Pulp, tanto Pulp, mai abbastanza.


Luciano Pagano
su “Saxophone Street Blues” di Hector Luis Belial

Credo che non ci sia nulla di più bello, per chi sia appassionato di scrittura e cultura, dell’avere la possibilità, il coraggio e la sfrontatezza di dare vita a una casa editrice. Il fascino del mondo dell’editoria e l’oggetto libro si annidano con molta probabilità nei meandri inconsci di tutti coloro che hanno cominciato a scrivere. Ci vuole una buona dose di azzardo. Dunque, “Viva Las Vegas”, che oltre a essere il titolo dell’uscita inaugurale – un’antologia di racconti – suona come il migliore degli auguri, per una casa editrice, “Las Vegas Edizioni“, che prende il nome dalla città dell’azzardo per eccellenza e che esce con tre titoli, tra i quali l’opera seconda di Marco Candida. “Saxophone Street Blues” è un romanzo breve scritto da Hector Luis Belial. “Saxophone Street Blues” è un luogo dove tutto può accadere. Un nulla cosmico alla portata del primo tassista a servizio dell’ultimo uomo in fuga. Un territorio ultrapsichico dove avviene un omicidio terribile. Non sappiamo molto dell’autore di questo libro, non più delle informazioni che lui stesso vuol farci rinvenire sul suo blog dandy e imaginifico. La lingua con cui è scritto questo romanzo è la cosa che colpisce di più, stordire è forse un verbo che si addice al testo, senza posa. L’etichetta di PULP è quanto di più abusato e travisato possa darsi nei tentativi di approcci alla critica letteraria. Un racconto in salsa Lovecraftiana con flebili indizi di Edgar Allan Poe, magari con un vicolo da Jack lo squartatore? PULP. Un romanzo, così come potevano essere gli ispirati e terribili (inteso nel senso positivo di scuotenti) esordi di giovani autori negli anni ’90? PULP. Un genere che travalica le decadi e giunge intatto ai giorni nostri non può che richiedere continue contaminazioni. Quella tra cinema e letteratura è di certo quella cui si attinge più spesso, preludio di quello che avviene e avverrà nelle commistioni con i mondi del videogame o del web 2.0. Quel senso di stordimento riesce a creare quella sospensione per cui si dimentica la provenienza di genere soprattutto nelle pagine iniziali nelle quali avviene un processo di presa a ritroso della vicenda per avviare la narrazione. Per questo motivo il romanzo, al termine della lettura, ha stuzzicato corde molto più simili a quelle cui si può accedere con la lettura di un fumetto di Moore & Lloyd, oppure la visione di altre opere di genere come Seven o Fight Club; a ciò si aggiunge la colonna sonora, ovvero i pezzi che l’autore fa ‘suonare’ durante la lettura di “Saxophone Street Blues”. C’è molto del Easton Ellis di American Psycho. Ecco dunque un buon romanzo. Si possono individuare i padri ispiratori – tutti rigorosamente under 50 – di questa scrittura, tenendo per certo che lo stile di Hector Luis Belial si allontana anni luce dalla sciatteria cui ci avevano abituato certi epigoni del pulp. Alla piacevole lettura spero segua un altro libro firmato – ma forse è meglio presupporre targato – Hector Luis Belial…e se si trattasse di una Unofficial Biography, in pieno stile anglosassone?

Saxophone Street Blues, Hector Luis Belial
Las Vegas Edizioni, I Jackpot, 2007, Torino, pp. 135, €10

Il personale precario della riabilitazione psichiatrica


Lecce 25 gennaio, 2008
Al Presidente della Regione Puglia
On. Nichi Vendola

Al Commissario Straordinario della Asl Lecce
Dott. Rodolfo Rollo

Oggetto: Richiesta stabilizzazione personale precario della riabilitazione psichiatrica

Il Dipartimento di Salute Mentale area Nord di Lecce comprende 6 Centri Diurni, distribuiti sul territorio aziendale e i laboratori espressivi del Centro per la Cura e la Ricerca sui Disturbi del Comportamento Alimentare: Centro Diurno di Lecce, Centro Diurno di Lequile, Centro Diurno di Campi Salentina, Comunità Socio Riabilitativa Squinzano, Centro Diurno di Galatina, Centro Diurno di Calimera, Laboratori espressivi • Centro per la Cura e la Ricerca sui Disturbi del Comportamento Alimentare di Lecce

per un TOTALE di 30 OPERATORI, per 507 ore settimanali.

I Centri Diurni e i Laboratori espressivi del Centro per la Cura e la Ricerca sui Disturbi del Comportamento Alimentare, rappresentano una realtà imprescindibile nell’attività in rete del DSM per la cura e la riabilitazione, nonché risocializzazione degli utenti. Al loro interno sono attivi laboratori in cui progetti terapeutici-riabilitativi-educativi studiati ad personam, così come le attività creative e culturali, concorrono all’emergere di competenze e potenzialità che stimolano le capacità autorigenerative e alla facilitazione dell’espressione di sentimenti ed emozioni rimossi tramite lo sviluppo delle abilità di problem solving e della creatività.
L’insieme di tali attività, che ha lo scopo di raggiungere gli obiettivi di cura, riabilitazione all’‘essere’ e al ‘fare’, reinserimento sociale e lavorativo è condotto da più di dieci anni dagli operatori convenzionati. Essi, pur con storie personali e forme contrattuali differenti, sin dal 1991, garantiscono con risultati eccellenti, e già documentati, il funzionamento dei suddetti Centri e il raggiungimento della mission assegnata.
Nonostante la loro convenzione con la ASL Lecce sia scaduta lo scorso 31 dicembre 2007, gli operatori continuano, data l’importanza e l’insostituibilità del loro agire, a garantire la continuità del servizio.
Attualmente gli operatori sono in attesa che la Regione Puglia autorizzi la proroga delle convenzioni scadute il 31 dicembre 2007. Nonostante gli sforzi e i sacrifici per garantire ugualmente la continuità della presenza degli operatori nei Centri, tale situazione è fonte di incertezza e preoccupazione non solo per gli operatori ma principalmente per gli utenti e per le loro famiglie.
La difesa dei posti di lavoro degli operatori, quindi, non è solo difesa della singola dignità degli stessi, ma è soprattutto rivendicazione della qualità dell’operare e della legittimazione di una forma innovativa di gestione della salute mentale che valorizza le risorse interne alla ASL e si basa sulla visione dell’utenza come soggetto da non ‘sanitarizzare’.
In tal senso si vuole sottolineare che il lavoro svolto finora dagli operatori in convenzione ha permesso una significativa riduzione dei ricoveri ospedalieri, il che equivale non solo ad un risparmio della spesa sanitaria, ma soprattutto a ‘produrre’ salute e rinnovata ‘qualità’ del vivere.
Si ritiene, pertanto, che sull’esempio di quanto prodotto dalla Giunta Regionale per dare giusto riconoscimento al ruolo degli operatori dell’integrazione scolastica – ex legge 16, 1987 – come previsto dalla legge regionale n.40 del 31 dicembre 2007, comma 38, è necessario un forte impegno istituzionale al fine di dare stabilità contrattuale e lavorativa, nonché operativa, agli operatori dei Centri.
In particolare, stante il percorso di stabilizzazione del personale precario avviato dalla Regione Puglia, si chiede di estendere i benefici di tale percorso agli operatori su citati.
Pertanto, si chiede alla SV, la possibilità di prevedere all’interno del personale della sanità, in particolare per l’area della riabilitazione psichiatrica, un nuovo profilo professionale quale quello dell’operatore artistico-culturale, in cui inquadrare le attività di cura e riabilitazione su riportate.
Fermo restando che le attività finora svolte dagli operatori possono essere comprese nel profilo professionale attualmente previsto dal CCNL di categoria dell’Operatore Tecnico.
Nelle more, si sollecita la proroga della convenzione al fine di non interrompere il servizio offerto agli utenti e di dare copertura contrattuale alle attività che si continuano a svolgere.

Gli operatori della riabilitazione psichiatrica

(dipinto Jean Rustin)

Viva l’Italia.


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“Viva l’Italia, l’Italia che è in mezzo al mare,
l’Italia domenticata e l’Italia da dimenticare,
l’Italia metà giardino e metà galera,
viva l’Italia, l’Italia tutta intera.”

Francesco De Gregori, Viva l’Italia.

il racconto ulteriore


Enrico Pietrangeli
su “Il racconto ulteriore” a cura di Flavio Ermini

Il Racconto ulteriore, “antecedente all’intelligibilità” nella contrapposizione di un tempo mitico alla desolante contemporaneità di una terra già esplorata da Eliot, è un progetto che vede Flavio Ermini coordinare dei pensatori nel “gesto narrativo”. L’ “inquietudine dell’imprevedibile” ci ha condotto verso false certezze allontanandoci dal vero senso della tradizione, dall’origine. Dal chaos, nello stesso gesto della creazione sussiste ancora, inalterata, l’energia per una prospettiva ulteriore, devoluta a un sapere autentico, non più reso asettico, e considerato nel suo originario contesto organico. Bonnefoy lo fa attraverso una possibile variante per la cacciata dal giardino. Un punto in cui il tempo non ha avuto ancora inizio, dove l’immediato e il mediato, opportunamente affrontati da Vitiello nell’episodio finale, sono ancora “erranza nell’eterno” e prendono forma col giorno, nell’esperienza, tra l’eco di un flauto, mediando dolore e speranza. Prima o dopo divengono l’intangibilità del tempo dove l’archetipo, riflesso nella forma, si tramanda nel mito, restando impresso tra luci e ombre. Nel tema della leggenda primordiale resta ancorato anche Félix Duque, è quella indigena della foresta e del suo lago, mentre, a poca distanza, si consuma “l’imminente fine di questo mondo”, tra disastri ecologici e notiziari flash sul terrorismo. Quella di Labarthe è un’Allusione all’inizio migratoria, iniziatica ed incentrata sulla comunicativa, in un viaggio che ci vede dubitare e disperderci, ricominciare: possibile metafora della stessa vita. L’arcangelo, con Antonio Prete, dalla sua sostanza di luce, viene a contatto col tempo e la disgregazione della materia. Vive con rammarico i suoi fallimenti, la distrazione di una colpa ancestrale. E’ questa la prima delle Tre storie sul tempo e l’apparenza, quale “impossibile somma d’infiniti vuoti” nell’epilogo della sera: lo scorgere finalmente il sorriso di una bimba ricongiunta al suo gatto. Articolato e dettagliato è il ritratto ginevrino di Roberta De Monticelli che, traversando memorie e riflessioni, approda su più acquietanti sogni in una “fragorosa e sporca” piazza toscana. Spinoza, l’ottico, tanto ebreo quanto eretico, con Tagliapietra lo ritroviamo che si diletta coi ragni e sarà specchio di una risata che è dio, vittima e carnefice nelle vesti di un Benjamin portato al martirio, ancora immerso nella lettura di Ethica. Uno Spinoza che ricorre anche con Vitiello, ricordandoci “che ogni definizione è negativa” e che, con Jean Luc Nancy, ci riporta a quel “sentiamo e sperimentiamo il nostro essere eterni”. Interessante il contesto in cui si sviluppa Diario, “fluttuante in un’incerta intemporalità” che va dal 4 al 10 novembre 2002. Realizzato per conto della rivista Parallax, vede qui la sua versione italiana dopo essere stato tradotto in inglese. Il marionettista di Givone, unitamente al racconto di Tagliapietra, è, a mio parere, tra gli episodi più centrati, almeno in relazione all’intento narrativo preposto. Tutto il fascino e la magia dello spettacolo dei burattini viene rilevato allontanando lo spettro di un demiurgo dietro le quinte, restituendoci personaggi con un’anima sottesa ad un filo tramite cui comunicare, finanche a recepire “dal basso” “le sollecitazioni sceniche”. Ironico ed incisivo giunge Carlo Simi che, attraverso l’antica e collaudata formula del dialogo, ci trasporta nel mondo delle fiabe che preannunciano ciclicità atemporali. Con Donà ci si addentra in tematiche che includono risvolti psicologici, mentre con Gargani si abbandona il filone narrativo soltanto per meglio sviscerarlo con esiti che, personalmente, trovo convincenti, soprattutto per quell’ “indissolubile legame” tra “etica e scrittura” ricordato anche attraverso il monito di Wittgenstein: “non possiamo scrivere qualcosa di vero se non siamo veri”. Riportare la figura dell’intellettuale ad un suo più connaturato baricentro rendendogli la giusta attenzione, a partire dall’operato scientifico e politico, potrebbe essere un varco aperto da questo libro, poiché in queste condizioni, come Gargani stesso afferma, “non c’è da sorprendersi che fenomeni mafiosi si estendano all’ambito dell’organizzazione della cultura e del mondo accademico”

Il racconto ulteriore, a cura di Flavio Ermini,
Moretti e Vitali, 2006, 18€

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Festa del libro e delle culture italiane. 1-2-3 Febbraio a Parigi


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FESTA DEL LIBRO E DELLE CULTURE ITALIANE
PARIGI (MARAIS) 1, 2, 3 FEBBRAIO 2008
ESPACE DES BLANCS MANTEAUX
Con il Patrocinio dell’Università degli Studi del Salento

Da venerdì 1 a domenica 3 febbraio del 2008 si terrà a Parigi la “Prima Festa del Libro e delle Culture Italiane”. La Besa editrice, con il patrocinio dell’Università degli Studi del Salento, partecipa con un suo spazio nell’ambito della manifestazione francese proponendo la presentazione del volume “Danze di corteggiamento e di sfida nel mondo globalizzato” a cura di Eugenio Imbriani e Piero Fumarola,  alla presenza di due personaggi del calibro di Remi Hess e George Lapassade. Il momento di incontro sarà un’occasione di studio di grande rilievo, dove verranno affrontate questioni come danza, musica, tradizione, innovazione, e interazioni dinamiche tra le diverse diverse classi sociali, rispetto a questi fenomeni. Ci si soffermerà sulla figura dell’antropologo che è obbligato a interrogarsi sul senso dell’attesa, dell’ascolto, dove i corpi agenti dei danzatori, si analizzano, si delineano e infine si riallacciano in uno spazio mentale incrociato dove il mondo e le sue contraddizioni si riflettono grazie al supporto di una musica ricca e complessa e di una poesia incessantemente rinnovata, che trova le sue radici nella tradizione del nostro territorio.

L’appuntamento che si terrà domenica 3 dicembre alle 18,00 nella sala Eventi della Fiera in 48 rue vieille du Temple, avrà il titolo “Transe, danza, possessione e musica. Dal Tarantismo alle Danze di corteggiamento a cura di E. Imbriani e P. Fumarola (Besa editrice)”. Incontro dibattito con Remi Hess e George Lapassade, e proiezione del film “La Taranta” di Gianfranco Mingozzi con commento di Salvatore Quasimodo. La “Taranta” è un filmato accompagnato dal commento di Salvatore Quasimodo, che racconta le esperienze di un cineasta appassionato di antropologia. Per oltre vent’anni Gianfranco Mingozzi ha percorso le terre del Salento documentando per primo, nel 1961, con questo cortometraggio il fenomeno del tarantismo.

Introduce Stefano Donno
Scheda del volume

Danze di corteggiamento e di sfida nel mondo globalizzato, a cura di P. Fumarola e E. Imbriani (Nardò, Besa Editrice, 2006).

Nell’universo mobile e fluido della cultura si attuano processi di istituzionalizzazione e codificazione delle forme; ciò non avviene una volta per tutte, e non necessariamente in modo univoco. Il libro vuole indagare su queste dinamiche, riflettendo sui fenomeni della cultura popolare e, in particolare, sulla danza, e sui modi in cui agiscono le politiche nella determinazione dei percorsi e delle scelte destinati ad assumere rilevanza in una panorama che contempla varie possibilità. Chi stabilisce, allora, quali debbano essere i movimenti corretti della capoeira, della pizzica, della danza scherma o del tango, come mai, a lungo, il valzer è stato considerato pericoloso per la salute delle donne, in quali contesti sono stati fissati le norme e i significati del movimento rotatorio dei mistici sufi; e per quali motivi una manifestazione musicale come «La notte della taranta» è avviata a costituirsi in «fondazione»? Sono questi alcuni dei principali argomenti sviluppati sul piano storico come su quello etnografico e sociologico, in uno scenario multiforme e complesso che coniuga situazioni locali con quel che accade nel mondo.

PIETRO FUMAROLA insegna Sociologia delle religioni all’Università di Lecce. Le pratiche della transe e le culture dei movimenti giovanili sono al centro della sua riflessione, nel quadro teorico dell’analisi istituzionale e della ricerca azione.

EUGENIO IMBRIANI insegna Antropologia culturale all’Università di Lecce. Le sue ricerche riguardano particolarmente temi relativi al folklore, alla scrittura etnografica, ai processi di patrimonializzazione delle pratiche culturali.

Relatori coinvolti:

RÉMI HESS è professore presso l’Université de Paris VIII. Ha pubblicato opere di filosofia, sociologia, didattica, analisi delle istituzioni, antropologia della danza, occupandosi in particolare delle danze di coppia. In Italia sono usciti La pratica del diario (Besa, 2001) e Prodursi nella scrittura (Besa, 2005).

GEORGES LAPASSADE, nella sua lunga carriera, si è occupato delle culture nordafricane e afroamericane, con particolare interesse per i temi della transe e della possessione. Ha scritto testi teorici di analisi istituzionale, psico- ed etno-sociologia, contribuendo alla riflessione sulle modalità dell’inchiesta sul campo; ha indagato fenomeni di comunicazione e aggregazione, come l’hip hop. Da molti anni insegna all’Université Paris VIII.

Stefano Donno –  Classe 1975. Ha pubblicato la raccolta di poesie “Sturm and Pulp” (Lecce, 1998); “Edoardo De Candia, considerazioni inattuali” (Lecce, 1999); il romanzo “Se Hank avesse incontrato Anais” (Lecce, 1999); “Monologo – +” (Copertino, 2001); la raccolta di racconti “Sliding Zone (Lecce, 2002); il saggio “L’Altro Novecento – giovane letteratura salentina dal 2002 al 2004” (Luca Pensa editore, 2004). Collabora con la cattedra di Scienza Politica dell’Università di Camerino.

Chi ha bisogno di Harry Potter?


Elisabetta Liguori
Chi ha bisogno di Harry Potter?

I nostri figli hanno bisogno delle fiabe oggi?
Da donna moderna quale aspiro ad essere, da donna che vuol sentirsi al passo coi tempi, da donna che spesso arranca e questo passo sincopato ancora non lo ha compreso del tutto, io me lo chiedo di frequente. E poi si fa presto a dire fiabe. Quali fiabe? Non tutte le fiabe sono uguali, questo è evidente, sebbene qualcosa le accomuni. E se è vero che certe narrazioni di genere antico sono e restano espressione del Senso dei popoli; se è vero che, come lo stesso Freud sosteneva a proposito dell’Interpretazione dei sogni, esiste un nesso forte tra la psiche degli uomini e le fiabe che l’affollano; se è vero che l’immaginazione fantastica è indotta, frustata o esaltata dal quotidiano, allora la risposta non può che essere positiva.
I nostri figli ne hanno bisogno.
Questa necessità è estendibile a tutte le fiabe del mondo? Vediamo di capirlo.
Io cerco il fantastico. Perché è poi questa la chiave per distinguere ancora oggi la Favola (quella che si limita a raccontare una storia più o meno bene, con una morale più o meno efficace), dalla Fiaba in senso stretto. Il fantastico appunto. Una dimensione dell’altrove impossibile, eppure verosimile. Vicina. E’ di quello stupore convincente che i nostri figli hanno bisogno. Ed io con loro. E tanti come noi. Questo spiegherebbe, almeno in parte, il fascino suggestivo ed il grande successo editoriale della letteratura fantasy, dalla scopa fumante di Harry Potter, all’armadio bidimensionale di Narnia, fino ai draghi sentimentali di Eragon.
Per questa stessa ragione sono lieta che Eliana Forcignanò, giovane giornalista leccese, abbia scelto di esordire in questi giorni con il suo “Fiabe come rondini” per Lupo editore e il Fondo Verri: una scelta che oggi mi appare coraggiosa, quanto necessaria. La scelta della via fantastica, appunto.
La vita delle madri (e dei padri) è spesso costellata di storie di tutti i tipi. Anch’io ne ho cercate e trovate a valanghe in questi ultimi anni, così che ora sono ovunque nella mia casa, aleggiano come spiriti, fuori e dentro i miei farfugliamenti materni, dimorano tutte insieme nella stanza nella quale io continuo a rifugiarmi coi miei bimbi al buio della sera per tentare di avvicinare, con più leggerezza, idee comuni e vaste come quella del futuro, della morte, del dubbio, dell’imperfezione. Ogni volta che al mattino mi avvicino ai letti dei miei cuccioli c’è sempre un sorcio parlante che mi dà il buongiorno, mentre un cavallo alato protesta perché è troppo presto. E persino i quaderni sbuffano nelle cartelle.
Forse anche Eliana vive in una stanza come la nostra. Anche lei, nelle sue storie, racconta di un sé, disperso e fluttuante in universi fantastici, unici e personali.
E lo fa come se avesse un occhio da vecchio e uno da bambino.
Ecco, secondo me, sono proprio così gli occhi dei veri narratori di fiabe. Due occhi opposti. Atemporali. Mi pare che questo abbiano fatto, e continuino a fare ancora oggi, tutti i raccontatori di fiabe: cogliere il mondo attraverso una specie di strabismo onirico e terrestre, così da descrivere le cose che sono state e che saranno, interpretandole secondo le regole di un universo che mai sarà. Non una capacità comune. Forse un difetto di percezione.
Eliana ha questo splendido difetto.
Otto fiabe per diventare adulti, le sue.
Tanti modi sono offerti agli uomini per crescere, la fiabe da sempre sono uno di questi. Una strada semplice ed incantevole in cui ogni piccolo eroe senza risposte può cimentarsi coi giganti e uscirne sorprendentemente vivo. Quasi una fede da costruire. Cosa altro c’è, a pensarci bene infatti, al fondo di tutte le religioni del mondo, se non un’ idea come questa? Cosa alla base di ogni forma di spiritualità? Cosa se non il fascino rassicurante di una fiaba per sopravvivere e cambiare? Uno stupore finalmente rassicurante? Il desiderio di soluzione, futuro, pacificazione, meraviglia? La terra di Non so, abilmente raccontata in una delle fiabe di Eliana dal titolo “Le tre bottiglie”, è espressione perfetta della dimensione ambientale e spirituale del Dubbio con la quale tutti, adulti e bambini, siamo oggi chiamati a confrontarci. In questa storia la maturità arriva non da un padre, da un maestro, da un codice, ma dal mare. La verità qui non è imposizione, violenza, guerra di potere o indottrinamento; è invece riconoscimento dei propri limiti, esercizio di modestia, lunga arrampicata solitaria.
Sono tutti così gli eroi di Eliana: imperfetti.
Il re che non ha risposte per i suoi sudditi, la bambina allergica alla virgola che non può andare a scuola, la fata brutta a cui nessuno dà credito, la donna esageratamente bella che ha paura di perdere la libertà, il sovrano che non sa amare, lo scienziato che non vuole uscire dal suo laboratorio per paura di vivere, l’inquieta Linda che vive in un mondo igienicamente protetto ma fa la pipì nel letto. E molti altri: imperfetti, ma instancabili.
In una società che vuole costruire uomini futuri assoluti, con un Io meravigliosamente gigantesco e cieco, all’interno di famiglie che nutrono i propri figli a pane e perfezione, prepararsi per tempo al fallimento, all’incertezza, accettarla in anticipo come possibilità potrebbe significare assicurarsi una dignitosa sopravvivenza futura, garantirsi un risparmio certo domani sul costo dello psichiatra.
Un risultato importante, io credo.
Ma allora torno a chiedermi: abbiamo bisogno di tutte le fiabe allo stesso modo?
A mio parere, quello che rende una fiaba diversa dalle altre è il fine. La capacità di creare un mondo per un fine. Se un racconto mira al potere, al successo personale, alla suggestione, non può che essere fonte di violenza o artificio, se invece punta alla Felicità, alla trasformazione e alle sue rondini strane, allora, è di certo una buona fiaba. In una delle storie di Eliana la Felicità è una donna malata, che se ne sta, sdraiata ed esanime, ai bordi della città in attesa di essere accolta e riconosciuta da qualcuno. Come tutte le donne, non è una matassa facile da sbrogliare. Una caso interessante ma complicato. Quella donna per guarire cerca l’autenticità dell’Essere. Un’autenticità senza altri fini, quella dimensione cioè concessa a volte solo alla poesia.
È quella Felicità il fine delle fiabe di Eliana. Il loro vanto fuori dal tempo.
È sorprendente, ma le fiabe di Eliana, pur non provenendo da antiche tradizioni popolari, raccontano quella ricerca lenta ed affannosa con la levità delle rondini migranti e il fardello dei secoli. Tra le sue pagine il futuro incontra il passato e si riempie di meraviglia e potenziali trasformazioni. Non si deve fare altro che restare ad ascoltare.

Fiabe come rondini, Eliana Forcignanò, Lupo Editore, p. 96, 2007

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Paludi di Gravisca, topi di Cosa.


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L’alba brillò rugiadosa nel cielo di porpora:
spieghiamo oblique le vele, rigonfie al vento;
fuggiamo, allargandoci un poco, le secche alle foci del Mignone,
le onde alle piccole bocche trepidano malfide.
Quindi scorgiamo i tetti sparsi di Gravisca,
spesso oppressa d’estate da odori della palude;
però i dintorni boscosi verdeggiano fitti di macchie
e l’ombra dei pini trema sul margine dei flutti.
Vediamo incustodine le antiche rovine,
le mura diroccate di Cosa deserta:
ed imbarazza esporre fra cose serie la causa ridicola
dello sfacelo, ma non posso tenere nascosto il riso.
Dicono che un tempo i cittadini, costretti a migrare,
abbandonarono le case perché infestate dai topi!
Crederei prima alle disfatte dei Pigmei
contro le gru confederate per le loro guerre.

(Il ritorno, Rutilio Namaziano, a cura di Alessandro Fo, Einaudi, 1992, vv. 276-292)

Non si sa esattamente quando, se nel 415 o nel 417, sappiamo soltanto che era d’inverno (presumibilmente tra novembre e fine dicembre), possiamo immaginare giorni simili a questi, giorni di disordine apparente che invece dispiegano mille volontà differenti, ognuna con il suo minuscolo e microbico interesse sul piatto. Rutilio Namaziano, è costretto a lasciare Roma per fare ritorno in Gallia. Il motivo è semplice, sui suoi possedimenti sono passati i barbari. Rutilio deve far ritorno a casa per controllare di persona che cosa ne è delle sue proprietà. Cosa si prova a intraprendere un viaggio di centinaia di chilometri senza sapere che cosa troveremo? Il ritorno è il poema in cui si racconta il suo viaggio Rutilio decide di risalire l’Italia sulla costa, anche perché il tempo è sfavorevole e quindi è meglio trasportare il proprio bagaglio sull’acqua, riparando a riva in caso di maltempo. Dopo una sessantina d’anni verrà deposto l’ultimo imperatore di Roma. Nell’aria si respira aria di declino. O forse no. Forse si stanno gettando le basi per qualcosa di più grande e importante, soprattutto nella cultura ‘europea’, i primi, strani, gruppi di monaci, il cristianesimo. Ne Il ritorno la fonte principe della geografia e della poesia è l’Eneide. Il luogo di cui si narra nei versi 276-292 è la fonte del Mignone.

Ci sono stati dei disordini. Luigi Milani


“È passato quasi un anno, ma se ne parla ancora, di quel triste giorno di luglio. Le polemiche non accennano ancora a placarsi. Ci sono state violenze spaventose, in quella città del nord. Un’esplosione di violenza collettiva, ha scritto un illustre commentatore di fatti politici. Molti hanno perso la testa, durante quegli scontri. Oggi leggo che i poliziotti che hanno trascinato fuori dall’ospedale alcuni feriti non dovranno preoccuparsi di nulla. Azioni giustificate dalla situazione, ha stabilito un’inchiesta.”

(da “Ci sono stati dei disordini”, di Luigi Milani)

Il racconto di Luigi Milani, che prende spunti dai fatti di Genova per la narrazione di una storia privata, è liberamente scaricabile da Lulu, se volete leggerlo potete trovarlo qui. Luigi Milani è anche autore di Rockstar, un romanzo, disponibile per l’acquisto su Lulu, nel quale la finzione e la realtà si mescolano ruotando attorno alla vicenda di Kurt Cobain. In “Ci sono stati dei disordini” una donna si trova improvvisamente a fare i conti con il proprio passato prossimo, in un momento di solitudine che gli fa ricordare che cosa è successo, a lei e al suo uomo, durante i fatti di Genova. Il metodo di approccio è simile a quello adottato da Milani nel suo Rockstar, quello cioè di affiancare una vicenda personale a una storia che invece è comune alla maggior parte di noi, nella fattispecie il dramma pubblico del G8. Di Rockstar colpiva la bravura nella rievocazione degli anni novanta, un periodo in cui chi si è trovato a vivere la fase adolescenziale tutto crede fuorché nel fatto che si sia trattato di un periodo oscuro. Il racconto scritto da Milani, ambientato un anno dopo i fatti del luglio 2001, si fa portatore di un messaggio chiaro: la memoria nel tempo e l’amore riescono a non vanificare un’esperienza di vita. Per quanto l’aspetto politico non lasci spazio alla crudezza e alla disillusione per ciò che è accaduto, soprattutto oggi la parola d’ordine è non dimenticare, affinché i ‘disordini’ cui fa accenno l’autore non diventino sinonimo di confusione delle responsabilità.

(Luciano Pagano)

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Luigi Milani è nato a Roma, dove vive e lavora. Scrive di musica e tecnologia da molti anni. In passato è stato coinvolto in fanzine e bbs fumettare, ha fatto il consulente informatico e curato testi di siti Web. In preda alla peggiore hubrys è giunto perfino a spacciarsi per sceneggiatore e consulente tecnico per una società di produzione cinematografica. Di recente si è macchiato di diversi crimini letterari: tra questi il romanzo “Rockstar” e alcuni racconti presenti nell’antologia “XII”, antologia di novelle scritte da dodici autori italiani indipendenti incontratisi in Rete. Fa parte della redazione della rivista letteraria “inutile”, alla quale dona periodicamente alcune perle letterarie di rara inutilità. Collabora con la e-zine letteraria Progetto Babele e il portale JuJol. È autore di un blog molto frequentato, “False Percezioni”. È socio del Gruppo XII.

La dimora dei luoghi. Mimmo Pesare


Libreria Icaro
I libri di Icaro

Incontri in libreria 2008

presentazione del volume

Martedì 29 gennaio 2007, ore 19.00
presso la saletta della Libreria Icaro
Via Liborio Romano

Mimmo Pesare
La dimora dei luoghi
Saggi sull’abitare tra filosofia e scienze sociali

Ed. I libri di Icaro, 2007
Collana “Scritture multimediali”

Discutono con l’autore

Laura Tundo
Direttrice del Dipartimento di Filosofia e Scienze Sociali, Università del Salento
Cristina Caiulo
Architetto, Responsabile regionale Sezione Italiana dell’Union Inter.le des Femmes Architectes (SIUIFA)

Introduce

Angelo Semeraro
Direttore della Collana “Scritture multimediali”

Si ringrazia quanti parteciperanno all’incontro
Il problema dell’abitare, oggi, si avvia a diventare un topos della contemporaneità: avvertire il luogo del proprio vissuto non è solo un tema delle discipline tecniche che studiano l’habitat urbano e domestico ma costituisce anche, e specialmente, una domanda fondamentale delle scienze filosofiche e psicologiche. Da sempre le modalità di residenza dell’uomo e i luoghi abitati sono simbolizzazioni e metafore del rapporto tra sé e il mondo.
I saggi raccolti nel libro, analizzando il concetto di abitare dal punto di vista teoretico della filosofia, della pedagogia, della psicoanalisi e dell’antropologia, tentano l’unificazione dei suoi significati lungo il crinale di una comune ermeneutica dell’abitare che vada nella direzione di una possibile koiné delle scienze sociali e lanciano la proposta secondo la quale sia possibile pensare tale concetto come “metafora attiva” per l’interpretazione dell’umano nel tempo del suo post.
Lo spazio abitativo della dimora rappresenta un’immagine incancellabile dell’animo umano, senza la quale la grammatica della vita affettiva avrebbe probabilmente una struttura completamente diversa e di conseguenza anche gli aspetti cognitivi dell’apprendimento e delle relazioni sociali ne sarebbero interessati. Da qui la convinzione che sia fondamentale “pensare” l’abitare, prima di “praticarlo”, all’interno di una circolarità del sapere e delle interpretazioni che suggerisce una fenomenologia dell’abitare come vero e proprio “sintomo dell’attualità”.

(in foto L’eremo di San Colombano)

Il modo migliore per ricordare la Costituzione? Applicarla.


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Uno spot, in questi giorni, ci ricorda l’anniversario della Costituzione Italiana. Nell’88 vennero stampati, per i suoi quaranta anni di anniversario, dei comodi libercoli che vennero poi distribuiti nelle scuole e nelle case degli italiani. Lo spot di oggi recita “La costituzione, il modo migliore per ricordarla è leggerla”. Nulla da eccepire, pubblicità progresso e comunicazione sociale al massimo grado di intendimento. Forse la frase “Costituzione: il modo migliore per ricordarla è applicarla“, provoca su alcune epidermidi, un certo prurito.

27 Gennaio 2008. Il Giorno della Memoria della Shoah


0)

da rassegna.it

1) “Nell’anno centoquarantacinque, il quindici di Casleu il re innalzò sull’altare un idolo. Anche nelle città vicine di Giuda eressero altari e bruciarono incenso sulle porte delle case e nelle piazze. Stracciavano i libri della legge che riuscivano a trovare e li gettavano nel fuoco. Se qualcuno veniva trovato in possesso di una copia del libro dell’alleanza o ardiva obbedire alla legge, la sentenza del re lo condannava a morte. Con prepotenza trattavano gli Israeliti che venivano scoperti ogni mese nella città e specialmente al venticinque del mese, quando sacrificavano sull’ara che era sopra l’altare dei sacrifici. Mettevano a morte, secondo gli ordini, le donne che avevano fatto circoncidere i loro figli, con i bambini appesi al collo e con i familiari e quelli che li avevano circoncisi. Tuttavia molti in Israele si fecero forza e animo a vicenda per non mangiare cibi immondi e preferirono morire pur di non contaminarsi con quei cibi e non disonorare la santa alleanza; così appunto morirono. Sopra Israele fu così scatenata un’ira veramente grande.” (1 Maccabei, 1, 54-64)

 

2) “La memoria della memoria, questa espressione sembrerebbe una “battuta” assurda o uno slogan pubblicitario. E sarebbe davvero tale, se la memoria consistesse nell’apertura di un nostro archivio segreto (individuale o collettivo, poco importa) per riportarne alla luce informazioni preziose che la trascuratezza o, peggio, la volontà di dimenticare, avrebbero tentato di occultare.
Ma non è necessariamente così.La memoria è un possente strumento per capire e per rispondere alle sollecitazioni del presente. La guerra nei Balcani, il Medio Oriente in fiamme, il minacciato “scontro di civiltà” dimostrano che l’odio fra le genti e le stragi degli innocenti non sono una pura e semplice eredità di un passato sogno di incubi; e allora, alle nostre menti si affaccia la domanda angosciata: ma sarà sempre così, anzi, sempre più così?La risposta implicita che abbiamo dato a questa domanda fino a questo momento era di concludere che la Shoah fosse stata a tal punto mostruosa da risultare incomprensibile con i comuni strumenti della mente umana, che fosse stata, in una parola, “follia”, sia pure follia criminale: follia degli uomini, follia di un intero popolo, follia di Hitler. E, come tale, almeno per coloro che credono nella razionalità di fondo dello spirito umano, irripetibile. Tanto da giustificare l’autentico giuramento con il quale si concludevano tutte le nostre manifestazioni: “Mai più”.
Sentiamo però che questo modo di affrontare la memoria non è più sufficiente. Perché la nostra premessa non è scevra da critiche; la memoria non è, infatti, un supporto magnetico cui attingere dati ma è una funzione attiva della nostra mente, che sa in partenza a quale tipo di dati rivolgere la propria attenzione e quali, invece, trascurare; che sa in partenza quali sono i problemi che deve affrontare e, spesso, ha già formulato, se non proprio un giudizio definitivo, almeno delle ipotesi di risposta; e cerca “nella memorie” quei dati che possono confermare o respingere il giudizio stesso.Possiamo dunque indicare dei cosiddetti “valori” che sono in realtà giudizi dei quali siamo già forniti a priori e che orientano il nostro modo di scavare in profondità nella memoria? Certamente, sì.Il primo dei nostri valori si chiama civiltà ed esso significa il procedere del consorzio umano dalla legge del trionfo del più forte a quella del supporto per i più deboli, dalla soppressione del rivale o di quello che si ritiene possa soltanto chiedere alla società senza nulla dare, al principio della solidarietà. Il secondo valore significa valorizzare la varietà umana, la ricchezza delle “altre” culture, delle altre lingue, delle altre Fedi. Esso significa la libera circolazione delle idee, senza opporvi ostacoli, neppure economici.Il terzo valore, infine, indica il dialogo, il confronto, la trattativa, come unici strumenti che possono risolvere i contenziosi umani, proibendo, come reato, qualsiasi ricorso alla violenza.”Memoria” significa allora scavare nel passato in modo selettivo, per cercarvi non tanto le gesta degli eroi sui campi di battaglia quanto gli esempi di solidarietà e di cooperazione; esempi forse rimasti nell’ombra ma non per questo meno rilevanti, forse al contrario. È questa infine quella Memoria che può diventare uno strumento di fiducia nel domani. È questa che ci accingiamo a celebrare.”

Prof. Amos Luzzato
tratto dal sito
dell’
Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
.
3) Documentazione per conoscere tratte da Olokaustos.org:
La legislazione tedesca contro gli ebrei, Le leggi razziali in Italia, Istruzioni per il concentramento e lo sterminio.

Nymphaea Armonyshow


Domenica 27 gennaio, 20.30
Nymphaea Armonyshow

Sprofonderei sin d’ora
nell’umida quiete
di quei boschi
specie nel sottobosco
ninfale che
bagnando nutre

(Rosemily Paticchio per Nimphaea)

Chiusura della mostra fotografica di Rossella Venezia
Visioni poetiche di Rosemily Paticchio
Performance di danza di Lea Venezia
Videoproiezione “Nimphaea”
________
Aperitivo
*****
NYMPHAEA, IL RITORNO ALLA NATURA
Domenica 27 gennaio alle 20.30, presso il Circoletto di Lecce in via delle Bombarde 13/b, nei pressi di Porta Napoli, si svolgerà la serata conclusiva della mostra di opere fotografiche di Rossella Venezia, risultato di un’originale esperienza fotografica, con espedienti digitali e tecniche che decantano tutta la naturalezza della corporeità femminile; un lavoro poliedrico che indirizza gli sguardi verso argomenti che oggi interessano tutto il mondo femminile e non solo.
Il messaggio prioritario che questo intervento vuole trasmettere coincide, infatti, con la riscoperta della vera naturale bellezza, che scaturisce principalmente dall’interiorità, e con l’esaltazione di un certo aspetto di leggiadria femminile che è del corpo ma soprattutto dell’anima. Ciò consente di sganciarsi dalla pesantezza dei soffocanti schemi mentali che tanto influenzano l’esistenza “sociale” di ognuno di noi. Solo in questo modo è possibile recuperare la piacevolezza dell’essere se stessi, e non falsi burattini di una società certamente molto difficile e complessa, che rende schiavi di un’immagine artificiosa. In particolare, si fa riferimento a problemi legati all’estetica, che spingono molte donne e adolescenti a situazioni d’insicurezza psicologica a causa della propria forma fisica, a volte con conseguenze drammatiche o persino fatali.
L’allestimento fotografico sarà accompagnato dalla performance di danza della danzatrice Lea Venezia, video-performance, e testi di poesia contemporanea a cura di Rosemily Paticchio.

Nymphaea

Rappresenta il ritorno alla natura, alla bellezza umana vera e propria.
Senza artificio alcuno…come un bozzolo che aspetta di divenire farfalla, come un girino che lentamente si trasforma si evolve come noi uomini.
Veniamo al mondo, crescendo subiamo metamorfosi, mostrando la nostra immagine, oggi alterata, migliorata, per renderla più gradevole agli occhi di chi l’osserva, per renderci conto poi che dura pochi istanti, il piacere della bellezza che diviene morboso quasi una malattia, ci si rende conto poi che non basta avere canoni prefissati, ma… il piacere d’essere se stessi per non sembrare falsi burattini di una società che ti rende schiavo dell’immagine, siamo uomini non oggetti che si ricostruisco, rimodellano, ma solo esseri umani.
….I bozzoli sfioriranno e avranno l’unicità della bellezza, unica, dissimile per ogni essere vivente.

“La flor más roja” un racconto di Ettore Maggi


Ettore Maggi
La flor más roja

A Gianni-san non piacciono le lame. Dice che sono da infami, e che quando hai una lama in mano, o un’arma qualsiasi, non sei più tu a usarla, ma è lei che ti usa. Gianni-san dice che quando hai una lama in mano puoi fare poco, sei troppo preso dalla volontà di colpire, e ti dimentichi che possono colpire te. Ti dimentichi che possono darti un calcio in un ginocchio, una bastonata, e buttarti giù.
Luciano ride, e dice che se avesse avuto una lama, a Verona, l’anno scorso, non andrebbe in giro con quel ricamo sulla faccia. Ma Gianni-san se ne frega, per lui non è un problema portare una cicatrice sulla faccia. Io credo che in fondo sia contento di averla.
Io ammiro Gianni-san, lui è il mistico del gruppo, infatti lo chiamiamo anche il Monaco. Gianni-san non beve e non fuma, e non mangia carne. Lo ammiro, però la lama ce l’ho, e anche Luciano e Roberto.
Roberto ha sempre anche il suo butterfly, e lo sa usare, lo fa girare in un modo assurdo, ma secondo lui il butterfly serve soprattutto per fare scena. Dice che è un’arma da camorristi, buona per spaventare e graffiare, oppure per ammazzare piantandolo di punta, ma non per combattere.
Io ho due coltelli, uno lo ha fatto mio padre, quando lavorava ancora alla raffineria. La lama proveniva da una valvola di scarico di un camion. Ci sapeva fare mio padre, se avesse fatto l’artigiano invece dell’operaio, chissà…
Ma il coltello di mio padre di solito lo tengo a casa.
Ci troviamo sempre nella nostra piazza, dietro il monumento. Questa è zona nostra. Abbiamo delimitato il territorio con le bombolette e con gli adesivi RedSkin e Sharp. L’altra sera al concerto della Banda Bassotti ne abbiamo presi altri. Io ho quelli con la stella rossa, Ama la musica odia il fascismo, e li ho attaccati anche a scuola ieri.
Mentre li attaccavo è passata la profe nuova, la supplente, quella che viene dal sud. Mi ha visto e ha sorriso. Mi piace, la profe nuova, ha i capelli neri, ricci e lunghi.
A volte la guardo, durante la lezione. Anzi, la guardavo, perché una volta mi ha detto di smetterla di fissarla, e io ho smesso, perché la rispetto. Non è come gli altri stronzi prof, lei è diversa. E poi è una compagna. Lo so, perché aveva la foto del Che sull’agenda.
Uno dei primi giorni mi ha visto la lama, avevo quella di mio padre. Non so perché, di solito non la porto in giro. E lei l’ha vista. Allora non la conoscevo ancora bene, la profe, e pensavo che fosse una stronza come quella che c’era prima, e quando ha visto la lama ho sorriso. Ma lei non si è spaventata. Allora ho capito che aveva le palle. E ho messo via la lama. Però poi lei un po’ di paura di me ce l’aveva lo stesso.
Tutti le dicevano che sono uno skinhead, e lei a vedermi rasato, con la Lonsdale e gli anfibi, mi credeva un bonehead, uno stronzo di skin fascio. Che poi adesso la Lonsdale la portano tutti i fighetti alternativi, ma comunque lei pensava che fossi un nazi di merda.
Un giorno ho visto che leggeva il diario del Che in Bolivia, e mi sono avvicinato.
Anch’io l’ho letto, profe.
Pensavo che fossi uno skinhead
, ha detto lei.
Sono uno skinhead, ho risposto.
Ho indicato le toppe sulle maniche del bomber. Da una parte RedSkin, dall’altra Sharp e Rash.
E lei mi ha chiesto RedSkin lo capisco, ma che significano Sharp e Rash?
Rash significa Red and Anarchist Skin Heads. Sharp invece significa Skin Heads Against Racial Prejudice. Skinheads antirazzisti, se preferisce.
Pensavo che gli skinheads fossero razzisti.
Quello sono i BoneHeads.
Pensavo che tutti gli skinheads fossero nazisti.
Lei crede a tutte le stronzate che dicono in televisione e sui giornali, profe?

Lei ha sorriso, e mi è piaciuto come lo ha fatto.
Hai ragione, ha detto.
Mi dispiace di averla spaventata, profe, quel giorno, con la lama.
Non mi sono spaventata. Quando insegnavo all’altro professionale, giravano coltelli più grossi.

Allora abbiamo iniziato a parlare tutti i giorni, e lei adesso mi presta un sacco di libri. Mi ha prestato di tutto, e di solito di notte resto un’ora a leggere i suoi libri. Quello che mi è piaciuto di più è Omaggio alla Catalogna, di Orwell, parla della rivoluzione spagnola, della guerra con i fascisti, degli scontri tra gli stalinisti e gli anarchici.
Quella parte l’ho capita un po’ meno, perché ci si sparava tra compagni invece di sparare ai fascisti? Ma non ho chiesto niente alla profe, e nemmeno a mio padre. Volevo chiederlo a Gianni-san, ma poi non ho detto niente nemmeno a lui. Alla profe perché non volevo sembrare ignorante, a mio padre perché non so mai se chiedergli qualcosa. A volte penso che mi consideri un coglione. Però mi ha fatto piacere quando mi ha regalato il coltello che aveva fatto. E quando è andato a parlare con la profe e lei gli ha parlato bene di me è rimasto sorpreso. Non ha detto niente, ma è rimasto sorpreso, lo so. Però era contento. Lo so, anche se non ha detto niente.
Una volta la profe mi ha prestato un libro di Hemingway. C’era un racconto che mi è piaciuto, La capitale del mondo. Parlava di un ragazzo spagnolo, un cameriere di Madrid, appassionato di tori e corride. Per scommessa con un altro cameriere, e per dimostrare di non aver paura, finge di essere un matador, con il grembiule, mentre il suo amico lo attacca con una sedia a cui ha legato due coltelli da cucina. La prima volta riesce a schivare, ma la seconda le lame lo feriscono e lui muore dissanguato. Ho raccontato la storia a Luciano, a Michele e a Roberto.
Roberto e Luciano dicono che loro avrebbero fatto lo stesso, invece Michele dice che quel ragazzo del racconto, Paco, era uno stronzo. Secondo lui non è stato coraggioso. Secondo lui solo un coglione muore così, squarciato da una lama legata a una sedia, fingendo di essere un torero.
Stasera, abbiamo trovato una scritta, sul muro di fronte alla nostra panchina: Milanese infame per te ci sono le lame. Sotto c’era un fascio.
A noi non piacciono i milanesi, soprattutto quegli stronzi fighetti che vengono nelle nostre spiagge d’estate, con le moto e le macchine. Però non ci piace nemmeno che qualcuno faccia delle scritte nella nostra zona. Abbiamo cancellato il fascio, ma la scritta abbiamo deciso di lasciarla, anche se Luciano non era d’accordo. Luciano dice che sa chi è stato, a scriverla. Ci sono dei boneheads che frequentano un pub, qua vicino.
Il loro capo è Lupo, uno skin alto e tosto. Pare che lui e Gianni-san fossero amici da ragazzini.
Luciano dice che dovremmo andare a cercarli e fargliela cancellare.
A me sembra una stronzata e gli altri sono d’accordo con me.
Siete tutti senza palle, dice Luciano.
È una stronzata, ripete Gianni-san.
Tu lo dici perché non vuoi metterti contro Lupo, dice Luciano. Lo sappiamo tutti che siete amici. Guardiamo Gianni-san.
Non siamo più amici. Però lo rispetto.
Ma lui è venuto qui a fare quella scritta.
Che cazzo ne sai che è stato lui?
Se non è stato lui, sarà uno dei suoi.
Appunto.
Va bene. Tu non vuoi metterti contro Lupo. Ma voi? Voi siete dei conigli,
dice Luciano.
Vattene a ‘fanculo, dice Michele.
Ci vado anche da solo, dice Luciano.
Tu sei fuori.
Tu invece sei un coniglio.
‘Fanculo. Non devo dimostrarti niente,
dice Michele.
Luciano ci guarda e se ne va. Siete tutti senza palle, grida.
Noi restiamo in silenzio e guardiamo Gianni-san.
Gianni-san è un mito, per me. È il più grande di noi, lavora insieme a Roberto in un magazzino di frigoriferi. Una volta il direttore del magazzino aveva cacciato via una ragazza, e lì sapevano tutti perché. Il direttore le aveva messo le mani sul culo e lei lo aveva preso a schiaffi.
La settimana dopo Gianni-san e Roberto lo hanno aspettato sotto casa, con i caschi integrali. Lo hanno aspettato nel portone, e quando lui è uscito dalla macchina non hanno perso tempo. Calci e pugni da rompergli le costole e il naso. Poi mentre Gianni-san lo teneva, Roberto ha tirato fuori la lama. Lo stronzo si è pisciato addosso, e Roberto gli ha lasciato un ricordo sulla faccia.
Così quando si guarda allo specchio se lo ricorda, dice Roberto, quando lo racconta. Gianni-san invece non dice niente. Sorride, e basta.
Entro a casa, vedo la luce dalla cucina. Mio padre sta guardando la televisione, e bestemmia. Mio padre bestemmia sempre quando guarda la televisione. Lo saluto e lui si volta e mi guarda, poi guarda l’orologio, e bestemmia.
Entro in camera, mi sdraio sul letto e guardo il coltello che ha fatto mio padre. Lo apro e guardo la lama. Lo tengo sempre qua vicino al letto, e lo guardo spesso. La settimana scorsa mio padre è entrato in camera e l’ha visto. Mi ha guardato e mi ha chiesto come andava la scuola, ma ha continuato a guardare il coltello.
Bene, gli ho detto. E al lavoro, come va?
Bene
, mi ha detto, ma so che non era vero. So che vogliono chiudere la fabbrica, anche se lui non ne ha mai parlato.
Poi mi ha chiesto perché tenevo lì il coltello, aperto, come se lo dovessi usare. Ho alzato le spalle. Non sapevo cosa dire, e anche lui è stato zitto.
Lascio il coltello aperto e prendo il libro che mi ha prestato la profe. È un altro libro di Hemingway, Per chi suona la campana. Mi piace, parla della guerra di Spagna anche questo, come quello di Orwell. Alla fine del libro Robert Jordan, l’inglés, come lo chiamano i suoi compagni spagnoli, rimane ferito e protegge la fuga degli altri.
Era tosto, l’inglés, un vero duro. Se vuoi essere rispettato, devi essere duro. Il problema è che se vuoi essere duro, lo devi essere sempre. Questo è più difficile.
Anche la profe è dura. Non si è spaventata quando ha visto la lama. Secondo me un po’ di paura ce l’aveva, ma se la è tenuta dentro. Essere duri è questo, non serve portare una lama in tasca.
A scuola oggi non c’era la profe. Dicono che è malata. Mi dispiace che stia male, e poi avrei voluto vederla, oggi, e parlare con lei. Lei è l’unica profe con cui riesco a parlare. Volevo anche restituirle il libro di Hemingway. Nell’intervallo vedo Michele, e mi viene da chiamarlo Miguel. Sarà che ho letto tutti quei nomi spagnoli. Miguel mi dice che Luciano ieri è andato nel pub dei boneheads.
Che cazzo dici?
Ti dico di sì. Ha rubato un bomber, e dentro c’era una lama.

Andiamo a cercare Luciano. Ha un bomber verde militare con lo scudetto italiano sulla manica destra. Sulla sinistra c’è uno strappo.
C’era una svastica. Quella l’ho tolta e l’ho buttata nel cesso, dice Luciano.
Miguel mi ha detto che c’era una lama, dentro.
Chi cazzo è Miguel?
Lui
, dico indicando Michele.
Luciano mi fissa come se fossi pazzo, poi si guarda in giro e mette una mano in tasca.
Eccolo, dice.
La lama scatta e brilla al sole.
Non si può più dormire, la luna è rossa, rossa di violenza, bisogna piangere i sogni per capire. Non ricordo come continua la canzone, la cantava la Banda Bassotti al concerto, ieri sera, questa canzone, ma non la ricordo tutta.
Sono tosti, quelli della Banda. Romanacci, ma tosti, compagni di quelli duri. I romani non mi piacciono molto, una volta ho conosciuto una ragazza, una che ha lo stesso nome di quel regista romano. Era una stronza, una che se la tirava da alternativa impegnata, ma era una stronza, e poi faceva l’intellettuale, con tutti i suoi amici alternativi ed era più ignorante di me. Invece quelli della Banda Bassotti sono muratori, mica fighetti alternativi che se la tirano da intellettuali, loro fanno i muratori, Avanzi di cantiere, come dicono loro.
Al concerto siamo andati tutti. Io, Gianni-san, Miguel, Luciano e Roberto. Era bello, eravamo tutti compagni, un sacco di skin. In realtà non tutti erano skin, ma stavamo tutti insieme, bevevamo tutti insieme e ballavamo tutti insieme, e non c’è stato nessun casino e quando la Banda ha attaccato Ska Against Racism cantavamo tutti Di che colore è la rabbia che corre dentro le vene, un rosso sangue che ad ogni battito griderà sempre più forte Ska Against Racism!
Mi piace andare ai concerti. Mi piace ballare lo ska. Una volta ho sognato che ballavo a un concerto, suonavano tutti gruppi ska, tutti gruppi tosti, c’era anche la Banda. C’erano tutti i miei amici e c’era anche la profe, e ballava con me.
Chissà come riderà, quando glielo dirò. Riderà, però a me piacerebbe davvero ballare lo ska con lei.
C’era anche un’altra canzone che cantava la Banda, la cantavano in spagnolo, El Quinto Regimiento, una canzone della guerra civile spagnola, e a me mi sono tornati in mente i libri che mi ha prestato la profe, e pensavo a Robert Jordan e a El Sordo, a Pablo e a Pilar, pensavo a Maria, e cantavo Anda Jaleo Jaleo, suena la ametralladora, y el cabrón se va a paseo, e pensavo di assaltare il ponte e mi vedevo ferito, e dicevo agli altri di scappare e sparavo con la mitragliatrice e cantavo Con el quinto, el quinto, el quinto regimiento, madre yo me voy al frente, para la linea de fuego.
Oggi sono stato in biblioteca. Quando sono entrato mi hanno guardato male, c’era la tipa che abita vicino a casa mia, mi ha chiesto se avevo bisogno di qualcosa. Gli ho detto che volevo fare la tessera. Mi ha guardato come se non capisse, allora l’ho ripetuto e lei ha continuato a guardarmi, ma non si è mossa. Stavo per incazzarmi, stavo per dirle Che cazzo vuoi, stronza, non sono degno della tua tessera di merda?
Poi è arrivata un’altra tipa, una vecchia, gentile, mi ha fatto lei la tessera.
Le ho chiesto quanto costava e lei ha sorriso e ha detto Niente, ragazzo, la tessera è gratuita.
Allora le ho chiesto se avevano libri di Fenoglio. Ce ne ha parlato la profe a scuola, e volevo leggere qualcosa. Fenoglio era uno con le palle, ha fatto il partigiano, ha combattuto contro i fascisti. La vecchia gentile mi ha detto che avevano Il partigiano Johnny, La malora e La paga del sabato.
Non sapevo cosa prendere, allora lei mi ha detto Per iniziare leggi La paga del sabato.
Di che cosa parla?, le ho chiesto.
Di un ex partigiano che dopo la guerra diventa un contrabbandiere.
La storia mi piaceva. L’ho preso in mano, e l’ho sfogliato. Poi ho sorriso.
Che c’è? mi ha detto.
Credo che mi piacerà. Il protagonista si chiama Ettore. Si chiama come me, ho detto e la vecchia gentile ha sorriso.
È un bel nome Ettore, ha detto.
La luna stasera è davvero rossa. Miguel è seduto accanto a me nella panchina, Luciano beve una birra. Stasera la lama l’ho lasciata a casa. Abbiamo visto una macchina delle Giacche Blu girare attorno alla piazza, e Gianni-san e Roberto sono andati via. Torneranno più tardi, forse. Ma vorrei che fossero già qui quando vedo i boneheads.
Non sono tanti, solo tre, ma dall’aria dura. Uno si fa avanti. È impossibile non riconoscerlo, è Lupo. Gli altri restano dietro, ci guardano e sorrido. Si sentono sicuri dietro Lupo.
Dov’è Gianni?, dice, e la sua voce è bassa, calma.
Luciano si alza, si pianta davanti a loro, non troppo vicino, e lo guarda.
Non c’è. Che vuoi da lui?
Lo sai quello che voglio.
Gianni non c’entra. Ce l’ho io la lama.
Allora dammela, e finisce lì.

Luciano ci guarda. Miguel annuisce. Io anche. Ma capisco che non può cedere così.
Adesso è mia, dice Luciano. Che mi dài in cambio?
I due boneheads dietro Lupo ridacchiano.
Che figlio di puttana.
Ti ha fregato la lama e vuole anche qualcosa in cambio, Lupo.
Spaccagli il culo, Lupo. Spaccagli il culo a quel rosso di merda.
Rotto in culo bastardo.

Lupo dice ai suoi di stare zitti, ma nemmeno lui può cedere. Luciano risponde agli insulti. Miguel mi guarda. Sta sudando.
Dove cazzo sono Gianni-san e Roberto? Roberto con i suoi nunchaku e il butterfly, Gianni-san con la sua forza.
Lupo si lancia contro Luciano. Uno dei boneheads viene verso di me. È della mia taglia, basso e tozzo. Mi slaccio la cintura e la faccio roteare. Lo colpisco sull’orecchio, ma lui non sente niente. E tira fuori la lama.
Allora ho paura. Mollo la cintura e indietreggio. Miguel si gira e mi guarda, e si prende un cazzotto, ma anche lui sembra non sentirlo, poi finisce a terra e prende calci e pugni dai due boneheads.
Miguel continua a guardarmi. Io indietreggio ancora, poi scappo.
Gianni-san e Roberto sono davanti al portone di casa. Fumano e mi guardano. Sì, guardano me. Perché mi guardano? Perché mi guardano così?
Che cazzo è successo, dice Roberto.
Niente. Non è successo niente.
Non dire stronzate. Che cazzo è successo?
Niente
, ripeto. Non è successo…
Poi vedo gli occhi di Gianni-san. Merda. Perché mi guarda così?
I boneheads… riesco a dire. I boneheads. Lupo e altri due.
Roberto getta la sigaretta e inizia a correre. Gianni-san continua a guardarmi. Non dice niente, non parla, ma i suoi occhi sì. Dicono che sono un coniglio. Dicono che sono un infame. Poi inizia a correre anche lui.
Allora resto solo. Non voglio restare solo. Corro, e mi manca il fiato, le gambe sono di legno, la gola brucia, ma arrivo fino alla piazza.
Miguel e Luciano sono a terra, pestati a sangue. Gli hanno portato via bomber e anfibi. Sentiamo una sirena e arrivano sbirri e ambulanza, ma le Giacche Blu non ci vedono, così possiamo allontanarci.
In silenzio, perché Roberto e Gianni-san non parlano. Ma so cosa stanno pensando. Roberto prende nunchaku e lama, infila il casco, sale sulla vespa dietro a Gianni-san. Io non esisto più, per loro, sono diventato invisibile.
Mi siedo e li guardo mentre si allontanano.
Se va lo mejor de España, la flor más roja del pueblo.
Penso a Robert Jordan. Poi mi alzo e li seguo. Sono scomparsi, ma so dove stanno andando. Li seguo, e inizio a cantare.
Con el quinto, el quinto, el quinto, con el quinto regimiento, madre yo me voy al frente, para la linea de fuego.
Arrivo davanti al pub, Gianni-san e Roberto sono già dentro. Suena la ametralladora, inglés?
Una ragazza urla. I boneheads sono tanti, troppi, ma noi non abbiamo paura, noi siamo lo mejor de España, la flor más roja del pueblo.
Lupo è davanti ai suoi. Guarda Gianni-san, ma non si muove, e nemmeno Gianni-san si muove.
Io cerco di avvicinarmi ai miei amici, alla flor más roja del pueblo, ma un nazi viene verso di me, Anda Jaleo Jaleo, suena la ametralladora. Gli spacco una sedia sulla testa, poi lo prendo a calci, y el cabrón se va a paseo, afferro un’altra sedia e cerco di raggiungere i miei amici, la flor más roja, ma un altro bonehead mi scaraventa contro un tavolo. Urlo, ma non per il dolore, poi mi rialzo, e lui tira fuori una lama.
Gianni-san mi guarda, poi guarda lui, poi me. La mia lama, quella che mi ha regalato mio padre è sul comodino, l’altra chissà dove.
Il bonehead è davanti a me, ma non si avvicina. Se avessi portato la lama di mio padre, adesso la tirerei fuori. Gianni-san mi guarda ancora, tutti ci guardano adesso. Sono fermi e ci guardano. Perché ci guardano così?
Il bonehead continua a guardarmi senza muoversi. Suda, ha la faccia bianca.
Avanti, urlo, dài, vieni! Vieni, cabrón!
Anche i suoi amici lo guardano, lo stanno guardando come Gianni-san e Roberto guardano me. Poi vedo la gamba di legno della sedia che ho sfasciato prima e la prendo. Gianni-san mi ha insegnato a usare i bastoni.
Vieni!, urlo ancora al bonehead, Vieni, cabrón!, ma lui resta fermo. Mi lancio verso di lui, lui si muove e allora lo sento. Sento il freddo del metallo. Sento lo squarcio, lo vedo, e vedo la faccia del bonehead che diventa ancora più bianca e la lama cade a terra.
Uno di loro urla Che cazzo hai fatto? Poi scappano, scappano tutti, anche Roberto. Lupo si ferma un attimo sulla porta, si volta, mi guarda, scuote la testa, poi guarda Gianni-san, ed esce.
Gianni-san è rimasto, si inginocchia vicino a me, e si sporca di sangue anche lui, e mi chiede se mi fa male.
Non mi fa male, non tanto, credevo che uno squarcio così facesse più male. Poi penso al libro della profe. Come faccio, adesso? Si incazzerà se non le restituisco il libro, non me ne porterà altri, e magari non parlerà più con me. E anche la vecchia gentile della biblioteca.
Diglielo, alla profe, che glielo restituisco…
Gianni-san mi guarda, ma non dice niente, o forse sono io che non riesco a sentirlo. Chissà cosa pensa di me, adesso.
Chissà cosa penserà di me Miguel. Chissà se penserà che sono un coglione come Paco o un duro come Robert Jordan.
Chissà cosa penserà di me la profe.
Chissà cosa penserà mio padre.
Chiudo gli occhi e inizio a cantare, la voce mi manca, ma mi sforzo, Anda Jaleo Jaleo, suena la ametralladora, e Gianni-san canta con me, y el cabrón se va a paseo, y el cabrón se va a paseo.

pubblicato su concessione dell’autore
il racconto è tratto da “Il gioco dell’inferno”
di prossima uscita per Besa Editrice

ETTORE MAGGI
è nato a Cagliari da padre genovese e madre sarda, e ha quasi sempre vissuto a Sestri Ponente (Genova). Lavora come tecnico di laboratorio precario nella ricerca scientifica da dodici anni. Attualmente lavora a Milano.

Nel 2003 ha vinto la sezione giovani del Premio Letterario Teramo 2003, presieduto da Walter Pedullà. È presente in diverse antologie di vari editori quali Addictions, Carabà, Ed. Terzo Millennio, Sonzogno e Mondadori (“L’uomo nel cerchio”, “La donna nel ritratto”, “Brividi neri”, “Non siamo stati noi. Racconti sul G8”, “Passi nel delirio”, “Fez, struzzi e manganelli”, “Professional Gun”), sarà ospite anche dell’antologia “Anime nere 2” di prossima uscita con Mondadori. Ha pubblicato un racconto sull’Agenda FNAC 2004 (insieme a C. Lucarelli, A. G. Pinketts, Alan D. Altieri, Alessandra C. e altri autori). Ha tradotto per la casa editrice Alacrán i romanzi Whiskey Sour di J. A. Konrath (2007), Corpus Delicti (2007) di Andreu Martín, Cronache di Madrid in nero (2007) di Juan Madrid. Collabora attualmente con la rivista letteraria M-Rivista del Mistero, con Sonzogno e con la casa editrice Alacrán di Milano. Ha pubblicato su Addictions, Il Foglio Letterario, M-Rivista del Mistero, Cronaca Vera, Confidenze, Il Segnalibro. Ha collaborato con la rivista AltroQuando-ArtVillageMagazine di Bologna nel 1999-2000.
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Attore Opera Viva. Dal 31 gennaio a Lecce.


Associazione Culturale
FondoVerri/TeatroBlitz

Il TeatroBlitz/Fondo Verri riprende il lavoro sulla formazione dell’attore.
Riaprono le iscrizioni per partecipare al Laboratorio Teatrale“Attore Opera Viva”, diretto dall’attore-regista Piero Rapanà e promosso dal TeatroBlitz/Fondo Verri. Il corso è rivolto ad un massimo di 10 partecipanti che vogliano avvicinarsi al mestiere dell’attore in un lavoro pratico sulle tecniche e i modi del fare teatrale. Un percorso di ricerca e sviluppo delle capacità espressive, percettive e creative del proprio essere corpo/voce, per acquisire gli strumenti necessari per creare la propria “opera”, avvicinarsi ad essere ” autore/attore”. Dal gesto al movimento, dal respiro al canto, dal silenzio alla parola, dall’idea alla costruzione , un lavoro sull’ascolto, sulla percezione e scoperta delle capacità fisiche-sensoriali, e un approccio alla dizione, drammatizzazione, recitazione e messa in scena, queste le materie di lavoro per 4 mesi di laboratorio

Il corso avrà inizio il 31 Gennaio, con frequenza bisettimanale ogni martedì e giovedì dalle 19,30 alle 22.00.
Le adesioni per partecipare al laboratorio sono aperte sino al 30 Gennaio e devono essere comunicate al n° 0832.304522 o fondoverri@tiscali.it.

TeatroBlitz/FONDO VERRI
Via S. Maria Del Paradiso n.8 Lecce
telefax 0832.304522 fondoverri@tiscalinet.it

Incipit


Luciano Pagano
Incipit

Dal profondo della terra preme
Nelle vene il sangue
Di padre di madre ogni globulo chiede
Che io ami in eccesso
Sia il bene assoluto che assolve
Per ciò che avete fatto di ciò che non avete fatto
Delle cose visibili in quelle invisibili
Delle cose buone e di quelle ingiuste
Grido che stridulo rende secco
Il rumore della finestra alluminio roveto
In estasi di serrande di serrande un giorno
Hai udito il tuono.

La lettera al padre
Miniata da Kafka pure iniziava
Con queste parole: “Caro Papà”.

(in foto Guglielmo Malato, Famiglia)

Il "teatro totale" di Alfio Petrini


Enrico Pietrangeli
su “Teatro totale” di Alfio Petrini

Titivillus, diavoletto dello spettacolo, si manifesta rendendo fruibili idee integre dalla censura di “monaci medioevali” ed accoglie questo saggio di Petrini nella sua collana Altre visioni, dove prendono forma ulteriori spunti per la didattica del settore. Teatro totale è sintesi e strumento di ricerca, momento d’intersezione delle arti e, al contempo, uno scorcio rinascimentale, prospettiva verso il più antico e connaturato varco predisposto a sincretismi e sinestesie, una pluralità del linguaggio che non può rinnegare le origini, per ricalcare più direttamente il pensiero dell’autore. Quella del teatro totale è, in ogni caso, un’esperienza che vede coinvolto Petrini in un lungo percorso, di cui compare a tergo del libro quella relativa al primo convegno internazionale svoltosi a Roma nello scorso 2001. Attore, regista, drammaturgo, critico e redattore della rivista INscena, l’autore, in questo libro, si avvale dell’introduzione di Giancarlo Sammartano, empatica e gradevolmente romantica nel rivendicare attraverso la scena “un volontario destino”; forse un po’ più riduttiva nel rilevare le vesti di un “apprendista proletario che si fa maestro aristocratico”, un interessante spunto di dibattito s’intravede comunque nella chiusa: “salutare con-fusione di Teatro e Vita”. Petrini guarda alla ricerca senza mai perdere di vista la tradizione, fintanto da ravvisare “una necessità sociale” nella “pluralità del teatro”. “L’unità nella diversità” è il dogma che ne scaturisce. Nel complesso, risulta essere un ottimo compendio generale, sviluppato con pathos e tesi originali che tendono a personalizzarne la fattura. Ripercorrendo le varie strutturazioni del teatro, si approda in maniera più incisiva verso le avanguardie ed il teatro futurista, profondamente rivalutato attraverso la figura di Marinetti, sul quale il silenzio imposto viene additato come preconcetto ideologico sul giudizio artistico. Il paragrafo iniziale dedicato al teatro totale evidenzia subito una prima grande figura, quella di Wagner, il teorizzatore, ma anche quella di Artaud ed il suo “doppio” prende subito consistenza come un inevitabile punto di riferimento per l’intero argomento trattato. Naturalmente sia Stanislavskij che Grotowski sono imprescindibili come eredità del teatro più moderno. Grande rilevanza è riservata alla poesia o meglio a quel “valore aggiunto” inteso a sottolineare che teatro e parole sono strettamente vincolate alla corporeità dell’azione, “parola del non detto”. Se “l’opera d’arte esiste nel suo divenire”, il regista non può far altro che tradirla per amore ed è un “fare poetico” che racchiude il “favoloso possibile” a ricondurlo al nulla, ovvero allo “spazio della creazione”. Beckett e Shakespeare sono quei “cattivi pensieri” indispensabili per scavare oltre e specchiarci nelle nostre eresie barbariche, tasselli pressoché fondamentali nell’espressione della totalità. Un attento sguardo è rivolto alla panoramica delle tecnologie digitali, alla multimedialità ma anche all’intermedialità passando per la pop art, la performance, l’happening e quant’altro ancora fino a reinventare “le regole della visione e della percezione”. Da Fluxus, John Cage e gli anni Sessanta alla più prossima generazione degli anni Novanta, così variegata e composita, sino a quel nuovo teatro che ha tentato di forzare verso un “ritmo cinematografico o da videoclip” giungendo, infine, alle forme cosiddette estreme o eXtreme, quelle dove la crudeltà è esplicita nelle ferite come nel dolore teatralizzati nella live art. Il paragrafo de L’attore me stesso conclude il tutto in un personale riepilogo della diretta esperienza dell’autore che poi è divenuto anche “maestro”. Teatro totale, ovvero la vita e tutte le sue sfumature che, abbattendo la barriera della scena, nel Novecento finiscono col coinvolgere il pubblico in prima persona. Che il teatro si possa confondere nella vita e viceversa, del resto, è cosa ben più remota. Il punto è determinare un’etica che, indubbiamente, è più facilmente accertabile nella rappresentazione, piuttosto che nella confusione. Magari anche in questo caso, perché no, nasce l’esigenza di una “fusione” con quanto l’autore vuole addurre alla luce come indispensabile aspettativa della vita.

Teatro totale, Alfio Petrini , Titivillus, 2006, 14€

questo intervento è comparso
su “Le reti di Dedalus” del mese di gennaio 2008

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Stefano De Matteis e l'editoria nel Sud. Intervista di Andrea Di Consoli


Dopo quasi un anno di fermo (il tempo di cambiare promotore, e aumentare il numero delle uscite) “L’ancora del Mediterraneo” e “Cargo“, le sigle editoriali napoletane, tra le principali del Sud, tornano fra qualche giorno in libreria. Dopo aver fatto esordire scrittori come Saviano, Pascale, Lucente e Zaccuri, e dopo aver pubblicato libri di Berardinelli, Naldini, Cederna, Fofi e Niola, si prevede un anno molto ricco per la piccola casa editrice campana.
Il direttore e fondatore delle sigle è Stefano De Matteis, nato nel 1954 a Napoli e formatosi, sin dal 1977, a Milano, lavorando da Feltrinelli, da Garzanti e, dal 1985 al 1992, con Mario Spagnol della Longanesi.
Nel 1992 De Matteis decise di ritornare a Napoli, dove prima ha fondato una rivista con Gustav Herling (“Dove sta Zazà”), poi ha collaborato a “Il mulino” e alla pugliese “Argo”, fino a fondare, nel 1999, “L’ancora del Mediterraneo” (“Cargo” nascerà, da una costola de “L’ancora”, nel 2005).

De Matteis, perché nel Sud Italia non è mai nata un’editoria forte, a carattere industriale?
Primo, perché al Sud non c’è mai stata una vera imprenditoria di mercato. Secondo, perché l’editoria non è mai stata vista come un’attività remunerativa, ma semplicemente come qualcosa che rientrava nei lussi dell’assistenza istituzionale. Quindi non si è mai costituita un’imprenditoria che lavorasse sulla cultura. Non a caso a Napoli c’è San Biagio dei librai, invece non esiste un San Biagio degli editori. La storia editoriale meridionale è soprattutto una storia di tipografie e di librai.

Quali sono, a suo avviso, le principali sigle editoriali del Sud?
Ovviamente “Laterza” e “Sellerio”.

Può l’editoria di progetto avere un legame forte con il proprio tempo?
Certo che può, sia per quel che riguarda L’Italia, sia per il Sud in particolare. Noi, per esempio, abbiamo anticipato quello che poi è capitato a Scampia, oppure il problema dell’immondizia.

Quali sono i principali problemi della piccola editoria di progetto?
Il problema principale della piccola editoria è saper creare un rapporto diretto con il lettore, nel senso che c’è un rapporto difettoso con i lettori, che adesso sta migliorando tramite internet, ma siamo il paese che spende meno su internet, perché non c’è un rapporto fiduciario con questo strumento e con le carte di credito. E poi c’è stato un grande cambiamento in libreria. Le librerie “grandi spazi”, come tutti sanno, smerciano soprattutto i famosi “non libri” per il famoso “non pubblico”.

Cosa significa fare l’editore a Napoli?
La difficoltà è questa: se tu apri un’impresa al Nord, le banche ti guardano come una persona interessante; se tu apri un’impresa al Sud, le banche ti guardano come un “mariuolo”. Noi abbiamo iniziato con capitali privati, non ci siamo mai seduti a nessun tavolo politico o di spartizione culturale, non abbiamo mai voluto nessun vantaggio dalle istituzioni e dall’università. Questa scelta ci è costata molto cara. Solo quest’anno, per la prima volta, faremo un accordo con la Regione Campania, perché pubblicheremo “Questa corte condanna. Spartacus, il processo al clan dei casalesi”, libro a cura di Maurizio Braucci e Marcello Anselmo. In questo caso l’accordo con la Regione è stato interessante, perché permetterà di distribuire il libro nelle scuole, dove verrà fatto un lavoro capillare sull’educazione alla legalità.

Il pubblico dei lettori è peggiorato in questi ultimi anni?
Assolutamente no. C’è stata però una forbice che si è molto divaricata tra quelli che leggono molto e quelli che leggono un solo libro all’anno.

I promotori hanno una grande responsabilità?
E certo che ce l’hanno, perché devono posizionare bene i libri, fare un braccio di ferro con il libraio, sempre meno motivato. Il libraio purtroppo non è più il consulente dei lettori, ma è uno che riempie le schede e sposta i libri. Un tempo il libraio consigliava, era una figura di riferimento per l’editore. Oggi, con la rotazione che c’è, i librai fanno solo lo spelling sul computer per vedere se un libro c’è o non c’è.

La piccola editoria è anche un luogo di improvvisati e di cialtroni?
Sicuramente. Ci sono alcuni come me che vengono dall’editoria “pura”, e molti che usano il surplus dei loro guadagni, fatti in altro modo, decurtandoli dalle tasse, e li investono in piccole case editrici. Mantengono quindi in vita una struttura dove non c’è un progetto forte. Se si prende invece Fanucci, e/o, Donzelli, e via a scendere fino a “L’ancora”, c’è un’identità tra imprenditore, ideatore e sistema editoriale. In molti casi, invece, c’è un’estraneità completa.

Ci sono anche speculazioni?
Penso proprio di sì. Ci sono situazioni dove si fanno grossi investimenti, non sempre trasparenti, per costruire marchi che possano funzionare a livello di mercato.

Quali sono le caratteristiche di un’editoria indipendente di progetto?
L’editoria di progetto costruisce un percorso sui tempi lunghi. L’editoria di speculazione, invece, è fatta di improvvisazioni che lasciano ben poco. C’è una tempistica che è completamente diversa, quando fai un’editoria di progetto, perché ti costringi ogni giorno a immaginare il futuro.

E’ rilevante l’editoria a pagamento? E come la giudica?
Purtroppo credo che sia molto rilevante, soprattutto quella che si appoggia all’università, in specie al Sud. Questo tipo di editoria, al di là di qualsiasi ragionamento etico e culturale, non mi piace per due motivi: primo, perché si crea una ridondanza di mercato, perché s’intasano le librerie con prodotti mediocri; secondo, perché si creano una miriade di sigle editoriali senza nessuna credibilità.

Chi sono i nemici dell’editoria di progetto?
I nemici sono tutti quelli che fanno non libri, non cultura, e che non insegnano a leggere. Il vero nemico, come suole dirsi, è la moneta falsa.

Quali sono le differenze tra “Cargo” e “L’ancora del Mediterraneo”?
“Cargo” è un marchio nuovo nato nel 2005. Fino ad ora vi abbiamo pubblicato 15 titoli (tra gli altri, Arenas, Grass, Goytisolo), mentre solo nel 2008 ne faremo altri 15. “Cargo” pubblica esclusivamente narrativa straniera, e la direttrice editoriale è Milena Ciccimarra. “L’ancora del Mediterraneo” manterrà la collana “Le gomene”, che pubblicherà libri di attualità e pamphlet, la collana “Odisseo”, che farà gli esordienti e i narratori italiani, e “Gli alberi”, che sarà la collana della saggistica “pura”.

Ci dica alcuni titoli in uscita.
Per “Cargo” è in uscita MacPherson, che è un giornalista di guerra americano, che ha scritto un romanzo su una banda di americani che decide di aiutare il presidente a trovare le armi di distruzione di massa in Iraq. Poi uscirà un altro americano di “disinformations”, che si chiama Nick Mamatas, con un libro intitolato “Come mio padre ha dichiarato guerra all’America”. Per “L’ancora” uscirà un reportage sui rom d’Europa di un austriaco, Gauss, che s’intitola “I mangiacani di Svinia”, perché uno dei grandi olocausti del ‘900 è proprio quello dei rom.

Avete anche pubblicato molti libri sui gulag e sui lagoai cinesi.
Adesso facciamo per il “Memento Gulag”, a novembre, la storia di un jazzista russo finito in un gulag. La collana su questi temi si chiama “Un mondo a parte”, in omaggio a Gustav Herling, che è stato, ed è tutt’ora, l’ispiratore de “L’ancora del Mediterraneo”.

(in foto la bibliochaise, di nobodyandco)

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Un cartello di sei metri dice Tutto Intorno a Te


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“Un cartello di sei metri dice Tutto Intorno a Te
ma ti guardi intorno e invece non c’è niente”

Fango, Jovanotti – Lorenzo Cherubini

A passo d'angelo: l'avventura Untitl.Ed


Presentazione della casa editrice Untitled Editori (Untitl.Ed) e del libro

“A passo d’angelo”

sabato 26 gennaio 2008, ore 19,00
presso la Libreria Icaro, via Liborio Romano 23, Lecce  

A passo d’angelo: l’avventura Untitl.Ed

presentazione della casa editrice Untitled Editori (Untitl.Ed) e del libro “A passo d’angelo

Interverranno:
Anna Maria Palladino (Untitl.Ed)
Mikel Capelli (autore)

Francesco Farina (giornalista)
Untitl.Ed

Untitl.Ed (Untitled Editori) nasce nel 2005, ed è stata la prima casa editrice a pubblicare esclusivamente libri scritti da blogger. L’idea fondante di Untitl.Ed è quella di creare un ponte tra l’autopubblicazione sul web e l’editoria tradizionale. Untitl.Ed sceglie i suoi autori in base a ciò che scrivono quotidianamente in rete, e li sfida a costruire un libro nuovo – su commissione cioè.
Si guarda al blog dunque non come a una vetrina di testi, ma come al vocabolario effettivo dell’autore, dal quale il libro intravisto prenderà impulso e struttura.
I libri Untitl.Ed sono tutti uguali e non hanno il nome dell’autore in copertina: untitled è inteso come de-titolato, ovvero privo di titoli preventivi che autorizzino lo scrittore a scrivere. Untitl.Ed invita pertanto i suoi autori a fare un passo indietro, a rinunciare a trasformarsi in personaggio-autore (costruendo su quest’immagine la fortuna del proprio libro), affidandosi solo alla forza e all’evidenza delle proprie parole scritte. Esattamente come avviene in rete – dove ognuno è relativamente anonimo, ma non per questo meno riconoscibile.

www.untitlededitori.com

A passo d’angelo

“D’angelo” è il passo di chi cammina colloquiando, con se stesso e col mondo. In marcia lungo il Cammino di Santiago: un andare musicale in versi e prosa, energico e pacifico, per dar conto di sé.A passo d’angelo è il settimo libro di Untitl.Ed, il primo della terza “terna” di libri.
Mikel Capelli è un blogger. Il suo indirizzo in rete è www.sghembo.com

salotto post litteram [segni in forme diverse]


salotto post litteram [segni in forme diverse]
rassegna letteraria di Arterìa e Centro Studi Opìfice
Bologna, 27 Gennaio – 25 Maggio 2008

salotto post litteram è la rassegna letteraria che accompagnerà la città di Bologna fino all’estate. Le date in rassegna saranno venti e vedranno alternarsi le migliori energie del panorama letterario italiano, rappresentate da sedici case editrici. Ci saranno incursioni musicali, reading, videoproiezioni, installazioni, fumetti e vignette.

h. 19.30 – Arterìa, Bologna

Domenica 27 Gennaio 2008
Gianmichele Lisai (chitarra)  presenta e accompagna nelle letture Ivano Bariani con “Il precursore” (Sironi editore) e Giorgio Fontana con “Buoni propositi per l’anno nuovo” (Mondadori)

Sabato 2 Febbraio 2008
Kai Zen. Presentazione del libro La strategia dell’ariete e dei progetti di Romanzo totale.
presenti Jadel Andreetto e Bruno Fiorini

Sabato 9 febbraio 2008
Sentieri di (r)esistenza. Reading di Anonima Scrittori

Domenica 10 febbraio 2008
Emidio Clementi, Paolo Fresu e Paolo Nori raccontano Sardinia blues, il nuovo romanzo di Flavio Soriga (Bompiani)

Domenica 17 Febbraio 2008
Davide Bregola, Alessandro Sanna e Gianluca Morozzi presentano il fumetto “Quel diavolo di Nuvolari” (Bloom editore)

Domenica 24 Febbraio 2008
XoMeGap presenta Mutazioni (LAB)

Sabato 1 Marzo 2008
Reading per voce sola. Cristiano Armati in “Rospi acidi e baci criminali”

Domenica 2 Marzo 2008
Fabio Stassi in La esperanza perdida
reading per immagini di repertorio e musica dal romanzo È finito il nostro carnevale (Minimum Fax)

Sabato 8 Marzo 2008
Davide Caforio e Ausonia presentano il fumetto P-HPC (bloom editore)

Domenica 9 Marzo 2008
Gianluca Morozzi e Alberto Sebastiani presentano “Mangiacuore” di Francesca Bonafini (Fernandel)

Domenica 16 marzo 2008
Eduardo Zarelli presenta “Andai, dentro la notte illuminata” di Giancarlo Liviano D’Arcangelo (Pequod edizioni)

Domenica 30 marzo 2008
BIRRA. Bagarre Internazionale Riviste Alternative

Domenica 13 Aprile 2008
Talking, Reading & Music dal libro “Orfani di padre” di Michele Gabbanelli (PeQuod edizioni).
Cristiano Ballarini (music), Davide Bugari (reading), Michele Gabbanelli (talking)

Domenica 20 Aprile 2008
Gianluca Morozzi e Silvia Pingitore presentano “Via Ripetta 218” (Giulio Perrone editore)

Domenica 27 aprile 2008
Zandegu editore presenta il fight-reading di Giampelmo Schiaragola e Loris Righetto : La guida per aspiranti supereroi contro quella delle parole che vale la pena di usare almeno una volta nella vita

Domenica 4 Maggio 2008
Gian Paolo Serino presenta Satisfiction

Domenica 18 maggio 2008
Simone Olla presenta “Italian Fiction” di Michele Vaccari (isbn edizioni)

Sabato 24 maggio 2008
Gianluca Morozzi presenta “Il Buio addosso” di Marco Missiroli (Guanda)

Domenica 25 maggio 2008
Ettore Menguzzo (chitarra), Ferro Guerra (basso) e Lapo Calosi (percussioni)  presentano e accompagnano nelle letture Giuseppe Braga in “Ma tu lo conosci Joyce?” (Sironi editore)

Contatti:
Simone Olla – Ufficio stampa Arterìa
Tel: 051341094
Sito internet: www.opifice.itwww.arteria.bo.it
e-mail: simoneolla@gmail.comufficiostampa@arteria.bo.it

Centro Studi Opìfice – www.opifice.it

Il Centro Studi Opìfice (Cagliari) nasce nel 2002 con l’obiettivo di coniugare pensiero e azione nella pratica metapolitica. L’attività dei 6 opificisti (Simone Olla, Simone Belfiori, Giovanni Curreli, Carlo Corsale, Fabrizio Bolognesi, Joaquime) attraversa la filosofia e l’arte in ogni sua forma: si passa quindi dallo studio su testi alla organizzazione di convegni, dalla produzione di scritti alla presentazione di libri, avendo uno sguardo molto attento nei confronti dei mezzi di comunicazione di massa.

Il portale www.opifice.it vede la luce nel Novembre del 2004 e si divide fra letteratura e musica, filosofia e cinema. Nel 2006 inizia l’avventura radiofonica con Filtro Letterario, programma scritto e musicato da Opìfice per Radio Alzo Zero. La nuova scommessa targata 2008 si chiama ALBUM Europa, progetto di scrittura collettiva che vanta collaborazioni eccellenti.

Arterìa www.arteria.bo.it

Arterìa è un progetto che si propone di aprire degli spazi di partecipazione, interazione sociale e promozione culturale e artistica.
Il locale in Vicolo Broglio, angolo Via San Vitale a Bologna, ha le caratteristiche architettoniche ideali per sviluppare un progetto multiculturale trasversale rispetto alle diverse espressioni artistiche, avvalendosi di tutti gli strumenti della comunicazione.
Le pietre antiche di un palazzo millenario entrano a far parte della scenografia globale di uno spazio che fa dell’interazione di natura e tecnologia la sua caratteristica principale.
Arteria diventa così palcoscenico di concerti dal vivo, dj set, spettacoli teatrali e di danza, mostre e installazioni, proiezioni e rassegne cinematografiche, eventi letterari, culturali e sociali. Si candida quale punto di riferimento per gli artisti e per chiunque sia interessato all’arte nelle sue molteplici forme o a un intrattenimento con contenuti culturali.

Vizi pubblici. Private virtù.


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Ringrazio Simone Giorgino, che sul suo ottimo sito Audiopoesia, legge una delle poesie che ho scritto e a cui sono più legato, Non te. Potete ascoltare la sua lettura qui. Perché sono emozionato? Perché è la prima poesia che ho pubblicato, perché è una delle prime che ho scritto, perché mi fa ricordare di quando andavamo a casa dei poeti e dei maestri salentini (li mesci) con i nostri fascicoli di versi per chiedere un parere o un consiglio, perché l’ho scritta quasi quattordici anni fa e quindi perché mi viene in mente una cosa “cazzo, quanto sbattimento!”.

(in foto, due autori di venenum, un poker d’assi e un kappa)

I poeti non dormono mai. Incontri e letture di giovani e giovanissimi autori


I poeti non dormono mai
Incontri e letture di giovani e giovanissimi autori

I Poeti non dormono mai è un progetto nato da un desiderio comune: riuscire ad ottenere uno scambio tra i migliori giovani poeti dell’intera penisola, attraversando tutte le maggiori città italiane, da Bologna a Milano, a Roma, fino a Napoli e Lecce. Le serate vedranno la partecipazione di poeti, professori e critici letterari, che introdurranno i reading e saranno chiamati ad esprimere pareri in merito ai testi dei poeti coinvolti negli incontri.
I giovani poeti, selezionati dal Centro di Poesia Contemporanea dell’Università di Bologna, leggeranno i propri versi a partire dall’inizio del prossimo anno, confrontandosi con il pubblico e accompagnati dalla musica di diverse band e artisti locali, colpi di scena, cultura e divertimento. Chiunque fosse interessato a partecipare e leggere i propri versi, purché abbia un’età pari o inferiore ai 30 anni, invii  i propri dati e almeno 10 poesie all’indirizzo  poesia@alma.unibo.it.
I più promettenti saranno selezionati dai membri del Centro di Poesia Contemporanea dell’Università di Bologna e prenderanno parte alle letture.

"La ragazza sordomuta", di Dora Albanese


Dora Albanese
La ragazza sordomuta

Edith allunga la piccola mano verso il cappotto di uno di quei due signori; il suo corpo si sposta e tira – con un leggero sforzo, quasi impercettibile, tanto che non trattiene nulla tra le mani, nessun lembo di stoffa, nessun bordo di certezza.
– Prendetemi con voi, non vi darò fastidio, sono qui, proprio dietro i vostri corpi, tenuta al caldo dalle vostre ombre tanto cercate, non lasciatemi di nuovo al sole, non spostate il passo di un solo centimetro, avvolgetemi, non girate l’angolo senza prima voltarvi, accorgetevi di me, vi prego, sono a un passo da voi -.
Le ombre dei due signori si dividono, aprendosi come si apre un sipario, lasciando di nuovo Edith al centro del palcoscenico, sotto il sole della grande vetrata dell’orfanotrofio.
La piccola resta ferma con le mani nelle tasche del grembiulino di stoffa a fiori, fatto su misura da suor Diletta – quella che le offrì un abbraccio per coprirla dal freddo dell’abbandono.
Piega la testa rosso rubino verso la spalla destra, mentre il sole sembra non voler tramontare mai dai suoi capelli; piuttosto succhiare, succhiarne tutto il colore, come per trarne energia – mentre i raggi, che le cingono il capo, appaiono come un’aureola infiammata.
Edith s’inginocchia e prega, unisce le mani, puntandole verso il cielo, alza il volto bagnato dal sole – ha sul viso i lineamenti di una giovane madonna, forse la madonna dei boschi, quella madre che, almeno una volta nella vita, ogni uomo ha provato a immaginare.
Due gocce le scivolano pastose dagli occhi, percorrendo la curva del naso, e fermandosi proprio sotto le mascelle.
Ha gli occhi scuri; e il naso, che le cade dritto, si unisce in una punta ottocentesca, che fa appena ombra sui contorni delle labbra superiori, rendendo quasi invisibile il piccolo porro cresciutole proprio là, al centro delle labbra.
Ora una ruga si impone – come fosse una cicatrice – e le divide la fronte a metà.
È triste, di una tristezza che ha trovato nido nella sua cassa toracica, nel suo ventre, in ogni vertebra, come un elemento in più, da non poter mai più eliminare.
Erano già cinque anni che era chiusa in quell’orfanotrofio, cinque anni che aveva smesso di parlare e di sentire.
Sua madre era una cantante, e raccontava sempre a Edith che, se avesse avuto una figlia, l’avrebbe chiamata come il suo idolo, Edith Piaf, e che l’avrebbe fatta diplomare al conservatorio, le avrebbe fatto suonare il pianoforte, le avrebbe messo a disposizione ogni mezzo per poter divenire una cantante affermata; suo padre, invece, era un insegnante di latino, contrario ai discorsi di sua moglie, che destabilizzavano la fanciulla, portandola in un mondo incantato, troppo lontano dalla quotidianità.
Edith, dunque, era in mezzo a due sogni: quelli paterni, che la vedevano dietro una scrivania, ad insegnare latino; e quelli materni, che la vedevano cantare nei migliori locali parigini. Di certo la sua estrazione borghese non l’avrebbe fatta morire di fame, nel caso questi sogni non si fossero avverati, e la piccola ne era consapevole, perciò annuiva senza fatica.
Sua madre – Caterina, italiana d’origine – era una donna giovane, bella, di una bellezza panica, rossa nei capelli e scura negli occhi, longilinea e accattivante nella voce; aveva sposato il suo insegnante di latino per sfida e per capriccio, pentendosene subito dopo – erano troppi gli anni che li dividevano, e troppe le diversità caratteriali.
Suo marito le impedì da subito di andare a cantare nei locali; non era bene che la moglie di un professore di liceo si esponesse in luoghi frequentati da gente così.
È proprio in uno di questi locali – frequentati di nascosto – che conobbe Giorgio, un chitarrista italiano. Non passò una settimana da quell’incontro che i due si innamorarono e decisero di lasciare la Francia e tornare in Italia.
Caterina, dunque, lasciò da parte tutti gli altri sogni, visto che il suo – quello di poter cantare in giro per il mondo, e di poter ritornare nella sua Italia – si stava appena avverando.
Cinque anni addietro abbandonò Edith davanti alla chiesa di Rue de la Fenac – la piccola allora aveva sei anni, ed era già troppo grande per dimenticare il tradimento materno.
Così svanì sua madre, percorrendo un viale alberato d’autunno – memoria senza più lineamenti, perché a rimanere è solo l’essenza. Ci vuole poco tempo per perdere la memoria di un ricordo.
Ad accoglierla fu proprio una monaca, suor Diletta, che poi le fece da balia all’interno dell’orfanotrofio.
Tutti sapevano che Edith era una bambina sordomuta, e tutti, specie i bambini, la evitavano, intimoriti da quell’ambiguità.
Indossava sempre la solita maglia nera con pallini bianchi, scarpette da ginnastica maciullate alle punte, e pantaloni neri corti alle caviglie, di una taglia in meno.
Le famiglie che frequentavano l’orfanotrofio – per scegliere quale giovane orfano prendere con sé – quando incontravano Edith restavano un po’ attoniti; la guardavano, le sorridevano, le dicevano parole dolci, giusto per sentirsi dei benefattori, per conquistare la sua benevolenza.
Gli esseri così incompleti sembra nascondano dei misteri, come fossero sacerdoti o angeli del Purgatorio – e l’uomo teme il silenzio sfingeo, e vorrebbe essere benedetto da questo mutismo contemplativo.
Edith allora li seguiva, con gli occhi e con i piedi; li seguiva e certe volte si aggrappava ai loro cappotti, tirando, come unico gesto di approvazione, ma poi tutti andavano via, spaventati, verso bambini dai colori meno vivaci, con la carnagione limpida e gli occhi del cielo.
Utilizzava la notte, Edith, per sciogliere la lingua dai crampi. Andava in bagno, tappava con una pallina di carta igienica il buco della serratura, e cantava sottovoce le canzoni della sua infanzia, quelle di Edith Piaf, che piacevano tanto a sua madre. E proprio in quei momenti pensava a lei, e a quei sogni rimasti incastrati in un cassetto, a quel padre che non l’aveva mai cercata, e che forse si era rifatto una famiglia. Tutta la rabbia di colpo esplodeva, riempiendole il viso di macchie rosse, annebbiandole la vista, facendola tremare.
Suor Diletta le dava sempre dei tranquillanti prima di andare a dormire – gliel’aveva prescritti la neurologa dell’istituto -.
Nessuna suora sapeva parlarle; solo suor Diletta sapeva farlo, con certi movimenti veloci e sincopati delle mani, con smorfie labiali, e con sorrisi. Alcune monache provavano ad offrirle balocchi, altre si limitavano ad accarezzarle i capelli, ma nessuno era riuscito ad entrare nel suo segreto, a nessuno mai era venuto il sospetto.
Nessuno si preoccupava d’interrompere certi discorsi, quando passava Edith.
Una di quelle notti si sentì morsa dal nervosismo; la lingua le faceva male più del solito, i crampi erano intensi e duravano molto, le orecchie le fischiavano. Aveva appena gettato i tranquillanti nel water, dato la buonanotte alla suora amica, messo la vestaglia, atteso sotto le lenzuola che il sonno arrivasse, ma i dolori erano acuti, le labbra le tremavano, la palpebra destra le pulsava, era in preda a un terrore panico, e non sapeva cosa fare, aveva appena rifiutato di prendere i tranquillanti – quelle pillole la indebolivano, le facevano girare la testa -.
Iniziò a credere di essere diventata pazza, di non avere più nessuna possibilità di salvezza, nessuna via d’uscita dal suo segreto, del quale era diventata prigioniera.
Un segreto che somigliava sempre più a una condanna.
Aprì la finestra della stanza. Vide la brina sugli alberi e sulle foglie, e anche le strade, ricoperte da uno strato sottile di giaccio, brillavano sotto i fanali delle macchine, che improvvisamente rallentavano.
Quella era proprio una di quelle notti fredde e buie quando la luna sembra non arrivi a illuminare tutta la terra. Edith decise di fare un giro nell’istituto, e magari fermarsi a recitare di fronte alla statua di Sant’Anna un atto di dolore, ma una voce, che somigliava a un lamento – sembrava fosse un fantasma che veniva a punire la sua anima menzognera – iniziò a farsi sentire, a penetrare nella mente di Edith.
La fanciulla fu pervasa da un tremore che la bloccò di spalle al muro. Persa e rassegnata, iniziò a pregare a voce bassa; pregava, chiedendo perdono per quelle menzogne, per aver mentito a tutti, anche a suor Diletta – per averle negato ogni parola di ricompensa. E mentre pregava, il lamento si faceva sempre più acuto.
Si accorse, respirando ansiosamente nel silenzio, di una porta socchiusa – era da quella porta che fuoriuscivano i lamenti. Lamenti che nessuno avrebbe mai raccolto, vista la collocazione del ripostiglio. Si affacciò e vide. Dunque nessun fantasma si stava lamentando, ma un bambino, fatto di pelle e di ossa. Un bambino che chiedeva alla suora, che era nella stanza con lui, di lasciarlo in pace, di smetterla di molestarlo. Un bambino di dodici anni – un ragazzo, ormai – che da chissà quanti anni subiva in silenzio le molestie sessuali di quella monaca perversa, che lo costringeva ogni notte a fare l’uomo.
Edith, già molto provata, tirò un respiro, bloccandolo negli addominali, si piegò sulle ginocchia, slacciò i lacci e ne prese uno in mano, diede un calcio alla porta, e gridò, gridò con tutta la forza che aveva in corpo:
“Basta, basta, basta…”.
La suora si voltò; era spaventata da quella figura diabolica, da quel segreto svelato; cercò allora di aggredirla, di soffocare le grida improvvise della bambina. Invece il ragazzo, rannicchiato in un angolo, rivestiva le sue nudità ferite. Edith afferrò la suora dai capelli, la strattonò a terra, e le strinse il laccio in gola, finendola così – finendola tra le urla del ragazzo, e quelle della Madre Superiora che, però, accorse troppo tardi.
Qualcuno gridò al miracolo, quella notte: la sordomuta aveva gridato, la sordomuta aveva sentito.

IBRID@POESIA. L'amore virtuale.


Arti della connessione è il nostro macro-tema



Vogliamo valorizzare le nuove modalità creative del nostro agire comunicativo in rete e dare spazio alle strategie privilegiate della comunicazione in ambienti virtuali – alle quali stiamo dedicando in altri spazi tutta la nostra attenzione analitica – senza dimenticare che l’interazione e l’interattività hanno anche radici nella nostra storia e della nostra cultura.

In questa prospettiva, stare dentro la rete e presentarsi perciò come autori che creano nel virtuale significa anche poter rileggere, reinterpretare e innovare la nostra tradizione culturale e letteraria. In questa direzione il blog, fin dalle sue origini, tende a bruciare le distanze tra scrittura e vissuto, tra linguaggio e vita; lo fa utilizzando nuovi canali espressivi: al tempo stesso comunicativi e facilmente accessibili.

All’interno della rete è sempre possibile individuare, nella nostra scrittura, la trama delle appartenenze, il gioco dei rimandi incrociati, la complessità proliferante dei riferimenti. L’autore, certamente, continua ad esistere, ma la sua identità è, sempre di più, lo specchio abitato da una molteplicità di volti, di vite parallele, di storie, di avvenimenti, di culture. In questa prospettiva vogliamo dare spazio, tramite VOCI DELLA POESIA – IBRID@POESIA, alla poesia virtuale del terzo millennio.
Coordinatore di VOCI DELLA POESIA – IBRID@POESIA è Marco Saya.

IBRID@POESIA. L’amore virtuale è qui.

(immagini tratte da Virtual Love, Desire Inc., Binge, di Lynn Hershman Leeson)

Viola Amarelli


Viola Amarelli
Poesie

Alfabeto

S’affanna, è importante
telefona, scrive
solleciti fili di ragnatela
il saggio, il racconto, la presentazione
polemiche a freddo contando i contatti,
corteggia editori, spia critici e amici
schernisce new entry e le top dei successi,
tra scambi e contratti giurie e recensioni
blandisce, recide, esibisce pulsioni,
la sera è stanchezza
però soddisfatta
in fondo qualcuno lo chiama scrittore.

Quartieri Spagnoli

Magro il palazzo pigiama, la canottiera
nera su nero lungo i quartieri
spande eleganza,
guepiere di pizzo in pieno giugno pallido avorio
incede assorto, le rughe tese, in processione
asceta in cerca della bellezza
intorno il vuoto, nessuno guarda
mentre gli fanno tacito largo
come da sempre,
segno e rispetto
statua vivente sacra a follia.

Senile

La vecchia non riusciva a morire
ogni tanto cambiavano un pezzo
questioni ereditarie ma grazie a dio la memoria
era oramai un oblio.
Con la dentiera in giada e caolino
-sopravvivono spesso le ricche-
lampeggiava sorrisi ai passanti
bisnipoti generalmente, loro raccomandando
di non prender molto sul serio.
La vita alla fine, quella che a lei non riusciva,
non pareva valerne la pena.

Nullius

Oh, i retori della metafisica,
gli agghiacci afasici, le immagini kabuki
o sul versante del pudor composto
artatamente il tono medio basso.
Torniscono fonemi lemuri
ormai del vacuo, degradano
cascame sintagma raffinato
il nulla un tempo ierale.
Incùbe li sovrasta la morte
al singolare, analfabeti e a nascite
e a voglie, eros, immortali
anche a voler trascurare i letti
poi da rifare.

§

Viola Amarelli, tirrenica di nascita e di elezione, ha pubblicato con diverso eteronimo ricerche storiche ed economiche. Sul versante poetico si segnalano gli e-book “Encausto” (2004) e “Notizie dalla Pizia” nella collana Ekesy di Vico Acitillo,124 e la raccolta “Fuorigioco” (2007) per Edizioni Joker. Suoi testi sono disponibili in rete su “Poiein” ed “Erodiade”. Hanno scritto di lei Antonio Fiori, Raffaele Piazza (qui e qui). Suoi versi tratti da “Notizie dalla Pizia” sono stati interpretati dalla poetessa performer Rita Bonomo e possono essere ascoltati su OboeSommerso (qui)

 

Nerone oltre la leggenda


Enrico Pietrangeli
su “Nerone oltre la leggenda”

La Ugo Magnanti editore è una piccola casa editrice presente sul territorio pontino e dedita a stampe rigorosamente limitate e molto curate. Anzio, città natale del più discusso imperatore romano, è anche lembo costiero che si approssima all’editore della contigua Nettuno attraverso una complessa e tuttora avvincente ricerca che viene condotta sull’argomento. Yves Perrin, segretario della Sociètè Internazionale D’Etudes Nèroniennes, nella prefazione chiarisce subito che “esistono due Neroni, quello degli studiosi e quello dei non specialisti”. L’immagine convenzionale è quella di un “folle dedito alle orge, spietato matricida e uxoricida”. In queste pagine emerge una figura contrastata, denigrata ed esaltata, amata e odiata, fintanto da rendere la stessa storia più umana; frutto di ricerca ed imparziale dedizione vissuta con autentico pathos. Dopo la morte dell’ultimo dei Giulio-Claudi, Tacito osserva che “era stato reso pubblico un segreto di Stato: potersi creare un imperatore fuori di Roma”. Per molti anni furono in tanti a crederlo ancora vivo e pronto a tornare, diversi furono coloro che presero il suo nome in prestito o a pretesto. Di fronte all’evidenza della sua morte, c’è chi non rinunciò a credere che un giorno sarebbe persino resuscitato rendendo a tutti giustizia. Di giustizia a lungo si occupò in vita Nerone, determinato nel consolidare un potere assoluto, di svolta per quel che sarà la successiva iconografia del tardo impero, sempre più minacciato tanto nelle sue faccende interne quanto nelle pressioni esterne esercitate sui confini. Tra i vari filoni etimologici sulle leggende divampate, ci si addentra in due tradizione pagane, l’una favorevole e l’altra contraria a Nerone. Postuma è quella avversa dei cristiani, sviluppatasi nel corso del III° secolo, che lo presenta come un persecutore in una fosca visione apocalittica. Inoltre sussiste un’ulteriore tradizione ostile di stampo giudaico, che si origina intorno alla distruzione del tempio di Gerusalemme. Con l’umanesimo e la proiezione interpretativa della verosimiglianza storica, l’argomento s’inizia a discernere più attentamente. Taluni studiosi contemporanei giungeranno alla conclusione che i primi cinque anni del regno furono un modello di saggezza, umanità e lungimiranza. Politica estera di mantenimento, garantismo ante-litteram, riforme fiscali ed economia programmatica caratterizzarono questo periodo nonostante i prevedibili crescenti conflitti tra il monarca e l’apparato aristocratico senatoriale. Gerolamo Cardano, autore de L’Elogio di Nerone, resta un opportuno esempio tra quanti, su questo fronte, si sono spinti anche oltre. Tra le probabili cause dell’incendio di Roma, risaltano le condizioni di sovraffollamento urbano, l’impegno di Nerone a condurre i soccorsi in prima persona, il fanatismo di taluni cristiani che vedevano nella libertina Roma dei tempi la bestia dell’apocalisse da estirpare nei flagelli della carestia, della morte e del fuoco. Di fatto Nerone, al contrario di certi successori, non mise mai in atto una politica anticristiana limitandosi a processare le frange ritenute colpevoli del solo incendio. Paolo di Tarso, già presente a Roma e noto alle autorità, non venne neppure inquisito. Un imperatore amato dalla plebe romana ma anche nell’antica Lione, ovvero Lugdunum, per la ricostruzione avvenuta dopo l’incendio. A proposito di ricostruzioni, la Domus Aurea resta d’esempio, nelle descrizioni tramandate, non solo per gli sfrenati e dispendiosi lussi, ma anche per la modernità e le soluzioni integrative. L’artista Nerone esordisce in pubblico a Napoli, coronando poi le sue ambizioni durante il lungo e dispendioso soggiorno in Grecia, dove finirà col distogliersi completamente dalla realtà politica. Lungo spazio è lasciato alle congiure che si susseguiranno, fallendo anche ingenuamente, nel volgere al termine del regno, a cominciare da quella di Pisone fino all’ascesa di Galba, avvenuta imprevedibilmente nell’ormai critica ed irreversibile situazione di dispendio e declino psicofisico di Nerone. L’ultimo capitolo è un excursus sulle messe in scena nel corso dei secoli, ma qui, probabilmente, occorreva scrivere un secondo tomo. Un imperatore la cui sensibilità artistica non ha giovato molto e a cui la creazione artistica, indubbiamente, sembrerebbe essersi pressoché ininterrottamente ispirata. In sostanza, se già il persistere troppo nell’arte non conduce mai, bene che vada, a proficui frutti, dovendo gestire un potere, non può che condurre ad enormi sciagure.

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Io sto alla poesia come mia madre all'aspirapolvere


Giovanni Santese
10 Poesie



Io sto alla poesia come mia madre all’aspirapolvere

Avevo
non senza fatica
trovato la chiave
per scardinare riserve pregiudizi
e invidie (che non si sa mai).
Avevo
non senza fatica
ravanato fra l’humus di parole
sparse nei fogli disposti
a raggiera
fra il pavimento e la scrivania.
Avevo
non senza fatica
allontanato la confezione tentatrice
di antidepressivi
sciolti nella vodka
prima che nel mio sangue.
Avevo
non senza fatica
legato insieme parole eterne
(avrei scoperto poi)
che lette d’un fiato
potevano stordire il cervello
prima di sciogliersi nel sangue.
Avevo
non senza fatica
creato parole immortali
(avrei scoperto poi)
e pure mia madre quando aprì
la porta
ebbe modo di farmi notare:
“Pensa alle cose serie meglio
che la poesia non ha mai dato da mangiare
a nessuno.
Tieni, passa l’aspirapolvere che fai una cosa utile!”
Per la prima volta ho faticato a darle torto.


Commiserie

Entrava
con l’arroganza
e con
gli orpelli consueti
stentava l’italiano
e la sincerità
“Tu dai soldi per latte
lui fame”diceva
indicando il bambino
che intanto trafficava
sotto il banco dei dolci
e dei soldi.
“io no soldi”risposi
“se vuoi mangiare dare panino
e un latte bambino”
preso da una forte crisi
d’identificazione (un po’ comune
invero)
“sei stronzo…
bastardo che la morte sia
per te un sollievo….
per la vita che ti aspetta.”
Ribattè lei in un italiano
perfetto.

27 ottobre 1996
A CLAUDIA RUGGERI

La luce di poche stelle
segna il limine oscuro
tra il davanzale e il solco profondo
nella tua anima.
E’ una vertigine che cresce
e offusca e divora
che spinge all’urgenza del verso
che sia forte, riconoscibile, devastante.
E’ una musica che accompagna
i tuoi piedi scalzi
che ti fa girare in tondo
giro giro tondo
giro intorno al mondo.
E’ ancora vertigine urgenza
che ti fa pensare ai tuoi versi
e ti lancia nella tua ultima danza semiotica.
” volli/ il folle volo delle streghe/volli”


Alla corsa dei cavalli

Penuria
di pecunia
la pelle
ruvida sotto i rivoli
di sudore
i numeri
scorrono veloci
dentro i cristalli
liquidi
Il respiro aumenta
avvicinandosi l’arrivo
insieme ai santi
di tutto il paradiso.


Apparenza e facciata

Le porte dei sinonimi
si aprirono
alla creatività dei singoli
per sciolinature
che si volevano perfette

Le porte delle scuole
ludico-creative
si aprirono
per insegnare a essere bambini
o ad opporre l’aggettivo
al verbo

Le porte della politica
si aprirono
al sociale in difesa della forma
del politicamente corretto
i ciechi dunque non vedenti
i sordi non udenti
i paralitici diversamente abili
si aggiunsero poi
i bidelli operatori scolastici
gli spazzini operatori ecologici

Domani
qualcuno aprirà ancora
quelle porte
vorrà arricchirle della beneficenza pubblica
resa mediatica
da studiosi di marketing
accenderà pozzi in Africa
filmerà i sorrisi
dei bambini più poveri
del mondo intero
lui
sarà quello in disparte
appena dietro il gruppo

Poi
verranno loro
i turisti giapponesi
ai quali le porte
si apriranno
i flash dei loro scatti
illumineranno le tante
cornici vuote ma lucide
tenute ben spolverate
i loro scatti
fermeranno la forma
impressa con la pressa
delle pari opportunità
respireranno l’aria linda
delle pari dignità
mentre qualcuno
sarà ben attento
con i piedi
a tenere nascosta
la polvere
e le incrostazioni
negli angoli
o sotto profumati tappeti.

P.E.

Dialogo principiato, abbandonato e mai ripreso con Antonio Verri

Perché vedi Antonio
ad uno scrittore capita, di trovarsi di fronte una campagna arida,di parole, estesa fin dove posano gli occhi, polverosa e sbrindellata quanto basta (e se non capita è perché non si è scrittori), matta e spessa ad assorbire i raggi dell’ispirazione, del tumulto, dell’abbrivio poetico potente quanto serve ad arare di solchi immortali tanta arsura spianata.

perché vedi Antonio
in quei momenti, in quei momenti là dico,è bello (o utile, dico) avere un alter ego, che parli per noi, che come un menestrello riunisca in uno spartito parole vuote apparentemente senza senso, ma che assumono leggendole una musicalità strabiliante, un alter ego insomma…con panni d’arlecchino, la faccia impiastricciata di neve e di farina, al lieve andare sbandando la figura, mima, sorride, fa boccacce..oh grandioso figlio del nulla, ma…è stefan, è stiffan l’inventore, il solitario impostore, lo svagato cercatore di lucchi, l’eterno pellegrino suasore, il sognatore cocente, babelico, fumoso..ma è proprio galateo questo mago che viene, questo diavolicchio che cresce come il timo..tira una parola dietro l’altra, simula uno squilibrio, continua il gioco..è tanto preso, però, che il tutto spesse volte gli sfugge di mano: ecco, allora è qualcosa di divino, piroettante, aristocratico (per usare i suoi suoni), allora nient’altro che parole, neologismi, accettazione propria, doppie, elisioni, d’una musicalità strana, umorale, faticante..(da parte, la mar: istigazione a movimenti lenti, riflessivi,a godere del tempo, istigazione al tabulare, all’intrico di fatterelli, numeri, folletti, cuoricini..istigazioni, istigazione alla cabala..) oh no, guatarazzi no, scalcioni puttenosi, minnàculi spersi, sguanci, ronze, parse, pizzi, gustose pasticche, quaresimali, mustocciomini, non v’è più alto mondo di questo vigneto,cellule serrate, rami a stella familiare..; e sotto questo vigneto, vi dico, è luce, è luce che pressa sul gran vuoto, che arrotonda l’idiozia dei caseggiati – questi che sono cristalli, questi che sono sorde caccole di luce, cadute in terra, diventate costoni pali treni, muntagne staziose, burri, corpi di luce melampina, croste graalitiche, varicellose, foolmoni e sarsi ferrosi,cloache..sono diventati

perché vedi Antonio
se la paura di dare mortal sospiro aguzza l’ingegno e rende impavidi quel lunghissimo secondo di agonia celeste, innocuo il dolore, arioso il corpo e leggero, come parole posate sulle nuvole e con le nuvole lasciate andare, o ancora se dato mortal sospiro io continuo a parlarti fusse ca fusse ca su nu pocu fessa?

perché vedi Antonio
io direi poco umilmente- datemi un fonema e vi racconterò il mondo-mentre tu
da come arrotoli la lengua di pesce, sembri dire, mio stiffan, l’ordito d’o mundo è intrigante, l’òrrito delle cose di voialtri è sconvolgente, perciò i miei scoppi di vuoto, perciò le finezze malianti, le rughe color croco, lo stupore profondo, smemorante, le cische caddenti, i frisi festonnati..perciò perciò s’arrischia la lengua, quando spunta s’arrotonda- fummi, corsieri, busti, corpetti- è di un biancore a pois, gelide chiazze, tepori rosati, petaccio però: che sia petazzo, sfiziomio, che lascimpiedi la tremolante cassarmonica, che tutto scoperchi, tutto sprofondi in una nuova scia sotterra, che porti con se la mia metà faccia, qualche foca che ho per troppo fuoco, per veluscio, per vinetto..che porti via tutto ‘nsomma, che porti di me quel che vi ho detto, che scivoli senza arresto senza fondo

perché vedi Antonio
se dall’evoluzione della specie l’uomo, somiglia sempre meno a se stesso… allora
io tanto fervore non lo capisco, questa ostinazione a voler salvare i poeti dalle fiamme dell’inferno più inferno della terra, questo voler liberare i poeti dal loro impegno di buffoni di corte, dalla malasorte, con quell’ondeggiare fra la vita e la morte, ma poi ..a noi che ce ne frega, noi sappiamo come è iniziato tutto..e come andrà a finire tutto questo..perché noi vediamo all’orizzonte che corre, già corre la tila corre…e noè noè galleggia, non s’accorge ma perde consonanti, gemendo, tondeggia..e la tila intanto corre e corre…la luce stupirà…stupirà i suoi occhi…e i miei così vergini di luce…che corra dunque… che corra questa scia, che giri sul giro della terra..che scinda, che scanni se vuole, porti erva di taglio e, nelle isazze gli sfinimenti di un dio vendicativo, che ama le fòffule e i miraggi, corbelle frottole appannaggi..cantate cantastorie cantate, mimate cavalieri mimate le imprese dell’orzo bollito, suonate suoni suonatori suonate suoni non trasportabili in codici tipografici

perché vedi Antonio
o animale favoloso, o mio sperso, gnorreo, ciciarroso, o dolloso, o dolloso mio vecchio sogno che consumo in una città di boati o beoni, in un tempo che non tollera più buffonerie…ma pitto, farro, sbarro…cazzo…buffonerie saranno.

Eccome.

Nota: liberamente tratto e ispirato da ” Il Fabbricante Di Armonia- Antonio Galateo ” di Antonio Verri

P.E.


Dissoluzione dissolvente

Ero a un passo dalla poesia di peso
-se posso dare un peso al passo della poesia-
quando una nuvola oscurava il cielo
rubando il passo alla poesia di peso
-se posso dare un peso al passo della poesia.-
Così mi ritrovai
da – solo un passo dalla poesia di peso
-se posso dare un peso al passo della poesia-
da – un verso che l’umano sentire oltrepassa
al vuoto di una nuvola che passa.


Oh Desdemona!

Fu
il giorno primo
di quel mese
che alle pene d’amor
m’opposi
e
all’idillio che la notte
mi destava
fine posi.
A rallentare il cuore
che batteva con tedio
m’aiutò la chimica
a porre rimedio.
Immobile la barca
di Caronte resterà
e
se Ade nel suo regno
m’aspetta…
aspetterà.

L’araldo

Parlava a bocca pienal’araldo
negli occhi della platea
si accompagnava a Nietzsche
durante l’antipasto
gli occhi puntati degli astanti
a sorreggere parole nuove
bene impostate scandite a colpire
nel giusto cuore
il lavoro dei figli la pensione dei padri
una casa per tutti per tutti l’ascolto
Parlava a bocca piena
l’araldo
ma si spiegava bene
durante il primo
chiedeva a Proust della sua ricerca
e consigliava a tutti di decidere
da che parte stare
facendo notare che la sua strada
era l’unica percorribile
perché spianata da lui personalmente
e dalla sua mole imponente
“che presto sarò Presidente
e avrò ai miei piedi la gente”
Parlava a bocca piena
l’araldo
ma si faceva capire bene
viveva di parole e la gente le ascoltava
la sua retorica era nota a tutti
dava ai ciechi l’illusione di vedere
ai poveri la certezza del pane
alle madri il latte per i figli
prometteva pani e pesci
a chi gli chiedeva semplicemente dell’acqua
non risparmiandosi mai quando
c’era da distribuire una buona parola di conforto
non era un materialista
tanto che nulla può essergli attribuito
ma le parole quelle si
sono rimaste nel cuore della gente
e quel modo gentile di sussurrarle
con la mano sul cuore
e il tono mesto proprio delle persone sensibili
Parlava a bocca piena
l’araldo
ma sapeva bene cosa dire
agli assetati l’acqua
agli affamati parlava del pane
ai disoccupati di come li aiuterebbe un lavoro
capiva bene le disgrazie
e le plasmava con parole che
lui ben conosceva e che
liberava accendendo la speranza
ridando la vita a chi altrimenti
sarebbe morto
non perdeva occasione per aumentarsi
diminuendo con pervicacia
chiunque gli fosse contro
Parlava a bocca piena
l’araldo
ma sapeva cosa dire
poco prima della frutta
ebbe modo di confermare
che Berto per vincere il suo “Male oscuro”
si era aiutato con le pastiglie di litio
aveva una risposta per ogni domanda
e quando risposta non c’era lui
la inventava
di lui si diceva fosse nato per fare politica
di quelli come lui in Italia
si dice siano “forgiati per la politica”
Parlava a bocca piena
l’araldo
ma sapeva cosa dire
anche quando gli elettori stanchi
di vederlo mangiare
gli si rivoltarono contro negandogli il voto
Qualcuno gli sentii dire
“sono quarant’anni che faccio politica
qualche incarico il partito me lo darà comunque
e la farò pagare a questi ingrati”

Parla ancora a bocca piena
l’araldo
la vita sembra non gli abbia
insegnato nulla
“quello che semini raccogli”
“quando pensi che la gente sia stupida…”
“non fare mai il passo più lungo della gamba”
Ma è la saccenteria la pienezza di se
quell’arroganza spesso fuori posto
e con persone umili
ad avergli dato il colpo più forte
quel luogo comune che ormai da tempo
gira negli ambienti intellettuali e politici
della Città, e cioè:
“E’ l’unico politico in Italia
che viene pagato
purchè (basta che) non faccia niente”

L’araldo
appunto.

Dei ventenni è il mondo

Si crede all’amoreterno
che non muore mai
a ventanni
si deve credere.
Sale la luna
prima che sia sera
a ventanni
e la si vede con chiarezza
il sangue ribolle
si odia con forza
e non c’è posto al mondo
che resista
a ventanni.
La luce acceca
e il vento libera i capelli
a ventanni
si sente il sangue ribollire
per le ingiustizie
si lotta per uno sconosciuto
e si vince
a ventanni
non esiste causa
che non sia la nostra
trionfi della fierezza
possiamo farci carico
del peso del mondo interno
e non ne sentiremmo la fatica
ne siamo certi
a ventanni.
Si sposano le cause
le più derelitte
le più sballate
le più lontane
le più contrarie
perché a ventanni
il nervo è scoperto
e vibra forte ché l’impeto si plachi.
È per questo
che vi prego
giovani ventenni
lasciate stare le vostre playstation
il vostro cazzeggiare
da nullapensanti obliqui
i vostri vitabassa
e i concerti dei negramaro
e svegliatevi
cominciate a muovervi
nei vostri ventanni
magari potreste
spaccare qualcosa
anche solo per capire
cosa significhi
porre rimedio.
Spaccate cazzo.
Spaccate.

Ne resterà solo uno. (su Io sono leggenda)


Luciano Pagano
Ne resterà solo uno.
(su Io sono leggenda)

“L’ultimo uomo sulla terra” è il titolo della pellicola girata nel 1964. Come protagonista c’è il famosissimo Vincent Price, che nella sua carriera ha girato qualcosa come 145 film. Il lungometraggio è basato sulla storia di Richard Mateson scritta dieci anni prima, la stessa che ha dato ispirazione al recente “Io sono leggenda”, in uscita nelle sale italiane. Sul pianeta terra non abita più nessuno. Nell’ultima versione cinematografica la morte del genere umano, o meglio, la sua trasformazione, è causata dall’impazzimento di un virus che era partito bene, come cura globale contro un male di per sé incurabile. Il film in bianco e nero ha un fascino differente, più aderente per filologia al testo del romanzo e oltretutto uscito in un epoca particolare, dopo i lunghi successi di film dedicati dagli anni 50 – in clima di Guerra Fredda – in poi alle ‘mutazioni’, un classico da rivedere resta “L’invasione degli Ultracorpi” (1956), basato su una storia pubblicata proprio un anno dopo l’uscita di “Io sono leggenda” di Matheson. In una delle prime inquadrature dove compare Vincent Price viene mostrato il muro dove il sopravvissuto tiene un diario dei giorni che ha trascorso da quando ha ‘ereditato’ la terra (…giorno 1001), il muro somiglia alla parete di una cella, con i mesi e le croci segnate con un pennarello nero. Il mondo è una prigione desolata. L’anno di ambientazione di cui adesso ricorre il quarantennio è il 1968. Essendo il film con Vincent Price datato 1964 e dato che il protagonista vive la vicenda a distanza di 3 anni dall’avvenimento che ha dato il via alla storia, è evidente che chi ha girato la versione del ‘64 ha preferito porre il tutto più a ridosso del proprio presente. Manca, nella versione odierna, il possibile rimando al cinema di genere, con sconfinamenti in pellicole come “Fahreneit 451”, dove le geometrie asettiche delle ambientazioni aiutavano a distanziare la storia narrata in un punto di desolazione-zero. La catastrofe di cui sarà protagonista Will Smith, ambientata nel 2009, trova conclusione nel 2012; lo svolgimento a New York da il pretesto all’agente Smith per ricordare l’ecatombe di Ground Zero, un evento dell’immaginario americano spartiacque tra chi lo ha vissuto e chi no, anche nel futuro cinematostorico, un po’ come il Vietnam e molto più che Pearl Harbor. La regia del ‘64 è di Ubaldo B. Ragona. Vincent Price ha una bella collana d’aglio appesa sulla porta, la puzza di vampiro si sente da un miglio. Nel film di oggi si insiste di più sulla desolazione, complice l’atmosfera di silenzio assoluto che pervade la pellicola, ogni rumore è assente perché dobbiamo restare in allerta. Times Square con le piante che sbucano dall’asfalto è un’immagine che rende bene l’idea di un pianeta abbandonato a se stesso. Quali problemi si pone un sopravvissuto alla catastrofe? Problema numero uno: l’energia. Vincent Price se la cava con un motore a gasolio piazzato nello sgabuzzino sul terrazzo di casa. Will Smith pompa la benzina direttamente a mano. E l’energia elettrica? Negli Stati Uniti del futuro prossimo venturo non si capisce bene da dove questa venga, ampio spazio alle congetture, forse l’energia è fornita dalle centrali termonucleari dove l’uranio garantisce eternità di emissione, probabilmente un Homer Simpson neo-vampiro è il controllore delle centrali, insomma c’è energia in quantità, anche perché il consumatore di energia è uno e solo. Problema numero due: l’intrattenimento. Grazie alla presenza di energia elettrica a sufficienza la giornata di Robert Neville trascorre tra allenamenti su tapis roulant in compagnia del proprio cane, visione di vecchi dvd, corse in auto, partite a golf utilizzando lo skyline di New York come bersaglio. Vincent Price più che padrone del mondo viene presentato come spazzino dell’umanità residuale, a lui spetta l’onere di bruciare i corpi dei vampiri che vengono ammazzati o rimangono stecchiti non si sa come. I vampiri più forti ammazzano i più deboli. Solo con un cane, solo come un cane, Robert Neville ha un laboratorio dove si è attrezzato per studiare una serie di topi affetti dal virus, lì cercherà di scoprire le eventuali cure alla malattia, nel corso della storia riuscirà a catturare un soggetto umanoide femminile e cercherà di farlo guarire. Con un esito più catastrofico (dipende dai punti di vista) rispetto alla versione del ‘64. Se negli anni ‘60 la trasposizione si affidava al tema del vampiro, oggi, in “Io sono leggenda”, i vampiri hanno altri nomi: solitudine, incomunicabilità, guerra tra simili, in una storia che trattando il tema del doppio mutante sembra molto vicina alle tematiche del Jekyll e Hyde di Stevenson. Tanto è vero che fino all’ultimo la sensazione più forte proviene dal pensiero che ognuno di noi, al suo interno, nasconde una parte orribile che potrebbe essere attivata da un virus e che, in modo irreversibile, sconvolgerebbe il nostro comportamento. Il motivo è semplice, il virus più che scatenare la follia omicida dei vampiri è terribile perché ci fa tornare animali, dove l’unica ragione dominante è la non-ragione dell’istinto primordiale alla sopravvivenza. La visione che viene data delle forze dell’ordine e dell’eventuale risposta a un’emergenza epidemica è anch’essa desolante, dall’inizio alla fine, un’interpretazione politica di questa pellicola non cederebbe terreno a un’immagine di potere assoluto del governo sulla vita del singolo. L’esistenza o meno di qualche sopravvissuto, a questo punto, è a dir poco inutile, grande è infatti lo scoramento del protagonista quando è costretto ad accorgersi che di ciò che un tempo si chiamava umanità è rimasto poco. A essere sinceri le passeggiate di Will Smith sono molto simili a quelle che può fare chiunque, oggigiorno, in alcune metropoli deserte di Second Life. L’unico commento musicale, in un film dominato dall’assenza di suoni, è affidato a Bob Marley, culminante nel canto liberatorio dei titoli di coda. Redemption song.

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Io sono leggenda.


Stefano Donno
su “Io sono leggenda” di Richard Mateson

Il libro di Matheson non è un libro qualunque. Non so se sia un errore o meno lasciarsi prendere dalla voglia di incasellarlo all’interno di un genere letterario, come quello dark ad esempio, perché verrebbero messe fuori due altre categorie come l’horror e il noir, che tutte e due l’autore sintetizza in maniera davvero esemplare. E allora? Lasciamo da parte qualsiasi intento sistematizzante, che in certi casi, e mai come in questo, si rischierebbe di fare gran brutte figure. O peggio uscirsene alla buona con affermazioni del tipo … una splendida metafora del limite sottile esistente tra normalità e diversità. L’orizzonte in cui si muove la vicenda narrata è l’Apocalisse. Per essere più chiari: immaginiamo uno scenario consueto come quello che trascorriamo giorno per giorno, dove gli oggetti, le persone, le cose, i ricordi, le nostre abitudini, il lavoro che svolgiamo per tirare a campare, gli affetti facenti parte non solo del nostro bagaglio interiore, ma anche di quello agito nella realtà, scompaiono improvvisamente. E di tutto quell’universo esistenziale non rimane altro che un sopravvissuto, che scoprirà a sue spese di non essere l’unico! La meccanica narrativa sviluppata da Matheson in “Io sono Leggenda” percorre con grandissima lucidità tutte quelle dinamiche psicopatologiche che fanne parte degli abissi mentali di tutti coloro i quali riescono a sfuggire ad un disastro: sciagura aerea, attacco terroristico, guerra, incidente automobilistico mortale. Poi l’autore lavora ancora di fino, e con grande disinvoltura rappresenta tutte le tecniche di sopravvivenza, che un essere umano può mettere in campo, in un ambiente ostile, pericoloso, dove l’altro è né più né meno che un predatore, con mezzi di sussistenza che diminuiscono copiosamente con il trascorrere del tempo, secondo la legge della darwiniana selezione della specie: il più forte domina, il più debole soccombe. Ma non è così semplice. In base a questa teoria si tratterebbe di eliminare i pesi morti della specie di riferimento, per migliorarne esponenzialmente la qualità, potenzialità, e la produttività. Nello specifico, è in ballo la razza umana, il suo ultimo prodotto. Parliamo di una minaccia che viene dallo spazio? Una guerra termonucleare su scala planetaria? No un batterio ad alto potenziale virale, trasforma gli esseri umani in vampiri. Robert Neville sembra uno di noi, che dopo una giornata di duro lavoro, torna a casa, svolge le sue attività domestiche, del tipo cucina, scopa per terra, ascolta un disco, si siede in poltrona ascoltando musica classica, si concede la lettura di un libro. Mi si potrebbe dire … e allora? Tutto nella norma! Eppure la sua è una vita tutt’altro che normale. Di giorno forse … ma dopo il tramonto…le cose cambiano! Neville è l’ultimo uomo sulla Terra in un mondo completamente popolato da vampiri.
Robert in perfetta solitudine, studia il suo nemico. Ne analizza ogni singolo aspetto, la storia, la leggenda, il mito di questi abomini, e addirittura riesce ad entrare in possesso di un campione di sangue di questi neo-vampiri, e ne studia chimicamente la composizione. Il tutto per raggiungere un unico, fondamentale obiettivo: lo sterminio delle creature delle tenebre. La storia è ambientata nel 1976. In questi giorni esce nelle sale cinematografiche il film con Will Smith, dove l’ambientazione appartiene ai nostri giorni. Sia in un caso che nell’altro rimarremo tutti a bocca aperta!

Io sono Leggenda, di Richard Matheson, Fanucci, pp.224, euro 13

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FISH!. Un racconto di Alessandro Milanese


Alessandro Milanese
FISH!

Era un martedì sera. O un mercoledì. Adesso non ricordo di preciso, mi ricordo solo del divano e di mio padre svenuto sopra. Telecomando incastrato sotto il cuscino, la luce della partita di coppa che gli sbatteva sugli occhiali. Io ero seduto, finivo un qualsiasi 4 salti in padella, terminandolo con una delle mie solite scarpette. Luca entrò. Si sentiva un fruscio, come di qualcosa trascinato per terra. Nostra madre non c’era. Una riunione urgente in parrocchia, lei e le altre perpetue. Inzaghi cercava il suo famoso tuffo carpiato e mio fratello cercava di raggiungere camera nostra senza farsi notare. “Dove cazzo vai?” Il vocione rauco del nostro genitore lo fermò. “Ho voglia di farmi una doccia”. Il rumore del sacchettone non era passato inosservato, purtroppo. “Cosa minchia hai comprato di nuovo ?” Alzai la testa dal piatto semivuoto. “Un paio di scarpe”. Il cuscino rimase orfano della testa quasi completamente calva. Si alzò. Prese il sacchetto. Lo girò al contrario, svuotando il contenuto. Un paio di scarpe. Un altro paio di scarpe. Un terzo paio di scarpe. Un paio di calze. Un paio di suolette. Lo scontrino. Lesse, senza proferire una parola. Non feci a tempo ad intervenire. “Ho ipotecato questo schifo di casa per farti ritornare ad essere un essere umano e tu continui ad essere solo un grandissimo stronzo!”. Luca fissava il pavimento, poi dopo un lungo respiro. “Mi sono fatto inculare da quel maledetti coglioni del negozio, non so cosa mi sia successo, mi sono ritrovato con tutta sta roba!”. Al posto del ceffone un solo sguardo, gelido, terribile. Poi il nulla, si voltò. Quando riprese posto sul comodo beige, ritrovò Inzaghi che si lamentava per l’ammonizione ricevuta per la simulazione.Luca entrò in camera e dopo 10 minuti, accompagnato da un borsone marrone, riapparse nel soggiorno-cucina. Ci guardammo e prima di scomparire nel corridoio mi disse solo. “Stammi bene”. L’ultima volta che ho visto mio fratello. Son passati più di 2 anni. 3 cartoline. Berlino, Londra, Barcellona. Sempre e solo intestate a me. Poche parole, senza gran senso, i miei mai menzionati. Nessuna telefonata, nessun indirizzo, niente.

Luca non era più lui. I 15 mesi in comunità l’avevano cambiato, radicalmente. Era tornato pulito, anzi pulitissimo, ma vuoto. Come se gli avessero prosciugato l’anima. Quieto, mansueto, quasi irritante per tanta tranquillità. Un’altra persona. L’immane testa di cazzo che a 16 anni girava l’Europa da solo e tornava dopo mesi devastato e in stati incredibili ero sparito, per sempre. Al suo posto un quasi trentenne immerso nel suo nuvoletta privata e quasi totalmente assente. Lui che prendeva a calci in culo la vita, prima la sua. Lui che era il mio eroe quando ero poco più di un bambino. Passava coi suoi capelli colorati, con le sue magliette con dei nomi assurdi sopra, una specie di santone antagonista. I miei amichetti dell’epoca m’invidiavano, nella loro stupidità. Non immaginavano cosa ci attendeva. I primi viaggi nella grande metropoli. I primi concerti in giro con la sua piccola-grande punk rock band. Le prime delusioni, le sconfitte. L’eroina. Gli anni a seguire. Lo sfascio, il disastro. Il tentativo di riordinare le cose. I sacrifici dei miei. La cascina in campagna, una comune ad una trentina di chilometri da casa nostra. Le mie visite, due volte al mese. Salivo con la panda di mia madre, azzurrina quasi blu. Le prime volte sembrava felice di aver cambiato guidatore. La lanciavo nel pezzo di statale leggermente in discesa. Mettevo la quarta e pian pianino spingevo fino in fondo, toccando tacche del contachilometri mai neanche sfiorate, come a scoprire un mondo nuovo, nuovi territori. Lei rispondeva entusiasta, sfoderando un bel rumorino di marmitta leggermente arrugginita. Prendeva coraggio e negli ultimi chilometri in leggera salita si arrampicava generosa tra una vigna e l’altra. Quando arrivavo lo trovavo sempre in cortile che mi aspettava. Lavato, ordinato, non sembrava neanche lui. Pranzavamo insieme, parlando delle cose di sempre. Mi diceva di essere contento dell’esperienza, di star lavorando sodo e che il “don”, come lo chiamavano loro, era il primo prete con cui avesse scoperto di aver qualcosa da dire. Gli facevo sentire qualche gruppo in ascesa con il mio lettore cd e lasciavo qualche cd nuovo per i quindici giorni a seguire. Poi ci salutavamo, lui ritornava in gruppo per i lavori di manutenzione della azienda agricola. Prima di ripartire mi fermavo dal don nel suo piccolo ufficio per far due parole su mio fratello. “Tuo fratello è una persona fantastica, a volte sai mi tocca avere a che fare con persone che forse non meritano quello che cerchiamo di fare per loro, ma lui è diverso, è buono dentro”. Tutte le volte quei piccoli dialoghi mi scuotevano. Afferravo bene il volante della piccola fiat e mentre le gomme fischiavano per i bruschi inserimenti in curva alcune piccole gocce salate scendevano a valle. Quell’anno passò così. Cd nuovi, cd vecchi. Cambiai le gomme terminate del panda, che col passar del tempo ritornò ad essere la macchina più lenta della provincia, quasi sfinita per quella seconda giovinezza forse eccessiva. Arrivò ottobre e a pochi giorni dalla scarcerazione definitiva ci fu un concerto in cascina per recuperare fondi. Andai su con qualche amico fidato. Non era un vanto avere un fratello tossicodipendente, ma alcuni di loro lo conoscevano da anni e mi sembrò giusto dividere con qualcuno una cosa importante come quella. Gli Africa Unite infilavano i loro pezzi, uno uguale all’altro. Le trecento anime affollavano lo stanzone e il sudore misto vapore appannava qualsiasi vetro. Luca leggermente brillo e felice ballava come un qualunque figlio di Bob Marley. Lui, che avrebbe ucciso pur di non sentire un disco reggae. Lui, in mezzo a noi altri, che faceva piroette e saltava come un invasato ad ogni inutile accordo in levare. Quella sera c’era solo lui.

Due settimane dopo ritornò all’ovile. Trovò un lavoro in un azienda agricola fuori città. Usciva prima delle 7 del mattino, pranzava in cascina da loro e ritornava per ora di cena. Taciturno, sempre con un sorriso d’ordinanza impresso sulla faccia. Con i miei sempre poche parole, come se sia lui sia loro avessero paura di rompere qualcosa parlando. Io provavo a portarlo fuori, qualche concerto, qualche uscita con amici. All’inizio sembrava funzionare, ma qualcosa si inceppò presto. Alle volte bastava una battuta o una sciocchezza qualsiasi e cadeva in una forma di distacco quasi catatonico. Si estraniava. Si autoescludeva da tutto, come se non si sentisse all’altezza di essere lì con noi. Aveva un peso troppo pesante da condividere con qualcuno. Così cominciarono i rifiuti, le scuse. Con me il rapporto diventò un pelo più freddo, continuarono le chiacchierate, i soliti scambi musicali, ma non ci fu più l’occasione di passare una serata insieme ad altra gente. Solo noi due, al massimo. Cercavo di capire se tutto andava per il meglio, se c’era qualche problema, e lo scongiuravo di dirmi sempre tutto, di qualsiasi cosa si trattasse. Le parti si erano invertite. Mio fratello grande che mi difendeva dagli idioti quando ero solo uno sbarbato magro, timido e con la brutta abitudine di parlare poco e a sproposito, adesso era diventato il fratello piccolo, che ha bisogno di qualcuno. Qualcuno che lo informasse che la gente ha la bella abitudine di cercare di inculare il prossimo. Qualcuno che lo proteggesse da un mondo che all’improvviso era diventato troppo grintoso per lui.

Lavora, vendi, compra, consuma. In campagna si trovava a suo agio. Il padrone parlava poco e in dialetto. Dava solo un paio di indicazioni al mattino sui lavori da fare, su quali appezzamenti di terreno dividersi, e poi chiamava la pausa pranzo e al calare del sole rimandava tutti a casa. Luca era il solo italiano. Gli altri 7/8 erano per lo più marocchini e tunisini. Si presentavano al mattino, venti minuti prima dell’orario prestabilito con il loro sacchetto plastica, con qualche bottiglia d’acqua e un maglione di ricambio. Alcuni di loro ogni tanto sembravano sulle spine, come se dovesse succedere qualcosa da un momento all’altro, come se non avessero il permesso di soggiorno. Pranzavano tutti insieme e il dialetto del basso Monferrato si mischiava con quello nord africano. Al secondo bicchiere di vino il padrone ritirava la damigiana e il goccio di grappa per pulire la tazzina del caffè era esclusiva sua e di Luca. “Sti giargianeis chi le mei chel bevu nient di tut, a son già ciuch acsi, e dop, dopdisna a travaiuma ammachi nui ater“.

Lo scontrino rimase su quel tavolo per tutta la notte. Era li, da solo. Il grande sacchetto aveva finito la sua avventura nella pattumiera e lasciava indifeso quel foglio di carta con in fondo una cifra. 356,00 €. Quei grandissimi pezzi di merda avevano fatto spendere mezzo stipendio a mio fratello per tre paia di scarpe, una suoletta e un paio delle loro stupide calze. Passarono un paio di giorni. Al primo turno favorevole, una mattina 6-14, passai dal negozio, erano all’incirca le 5 del pomeriggio. Il negozio era vuoto. Entrai piano, procedendo lentamente sul perimetro facendo finta di curiosare tra le nuove Nike esposte. Saltò fuori, nel vero senso della parola, un piccoletto di carnagione scura, quasi mulatto. Con un balzo inverosimile arrivò a qualche centimetro da me. “Io sono la persona che stai cercando! In che maniera posso aiutarti?”. I miei occhi incrociarono i suoi. La mia risposta mentale preferita sarebbe stata: “Mi potresti aiutare finendo la tua inutile vita sotto un tram, per esempio”. Sorrise, poi rimbalzò dietro di me e poi alla mia destra, girandomi attorno. “Siamo indecisi, non sappiamo ancora che scarpa prendere, con quale nuovo super mezzo di locomozione andare a correre dietro al cimitero, alla sera al tramonto”. La mia bile dava segni di cedimento.

Strinsi il pugno più forte che potevo e mentre mi accorgevo delle 2 telecamere a circuito chiuso del negozio cercai qualcosa che assomigliasse ad una risata. “Niente, davo solo un occhiata, per farmi un idea”. Ri-saltò alle mie spalle a velocità supersonica, ritornando nel mio campo visivo con in mano una Silver. “Dite tutti così poi alla fine la scarpa giusta non vi scappa”. In 26 anni era la cosa più vicina all’odio che non avessi mai provato. Le Silver erano diventate due perché tutto ad un tratto si era materializzato anche il secondo fenomeno a strisce. Più alto, più robusto, con un taglio alla moda tutto pettinato da una parte. “Ehi Lu scommettiamo che la faccio io sta vendita?”. Il palestrato non rispose. Piantò un sorriso che neanche all’isola dei famosi poteva aver un senso. “Coglione, oggi siam 4 a 1 per me, ne devi fare della strada per starmi addosso”. Lo spettacolino delle marionette. Due abbindolatori. Il piccoletto lanciò la sua Nike al suo socio con velocità e lui rispose prontamente con una presa volante. Lo fecero in maniera meccanica, come se fosse la cosa più naturale del mondo. A quel punto mi dedicai a loro.

Fingevo interesse, continuavo a voler vedere modelli diversi. 4-5-6 paia. Visto che mi proponevano le calze ancor prima che scegliessi le scarpe chiedevo cosa era meglio abbinare. Partirono gli abbinamenti. C’era merce dappertutto quando gli lasciai ad un ennesimo gioco di prestigio e la porta mi si apriva su un centro storico pieno di gente. Un ora del loro prezioso tempo buttata nel cesso. Camminai un po’, anche più del previsto. Cominciai a farmi una ragione di quello stramaledetto scontrino. L’avevano fottuto, letteralmente. Si sarà trovato in mezzo alle loro minchiate e frastornato da quei due clown avrà perso il senso delle cose, dei soldi. Ero quasi davanti alla porta di casa quando era chiaro che l’avrebbero pagata, e cara.

Da quel giorno mi informai sulla catena di negozi. Sui metodi che i commessi avevano per vendere e delle loro tecniche circensi. Trovai su Google un paio di forum di discussione sull’argomento. Scoprì che tutti quei loro versi da idioti facevano parte di una pantomima ben precisa. Fish! Una tecnica di vendita inventata dai pescatori di Seattle. In crisi per le scarsi incassi, e per il momento no del mercato del pesce della cittadina americana, i venditori si inventarono una specie di spettacolino per attirare gente e incrementare le vendite. In pratica urlavano a squarciagola tra di loro e soprattutto si lanciavano i pesci da una bancarella all’altra, tra l’incredulità e le risate dei presenti. Gli affari ricominciarono ad andare per il verso giusto e qualche coglione sdoganò quella cazzata in tutto il mondo. Me li immagino il piccoletto e il palestrato ad un fottuto di corso di vendita, con un mascellone che spiega come attirare l’attenzione del cliente, di come farlo sentire tra amici di vecchia data, di come metterglielo nel culo. Per un paio di mesi non pensai ad altro. Poi, per caso, capitò. Una sera come altre. Uno dei pub più frequentati delle mie zone. Una vecchia stamberga in stile vero pub scozzese, riemersa dal buio grazie ad un paio di vecchi capi ultras, ormai prossimi alla mezza età e decisi a monetizzare anni passati in giro a conoscere della gente. Il locale non era affatto male. Più volte a settimana c’era qualcuno che suonava, per lo più gruppi della zona, o qualcuno che metteva dei dischi. Quella sera c’era una serata gotica-new wave. Il tizio, che di vista avevo visto qualche volta in giro per concerti, alternava vecchi hit di Cure e Joy Division a pezzi sconosciuti di Industrial e rock cavernoso. Il nero era il colore dominante, le birre rosse il condimento. La fauna era controversa, musicisti, quasi musicisti, teste di cazzo, hooligan di provincia, nerd, varie & eventuali. Le 2 arrivano a sorpresa. La macchina, parcheggiata miracolosamente vicino, partì al primo colpo, nonostante i gradi vicini allo zero. Un piccolo bussetto al mio finestrino.

Abbassai cercando di eliminare quella patina pre-ghiaccio. Arrivò l’aria e la faccia del “Gigante”. “Gigante” aveva due anni meno di me, ma ne dimostrava abbondantemente 35 ormai. Pluripregiudicato, pluridiffidato, praticamente un’istituzione. “Bomber dammi uno strappo, almeno fino in stazione”. Nessuno tranne un paio di vecchi amici del rione mi chiama più bomber. Un vecchio nomignolo di quando ancora mi illudevo di poter giocare almeno in Promozione. “Gigante” è rimasto 1.60 scarsi, esattamente come quando ci implorava di farlo giocare nelle nostre partitelle all’ultimo respiro, su quella polvere che si attaccava ovunque. Io ero uno dei pochi che spingeva per farlo giocare, mi stava simpatico. Sembrava un piccolo jolly scappato dalle carte di scala 40. Ora, dopo varie fratture e vari abusi, sembra una versione moderna del gobbo di Notredame. Una spalla quasi il doppio della sorella. Il collo gonfio come quei bovini d’allevamento. Quando mi sorrise, sentendo che il passaggio era approvato, una lucina si accese in quel piccolo parcheggio, era il mio uomo.

“Grande Bomber, sei sempre il numero uno”. Aspettò un secondo prima di salire, poi accompagnato da un gesto della testa rasata. “Vieni! Il mio vecchio centravanti ci porta avanti un pezzo”. Lui salì dietro al volo, come se conoscesse la mia Punto da sempre. Davanti, in fianco a me, seduta, una ragazza con meno di vent’anni. Lunghi dread neri. Orecchini dappertutto, un tatuaggio enorme che spuntava dalla manica del giubbotto militare. Si presentò ma non afferrai il nome. Senza che aprissi bocca si mise la cintura e piantò la faccia tra i due poggiatesta per farsi recapitare un bacino dal gladiatore metropolitano. Nella loro insensatezza erano davvero una coppia.

Lei rideva senza alcun motivo, lui anche. Li ascoltavo in silenzio, respirando un po’ del profumo di fumo che i due piccioncini sprigionavano nell’auto. “Bomber e Luca come sta?”. “Non lo so, sai è stato un po’ alla Cascina Bianca poi qui non ci stava più dentro, è andato via, è in giro per l’Europa, di più non so”. Cercai la voce più neutra che avevo, ma non bastò. “Vedrai che se la cava, è sempre stato un duro, massimo rispetto”. Quanti secoli erano che non sentivo qualcuno che diceva “massimo rispetto”. I primi concerti ai centri sociali. Le prime risse. Le trasferte. La polizia.

Luca sempre in mezzo, 50 chili mal contati, che rimbalzava tra i casini, riemergeva nel pogo, si arrampicava per primo sulla rete quando segnavamo sotto la Nord. Ora non c’era più niente. La stazione era li, al buio quasi completamente, con i soliti marocchini assonnati che non spaventavano neanche me. Accostai e i due passeggeri smisero di tenersi per mano, il termine giusto è incredulo. “Grazie sei troppo il numero uno, ha ragione Gigante”. Lui rise mentre a testa bassa cercò lo spiraglio per uscire sul marciapiede. “Buonanotte Bomber”. “Ciao Gigante, volevo chiederti una cosa veloce”. “Dimmi, qualsiasi cosa”. “Dove bazzichi in settimana, vorrei proporti una cosa, ma di persona, zero telefoni”. “Bar Moderno”. Mentre lo diceva uno scintillio negli occhietti piccoli mi rimandò indietro di anni luce.

Ci accordammo in fretta. Non serviva molto. Gigante aveva sempre bisogno di soldi. Io, avevo bisogno di un onesto picchiatore, niente di più. Spiegai la fuga di mio fratello, i due stronzi. Accettò immediatamente e i soldi furono solo un dettaglio. Patteggiammo a 200 euro, semplice. Cominciai tramite E-bay a vendere vari 45 giri e 33 giri di vecchio Punk italiano. Tutti dischi che Luca aveva miracolosamente recuperato in qualche sgombero di centri sociali. Negazione, Raw power, Wretched, Indigesti. Sembrava incredibile che ci fosse ancora gente disposta a pagare 100 euro per un piccolo vinile che gracchiava chitarre distorte. Luca non aveva vissuto quegli anni, solo marginalmente, ma nei suoi deliri a volte raccontava di concerti incredibili, di migliaia di persone al vecchio Leoncavallo, di battaglie vere e proprie sotto il palco. Spedivo i dischi, arrivavamo i soldi. Nel giro di poco 450 euro. Cominciai a frequentare il bar davanti al negozio per prendere l’aperitivo.

Era un posto molto frequentato da fighetti e da commesse dopo la chiusura.

La gente, le chiacchiere e il rumore dei bicchieri mi nascondevano quando i due dementi chiudevano la luce, i conti, e uscivano da quel corridoio pieno zeppo di scarpe da ginnastica. Io, avendo già pagato il mio conto per i 2 o 3 americani bevuti, seguivo a turno l’uno e l’altro per capirne le abitudini, le mosse. Il piccoletto parcheggiava a pagamento nella piazza principale, proprio sotto il municipio. Di macchine a quell’ora ce n’erano ancora molte, metà delle quali appartenenti a quelle facce da culo che sgomitavano per un bicchiere di rosso, o per un negroni. Scartai il piccoletto, quasi immediatamente. Pedinai il palestrato per un paio di settimane. Non si fermava mai, se non per fare il versamento in cassa continua in un vicolo a poche centinaia di metri dal negozio. Parcheggiava quasi sempre in una delle poche piazze non a pagamento rimaste in città. Quasi un chilometro dal centro storico a piedi. Una piazza per metà illuminata con alcuni angoli belli bui, nascosti da qualche pianta e da casermoni tristi che si allungavano minacciosi. Si. Ero pronto.

Lo avremmo seguito e un giorno in cui il posteggio e le condizioni fossero favorevoli avremmo colpito. Quella sera il Gigante partì con un paio di coca & havana al brucio. Ero preoccupato ed emozionato al tempo stesso, sentivo le mascelle farmi male, in preda ad un nervosismo irreale. Quando quel bel ragazzoccio s’incamminò verso la banca eravamo entrambi quasi ubriachi. La paura era diventata pura goduria, ero eccitato a morte. Ci tenevamo a poche centinaia di metri di distanza, sempre pronti ad infilarci in qualche cortile con quelle belle ringhiere di una volta. Entrambi con felpe col cappuccio e con sciarpe anonime ben infilate in giacconi scuri, senza grossi marchi né scritte.

Avevo organizzato tutto. La macchina, una scintillante golf metallizzata, era messa al posto giusto. Non ci fu bisogno di aprir bocca, Gigante mi guardò, poi sfoderò un sorriso monco di un paio di denti e il suo alito dinamitardo riempì la via. L’idiota aprì la portiera con il telecomando, fece appena in tempo a mettere una mano sulla maniglia. Gigante per prima cosa lo colpì da dietro, forte, alla mascella destra. Esterrefatto cercò di girarsi giusto in tempo per farsi spaccare in naso, di netto. Un rumore meraviglioso e lui sulle ginocchia. I miei anfibi rispolverati per l’occasione s’infilarono un paio di volte nel costato. A terra, fermo, cercava di rigirarsi, a fatica. Il piano era semplice.

30 secondi, non di più, nessuna parola, silenzio. Fine.

Per qualche giorno non spuntò alle 7.30 dalla porta del negozio. Riapparve quattro giorni dopo, fasciato, con un braccio immobilizzato e un cerottone a coprire il naso che era. Nel frastuono delle patatine e dei tramezzini io e Gigante brindammo in silenzio, gli amici ci guardavano e senza capire il motivo scoppiò una risata.

L’umore migliorò. Ci presi gusto. Controllai per bene i punti vendita della catena più vicini. Un centro commerciale dell’hinterland torinese, un negozio in pieno centro a Novara. Nei giorni di riposo visitai entrambi i negozi.

Volevo semplicemente colpire ancora. Soldi da parte ne avevo e Gigante mi sembrava motivato come non mai. La storia di Luca che entra indifeso nel negozio e che esce praticamente truffato aveva fatto presa. Gigante era un ragazzo strano. Da piccolo, o meglio, da giovane era un tranquillissimo e quasi timido ragazzino. Più piccolo degli altri di statura, trovava difficoltà a mettersi in mostra, in un campo da pallone, in mezzo ad una compagnia, tra le sue compagne di classe. Poi, all’improvviso, quasi per caso, arrivò la curva. Nuove amicizie, un giro nuovo. I primi scontri, un senso di appartenenza. I primi riconoscimenti, le prime mosse coraggiose, in curva si fece notare più volte e qualcuno notò lui. Comincio a girare coi capi, con chi contava davvero. Con chi decideva come dovevano andare le cose, con chi designava chi era giusto e chi No. Fu diffidato e da quel momento diventò strapopolare. Alcune ragazze che trovavano estremamente interessante passare il proprio tempo con gli ultras se lo contendevano. Era arrivato.

Lo vedevo in centro e non lo riconoscevo più, ma aveva l’espressione di uno che si sente realizzato. Poi, come normale che sia, arrivarono i problemi. La difficoltà di far combaciare il suo stile di vita con un lavoro, con una casa, con una qualsiasi forma famigliare. E senza soldi bisogna procurarseli. Arrivò la galera, poca ma arrivò. Uscì e si notava chiaramente che non era più lui. Lui, che nella nostra trasferta per andare a Novara, insistette che dividessimo il contenuto del portafogli del povero coglione di un commesso.

“Mi paghi già, più che bene, questi li dividiamo, anzi potremmo farci un giro a russe insieme stanotte, la consumazione la porto io che me la danno gratis”.

“No Gigante, ti ringrazio ma non mi va”.

“Ok bomber, volevo solo festeggiare un altro bel nasino che se ne andato”.

Rideva come uno scemo, era tranquillamente alla sesta o settima Becks della giornata.

Il naso era attaccato ad un trentenne biondino che non sapeva di niente. Nella mia visita di controllo lo scemo cercò di rimbambirmi di scemenze, cercando di decidere per me cosa cercavo e cosa volevo. Povero stupido. Stupido con una Polo bianca parcheggiata in una via piccola e buia. Stupido che dopo solo un paio di pugni piangeva come un asino, implorando Gigante di smetterla, togliendosi il portafogli e regalandocelo. Due piccioni con una fava, l’agguato e 70 euro a testa.

A casa le cose andavano sempre alla stessa maniera. Mio fratello ormai era un fantasma che non andava menzionato. Mia madre scappò anche lei, ma mentalmente, lanciatissima nella sua pensione dorata, era totalmente dedicata alla parrocchia ed al suo importantissimo volontariato. Bambini poveri, clochard, disgraziati di ogni parte del mondo, si spendeva per gli altri in maniera encomiabile. Sembrava il suo dazio da pagare per quello che era successo al suo primo figlio. Mio padre stava cercando di batter il record mondiale del gioco del silenzio, e a ben vedere era sicuramente tra le teste di serie. Completamente assorto nel suo nulla, ostentava una indifferenza granitica, ma si vedeva lontano un miglio che ogni giorno senza notizie di Luca asportava via un pezzo del suo cuore. Io, dal canto mio, mi mantenevo in acque putride. Vedevo una persona, Michela. Un paio di anni in meno di me, divedevamo un po’ delle nostre solitudini. Ci vedevamo, le solite cose, uscivamo, cene, cinema, facevamo l’amore, ma la maggior parte delle volte pensavo ad altro. Stavo bene quando c’era lei, stavo altrettanto bene quando non c’era. Lei dal canto suo probabilmente non vedeva solo me, e sinceramente non mi importava. Mi chiamava, andavo, tutto qui.

Le cose su e-bay cominciavano a rallentare. I dischi migliori erano andati, insieme ad un po’ di rimpianti e sensi di colpa. A volte sognavo Luca che rientrava in camera nostra, di sorpresa, come un ladro nella notte, e mi minacciava per aver venduto il suo piccolo tesoro, i suoi unici averi. Mi svegliavo e pochi secondi dopo razionalizzavo che non sarebbe più tornato. Che nessuno mi avrebbe rimproverato di aver svenduto un rarissimo 7 pollici dei c.c.m. Semplicemente mi mancava. Mancava il suo incasinarsi la vita, mancava la preoccupazione che mi dava, che ci dava, il suo trattenere tutti sulla corda, sempre attenti al più piccolo rumore, aspettandosi una chiamata nel cuore della notte. Me lo immaginavo a Camden davanti al Falcon a distribuire biglietti gratis per una serata dub. In pieno centro a Barcellona mentre friggeva qualche stramaledetto spiedino rosso sangue. In qualche obitorio di Berlino, coperto solo di una cerata trasparente. Cominciai ad andare spesso a Moncalieri al centro commerciale. Un posto assurdo, un enorme corridoio con due piani di negozi, cinema, ristoranti, da entrambi i lati.

Un posto di una tristezza assoluta, quasi finta. Famiglie di obesi, a spasso con cani, o figli scodinzolanti come cani. Commesse volgari e pesanti come macigni, le fedeli copie dei propri compagni truzzi. Il negozio era il primo del centro, proprio all’entrata, era enorme, su 2 piani, senza ombra di dubbio il migliore di quelli che avevo visto. Gli stronzi erano 4, avevo ampia scelta.

Dopo un paio di volte, seduto nel solito bar da centro commerciale, puntai un tarchiatello tutto nero. Nella mia visita era stato il più pressante ed aveva, oltre alla solita insopportabile verve e ironia, una specie di ansia nel vendere a tutti i costi. Quando mi stavo per allontanare, dicendo che non c’era niente che mi piaceva, arrivò addirittura a trattenermi per un braccio. In pochi decimi di secondi mi passarono davanti tante immagini e mi calmai solo pensando al male che il Gigante gli avrebbe fatto. Il parcheggio poi era perfetto, enorme, poco illuminato e loro erano tra gli ultimi che lasciavano quella merda di posto. L’unica cosa piacevole era una barista. Piccola, ricciolina, mi ricordava una mia vecchia fidanzata di Pinerolo. Una ballerina che d’estate veniva da noi in collina per uno stage di danza. Sembrava una bambolina con le pile, che sorrideva sempre e ogni tanto dava un colpetto ai capelli che prendevano vita all’improvviso. Dopo un paio di volte ci davamo del tu, chiacchieravamo del tempo e di stronzate simili. Riuscivo a farla ridere, e mi piaceva vedere quelle lentiggini che si muovevano insieme al sorriso. Il suo torinese misto ad una cadenza calabrese era un toccasana dopo un oretta di macchina nella nebbia.

Gigante non parla. Siamo quasi a Villanova e lo vedo che sminchia fuori dal finestrino, con poca convinzione a volte gira la testa, mi guarda, si rigira. Pensieroso. Di solito all’altezza della seconda di Asti mi ha già raccontato tutta la sua vita tre volte, oggi No. “Ue, ti han rubato la lingua?” Rido convinto, ma non ne capisco appieno il motivo, chissà. “No, scemo! La lingua ce l’ho, ma sto pensando, ho un problema, io per ste cose, cazzo! Non so mai che minchia fare”. “Per quali cose?” “Ma si, la tipa, sto cristo di compleanno, e che cazzo le compro? Una volta facevo prima, grattavo un giubbotto ad una tipa di stazza uguale ed ero a posto, ma con le non mi va di regalargli qualcosa di grattato”. Smetto di ridere grosso modo a Santena. “Gigante, visto che lei ha sempre sta roba sportiva tipo anni 70 perché non prendi una bella tuta dell’Adidas di quelle vecchio stile?”. I campi che continuava a fissare vengono sostituiti dalla mia faccia, Gigante mi bacia sulla guancia, e io voglio scomparire.

“Sei sempre stato il più intelligente della gruppida”. “Sì Gigante, non ci voleva molto!”. Seguitiamo a prenderci per il culo finché non parcheggio ad una decina di metri dalla Uno del prescelto e scendiamo. Ci infiliamo in un multimarche sportivo. Non passa neanche un minuto e il mio socio picchiatore sbuca da una gondola con in mano una tuta nera con le tre strisce coi colori giamaicani, praticamente il regalo perfetto. Il suo sorriso monco mi contagia. Chiamo un paio di commesse e chiedo se hanno un sedativo per il mio amico. Una mi guarda malissimo. L’altra si mette a ridere quando vede sto scemo che salta sul posto con in mano 90 euro di tuta da ginnastica. Io compro una replica della classica tshirt anni 80. Stretta, con il collo bello alto, come quelle che andavano di moda anni fa, abbinate al classico taglio corto corto. Passeggiamo per vetrine, e l’uomo mi racconta in maniera leggendaria di alcune spaccate con mattone dei tempi pre penitenziario. “Certo che di minchiate ne hai fatte?”. “Si, all’epoca mi sembrava l’unica cosa da fare, era così e basta”. Cambio discorso e mi infilo al bar. Manca quasi un’ora alla chiusura del centro e dobbiamo festeggiare il regalo. Arriva prima il suo sorriso che lei. Gigante mi vede, mi tira un poderoso calcio negli stinchi, mi spacca quasi una tibia. “Coglione! Cazzo mi fai male”. “E di sta scoiattolina non mi dici niente? Pirla! Hai visto come ti ha salutato? Razza di rimbambito”. Dopo la parola scoiattolina praticamente non ascolto più nulla. Son troppo impegnato a sputare dal ridere il pezzo di arancia che navigava nel cocktail. Lei mi guarda da dietro il bancone, faccio segno che è tutto a posto, indicando con il dito che la colpa è del mio amico. Scrolla la testa, lo fa in maniera dolce e capisco che dovrei fare qualcosa. Il secondo giro arriva presto, i regali, le cazzate, il viaggio, ci han reso felici e assetati. Ricompare. Posando i bicchieri, senza guardarmi. “Mi raccomando, non ti strozzare con l’arancia di nuovo”. In tono malizioso, presumo di diventare viola. “Scusa, ma qui il mio amichetto ha già fatto lo stupidino o no? Te l’ha già chiesto il numero di cellulare?”. In questo preciso istante vorrei la testa di Gigante. Fisso il rosso dentro al bicchiere, aspetto che gli risponda male. “No, anzi, a dir il vero non mi ha neanche mai chiesto come mi chiamo”. Gigante ride, io No. “Scusalo, non so mai se è più timido o più coglione!”. Adesso son costretto a ridere anch’io. Mancano pochi minuti all’azione, ci alziamo, faccio un segno con la mano, pago io. Arrivo coi soldi giusti. Quando sta battendo lo scontrino, e non mi sta guardando, le dico come mi chiamo, che non sono del posto, se posso lasciarle il mio numero, se gli va di vederci qualche volta. La saluto mentre tiene in mano un foglietto del suo piccolo block notes per le ordinazioni con sopra scritta la mia speranza.

Siamo in ritardo, in un fottuto ritardo. In macchina posiamo i pacchi, prendiamo le felpe, le sciarpe, ci cambiamo di giubbotto. Un cespuglio tra la nostra macchina e la sua. La nostra casa base. Il nostro nascondiglio.

Siam pronti, alzo la testa e lo vedo. È già quasi alla macchina, acceleriamo, quasi correndo. A pochi metri, tira fuori la chiave, si passa un sacchetto da una mano all’altra, stiamo praticamente correndo. Parto io, prima volta da quando colpiamo insieme. Un destro. Il rumore delle mie maledette all star sul asfalto sporco lo avverte. Mi scansa. Colpisce duro, nel costato. Mi allontano senza respirare, come rotto in due. Sta per finirmi quando arriva il Gigante. Lo prende, non bene, ma lo prende. Lui, non cade, non indietreggia, non piange, non urla. Niente. Gigante riprova. Lo schiva, colpendo il mio amico di giochi in pieno setto nasale, secco come il rumore di un osso che si spacca. Una parola mi balena nella mente. Arti marziali. Gigante non sì tocca il naso ben sapendo cosa gli è successo. Non da segni di debolezza. Io arranco. Lo attacchiamo entrambi con dei calci, ne esce quasi illeso. Io vedo il fuoco e rantolo invece di prendere aria. È immobile il bastardo. Gigante lo sfida, mettendosi le mani dietro la schiena e facendo ampi gesti di venire, di caricare. Lui parte, e il mio socio estrae una lama. Appena sopra il ginocchio.

Ora voliamo indietro, tra le urla del tipo che coprono il rumore dei 100 all’ora delle macchine nella cintura torinese. Pochi cristi richiamati dal casino fanno qualche passo verso di noi. Li oltrepassiamo correndo, non c’è più tempo. Lei, ferma. Io, di corsa, cappuccio sulla testa, una sciarpa fino al naso, un giubbotto diverso, gli occhi liberi, in bella mostra. Sguardo, un decimo di secondo, è finita. Accendo e tengo il cappuccio fino alla tangenziale. Non parlo, anche volendo non riuscirei. Devo stare seduto quasi di lato per non avere i brividi dal male, che pian piano sta entrando nelle budella. Gigante non si guarda nello specchietto, conosce a memoria la forma del suo naso quando si rompe. Tiene semplicemente la sua sciarpa premuta forte, spinge la testa all’indietro dopo aver sradicato il poggiatesta.Vorrei ucciderlo. Vorrei uccidermi, visto che so perfettamente che è assolutamente ed esclusivamente colpa mia. In 40 minuti percorriamo i 100 chilometri che distano. Lo porto in stazione. Parliamo poco, o meglio parlo per meno di un minuto. Spiego cosa farò, di non preoccuparsi. Dico che non ci scopriranno mai. Mento. Dico di procurarsi un alibi, di organizzarsi bene. Dico che in qualsiasi caso, se dovesse saltar fuori tutto, di dare la colpa a me di tutto, del piano, della coltellata. Ci guardiamo negli occhi.

Metto il cellulare per terra, gli passo sopra con la macchina. Raccolgo i cocci. Li butto sparpagliati in diversi bidoni che incontro per strada. Butto la lama nel Tanaro che nello scuro scorre sotto il ponte a qualche centinaio di metri da casa mia. Salgo. L’ascensore ruota attorno a me, facendo un rumore assordante che solo io posso sentire. Entro. Attraverso la zona giorno non guardando niente, punto la stanza. Tolgo le scarpe e prendo due borsoni. Li riempio. Roba invernale, estiva, di tutto. Tutto quello che riesco, mulinando le mani. Prendo le tre cartoline di Luca, le infilo in una cartellina trasparente con la chiusura a lato. Provo ad immaginare per un secondo da dove comincerò il pellegrinaggio. La parola pellegrinaggio sostituita dalla parola fuga. Ammasso il walkmen e pochi cd nel piccolo spazio rimasto libero nella borsa più piccola. Chiudo e son pronto. Un foglio, a quadretti, una biro.

VADO DA LUCA

Prima di aprire la porta in quella poca luce della lampadina dondolante fisso la parete e la sua enorme fotocopia a colori. Una foto della curva, anno 96. Presa dal basso, dal limite dell’area. In mezzo ai fumogeni, alla foschia, ai brandelli di bandiere che spuntano da quella coltre, spicca un solo piccolo striscione, il nostro. Quadrato. Le quattro lettere che formano il nome del nostro rione ai lati. In mezzo la croce rossa su sfondo bianco, simbolo di sta merda di città. Come se il ragazzo della foto abbia messo a fuoco solo noi, abbia dato importanza solo a noi. Al nostro orgoglio. Via. Arrivo in soggiorno. Il mio vecchio dorme sul divano, raggomitolato in posizione fetale, girato di schiena rispetto alla televisione, russa. Butto un occhio. Un numero di telefono, grandissimo. Una delle star della notte, dei solitari, dei sonnambuli, dei tristi, degli ultimi. Un nome in sovrimpressione. Sofia Gucci. Ansima. Si strofina in maniera esagerata, con una cornetta telefonica ormai in disuso, su un paio di minuscole mutandine rosse. Chi sta dietro la telecamera aziona lo zoom. In primo piano, mima, con la mano libera, di chiamarla. È bellissima, con i suoi capelli scuri del colore della maglia del Casale e gli occhi abbinati, grandissimi che sembran brillare. La camera si avvicina ancora un pelo, sulla bocca. Il labiale è chiaro. Chiama. E penso, che se non dovessi andare, chiamerei davvero.

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