Alessandro Milanese
Richard Lange & Mogwai
Chiariamo subito una cosa.
Richard Lange e i Mogwai non centrano un cazzo l’un con l’altro.
E’ una casualità.
Una stupida concidenza.
Lange è uno scrittore americano, classe 61.
Il suo Come morti è una raccolta di racconti brevi, fulminanti, uscita per Einaudi stile libero.
La copertina e le note della Sebold mi hanno incuriosito e ho donato i miei 16 euro alla graziosa e gentile, non che sorella minore di un mio amico, commessa della mia libreria amica.
I suoi “io” non hanno quasi mai un nome, quasi mai un età, sono lasciati liberi di rovinarsi e rovinare la vita, o quello che è rimasto, degli altri.
Sono maschi che vivono arrampicati sul valico che divide il successo dalla rovina.
Luoghi ai margini, da cui si vede la scintillante scritta di Hollywood ma non si tocca mai con mano.
Bar ricettacoli di reietti e storie di ordinario disordine.
Storie spezzate e riattaccate con mezzi di fortuna, piccole crepe a cui basterebbe un pelo di stucco che tarda ad arrivare.
Piccoli lieti fine non definitivi, sottili come un foglio di carta che si può piegar al vento da un momento all’altro.
Sensazioni vere, con del sangue, non quello splatter di horror da quattro soldi ma quello pompato dai nostri cuori.
Pompare, visto anche il volume e il grado di saturazione dei loro distorsori è un verbo che ben si avvicina al gruppo scozzese Mogwai.
Era un po’ che non mi ci ri-infilavo dentro.
E’ bastato un cd masterizzato di un paio di anni fa, una raccolta di registrazioni alla bbc.
Un cd con una piccola storia.
Una persona, quello che a modo mio avrei definito un amico.
MI porta il cd, mi fa un piccolo ma gradito regalo.
Passa il tempo, cambiamo lavoro e zone.
Lo rincontro in una serata in cui il conto al ristorante si era impennato a causa di qualche bottiglia di troppo.
E’ seduto davanti a dei capelli biondi che immagino femminili.
Parlano, sembra concentrato.
Decido di rompere leggermente i coglioni e comincio un tiro mirato di piccole patatine.
Ci mette un po’ a capire da dove arriva il tiro, ma nel mentre rimane da solo senza nessuno con cui conversare.
Mi aspetto un sorriso complice e un saluto da una persona che non vedo da mesi.
Mi arriva una minaccia.
“Ma che cazzo fai?”
“Che cazzo ti tiri?”
“Cosa cazzo ne sai di quella li?”
“Hai visto l’hai fatta scappare con le tue stronzate”
Rimango sorpreso per il tono, per la sensazione che ancora una parola sbagliata e saremmo passati alle mani.
Me ne faccio una ragione, chiedo scusa giusto per allontanarmi e lasciarlo da solo al suo astio figlio chissà di cosa.
Comunque sia non ci penso più nel momento che grazie al mio fidato itunes preparo una bella compilation da 80 minuti di Mogwai da spararmi a volume adeguato mentre leggo Lange
Per i feticisti la prima canzone è la datata new path to helicon fatta live negli studi più famosi di tutto il regno unito.
Leggo un paio di racconti belli, decisi, concisi.
Poi passo oltre e ci casco dentro, del tutto.
Il racconto si chiama Ogni bellezza è lontana.
Dalla prima pagina capisco che la cosa si fa seria.
Volo le pagine.
Il protagonista è un vero perdente, non una macchietta.
Non un personaggio alla ricerca di una sua personale riuscita.
Semplicemente qualcosa di così sbagliato da essere tremendamente perfetto e reale.
Si mette con una minorenne, Lana.
Si innamora o pensa di farlo.
Sparita lei si accanisce coi suoi genitori.
Tormentandoli.
Si guadagna denunce e giretti in centrale.
Si costruisce un paranoico castello di carte, in cui alcuni vietnamiti sono assoldati da Lana a dai suoi per ucciderlo.
Vedi musi giualli ovunque e sente crescere l’inevitabile resa dei conti sotto il sole della california sbagliata, quella sua e dei suoi compari di lavoro.
Uno spaccio aperto 24 ore su 24 tra giornali caramelle.
Caramelle dolci, di quelle che ti staccano tranquillamente col passare del tempo porzioni di palato, gengiva per gengiva.
Dolci come questa Dial: revenge.
Uno dei pochi pezzi dei nostri amici di Glasgow in cui non esplode niente, in cui per una volta sono la voce e una chitarra acustica a farla da padrone.
Mentre mi congratulo con me stesso per la stesura della scaletta Lange fa tramite il suo protagonista un perfetto fermo immagine della situazione.
Non mi diceva mai che mi amava, ma non lo diceva a nessuno.
Il nostro rapporto stava diventando qualcosa di speciale.
Potevo baciarla con la lingua e toccarle le tette, e una volta me lo ha strofinato da sopra i pantaloni della tuta.
Era più giovane di me.
Una cosa al limite della legalità.
Otto anni di differenza non sono così tanti, ma se sapeste.
Non mi pare di aver mai raggiunto le sue vette di stupidità.
Si ubriacava e mi vomitava in macchina con tutto che l’avevo avvertita.
Scriveva alle rockstar e andava in depressione perché non rispondevano alle sue lettere.
I genitori stravedevano per me.
A ripensarci, mi sa che erano contenti di sbolognarla a qualcuno.
Siamo stati insieme tre mesi e ventidue giorni.
In queste righe c’è tutto, va a dire il niente.
Una piccola prefazione di un finale pirotecnico.
Essenziale e perfetto nella sua ovvietà.
Il nostro eroe ormai posseduto dalla sua paranoia che organizza un regolamento di conti in piena regola.
Da appuntamento alla sua amata, ai killer vietnamiti, e ai suoi genitori.
Troverà solo e naturalmente una piccola abitazione di suburbia piena zeppa di sbirri in assetto anti sommossa.
Lui, la sua auto, ed una pistola ad aria compressa.
E mi piace immaginare che, durante il conflitto unilaterale a fuoco, risuoni da qualche casa vicina la parte più sonica e rumorosa di Christmas steps.
Quella cavalcata elettrica che sembra non finire mai, ma che svanisce di colpo avvicinandosi al corpo del nostro eroe trivellato di colpi veri, e che lo culla ancora un po’ mentre sospira la sua amata Lana.