente alle leggi. La famiglia è imposta come nucleo naturale e fondamentale della società, di questa società che ha appeso il cervello e l’anima al chiodo. È ora di andare oltre la famiglia. È ora di diventare uomini e donne. La famiglia è un legame che facilita la lobotomia.
Articolo 17
1. Ogni individuo è ingannato col discorso della proprietà personale. In realtà sono necessarie pochissime cose. Quattro mura e un tetto per difendersi dagli avvoltoi e dagli sciacalli, un po’ di cibo, quanto più tempo possibile e musica, tanta musica.
2. I poveri tuttavia sono detestati dal regime perché sono poveri.
Articolo 18
1. Ogni individuo ha diritto ad una libertà di pensiero, di coscienza e di religione che considerino la lobotomia. Una vera fede, una vera mente, un vero amore non sono desiderati dal regime perché arrestano i ritmi di produzione e la pace delle pance dei ricchi e dei potenti.
2. quindi si deve fare tutto di nascosto!
Articolo 19
Se qualcuno, nonostante l’abominio e il potere del Caos che ci ingloba, ha la grandezza di avere delle opinioni vere e valide sarà molestato fino all’eliminazione fisica.
Articolo 20
Solo i lobotomizzati hanno diritto alla libertà di riunione e di associazione pacifica.
Articolo 21
1. Per quanto riguarda la volontà popolare e il governo. C’è da chiedersi- come per l’uovo e la gallina- chi sia nato prima.
2. Poi c’è da chiedersi come si possa parlare ancora di libertà di pensiero e di scelta se si ammette la lobotomia generale.
Articolo 22
Ogni individuo, in quanto membro di questa società, ha diritto alla povertà, al precariato, nonché alla morte bianca e alla violenza, mentre in tv campeggiano le brutte facce dei potenti, sempre più brutti, maleducati, presuntuosi ed inutili.
Articolo 23
1. Ogni individuo ha diritto al lavoro che non c’è. Bisogna che se lo inventi quindi! Altrimenti che muoia!
2. Per quanto riguarda i contadini, poiché respirano ancora aria pura devono essere pagati pochissimo. Per esempio: un quintale d’uva deve costare di meno di una bottiglia di vino. E così via…
Articolo 24
Chi crede di aver diritto al riposo e allo svago è un irresponsabile, non vuole nemmeno quei due soldi che gli spettano.
Articolo 25
Ogni individuo pare essere nato per garantire gli eccessi dei ricchi e dei potenti, come sempre è stato, e dei loro eredi. Sono state fatte delle grandi lotte e sono stati fatti alcuni grandissimi sogni, ora tutto pare essere riassorbito dal nulla. Il male ed il bene sembrano indistinguibili. Le tavole della legge ci sono state rotte nell’ano dai potenti e dai violenti.
Articolo 26
1. Ogni individuo ha diritto all’istruzione perché il lavaggio di cervello dev’essere garantito.
2. Prima di pensare al reale sviluppo della personalità si deve pensare al ruolo che si deve avere in questa società come ingranaggio- il più remunerato possibile.
Articolo 27
Ogni individuo forse non nascerà mai.
Articolo 28
Ogni individuo ha diritto ad un lavaggio di cervello tale che né la storia né l’inutilità di questa carta straccia- con su scritto Diritti Umani- lo possa far pensare davvero.
Articolo 29
1. Tutte le scimmie, tulle le brutte facce, tutti i cuori deboli e quelli violenti. Tutti. Sono solo degli illusi. La ruota passa e ci schiaccia. Poveri noi, se non vogliamo davvero perdere tempo e parlare di denaro, di calcio. Poveri noi, stressati dalla macchina dei regimi. Poveri noi soprattutto se abbiamo capito. Ma poveri nell’anima tutti i violenti e i potenti. Solo la bellezza può dare senso al mondo!
2. Morendo s’impara!
Articolo 30
1. L’articolo 30 vorrebbe farci credere che niente e nessuno può farci violenza, distruggendo uno di questi cosiddetti diritti. Naturalmente è aria fritta!
2. Siamo tutti potenziali vittime di un programma di stato!
Ps. Per il resto cerchiamo nell’ano!!!
(foto Radioactive Cats, Sandy Skoglund, 1980)

…c’è un verme, il verme striscia, benché il verbo strisciare sia patrimonio comune non è così adatto al verme. Non più adatto di quanto non siamo abituati a pensare. Il verme incede lento, con la stessa morbidezza e permeabilità che potrebbe avere una goccia d’acqua. Il verme possiede la stessa capacità di confondersi con l’umido elemento della terra. Il nostro verme arranca, il suo obiettivo senza coscienza sembra essere costituito dal nascondersi nella terra. Occultarsi. Scomparire. Escludersi. Il verme viene disprezzato spesso per la sua somiglianza all’uomo. Invertebrato. Lumbricus medius. Lombrico medio.
[continua]